mercoledì 22 dicembre 2010

i miei auguri di Natale e un articolo che apparirà domani su Avvenire

I miei auguri per Natale 2010

La sete di Gesù

1. La sete di Gesù
è una sete d'amore per le persone
prese così come sono,
con le loro povertà e le loro ferite,
con le loro maschere e i loro meccanismi di difesa
e anche con tutta la loro bellezza.


2. La sua sete è che ognuno di noi
- "grande" o "piccolo" non importa -
possa vivere pienamente
ed essere ricolmo di gioia.

3. La sua sete è rompere le catene
che ci chiudono nella colpevolezza e nell'egoismo,
impedendoci di avanzare
e di crescere nella libertà interiore.

4. La sua sete è liberare
le energie più profonde nascoste in noi
perché possiamo diventare uomini e donne di compassione,
artigiani di pace
come lui,

5. senza fuggire la sofferenza e i conflitti
del nostro mondo spezzato,
ma prendendovi il nostro posto
e creando comunità e luoghi d'amore,
così da portare una speranza a questa terra.

(Jean Vanier, Gesù, il dono dell'amore)

COMMENTO MIO

Ogni strofa manifesta un valore essenziale della venuta di Gesù.

1. Il senso profondo dell’incarnazione

2. Il dono della vita abbondante

3. La liberazione più vera

4. Trasfigurati a immagine del Figlio

5. Costruttori di speranza


don michele su Avvenire del 23 12 2010

Natale 1944

Ci racconta un romanzo che nel Natale del !944, in una Germania nazista ormai devastata dai bombardamenti, alcuni abitanti di un piccolo villaggio al confine con la Francia, celebrano il loro poverissimo Natale. Sono presenti due fratelli, antichi signori del luogo, alcuni dei loro servitori, qualche famiglia contadina con vecchi e bambini. C’è anche una ragazza che ha appena partorito, dopo una violenza subita. Il bambino è avvolto in fasce, emerge solo il volto quanto basta per mostrare una deformità sul visino ancora rossiccio. La Madre è titubante, non sa come sarà accolta. Il sorriso le illumina il volto quando i due fratelli, a nome di tutti i presenti adottano entrambi con amore semplice e umano. La piccola comunità ha per la madre parole di accoglienza profonda e per il bambino la promessa della vicinanza. Sarà quello il Natale più vero, il Natale della speranza. La Germania rinascerà perché ci sono tedeschi che sono uomini e uomini che sanno amare. È il messaggio di Ernst Wiechert nel suo libro Missa sine nomine.

Potrebbe ripetersi oggi una vicenda del genere, quando genitori e nonni incoraggiano figlie e nipoti ad abortire per non avere problemi di studio, di lavoro o anche solo per comodità?

E che dire dell’accoglienza della vita quando il bambino che dovrà nascere avesse anche solo un piccolo difetto, anche curabile?

L’accoglienza della vita è sempre più condizionata. Ti accolgo solo se…

Se abbiamo risolto i problemi economici, quelli di lavoro, quelli di maturità di coppia.

Oggi siamo passati al ti accolgo solo se sei sano, perché se no sarai un infelice ed è meglio che tu non soffra.

In realtà pensiamo alla nostra sofferenza e ai nostri guai. Abbiamo paura di dover servire la vita con tutta la nostra vita.

Ma non dovrebbe essere questo il progetto di mettere al mondo un figlio? Servire la vita con la nostra vita.

Purtroppo per la gran parte delle persone non è più così e stiamo raccogliendo frutti avvelenati dell’individualismo.

Il figlio non più un dono da chiedere, ma un diritto; come se sulle persone si potessero accampare diritti.

E se il figlio è un diritto, deve essere un figlio che non crei problemi, proprio perché lo si vuole per la propria gratificazione. Su questa via la gioia della maternità si è trasformata in un itinerario super medicalizzato, dove le varie tappe sono ansiogene per definizione. Quanto ad ansia, gli esami fatti alle donne gravide si collocano al livello delle biopsie. Molti medici, conquistati ormai alla medicina difensiva, consigliano unicamente nella direzione di indagini eccessive, in modo che l’aborto resti come prospettiva ultima in caso di complicazioni. La selezione dei nascituri sta tristemente entrando nella nostra mentalità. È uno scivolamento disumano.

Se si vuole recuperare l’umanità che ci è propria dobbiamo lavorare in due direzioni. La prima: usare la medicina per indagare e soprattutto per curare le eventuali anomalie dei nascituri. In questo campo ormai si possono fare cose veramente meravigliose, che non giustificano affatto la scelta abortista. La seconda: lavorare su se stessi: si deve tornare a fare figli per amore. Chi ama e si educa ad amare, diventa capace di accogliere ogni vita. Come nel Natale 1944.



mercoledì 15 dicembre 2010

DOMENICA 19 DICEMBRE 2010 VI DI AVVENTO

DOMENICA 19 DICEMBRE 2010 VI DI AVVENTO
FESTA DELLA DIVINA MATERNITA’ DI MARIA

CARISSIMI,

questa settimana trovate materiale abbondante; usatelo anche per i giorni che precedono il Natale, anche se spero di mandarvi ancora un messaggio con i commenti natalizi.



Lettura del profeta Isaia 62, 10 - 63, 3b

In quei giorni. Isaia disse: «Passate, passate per le porte, / sgombrate la via al popolo, / spianate, spianate la strada, / liberatela dalle pietre, / innalzate un vessillo per i popoli». Ecco ciò che il Signore fa sentire / all’estremità della terra: / «Dite alla figlia di Sion: / “Ecco, arriva il tuo salvatore; / ecco, egli ha con sé il premio / e la sua ricompensa lo precede”. / Li chiameranno “Popolo santo”, / “Redenti del Signore”. / E tu sarai chiamata Ricercata, / “Città non abbandonata”». «Chi è costui che viene da Edom, / da Bosra con le vesti tinte di rosso, / splendido nella sua veste, / che avanza nella pienezza della sua forza?». / «Sono io, che parlo con giustizia, / e sono grande nel salvare». / «Perché rossa è la tua veste / e i tuoi abiti come quelli di chi pigia nel torchio?». / «Nel tino ho pigiato da solo / e del mio popolo nessuno era con me».

Lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi 4, 4-9

Fratelli, siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti. E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù. In conclusione, fratelli, quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri. Le cose che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, mettetele in pratica. E il Dio della pace sarà con voi!

Vangelo secondo Luca 1, 26-38a

In quel tempo. L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te». A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola».


COMMENTO

Lettura del profeta Isaia 62,10 - 63,3b
Questo splendido testo si potrebbe intitolare "il canto del ritorno" e, nello stesso tempo, "il canto dell'incontro con lo Sposo".
L'autore è vissuto circa tre secoli dopo il profeta Isaia e tuttavia, proprio sotto il nome di Isaia, sono stati raccolti anche scritti che riguardavano i tempi successivi.
Il capitolo 62 incomincia (qui non è riportato) con un: "Per amore di Sion non mi terrò in silenzio". Finalmente, dice il profeta, si schiude la Parola di Dio che finora era diventata angosciosamente assente. In tal modo era oscurata ogni speranza; la tragedia della guerra incombeva senza un possibile futuro; la lontananza metteva a rischio l'attesa e quindi si affievoliva, anche nei migliori fedeli del popolo, il richiamo di un amore garantito da Dio nel tempo. Ma finalmente il Signore parla e assicura che "i popoli vedranno la tua giustizia (di Sion)". Seguono così bellissime immagini sponsali.
Non si userà più l'aggettivo "abbandonata, devastata" ma per Gerusalemme il nuovo nome sarà "mia gioia, sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia… e la tua terra avrà il suo sposo". (62,1-4). Conclusa l'immagine sponsale, inizia l'immagine della Gerusalemme sicura, con le mura solide e "le sentinelle che, per tutto il giorno e tutta la notte, non taceranno mai". (62,6). Questi continui parlare, informarsi, richiamare, verificare delle sentinelle, giorno e notte, nel riguardo di coloro che si avvicinavano alla città, garantiscono la tranquillità e la sicurezza.
A questo punto, il testo di oggi formula l'invito, a coloro che ormai abitano in sicurezza nella città santa, di aprire le porte e di accogliere coloro che torneranno dalla dispersione per costituire il popolo santo. Si ricompone l'unità e chi abita a Gerusalemme deve preoccuparsi di accogliere, di spianare la strada, di liberarla dalle pietre, di renderla agevole. In quel caso gli esiliati entreranno trionfalmente e saranno "come un vessillo per i popoli". Così sarà possibile dimostrare a tutte le nazioni che questa liberazione è frutto dell'incontro con "il tuo Salvatore". Ritornano ancora i nuovi titoli per la città splendente: "Città ricercata, città non abbandonata".
Il profeta riprende: "Si sta avvicinando un essere misterioso" (63,1). Ovviamente la
sentinella grida dall'alto e pone a questo misterioso personaggio le domande essenziali, prima che possa entrare nella città. E l'interpellato risponde, manifestando la sua maestosa grandezza e la sua capacità di giudizio e di vittoria sui popoli. Nessun altro ha saputo regalare la libertà al suo popolo, ma solo lui l'ha conquistata. Colui che bussa alle porte della città è la poderosa immagine di un guerriero che ha vinto tutti gli eserciti e torna, sporco di sangue, vincitore. La sua veste rossa è come quella di chi pigia l'uva dopo la vendemmia. E grida alla sentinella che ha vinto, e ha vinto da solo: "Nessuno era con me".
E tutto il testo, che a noi fa impressione per la crudezza del messaggio (e continua ancor più drammatico successivamente), esprime la forza di Dio, totalmente gratuita e potente, che libera da un incubo, da un assedio, dalla prospettiva di un massacro sicuro. Si riaffaccia all'orizzonte la liberazione e ritorna, insperata, la fiducia quando sembravano ormai scomparse, nonostante le promesse e le garanzie di Dio.
Egli vince e ritorna ad essere colui che riscatta il suo popolo. Anzi lo tratta come l'unica sposa splendente di cui è totalmente innamorato. A lei riconsegna la sua bellezza e il suo splendore e la rimette sul trono.

Lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi 4,4-9
Nella lettera alla comunità di Filippi, fondata nel suo secondo viaggio missionario (49-52 d. C.) Paolo scrive probabilmente da Efeso, durante una prigionia, anche se i testi non parlano esattamente di una prigionia in questa città, ma ricordano solo Cesarea e Roma.
E, tuttavia, proprio ad Efeso ci fu una rivolta degli argentieri perché, a causa del successo della nuova predicazione di Paolo, era calato lo smercio dei tempietti in argento della dea Artemide, molto venerata ad Efeso (Atti 19, 23-41). Ricordando il suo soggiorno in questa città, Paolo parla di una permanenza "tra lacrime e tribolazioni" (Atti 20,19).
Perciò la lettera potrebbe essere stata scritta attorno al 57 d.C.
Paolo sente vicina la morte; eppure prova gioia e chiede di condividerla con lui (2,17).
La prima parte di questo testo (4,4-5) e la terza parte (4, 8-9) hanno, come riferimento, la vicinanza di Dio, mentre, nella parte centrale (4, 6-7), la preghiera apre la propria vita sul mondo di Dio attraverso una comunicazione profonda di ringraziamento, di suppliche e di preghiere. La pace di Dio possa custodire il cuore e la mente di ciascuno in Gesù.
In questo testo Paolo esorta a mantenere l'inalterata pace di Cristo:
- tenete lontana ogni ombra di inquietudine;
- pregate con fiducia, dicendo a Dio le vostre difficoltà ed Egli vi darà la pace,
che è la piena armonia con Lui, al disopra di ogni sforzo intellettuale e oltre ogni
incidente;
- questa pace però non toglie dalla concretezza e dalla verifica critica, per capire
ciò che vale, ciò che è giusto, virtuoso e merita lode;
- nel credente cresce la responsabilità di valutare ed apprezzare nel mondo ciò
che conta davvero;
- è necessaria una norma di discernimento: è importante confrontarsi con l'insegnamento e la condotta dell'apostolo e quindi di tutta la Chiesa poiché, nella
comunità cristiana, particolarmente, si può imparare a capire che cosa è vero e giusto agli occhi di Dio.
Ciò che deve distinguere la comunità cristiana, e che la deve rendere nota a tutti, è la "bontà" (si riferisce alla "mansuetudine di Gesù" (2 Cor.10,1) come modello per Paolo e per la comunità stessa). E' una dote regale. Solo chi non deve difendere con accanimento i propri privilegi si può permettere di avere potere e clemenza. Ora la comunità ha una vocazione celeste: "Il Signore è vicino". Perciò aiuta ad un atteggiamento di profonda fede legata alla salvezza di Gesù. Bontà, clemenza, equilibrio portano a non angustiarsi poiché tutto si misura sul Signore vicino. Le preoccupazioni e le ansie minacciano la gioia e perciò vanno offerte a Dio con richieste, suppliche, intercessioni e "rendimenti di grazie" per tutto (4,6). Allora, la pace di Dio custodirà i cuori di tutti.

Lettura del Vangelo secondo Luca 1,26-38a
Il Vangelo di Luca racconta che, finalmente, si compie l'attesa di secoli attraverso il
messaggio e la scelta di Dio per Maria. L'incontro misterioso tra l'angelo Gabriele e la Madonna viene narrato con schemi e linguaggi propri dell'Antico Testamento.
Il paese di Nazareth è sconosciuto nella Bibbia perché insignificante; e tuttavia qui
avviene l'inizio della presenza del Figlio di Dio tra noi. E' il Signore che fa un dono;
eppure ha bisogno, come sempre, dell'accettazione e della disponibilità di chi lo sa
prendere sul serio. Nella storia, a compiere l'Alleanza, sono stati chiamati prima il popolo d'Israele, poi Gerusalemme, ma tutti si rivelano incapaci. L'angelo va da Maria. E il dialogo si sviluppa con questa giovane donna che viene presentata come la Gerusalemme salvata, come la figlia di Sion (Sof 3,14; Zac 9,9): "Rallegrati, o beneamata (tu che hai il favore di Dio); il Signore è con te".
Al turbamento di Maria che non si ritiene all'altezza, l'angelo risponde rassicurando e manifestando il futuro del figlio. La garanzia di un figlio avrebbe fatto impazzire di gioia ogni ragazza ebrea; Maria, invece, si ferma all'interrogativo: "Come è possibile?" poiché essa vuole avere chiarezza su un suo eventuale diverso comportamento. Dire di "si" a Dio suppone una conversione di vita. E la rivelazione si allarga sempre di più; e l'angelo
garantisce che Maria deve rassicurarsi, non deve cambiare nulla dei suoi progetti. In sottofondo rimane un'immagine fondamentale per il popolo d'Israele. Maria è come il popolo liberato dell'esodo che cammina all'ombra di Dio (Es 40,35; Num 9,18.22; 10,34).
Il Signore opererà da solo; ci sarà semplicemente bisogno di grande fiducia e fedeltà.
"Maria diventa la nuova Sion: come su quel colle della Gerusalemme storica si ergeva il simbolo vivo della Presenza di Dio nella storia (il Palazzo di Davide) e nello spazio (il tempio) e il fumo dei sacrifici e degli incensi evocava la trascendenza divina protesa verso l'uomo, così Maria è il centro della Gerusalemme escatologica (finale) poiché nel suo grembo è presentato all'umanità il Figlio di Dio"(Ravasi).
Allora Maria pronuncia il suo "sì" libero e cosciente, senza porre ostacoli e senza
interpellare altri. Sa che tutto è nella sua fiducia. Così questo è il giorno in cui Cristo inizia il suo pellegrinaggio nel mondo. Per ora solo in Maria. E' incominciato il Natale.
E' un testo dove si ripetono con insistenza i nomi dei personaggi. Dio ci conosce per nome e siamo preziosi ai suoi occhi.




APPROFONDIMENTO:
VI PROPONGO LA SECONDA PREDICA DI AVVENTO CHE P. CANTALAMESSA HA TENUTO AL PAPA. GUARDATE COME TRATTA IL TEMA DEL DONO DEELLA VITA ETERNA CHE CRISTO CI DONA NEL SUO NATALE


“VI ANNUNCIAMO LA VITA ETERNA” (1 GV 1,2)

1. Secolarizzazione e secolarismo

In questa meditazione ci occupiamo del secondo scoglio che incontra l’evangelizzazione nel mondo moderno, la secolarizzazione. Nel Motu Proprio con cui il papa ha istituito il Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione si dice che esso “è a servizio delle Chiese particolari, specialmente in quei territori di antica tradizione cristiana dove con maggiore evidenza si manifesta il fenomeno della secolarizzazione”.

La secolarizzazione è un fenomeno complesso e ambivalente. Può indicare l’autonomia delle realtà terrene e la separazione tra regno di Dio e regno di Cesare e, in questo senso, essa, non solo non è contro il Vangelo, ma trova in esso una delle sue radici profonde. Può, però, indicare anche tutto un insieme di atteggiamenti contrari alla religione e alla fede per il quale si preferisce usare il termine di secolarismo. Il secolarismo sta alla secolarizzazione come lo scientismo sta alla scientificità e il razionalismo alla razionalità.

Occupandoci degli ostacoli o delle sfide che la fede incontra nel mondo moderno, noi ci riferiamo esclusivamente a questa accezione negativa della secolarizzazione. Anche così delimitato, il fenomeno della secolarizzazione presenta molte facce a seconda dei campi in cui si manifesta: la teologia, la scienza, l’etica, l’ermeneutica biblica, la cultura in generale, la vita quotidiana. Nella presente meditazione prendo il termine nel suo significato primordiale. Secolarizzazione, come secolarismo, derivano infatti dalla parola “saeculum” che nel linguaggio comune ha finito per indicare il tempo presente (“l’eone attuale”, secondo la Bibbia), in opposizione all’eternità (l’eone futuro, o “i secoli dei secoli”, della Bibbia). In questo senso, secolarismo è un sinonimo di temporalismo, di riduzione del reale alla sola dimensione terrena.

La caduta dell’orizzonte dell’eternità ha sulla la fede cristiana l’effetto che ha la sabbia gettata su una fiamma: la soffoca, la spegne. La fede nella vita eterna costituisce una delle condizioni di possibilità dell’evangelizzazione. “Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita –esclama san Paolo – siamo da commiserare più di tutti gli uomini” (1 Cor 15,19).

2. Ascesa e declino dell’idea di eternità

Richiamiamo per sommi capi la storia della credenza in una vita oltre la morte; ci aiuterà a misurare la novità recata dal Vangelo in questo campo. Nella religione ebraica dell’Antico Testamento tale credenza si afferma solo tardivamente. Soltanto dopo l’esilio, di fronte al fallimento delle attese temporali, si fa strada l’idea della risurrezione della carne e di una ricompensa ultraterrena dei giusti, e anche allora non presso tutti (i Sadducei, si sa, non condividevano tale credenza).

Questo smentisce clamorosamente la tesi di coloro (Feuerbach, Marx, Freud) che spiegano la credenza in Dio con il desiderio di una ricompensa eterna, come proiezione nell’aldilà delle attese terrene deluse. Israele ha creduto in Dio, molti secoli prima che in una ricompensa eterna nell’aldilà! Non è, dunque, il desiderio di una ricompensa eterna che ha prodotto la fede in Dio, ma è la fede in Dio che ha prodotto la credenza in una ricompensa ultraterrena.

La piena rivelazione della vita eterna si ha, nel mondo biblico, con la venuta di Cristo. Gesù non fonda la certezza della vita eterna sulla natura dell’uomo (l’immortalità dell’anima), ma sulla “potenza di Dio”, che è un “Dio dei vivi e non dei morti” (Lc 20,27-38). Dopo la Pasqua, a questo fondamento teologico, gli apostoli aggiungeranno quello cristologico: la risurrezione di Cristo da morte. Su di essa l’Apostolo fonda la fede nella risurrezione della carne e nella vita eterna: “Se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dai morti?...Ora Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti” (1 Cor 15, 12.20).

Anche nel mondo greco–romano si assiste a una evoluzione nella concezione dell’oltretomba. L’idea più antica è che la vita vera termina con la morte; dopo di essa c’è solo una esistenza da larve, in un mondo di ombre. Una novità si registra con la comparsa della religione orfico-pitagorica. Secondo essa, il vero io dell’uomo è l’anima che, liberata dalla prigione (sema) del corpo (soma), può finalmente vivere la sua vera vita. Platone darà a questa scoperta una dignità filosofica, basandola sulla natura spirituale, e dunque immortale, dell’anima[1].

Questa credenza rimarrà, tuttavia, largamente minoritaria, riservata agli iniziati ai misteri e ai seguaci di particolari scuole filosofiche. Presso la massa persisterà la convinzione antica che la vita vera termina con la morte. Sono note le parole che l’imperatore Adriano rivolge a se stesso prossimo alla morte:

Piccola anima smarrita e soave,
Compagna e ospite del corpo,
ora t'appresti a ascendere in luoghi
incolori, ardui e spogli,
ove non avrai più gli svaghi consueti.
Un istante ancora
Guardiamo insieme le rive familiari,
le cose che certamente non rivedremo mai più…[2].

Si capisce su questo sfondo l’impatto che doveva avere l’annuncio cristiano di una vita dopo la morte infinitamente più piena e più gioiosa di quella terrena; si capisce anche perché l’idea e i simboli della vita eterna sono così frequenti nelle sepolture cristiane delle catacombe.

Ma che è successo all’idea cristiana di una vita eterna per l’anima e per il corpo, dopo che aveva trionfato sull’idea pagana del “buio oltre la morte”? A differenza del momento attuale in cui l’ateismo si esprime soprattutto nella negazione dell’esistenza di un Creatore, nel secolo XIX esso si è espresso di preferenza nella negazione di un aldilà. Raccogliendo l’affermazione di Hegel, secondo cui “i cristiani sprecano in cielo le energie destinate alla terra”, Feuerbach e soprattutto Marx hanno combattuto la credenza in una vita dopo morte, sotto pretesto che essa aliena dall’impegno terreno. All’idea di una sopravvivenza personale in Dio, si sostituisce l’idea di una sopravvivenza nella specie e nella società del futuro.

A poco a poco, con il sospetto, è caduto sulla parola eternità l'oblio e il silenzio. Il materialismo e il consumismo hanno fatto il resto nelle società opulente, facendo perfino apparire sconveniente che si parli ancora di eternità fra persone colte e al passo con i tempi. Tutto questo ha avuto un chiaro contraccolpo sulla fede dei credenti che si è fatta, su questo punto, timida e reticente. Quando abbiamo sentito l'ultima predica sulla vita eterna? Continuiamo a recitare nel Credo: “Et expecto resurrectionem mortuorum et vitam venturi saeculi”: “Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”, ma senza dare troppo peso a queste parole. Aveva ragione Kierkegaard quando scriveva: “L'aldilà è diventato uno scherzo, un'esigenza così incerta che non solo nessuno più la rispetta, ma anzi neppure più la prospetta, al punto che ci si diverte perfino al pensiero che c'era un tempo in cui quest'idea trasformava l'intera esistenza”[3].

Qual è la conseguenza pratica di questa eclisse dell'idea di eternità? San Paolo riferisce il proposito di coloro che non credono nella risurrezione da morte: “Mangiamo, beviamo, domani moriremo” (l Cor 15,32). Il desiderio naturale di vivere sempre , distorto, diventa desiderio, o frenesia, di vivere bene , cioè piacevolmente, anche a spese degli altri, se necessario. La terra intera diventa quello che Dante diceva dell’Italia del suo tempo: “l’aiuola che ci fa tanto feroci”. Caduto l’orizzonte dell’eternità, la sofferenza umana appare doppiamente e irrimediabilmente assurda.

3. Nostalgia di eternità

Anche a proposito del secolarismo, come per lo scientismo, la risposta più efficace non consiste nel combattere l’errore contrario, ma nel far risplendere di nuovo davanti agli uomini la certezza della vita eterna, facendo leva sulla forza intrinseca che possiede la verità quando è accompagnata dalla testimonianza della vita. “A un’idea, scriveva un antico Padre, si può sempre opporre un’altra idea e a una opinione un’altra opinione; ma cosa si potrà opporre a una vita?”

Dobbiamo far leva anche sulla corrispondenza di tale verità al desiderio più profondo, anche se represso, del cuore umano. A un amico che gli rimproverava, quasi fosse una forma di orgoglio e di presunzione, il suo anelito all'eternità, Miguel de Unamuno, che non era certo un apologeta della fede, rispose in una lettera:

“Non dico che meritiamo un aldilà, né che la logica ce lo dimostri; dico che ne abbiamo bisogno, lo meritiamo o no, e basta. Dico che ciò che passa non mi soddisfa, che ho sete d'eternità, e che senza questa tutto mi è indifferente. Ne ho bisogno, ne ho bisogno! Senza di essa non c'è più gioia di vivere e la gioia di vivere non ha più nulla da dirmi. E troppo facile affermare: ‘Bisogna vivere, bisogna accontentarsi della vita’. E quelli che non se ne accontentano?”[4].

Non è chi desidera l'eternità, aggiungeva nella stessa occasione, che mostra di disprezzare il mondo e la vita di quaggiù, ma al contrario chi non la desidera: “Amo tanto la vita che perderla mi sembra il peggiore dei mali. Non amano veramente la vita coloro i quali se la godono, giorno per giorno, senza curarsi di sapere se dovranno perderla del tutto o no”. Sant’Agostino diceva la stessa cosa: “Cui non datur semper vivere, quid prodest bene vivere?”, “A che giova vivere bene, se non è dato vivere sempre?”[5]. “Tutto, tranne l’eterno, al mondo è vano”, ha cantato un nostro poeta [6].

Agli uomini del nostro tempo che coltivano in fondo al cuore questo bisogno di eternità, senza forse avere il coraggio di confessarlo agli altri e neppure a se stessi, noi possiamo ripetere ciò che Paolo diceva agli ateniesi: “Ciò che voi cercate senza conoscerlo, io ve lo annuncio” (cf. Atti 17,23).

La risposta cristiana al secolarismo nel senso che lo intendiamo qui, non si fonda, come per Platone, su un’idea filosofica –l’immortalità dell’anima -, ma su un evento. L'illuminismo aveva posto il celebre problema come si possa attingere l'eternità, mentre si è nel tempo e come si possa dare un punto di partenza storico per una coscienza eterna[7]. In altre parole: come si possa giustificare la pretesa della fede cristiana di promettere una vita eterna e di minacciare una pena ugualmente eterna, per atti compiuti nel tempo.

L'unica risposta valida a questo problema è quella che si fonda sulla fede nell'incarnazione di Dio. In Cristo, l'eterno è entrato nel tempo, si è manifestato nella carne; davanti a lui è possibile prendere una decisione per l’eternità. È così che l’evangelista Giovanni parla della vita eterna: “Vi annunciamo la vita eterna che era presso il Padre e che si manifestò a noi” (1 Gv 1, 2).

4. Eternità: una speranza e una presenza

Per il credente, l’eternità non è, come si vede, solo una speranza, è anche una presenza. Ne facciamo l'esperienza ogni volta che facciamo un vero atto di fede in Cristo, perché chi crede in lui possiede già la vita eterna (cfr. 1Gv 5,13); ogni volta che riceviamo la comunione, perché in essa “ci viene dato il pegno della gloria futura” (“futurae gloriae nobis pignus datur”); ogni volta che ascoltiamo le parole del Vangelo che sono “parole di vita eterna” (cfr. Gv 6,68). Anche san Tommaso d’Aquino dice che “la grazia è già l’inizio della gloria”[8].

Questa presenza dell'eternità nel tempo si chiama lo Spirito Santo. Egli è definito “ la caparra della nostra eredità “ (Ef 1,14; 2Cor 5,5), e ci è stato donato perché, avendo ricevuto le primizie, noi aneliamo alla pienezza. “ Cristo - scrive sant' Agostino - ci ha dato la caparra dello Spirito Santo con la quale lui, che comunque non ci potrebbe ingannare, ha voluto renderci sicuri del compimento della sua promessa. Che cosa ha promesso? Ha promesso la vita eterna di cui è caparra lo Spirito che ci ha dato”[9].

Tra la vita di fede nel tempo e la vita eterna c’è un rapporto analogo a quello che esiste tra la vita dell’embrione nel seno materno e quella del bambino, una volta venuto alla luce. Scrive il Cabasilas:

“Questo mondo porta in gestazione l’uomo interiore, nuovo, creato secondo Dio, finché egli, qui plasmato, modellato e divenuto perfetto, non sia generato a quel mondo perfetto che non invecchia. Al modo dell’embrione che, mentre è nell’esistenza tenebrosa e fluida, la natura prepara alla vita nella luce così è dei santi […]. Per l’embrione tuttavia la vita futura è assolutamente futura: non giunge a lui nessun raggio di luce, nulla di ciò che è di questa vita. Non così per noi, dal momento che il secolo futuro è stato come riversato e commisto a questo presente […] Perciò già ora è concesso ai santi non solo di disporsi e prepararsi alla vita, ma di vivere e di operare in essa”[10].

Esiste una storiella che illustra questo paragone. C’erano due gemellini, un maschietto e una femminuccia, così intelligenti e precoci che, ancora nel grembo della madre, parlavano già tra di loro. La bambina domandava al fratellino: “Secondo te, ci sarà una vita dopo la nascita?”. Lui rispondeva: “Non essere ridicola. Cosa ti fa pensare che ci sia qualcosa al di fuori di questo spazio angusto e buio nel quale ci troviamo? La bimba, facendosi coraggio: “Chissà, forse esiste una madre, qualcuno insomma che ci ha messi qui e che si prenderà cura di noi.”. E lui: “Vedi forse una madre tu da qualche parte? Quello che vedi è tutto quello che c’è”. Lei di nuovo: “Ma non senti anche tu a volte come una pressione sul petto che aumenta di giorno in giorno e ci spinge in avanti?”. “A pensarci bene, rispondeva lui, è vero; la sento tutto il tempo”. “Vedi, concludeva trionfante la sorellina, questo dolore non può essere per nulla. Io penso che ci sta preparando per qualcosa di più grande di questo piccolo spazio”.

Potremmo utilizzare questa simpatica storiella quando dobbiamo annunciare la vita eterna a persone che hanno smarrito la fede in essa, ma ne conservano la nostalgia e forse aspettano che la Chiesa, come quella bambina, li aiuti a prendere coscienza di questo loro anelito.

5. Chi siamo? Donde veniamo? Dove andiamo?

Ci sono domande che gli uomini non cessano di porsi da che mondo è mondo e gli uomini di oggi non fanno eccezione: “Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo”. Nella sua “Storia ecclesiastica del popolo inglese”, il Venerabile Beda racconta come la fede cristiana fece il suo ingresso nel nord dell’Inghilterra. Quando i missionari venuti da Roma arrivarono nel Northumberland, il re Edwino convocò un consiglio dei dignitari per decidere se permettere loro, o meno, di diffondere il nuovo messaggio. Si alzò uno di loro e disse:

“Immagina, o re, questa scena. Tu siedi a cena con i tuoi ministri e condottieri: è inverno, il fuoco arde nel mezzo e riscalda la stanza, mentre fuori mugghia la tempesta e cade la neve. Un uccellino, entra da una apertura della parete e subito esce dall’altra. Mentre è dentro, è al riparo dalla tempesta invernale; ma dopo aver goduto del breve tepore, subito scompare dalla vista, perdendosi nel buio inverno da cui è venuto. Tale ci appare la vita degli uomini sulla terra: noi ignoriamo del tutto ciò che la segue e ciò che la precede. Se questa nuova dottrina ci reca qualcosa di più sicuro su ciò, dico che la si deve accogliere”[11].

Chissà che la fede cristiana non possa ritornare in Inghilterra e nel continente europeo per la stessa ragione per cui vi fece il suo ingresso: come l’unica che ha una risposta sicura da dare ai grandi interrogativi della vita terrena. L’occasione più propizia per far giungere questo messaggio sono i funerali. In essi le persone sono meno distratte che in altri riti di passaggio (battesimo, matrimonio), si interrogano sul proprio destino. Quando si piange su un caro defunto, si piange anche su di sé. Piangevo “su di lei e per lei, su di me e per me”, scrive Agostino della morte di sua madre Monica[12].

Ho ascoltato una volta un interessante programma della BBC sui cosiddetti “funerali secolari” o “umanistici”, con la registrazione dal vivo dello svolgimento di uno di essi. A un certo punto si sentiva l’officiante che diceva ai presenti: “Non dobbiamo essere tristi. Vivere una buona vita, appagante, per settantotto anni (l’età della defunta) è qualcosa di cui si deve essere grati”. Grati a chi?, mi domandavo. Un tale funerale non fa che rendere più evidente la disfatta totale dell’uomo di fronte alla morte.

L’occasione di evangelizzazione che sono i funerali può essere sciupata in due modi: o perché manca nel ministro della Chiesa un genuino senso di umanità che porta a interessarsi del defunto, a piangere, come faceva Gesù, davanti al dolore altrui; oppure perché non si va oltre il piano dei convenevoli umani e non si ha il coraggio di annunciare la grande notizia della vittoria di Cristo sulla morte.
Il cardinal Newman che abbiamo scelto come maestro speciale in questo Avvento ci iuta a completare le nostre riflessioni con una verità finora taciuta. Lo fa con il poemetto “Il sogno di Geronzio”, posto in musica dal compositore inglese Edgar Elgar. Un vero capolavoro per profondità di pensieri, afflato lirico, coralità liturgica e drammaticità.

Descrive il sogno di un anziano che si sente prossimo alla fine, ma si sa che si tratta di Newman stesso in un momento particolare della sua vita. Ai pensieri sul senso della vita, della morte, sull’abisso del nulla in cui sta precipitando, si sovrappongono i commenti degli astanti, la voce orante della Chiesa: “Parti da questo mondo, anima cristiana“ (“proficiscere, anima christiana”), le voci contrastanti di angeli e demoni che soppesano la sua vita e reclamano la sua anima. Il momento del trapasso dal tempo all’eternità vi è descritto con immagini efficacissime:

“Sento in me una leggerezza indicibile, ed un senso
di libertà, come se fossi me stesso finalmente,
e mai lo fossi stato prima. Quanta pace!
Non odo più l’incessante battito del tempo,
né il mio respiro ansimante, né il polso affannoso;
non un momento differisce da quello che viene dopo”[13].
Le ultime parole che l’anima pronuncia nel poema sono quelle con cui si avvia serena, e anzi impaziente, al Purgatorio:
Là canterò il mio Signore ed il mio Amore assenti: -
portatemi via,
perché più presto possa sorgere, ed ascendere lassù.
E vedere Lui nella verità del giorno sempiterno”[14].

Per l’imperatore Adriano, la morte era il passaggio dalla realtà alle ombre, per il cristiano John Newman essa è il passaggio dalle ombre alla realtà, “ex umbris et imaginibus in veritatem”, come volle fosse scritto sulla sua tomba.

Qual è, allora, la verità che Newman ci obbliga a non passare sotto silenzio? Che il passaggio dal tempo all’eternità non è rettilineo e uguale per tutti. C’è un giudizio da affrontare e un giudizio che può avere due esiti molto diversi, l’inferno o il paradiso. Quella di Newman è una spiritualità austera, a tratti quasi rigorista; richiama quella del Dies irae: “Lungo la mia vita terrena –dice l’anima di Geronzio al suo angelo custode – il pensiero della morte e del Giudizio fu per me assai terribile: lo avevo sempre innanzi, e vedevo il Giudice severo perfino nel Crocifisso”. Ma proprio per questo può essere un utile correttivo in un’epoca incline a prendere tutto alla leggera e a scherzare, come diceva Kierkegaard, con il pensiero dell’eternità!

6. Andremo alla casa del Signore!

Una rinnovata fede nell’eternità non ci serve solo per l’evangelizzazione, cioè per l’annuncio da fare agli altri; ci serve, prima ancora, per imprimere un nuovo slancio al nostro cammino verso la santità. L’affievolirsi dell'idea di eternità agisce anche sui credenti, diminuendo in essi la capacità di affrontare con coraggio la sofferenza e le prove della vita.

Pensiamo a un uomo con una bilancia in mano: una di quelle bilance che si reggono con una sola mano e hanno da un lato il piatto su cui mettere le cose da pesare e dall'altro una barra graduata che regge il peso o la misura. Se cade a terra, o si smarrisce la misura, tutto quello che si mette sul piatto fa sollevare in alto la barra e fa inclinare a terra la bilancia. Tutto ha il sopravvento, anche un pugno di piume.

Così siamo noi quando smarriamo il peso, la misura di tutto che è l'eternità: le cose e le sofferenze terrene gettano facilmente la nostra anima a terra. Tutto ci sembra troppo pesante, eccessivo. Gesù diceva: “Se la tua mano ti è di ostacolo, tagliala; se il tuo occhio ti è di ostacolo, cavalo; è meglio entrare nella vita con una mano sola o con un occhio solo, anziché con tutti e due essere gettato nel fuoco eterno” (cfr. Mt 18,8-9). Ma noi, avendo perso di vista l'eternità, troviamo già eccessivo che ci si chieda di chiudere gli occhi davanti a uno spettacolo immorale.

San Paolo osa scrivere: “Il momentaneo, leggero peso della tribolazione ci procura un peso smisurato ed eterno di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d'un momento, quelle invisibili sono eterne” (2 Cor 4,17-18). Il peso della tribolazione è “ leggero proprio perché momentaneo, quello della gloria è smisurato proprio perché eterno. Per questo lo stesso Apostolo può dire: “Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi” (Rm 8,18).

Nel salterio ebraico c’è un gruppo di salmi, detti “salmi delle ascensioni”, o “cantici di Sion”. Erano i salmi che cantavano i pellegrini israeliti quando “salivano” in pellegrinaggio verso la città santa, Gerusalemme. Uno di essi comincia così: “Quale gioia quando mi dissero: “Andremo alla casa del Signore” (Sal 122, 1). Questi salmi delle ascensioni sono diventati ormai i salmi di coloro che, nella Chiesa, sono in cammino verso la Gerusalemme celeste; sono i nostri salmi. Commentando quelle parole iniziali del salmo, sant’Agostino diceva ai suoi fedeli:

“Corriamo perché andremo alla casa del Signore; corriamo perché tale corsa non stanca; perché arriveremo a una meta dove non esiste stanchezza. Corriamo alla casa del Signore e la nostra anima gioisca per coloro che ci ripetono queste parole. Essi hanno visto prima di noi la patria, l’hanno vista gli apostoli e ci hanno detto: Correte, affrettatevi, veniteci dietro! “Andiamo alla casa del Signore!”[15].

Abbiamo davanti a noi, in questa cappella, una splendida rappresentazione musiva della Gerusalemme celeste, con Maria, gli apostoli e una lunga teoria di santi orientali e occidentali. Essi ci ripetono silenziosamente l’invito: “Correte, affrettatevi, veniteci dietro”. Di fronte a ogni difficoltà e problema, ripetiamo con san Bernardo: “Quid hoc ad aeternitatem?”, che importanza ha questo per l’eternità?; ripetiamo anche, con il poeta: “Tutto, tranne l’eterno, al mondo è vano”.




[1] Cf. M. Pohlenz, L’uomo greco, Firenze 1967, p. 173ss.
[2] Animula vagula, blandula, traduzione di Lidia Storoni Mazzolani.
[3] S. Kierkegaard, Postilla conclusiva, 4, in Opere, a cura di C. Fabro, Firenze 1972, p. 458.
[4] Miguel de Unamuno, “Cartas inéditas de Miguel de Unamuno y Pedro Jiménez Ilundain,” ed. Hernán Benítez, Revista de la Universidad de Buenos Aires, vol. 3, no. 9 (Gennaio-Marzo 1949), pp. 135. 150.
[5] S. Agostino, Trattati sul Vangelo di Giovanni, 45, 2 (PL, 35, 1720).
[6] Antonio Fogazzaro, “A Sera,” in Le poesie, Milano, Mondadori, 1935, pp. 194–197.
[7] G.E. Lessing, Über den Beweis des Geistes und der Kraft, ed. Lachmann, X, p.36.
[8] S. Tommaso d’Aquino, Somma teologica, II-IIae, q. 24, art.3, ad 2.
[9] S. Agostino, Sermo 378,1 (PL, 39, 1673).
[10] N. Cabasilas, Vita in Cristo, I,1-2, ed. a cura di U. Neri, Torino, UTET, 1971, pp.65-67.,
[11] Beda il Venerabile, Historia ecclesiastica Anglorum, II, 13.
[12] S. Agostino, Confessioni, XII,33.
[13] Il sogno di Geronzio, in Newman Poeta, a cura di L. Obertello, Jaka Book, Milano 2010, p.124
[14] Ib, p. 156.
[15] S. Agostino, Enarrationes in Psalmos 121,2 (CCL, 40, p. 1802).



RITO ROMANO III DI AVVENTO

Vangelo: Mt 1,18-24

Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto.
Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».
Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa “Dio con noi”.
Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.
COMMENTO

Più alta è in noi la verità di Cristo Gesù e più perfetta sarà la nostra moralità. Più corretta è la conoscenza del nostro Redentore e Salvatore e più grande sarà la nostra santità. È la nostra moralità che ci rivela quanto vera sia in noi la scienza di Gesù. È la nostra santità che ci mostra quanto noi realmente possediamo della luce di Cristo.
La poca moralità e la scarsa santità attestano al mondo intero che noi non conosciamo Gesù Signore. Se lo conoscessimo nella sua verità, il nostro comportamento, la nostra vita, le nostre azioni, tutto sarebbe diverso in noi. Poiché noi viviamo una bassissima moralità è segno che anche la scienza di Cristo in noi è bassissima. Il Cristo che confessione è più un frutto della nostra mente e della nostra volontà che non il Dio che si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi.
Tutte le nostre azioni sono corrispondenti alla fede che è in noi, alla verità, alla luce della quale camminiamo. Giuseppe ancora non conosce la santità di Maria, non sa il mistero che si sta vivendo nel suo seno. Le sue decisioni non sono corrispondenti alla verità di Maria e di Gesù. Sono invece proporzionate alla sua giustizia. Lui prende decisioni di giustizia personale, non certo di verità divina che si sta compiendo nella storia. Lui è però uomo giusto e quindi sempre pronto ad accogliere la più grande verità che Dio fa conoscere al suo cuore, alla sua volontà, alla sua mente.
Gesù è fin da subito annunziato come il Cristo, il Messia del Signore. Lui non è però il frutto dell'amore sponsale tra un uomo e una donna, santamente uniti in matrimonio. Lui è da Maria, che è Vergine. Maria lo ha concepito per opera dello Spirito Santo. Gesù non è neanche l'unione di un'anima e di un corpo che formano la persona umana. Gesù non è persona umana. Gesù è Persona divina. È il Figlio Unigenito del Padre, che è dall'eternità, senza inizio, senza fine, perché generato dal Padre nei secoli eterni, da sempre e per sempre. Gesù, Persona divina, è vero Dio e vero uomo, vero figlio di Dio e vero figlio della Vergine Maria.
Perché viene Gesù? Viene per liberare il suo popolo dai suoi peccati. Ecco la missione di Gesù: liberare ogni uomo dal suo peccato. La salvezza è nell'abolizione, cancellazione, estirpazione, annullamento del peccato e della sua forza che milita nelle nostre membra. Lui solo è il Salvatore dal peccato. Nessun altro. Tutti gli altri non solo convivono loro con i peccati. Non hanno alcuna forza per salvare i loro simili. È questa la differenza che vi è tra Cristo e ogni altra religione: le altre convivono con il peccato. Quella di Cristo è la sola che lo toglie, lo elimina, lo annulla.
Vergine Maria, Madre della Redenzione, Angeli e Santi, dateci la salvezza dal peccato.

giovedì 9 dicembre 2010

s. messa di natale del 15 e ritiro spirituale del 18

carissimi

mercoledì 15 alle ore 13.00 celebriamo lsa nata messa di Natale


mentre sabato 18 viviamo un intenso momento di preparazione.

Ospitiamo Gesù nella nostra vita

Sabato 18 dicembre mattinata di riflessione in preparazione al Natale.

ore 9.00 ritrovo al parcheggio di ingresso LIUC e partenza per Furato di Inveruno

10.00 Lodi e riflessione di don Michele

Silenzio personale

Scambio di vedute e domande

13.00 pranzo al ristorante Piatto d’oro di Furato

DOMENICA 12 DICEMBRE 2010 V DI AVVENTO AMBROSIANO

VANGELO Giovanni 1, 6-8. 15-18

In quel tempo. Venne un uomo mandato da Dio: / il suo nome era Giovanni. / Egli venne come testimone / per dare testimonianza alla luce, / perché tutti credessero per mezzo di lui. / Non era lui la luce, / ma doveva dare testimonianza alla luce. / Giovanni proclama: / «Era di lui che io dissi: / Colui che viene dopo di me / è avanti a me, / perché era prima di me». Dalla sua pienezza / noi tutti abbiamo ricevuto: / grazia su grazia. / Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, / la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. / Dio, nessuno lo ha mai visto: / il Figlio unigenito, che è Dio / ed è nel seno del Padre, / è lui che lo ha rivelato.


Ci sono molti versetti del vangelo che lasciano stupiti per la loro bellezza.

Ci sono versetti che sono commoventi, almeno per me. E quello che troviamo nel testo di questa domenica è uno di quelli che più mi colpiscono: “Dalla sua pienezza / noi tutti abbiamo ricevuto: / grazia su grazia”.

Viene citato ancora Giovanni Battista, ma non più per ascoltarne la predicazione e il suo invito alla conversione, ma solo per sentirlo dire: “Colui che viene dopo di me / è avanti a me”.
Sta per arrivare Colui che è avanti al Battista, ma che è avanti a tutti noi.

Lo vedremo avanti in tutto: nella comprensione del cuore dell’uomo, nella profondità della sua amicizia, nella sua compassione per la debolezza nostra, soprattutto lo vedremo avanti, solo, sulla Via Crucis. E per la nostra gioia, lo vedremo Risorto, nello splendore della vittoria sulla morte.

Nella sua persona conosceremo il vero volto di Dio.
Quel volto che tutti gli uomini desiderano vedere, ma che solo Gesù è in grado di rivelare, perché solo lui è il Figlio unigenito. E la sua rivelazione, sorprende e commuove: “chi è l’uomo perché ti curi di lui” dice il salmista.

Nella vita della fede ci sono molti interrogativi ai quali, con fatica riusciamo a dare risposta. Ma lo stupore più grande è proprio questo: Che cosa possiamo dare noi a Dio? Che cosa possiamo offrirgli?
Lo sappiamo bene: nulla possiamo offrirgli. Se qualcosa possiamo dare a lui e a nostri fratelli e solo qualcosa che è già dono di Dio. Come avviene nell’eucaristia: offriamo il pane e il vino, ma essi sono già doni di Dio all’umanità e nel mistero della messa diventano un dono infinito: Dio stesso si fa nostro cibo.

Così è sempre nella vita: la vita stessa, la libertà, la capacità di amare. Tutti doni che se mettiamo nella mani di Dio con fiducia, diventano doni ancora più grandi.

In sostanza, apriamoci allo stupore, al ringraziamento, perché questa visita del Signore vuole avere solo l’effetto di arricchire la nostra vita.

Come approfondimento vi metto la predica di avvento di p. Raniero Cantalamessa, il predicatore del Papa su un tema molto attuale di questi tempi: lo scientismo ateo e le sue pretese.

“QUANDO GUARDO I TUOI CIELI, LA LUNA E LE STELLE, CHE COS’È MAI L’UOMO?” (Sal 8, 4-5)




1. Le tesi dello scientismo ateo

Le tre meditazioni di questo Avvento 2010 vogliono essere un piccolo contributo alla necessità della Chiesa che ha portato il Santo Padre Benedetto XVI a istituire il “Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione” e a scegliere come tema della prossima Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi il tema “La nuova evangelizzazione per la trasmissione delle fede cristiana”.

L’intento è quello di individuare alcuni nodi o ostacoli di fondo che rendono molti paesi di antica tradizione cristiana “refrattari” al messaggio evangelico, come dice il Santo Padre nel Motu Proprio con cui ha istituito il nuovo Consiglio[1]. I nodi o le sfide che intendo prendere in considerazione e a cui vorrei cercare di dare una risposta di fede sono lo scientismo, il secolarismo e il razionalismo. L’apostolo Paolo li chiamerebbe “i baluardi e le fortezze che si levano contro la conoscenza di Dio” (cf. 2 Cor 10,4).

In questa prima meditazione prendiamo in esame lo scientismo. Per comprendere cosa si intende con questo termine, possiamo partire dalla descrizione che ne ha fatto Giovanni Paolo II:

“Un altro pericolo è lo scientismo; questa concezione filosofica si rifiuta infatti di ammettere come valide forme di conoscenza diverse da quelle che sono proprie delle scienze positive, relegando nei confini della mera immaginazione sia la conoscenza religiosa e la teologia, sia il sapere etico ed estetico”[2].

Possiamo riassumere così le tesi principali di questa corrente di pensiero:

Prima tesi. La scienza, e in particolare la cosmologia, la fisica e biologia, sono l’unica forma oggettiva e seria di conoscenza della realtà. “Le società moderne, ha scritto Monod, sono costruite sulla scienza. Le devono la loro ricchezza, la loro potenza e la certezza che ricchezze e potenze ancora maggiori saranno in un domani accessibili all'uomo, se egli lo vorrà [...]. Provviste di ogni potere, dotate di tutte le ricchezze che la scienza offre loro, le nostre società tentano ancora di vivere e di insegnare sistemi di valori, già minati alla base da questa stessa scienza”[3].

Seconda tesi. Questa forma di conoscenza è incompatibile con la fede che si basa su presupposti che non sono né dimostrabili né falsificabili. In questa linea l’ateo militante R. Dawkins si spinge fino a definire “analfabeti” quegli scienziati che si professano credenti, dimenticando quanti scienziati ben più famosi di lui si sono dichiarati e continuano a dichiararsi credenti.

Terza tesi. La scienza ha dimostrato la falsità, o almeno la non necessità dell’ipotesi di Dio. È l’affermazione a cui hanno dato ampio risalto i media di tutto il mondo nei mesi scorsi, a causa di una affermazione dell’astrofisico inglese Stephen Hawkins. Questi, contrariamente a quanto aveva scritto in precedenza, nel suo ultimo libro The Grand Design, Il Grande disegno, sostiene che le conoscenze raggiunte dalla fisica rendono ormai inutile credere in una divinità creatrice dell’universo: “la creazione spontanea è la ragione per cui esiste qualcosa”.

Quarta tesi. La quasi totalità, o almeno la grande maggioranza degli scienziati sono atei. Questa è l’affermazione dell’ateismo scientifico militante che ha in Richard Dawkins, l’autore del libro God’s Delusion, L’illusione di Dio, il suo più attivo propagatore.

Tutte queste tesi si rivelano false, non in base a un ragionamento a priori o ad argomenti teologici e di fede, ma dall’analisi stessa dei risultati della scienza e delle opinioni di molti tra gli scienziati più illustri del passato e del presente. Uno scienziato del calibro di Max Planck, il fondatore della teoria dei “quanti”, dice, della scienza, quello Agostino, Tommaso d’Aquino, Pascal, Kierkegaard ed altri avevano affermato della ragione: “La scienza –dice - conduce a un punto oltre il quale non ci può più guidare”[4].

Io non insisto nella confutazione delle tesi enunciate che è stata fatta da scienziati e filosofi della scienza, con una competenza che io non ho. Cito, per esempio, la puntuale critica di Roberto Timossi, nel libro L’illusione dell’ateismo. Perché la scienza non nega Dio, che reca la presentazione del Card. Angelo Bagnasco (Edizioni San Paolo 2009). Mi limito a una osservazione elementare. Nella settimana in cui i media diffusero l’affermazione ricordata, secondo cui la scienza ha reso inutile l’ipotesi di un creatore, mi son trovato nella necessità, nell’omelia domenicale, di spiegare a dei cristiani molto semplici, in una cittadina del Reatino, dove è l’errore di fondo degli scienziati atei e perché non dovevano lasciarsi impressionare dallo scalpore suscitato da quell’affermazione. L’ho fatto con un esempio che forse può essere utile ripetere anche qui, in un contesto così diverso.

Ci sono uccelli notturni, come il gufo e la civetta, il cui occhio è fatto per vederci di notte al buio, non di giorno. La luce del sole li accecherebbe. Questi uccelli sanno tutto e si muovono a loro agio nel mondo notturno, ma non sanno nulla del mondo diurno. Adottiamo per un momento il genere delle favole, dove gli animali parlano tra di loro. Supponiamo che un’aquila faccia amicizia con una famiglia di civette e parli loro del sole: di come esso illumina tutto, di come, senza di lui, tutto piomberebbe nel buio e nel gelo, come il loro stesso mondo notturno non esisterebbe senza il sole. Cosa risponderebbe la civetta se non: “Tu racconti fandonie! Mai visto il vostro sole. Noi ci muoviamo benissimo e ci procuriamo il cibo senza di esso; il vostro sole è un’ipotesi inutile e dunque non esiste”.

È esattamente quello che fa lo scienziato ateo quando dice: “Dio non esiste”. Giudica un mondo che non conosce, applica le sue leggi a un oggetto che è fuori della loro portata. Per vedere Dio occorre aprire un occhio diverso, occorre avventurarsi fuori della notte. In questo senso, è ancora valida l’antica affermazione del salmista: “Lo stolto dice: Dio non esiste”.

2. No allo scientismo, sì alla scienza


Il rifiuto dello scientismo non ci deve naturalmente indurre al rifiuto della scienza o alla diffidenza nei confronti di essa. Fare diversamente sarebbe un far torto alla fede, prima ancora che alla scienza. La storia ci ha dolorosamente insegnato dove porta un simile atteggiamento.

Di un atteggiamento aperto e costruttivo verso la scienza ci ha dato un esempio luminoso il neo beato John Henry Newman. Nove anni dopo la pubblicazione dell’opera di Darwin sulla evoluzione delle specie, quando non pochi spiriti intorno a lui si mostravano turbati e perplessi, egli li rassicurava, esprimendo un giudizio che anticipava di un secolo e mezzo quello attuale della Chiesa sulla non incompatibilità di tale teoria con la fede biblica. Vale la pena riascoltare i brani centrali della sua lettera al canonico John Walker:

“Essa [la teoria di Darwin] non mi fa paura […] Non mi sembra filare logicamente che venga negata la creazione per il fatto che il Creatore, milioni di anni fa, abbia imposto leggi alla materia. Non neghiamo né circoscriviamo il Creatore per il fatto che abbia creato l’azione autonoma che ha dato origine all’intelletto umano, dotato quasi di un talento creativo; assai meno allora neghiamo o circoscriviamo il suo potere, se riteniamo che Egli abbia assegnato alla materia leggi tali da plasmare e costruire mediante la propria cieca strumentalità attraverso innumerevoli ère il mondo come lo vediamo[…]. La teoria del signor Darwin non necessariamente deve essere atea, che essa sia vera o meno; può semplicemente star suggerendo un’idea più allargata di Divina Prescienza e Capacità…. A prima vista non vedo come ‘l’evoluzione casuale di esseri organici’ sia incoerente con il disegno divino – È casuale per noi, non per Dio”[5].

La sua grande fede permetteva a Newman di guardare con grande serenità alle scoperte scientifiche presenti o future. “Quando un diluvio di fatti, accertati o presunti, ci si rovescia addosso, mentre infinti altri già cominciano a delinearsi, tutti i credenti, cattolici o no, si sentono sollecitati a esaminare quale significato abbiamo tali fatti”[6]. Egli vedeva in tali scoperte una “una attinenza indiretta con le opinioni religiose”. Un esempio di questa attinenza, io penso, è proprio il fatto che negli stessi anni in cui Darwin elaborava la teoria dell’evoluzione delle specie, egli, indipendentemente, enunciava la sua dottrina dello “sviluppo della dottrina cristiana”. Accennando all’analogia, su questo punto, tra l’ordine naturale e fisico e quello morale egli scriveva: ”Come il Creatore riposò il settimo giorno dopo l’opera compiuta, e tuttavia egli ‘opera ancora’, così egli comunicò una volta per tutte il Credo all’origine, eppure favorisce ancora il suo sviluppo e provvede al suo incremento”[7].

Dell’atteggiamento nuovo e positivo da parte della Chiesa cattolica nei confronti della scienza è espressione concreta l’Accademia Pontificia delle scienze, in cui eminenti scienziati di tutto il mondo, credenti e non credenti, si incontrano per esporre e dibattere liberamente le loro idee su problemi di comune interesse per la scienza e per la fede.

3. L’uomo per il cosmo o il cosmo per l’uomo?

Ma, ripeto, non è mio intendo impegnarmi qui in una critica generale dello scientismo. Quello che mi preme mettere in luce è un aspetto particolare di esso che ha un’incidenza diretta e decisiva sulla evangelizzazione: si tratta della posizione che occupa l’uomo nella visione dello scientismo ateo.

È ormai una gara tra gli scienziati non credenti, soprattutto tra biologi e cosmologi, a chi si spinge più avanti nell’affermare la totale marginalità e insignificanza dell’uomo nell’universo e nello stesso grande mare della vita. “L’antica alleanza è infranta – ha scritto Monod -; l’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità dell’Universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere, come il suo destino, non è scritto in nessun luogo”[8]. “Ho sempre pensato –afferma un altro – di essere insignificante. Conoscendo le dimensioni dell’Universo, non faccio che rendermi conto di quanto lo sia davvero… Siamo solo un po’ di fango su un pianeta che appartiene al sole”[9].

Blaise Pascal ha confutato in anticipo questa tesi con un argomento che nessuno ha potuto finora e potrà mai confutare:

“L’uomo è solo una canna, la più fragile della natura; ma una canna che pensa. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo; un vapore, una goccia d’acqua bastano a ucciderlo. Ma, quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di quel che lo uccide, perché sa di morire, e la superiorità che l’universo ha su di lui; mentre l’universo non ne sa nulla”[10].

La visione scientista della realtà, insieme con l’uomo, toglie di colpo dal centro dell’universo anche Cristo. Egli viene ridotto, per usare le parole di M. Blondel, a “un incidente storico, isolato dal cosmo come un episodio posticcio, un intruso o uno spaesato nella schiacciante e ostile immensità dell’Universo”[11].

Questa visione dell’uomo comincia ad avere dei riflessi anche pratici, a livello di cultura e di mentalità. Si spiegano così certi eccessi dell’ecologismo che tendono a equiparare i diritti degli animali e perfino delle piante a quelli dell’uomo. E’ risaputo che ci sono animali accuditi e nutriti molto meglio di milioni di bambini. L’influsso si avverte anche in campo religioso. Vi sono forme diffuse di religiosità in cui il contatto e la sintonia con le energie del cosmo ha preso il posto del contatto con Dio come via di salvezza. Quello che Paolo diceva di Dio: “In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (Atti 17, 28), lo si dice qui del cosmo materiale.

Per certi aspetti, si tratta del ritorno alla visione pre-cristiana che aveva come schema: Dio – cosmo – uomo, e alla quale la Bibbia e il cristianesimo opposero lo schema: Dio – uomo – cosmo. In altre parole, il cosmo è per l’uomo, non l’uomo per il cosmo. Una delle accuse più violente che il pagano Celso rivolge a giudei e cristiani è di affermare che “c’è Dio e, subito dopo lui, noi, dal momento che siamo creati da lui a sua completa somiglianza; tutto ci è subordinato: la terra, l’acqua, l’aria, le stelle; tutto esiste per noi ed è ordinato al nostro servizio” [12].

C’è però anche una profonda differenza: nel pensiero antico, soprattutto greco, l’uomo, seppure subordinato al cosmo, riveste un’altissima dignità, come ha messo in luce l’opera magistrale di Max Pohlenz, “L’uomo greco”[13]; qui invece sembra che si prenda gusto a deprimere l’uomo e spogliarlo di ogni pretesa di superiorità sul resto della natura. Più che di “umanesimo ateo”, almeno da questo punto di vista, di dovrebbe parlare, a mio parere, di anti-umanesimo, o addirittura di disumanesimo ateo.

Veniamo ora alla visione cristiana. Celso non si sbagliava nel farla derivare dalla grande affermazione di Genesi 1, 26 sull’uomo creato “a immagine e somiglianza” di Dio[14]. La visione biblica ha trovato la sua più splendida espressione nel Salmo 8:

Quand'io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai disposte,
che cos'è l'uomo perché tu lo ricordi?
Il figlio dell'uomo perché te ne prenda cura?
Eppure tu l'hai fatto solo di poco inferiore a Dio,
e l'hai coronato di gloria e d'onore.
Tu lo hai fatto dominare sulle opere delle tue mani,
hai posto ogni cosa sotto i suoi piedi.

La creazione dell’uomo a immagine di Dio ha delle implicazioni per certi versi sconvolgenti sulla concezione dell' uomo che il dibattito attuale che ci spinge a portare alla luce. Tutto si fonda sulla rivelazione della Trinità recata da Cristo. L'uomo è creato a immagine di Dio, il che vuol dire che egli partecipa all’intima essenza di Dio che è relazione d’amore tra Padre, Figlio e Spirito Santo. Solo l’uomo, in quanto persona capace di relazioni, partecipa alla dimensione personale e relazionale di Dio.

Questo significa che egli, nella sua essenza, anche se ad un livello creaturale, è ciò che, a livello increato, sono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, nella loro essenza. La persona umana è “persona” proprio per questo nucleo razionale che la rende capace di accogliere la relazione che Dio vuole stabilire con essa e allo stesso tempo diventa generatore delle relazioni verso gli altri e vero il mondo. E' evidente che c' è un fossato ontologico tra Dio e la creatura umana. Tuttavia, per grazia (mai dimenticare questa precisazione!), questo fossato è colmato, così che esso è meno profondo di quello esistente tra l' uomo e il resto del creato.

4. La forza della verità

Proviamo a vedere come si potrebbe tradurre sul piano dell’evangelizzazione questa visione cristiana del rapporto uomo-cosmo. Anzitutto una premessa. Riassumendo il pensiero del maestro, un discepolo di Dionigi Areopagita ha enunciato questa grande verità: “Non si devono confutare le opinioni degli altri, né si deve scrivere contro una opinione o una religione che sembra non buona. Si deve scrivere solo a favore della verità e non contro gli altri”[15].

Non si può assolutizzare questo principio (a volte può essere utile e necessario confutare delle dottrine false), ma è certo che l’esposizione positiva della verità è spesso più efficace che non la confutazione dell’errore contrario. È importante, credo, tener conto di questo criterio nell’evangelizzazione e in particolare nei confronti dei tre ostacoli menzionati: scientismo, secolarismo e razionalismo. Più efficace che la polemica contro di essi è, nella evangelizzazione, la esposizione irenica della visione cristiana, facendo assegnamento sulla forza intrinseca di essa quando è accompagnata da intima convinzione e viene fatta, come inculcava San Pietro, “con dolcezza e rispetto” (1 Pt 3,16).

L’espressione più alta della dignità e della vocazione dell’uomo secondo la visione cristiana si è cristallizzata nella dottrina della divinizzazione dell’uomo. Questa dottrina non ha avuto lo stesso rilievo nella Chiesa ortodossa e in quella latina. I Padri greci, superando tutte le ipoteche che l’uso pagano aveva accumulato sul concetto di deificazione (theosis), fecero di essa il fulcro della loro spiritualità. La teologia latina ha insistito meno su di essa. “Lo scopo della vita per i cristiani greci – si legge nel “Dictionnaire de Spiritualité” - è la divinizzazione, quello dei cristiani d’occidente è l’acquisizione della santità…Il Verbo si è fatto carne, secondo i greci, per restituire all’uomo la somiglianza con Dio perduta in Adamo e per divinizzarlo. Secondo i latini, egli si è fatto uomo per redimere l’umanità…e per pagare il debito dovuto alla giustizia di Dio”[16].

Potremmo dire, semplificando al massimo, che la teologia latina, dietro Agostino, insiste di più su ciò che Cristo è venuto a togliere – il peccato -, quella greca insiste di più su ciò che egli è venuto a dare agli uomini: l’immagine di Dio, lo Spirito Santo e la vita divina.

Non si deve forzare troppo questa contrapposizione, come a volte si tende a fare da parte di autori ortodossi. La spiritualità latina esprime a volte lo stesso ideale anche se evita il termine divinizzazione che, giova ricordarlo, è estraneo al linguaggio biblico. Nella Liturgia delle ore della notte di Natale riascolteremo la vibrante esortazione di san Leone Magno che esprime la stessa visione della vocazione cristiana: “Riconosci, cristiano, la tua dignità e, reso partecipe della natura divina, non voler tornare all’abiezione di un tempo con una condotta indegna. Ricordati chi è il tuo Capo e di quale Corpo sei membro”[17].

Purtroppo certi autori ortodossi sono rimasti fermi alla polemica del secolo XIV tra Gregorio Palamas e Barlaam e sembrano ignorare la ricca tradizione mistica latina. La dottrina di san Giovanni della Croce, per esempio, secondo cui il cristiano, redento da Cristo e reso figlio nel Figlio, è immerso nel flusso delle operazioni trinitarie e partecipa della vita intima di Dio, non è meno elevata di quella della divinizzazione, anche se espressa in termini diversi. Anche la dottrina sui doni di intelletto e di sapienza dello Spirito Santo, così cara a san Bonaventura e agli autori medievali, era animata dallo stesso afflato mistico.

Non si può tuttavia non riconoscere che la spiritualità ortodossa ha qualcosa da insegnare su questo punto al resto della cristianità, alla teologia protestante ancor più che alla teologia cattolica. Se c’è infatti qualcosa di veramente opposto alla visione ortodossa del cristiano deificato dalla grazia, questo è la concezione protestante, e in particolare luterana, della giustificazione estrinseca e forense, per cui l’uomo redento è “nello stesso tempo giusto e peccatore”, peccatore in sé stesso, giusto davanti a Dio.

Soprattutto possiamo imparare dalla tradizione orientale a non riservare questo ideale sublime della vita cristiana a una elite spirituale chiamata a percorre le vie della mistica, ma a proporla a tutti i battezzati, a farne oggetto di catechesi al popolo, di formazione religiosa nei seminari e nei noviziati. Se ripenso agli anni della mia formazione vi scorgo una insistenza quasi esclusiva su una ascetica che puntava tutto sulla correzione dai vizi e l’acquisto delle virtù. Alla domanda del discepolo sullo scopo ultimo della vita cristiana un santo russo, san Serafino di Sarov, rispondeva senza esitare: “Il vero fine della vita cristiana, è l’acquisizione dello Spirito Santo di Dio. Quanto alla preghiera, il digiuno, le veglie, l’elemosina e ogni altra buona azione fatta nel nome di Cristo, sono solo mezzi per acquisire lo Spirito Santo”[18].

5. “Tutto è stato fatto per mezzo di lui”

Il Natale è l’occasione ideale per riproporre a noi stessi e agli altri questo ideale che è patrimonio comune della cristianità. È dall’incarnazione del Verbo che i Padri greci fanno derivare la possibilità stessa della divinizzazione. Sant’Atanasio non si stanca di ripetere: “Il Verbo si è fatto uomo affinché noi potessimo essere deificati”[19]. “Egli si è incarnato e l’uomo è divenuto Dio, poiché è unito a Dio”, scrive a sua volta san Gregorio Nazianzeno [20]. Con Cristo viene restaurato, o riportato alla luce quell’essere“ a immagine di Dio” che fonda la superiorità dell’uomo sul resto del creato.

Notavo sopra come l’emarginazione dell’uomo porta con sé automaticamente l’emarginazione di Cristo dal cosmo e dalla storia. Anche da questo punto di vista il Natale è l’antitesi più radicale alla visione scientista. In esso sentiremo proclamare solennemente: “Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste” (Gv 1,3); “Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (Col 1, 16). La Chiesa ha raccolto questa rivelazione e nel Credo ci fa ripetere: “Per quem omnia facta sunt”: Per mezzo di lui tutto è stato creato.

Riascoltare queste parole mentre intorno a noi non si fa che ripetere: “Il mondo si spiega da solo, senza bisogno dell’ipotesi di un creatore”, oppure “siamo frutto del caso e della necessità”, provoca indubbiamente uno shock, ma è più facile che una conversione e una fede sbocci da uno shock del genere che da una lunga argomentazione apologetica. La domanda cruciale è: saremo capaci, noi che aspiriamo a rievangelizzare il mondo, di dilatare la nostra fede a queste dimensioni da capogiro? Crediamo noi davvero, con tutto il cuore, che “tutto è stato fatto per mezzo di Cristo e in vista di Cristo”?

Nel suo libro di tanti anni fa Introduzione al cristianesimo lei, Santo Padre, scriveva: “Con il secondo articolo del ‘Credo’ siamo davanti all’autentico scandalo del cristianesimo. Esso è costituito dalla confessione che l’uomo-Gesú, un individuo giustiziato verso l’anno 30 in Palestina, sia il ‘Cristo’ (l’unto, l’eletto) di Dio, anzi addirittura il Figlio stesso di Dio, quindi centro focale, il fulcro determinante dell’intera storia umana…Ci è davvero lecito aggrapparci al fragile stelo d’un singolo evento storico? Possiamo correre il rischio di affidare l’intera nostra esistenza, anzi, l’intera storia, a questo filo di paglia d’un qualsiasi avvenimento, galleggiante nello sconfinato oceano della vicenda cosmica?”[21].

A queste domande, Santo Padre, noi rispondiamo senza esitazione come fa lei in quel libro e come non si stanca di ripetere oggi, nella veste di Sommo Pontefice: Sì, è possibile, è liberante ed è gioioso. Non per le nostre forze, ma per il dono inestimabile della fede che abbiamo ricevuto e di cui rendiamo infinte grazie a Dio.




[1] Benedetto XVI, Motu Proprio “Ubicunque et semper”, n.
[2] Giovanni Paolo II, Parole sull’uomo, Rizzoli, Milano 2002, p. 443; cf. anche Enc. “Fides et ratio”, n. 88
[3] J. Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, Milano, 1970, pagg. 136-7.
[4] M. Planck, La conoscenza del mondo fisico, p. 155, (cit. da Timossi, op.cit. p. 160)
[5] J.H. Newman, Lettera al canonico J. Walker (1868), in The Letters and Diaries, vol. XXIV, Oxford 1973, pp. 77 s. (Trad. ital. Di P. Zanna).
[6] J.H. Newman, Apologia pro vita sua, Brescia 1982, p.277
[7] J.H. Newman, Lo sviluppo della dottrina cristiana, Bologna 1967, p. 95.
[8] Monod, op. cit. p. 136.
[9] P. Atkins, citato da Timossi, op. cit. p. 482.
[10] B. Pascal, Pensieri, 377 (ed. Brunschwicg, n. 347),
[11] M. Blondel et A. Valensin, Correspondance, Aubier, Parigi 1957, p. 47.
[12] In Origene, Contra Celsum, IV, 23 (SCh 136, p.238; cf. anche IV, 74 (ib. p. 366)
[13] Cf. M. Pohlenz, L’uomo greco, Firenze 1962.
[14] In Origene, op. cit., IV, 30 (SCh 136, p. 254).
[15] Scolii a Dionigi Areopagita in PG 4, 536; cf. Dionigi Areopagita, Lettera VI (PG, 3, 1077).
[16] G. Bardy, in Dct. Spir., III, col. 1389 s.
[17] S. Leone Magno, Discorso 1 sul Natale (PL 54, 190 s.).
[18] Dialogo con Motovilov, in Irina Gorainoff, Serafino di Sarov, Gribaudi, Torino 1981. p. 156.
[19] S. Atanasio, L’incarnazione del Signore, 54 (PG 25, 192B).
[20] S. Gregorio Nazianzeno, Discorsi teologici, III, 19 (PG 36, 100A).
[21] J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia 1969, p.149.

Rito romano

Vangelo: Mt 11,2-11

In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».
Mentre quelli se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”.
In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui».

Il brano odierno (di Matteo) ci presenta Giovanni Battista in prigione, assalito da un grande dubbio: Gesù di Nazareth è il Messia oppure no? Doveva essere una domanda molto inquietante per lui, addirittura lacerante, perché il giovane Rabbi non si presentava affatto con le caratteristiche che lo stesso Battista aveva elencato nei suoi discorsi profetici alle folle; ne abbiamo udito un brano nella 2° domenica di Avvento A: "Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile." (Matteo 3,11-12 e Luca 3,16-17) Si tratta di immagini tratte dal Primo Testamento, come si può vedere in Isaia 41,16, Geremia 15,7 e Malachia 3,19.

Mentre è in carcere, Giovanni sente "parlare delle opere del Cristo" (v.2 b) e queste non corrispondono all'idea che si era fatta dell'Inviato divino. Egli pensava a un Messia "giustiziere", e Gesù si presentava come maestro mite e umile di cuore; aveva sperato nella manifestazione dell'ira di Dio contro tutte le ingiustizie e le menzogne, e il Nazareno parlava solo di misericordia e compassione, tanto da mettersi a tavola con pubblici peccatori. Probabilmente si era anche aspettato come "segno" di messianicità la sua stessa liberazione dal carcere di Erode, proprio come preannunciava Isaia 61,1. E questo non era successo. Di qui la domanda ansiosa: "Sei tu colui che deve venire?"

Il Cristo, come spesso fa', non risponde direttamente con un sì o un no. Egli non si sostituisce mai alla libertà dell'uomo; se questi lo accoglie e lo accetta, è perché legge adeguatamente dei "segni" che attestano l'identità di Gesù e si comporta di conseguenza. Così il Maestro risponde rimandando il Battista proprio a quelle "opere" di cui aveva sentito parlare in carcere: ciechi, zoppi, lebbrosi, sordi vengono guariti, i morti resuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo.

Si tratta di azioni già profetizzate nel Primo Testamento: Isaia 35,5-6 ricorda nell'ordine i ciechi, i sordi e gli zoppi; Isaia 26,19 annuncia le resurrezioni e Isaia 61,1 l'evangelizzazione dei poveri.
Dunque Gesù continua l'opera di Jahvè; si mostra buono e misericordioso come il Dio di Israele, che aveva fatto ritornare gli esuli dall'esilio, mantenendosi fedele alla sua alleanza. Il Nazareno dimostra di realizzare e compiere quanto preannunciato nel Primo Testamento.

Viene spontaneo chiedersi perché Egli adempia a queste ultime profezie e non a quelle che aveva in mente Giovanni Battista. E qui siamo proprio al nocciolo della questione. Con quale criterio, con quale metro di riferimento vanno lette le Scritture? Come riconoscerne il compimento? Ebbene, è solamente Gesù stesso, il Verbo di Dio, l'ultima Parola di rivelazione pronunciata dal Padre che può fornirci tale criterio e punto di riferimento. Solo a Lui possiamo affidarci. Solo Lui può illuminarci.

E decisamente chiara e luminosa è la sua risposta: il Messia è Colui che porta la salvezza, sia a livello materiale che spirituale. Ma attenzione! Guarigioni e resurrezioni sono indubbiamente segni clamorosi e stupefacenti; ma, dal punto di vista della struttura, il v.5 non ha come culmine le resurrezioni, bensì il fatto che ai "poveri" è annunciato il Vangelo. Questo, e non un miracolo, è il "segno" più specifico e decisivo, che imprime una direzione ben definita a tutti gli altri. "Che Gesù sia l'inviato di Dio è provato dai miracoli, ma è la predilezione per i poveri (gli ammalati, i peccatori, i pagani) che rivela la novità della sua scelta messianica." (B.Maggioni)

E tutto questo può essere di ostacolo a vedere nel Nazareno l'Inviato divino; ecco perché subito dopo Egli pronuncia la frase "E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!"; cioè: colui che non inciampa di fronte a un Messia povero e disarmato, che non fa uso della forza.

Ora, come sempre nel vangelo, la pagina di Matteo va letta a tre livelli, che prendiamo in considerazione completando il commento:

1° - il livello della vita storica di Gesù; il grande dubbio che riguarda il Cristo è del Battista e ovviamente anche dei suoi discepoli. Anzi, secondo Ambrogio, Agostino e Giovanni Crisostomo, si tratterebbe addirittura di un dubbio, e di un conseguente espediente, "pedagogico", cioè un dubbio che il Battista avrebbe còlto nei suoi discepoli, ragion per cui li manda a Gesù perché sia lui stesso a rassicurarli.

2° - il livello della comunità cui si rivolge Matteo; negli anni '80 (quando venne redatto il primo vangelo) c'era una tensione polemica tra le comunità giudeo-cristiane e i cosiddetti "giovanniti", discepoli del Battista rimasti legati al loro maestro, che continuavano a battezzare nel suo nome (cfr. Atti 19,3: "Quale battesimo avete ricevuto? Il battesimo di Giovanni") e vedevano addirittura in lui, e non in Gesù, il Messia! Il movimento dei giovanniti, detto "battista", era assai popolare e annunciava una salvezza per tutti mediante la conversione, la penitenza, e il rito del battesimo con acqua. Era dunque molto importante, al tempo di Matteo, ribadire e specificare a chiare lettere che in realtà lo stesso Giovanni Battista aveva indicato in Gesù il vero Messia.

3° - il livello della contemporaneità. Come in ogni epoca, probabilmente anche noi abbiamo un'idea non del tutto esatta del Dio cristiano, che ci crea ostacolo (cioè ci "scandalizza" nel senso etimologico); e anche noi siamo quindi invitati a considerare con attenzione le "opere" di Gesù e il messaggio che emerge dalla sua risposta, soprattutto la nota finale; infatti i "poveri", nel contesto matteano - cfr. Mt.5,3: "Beati i poveri in spirito" - non sono solo i poveri in senso materiale, ma anche e soprattutto "i piccoli", gli "umili", i "semplici", davvero liberi nel cuore e aperti all'annuncio.

E poi oggi è possibile un'altra forma di "scandalo" riguardo ai seguaci di Gesù.
"Vi è mai capitato - osserva Liliana Gilli - che qualcuno guardandovi negli occhi vi abbia chiesto:
Questo è lo scandalo: crederci, crederci veramente e cambiare (in una conversione che è continua!), perché si è convinti che Gesù è il Messia, perché certo si apprezzano le sue opere, ma ce lo fa riconoscere come nostro Redentore quella che l'evangelista Giovanni indica come la "gloria del Signore": la sua Morte e Resurrezione." Il brano odierno (di Matteo) ci presenta Giovanni Battista in prigione, assalito da un grande dubbio: Gesù di Nazareth è il Messia oppure no? Doveva essere una domanda molto inquietante per lui, addirittura lacerante, perché il giovane Rabbi non si presentava affatto con le caratteristiche che lo stesso Battista aveva elencato nei suoi discorsi profetici alle folle; ne abbiamo udito un brano nella 2° domenica di Avvento A: "Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile." (Matteo 3,11-12 e Luca 3,16-17) Si tratta di immagini tratte dal Primo Testamento, come si può vedere in Isaia 41,16, Geremia 15,7 e Malachia 3,19.

Mentre è in carcere, Giovanni sente "parlare delle opere del Cristo" (v.2 b) e queste non corrispondono all'idea che si era fatta dell'Inviato divino. Egli pensava a un Messia "giustiziere", e Gesù si presentava come maestro mite e umile di cuore; aveva sperato nella manifestazione dell'ira di Dio contro tutte le ingiustizie e le menzogne, e il Nazareno parlava solo di misericordia e compassione, tanto da mettersi a tavola con pubblici peccatori. Probabilmente si era anche aspettato come "segno" di messianicità la sua stessa liberazione dal carcere di Erode, proprio come preannunciava Isaia 61,1. E questo non era successo. Di qui la domanda ansiosa: "Sei tu colui che deve venire?"

Il Cristo, come spesso fa', non risponde direttamente con un sì o un no. Egli non si sostituisce mai alla libertà dell'uomo; se questi lo accoglie e lo accetta, è perché legge adeguatamente dei "segni" che attestano l'identità di Gesù e si comporta di conseguenza. Così il Maestro risponde rimandando il Battista proprio a quelle "opere" di cui aveva sentito parlare in carcere: ciechi, zoppi, lebbrosi, sordi vengono guariti, i morti resuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo.

Si tratta di azioni già profetizzate nel Primo Testamento: Isaia 35,5-6 ricorda nell'ordine i ciechi, i sordi e gli zoppi; Isaia 26,19 annuncia le resurrezioni e Isaia 61,1 l'evangelizzazione dei poveri.
Dunque Gesù continua l'opera di Jahvè; si mostra buono e misericordioso come il Dio di Israele, che aveva fatto ritornare gli esuli dall'esilio, mantenendosi fedele alla sua alleanza. Il Nazareno dimostra di realizzare e compiere quanto preannunciato nel Primo Testamento.

Viene spontaneo chiedersi perché Egli adempia a queste ultime profezie e non a quelle che aveva in mente Giovanni Battista. E qui siamo proprio al nocciolo della questione. Con quale criterio, con quale metro di riferimento vanno lette le Scritture? Come riconoscerne il compimento? Ebbene, è solamente Gesù stesso, il Verbo di Dio, l'ultima Parola di rivelazione pronunciata dal Padre che può fornirci tale criterio e punto di riferimento. Solo a Lui possiamo affidarci. Solo Lui può illuminarci.

E decisamente chiara e luminosa è la sua risposta: il Messia è Colui che porta la salvezza, sia a livello materiale che spirituale. Ma attenzione! Guarigioni e resurrezioni sono indubbiamente segni clamorosi e stupefacenti; ma, dal punto di vista della struttura, il v.5 non ha come culmine le resurrezioni, bensì il fatto che ai "poveri" è annunciato il Vangelo. Questo, e non un miracolo, è il "segno" più specifico e decisivo, che imprime una direzione ben definita a tutti gli altri. "Che Gesù sia l'inviato di Dio è provato dai miracoli, ma è la predilezione per i poveri (gli ammalati, i peccatori, i pagani) che rivela la novità della sua scelta messianica." (B.Maggioni)

E tutto questo può essere di ostacolo a vedere nel Nazareno l'Inviato divino; ecco perché subito dopo Egli pronuncia la frase "E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!"; cioè: colui che non inciampa di fronte a un Messia povero e disarmato, che non fa uso della forza.

Ora, come sempre nel vangelo, la pagina di Matteo va letta a tre livelli, che prendiamo in considerazione completando il commento:

1° - il livello della vita storica di Gesù; il grande dubbio che riguarda il Cristo è del Battista e ovviamente anche dei suoi discepoli. Anzi, secondo Ambrogio, Agostino e Giovanni Crisostomo, si tratterebbe addirittura di un dubbio, e di un conseguente espediente, "pedagogico", cioè un dubbio che il Battista avrebbe còlto nei suoi discepoli, ragion per cui li manda a Gesù perché sia lui stesso a rassicurarli.

2° - il livello della comunità cui si rivolge Matteo; negli anni '80 (quando venne redatto il primo vangelo) c'era una tensione polemica tra le comunità giudeo-cristiane e i cosiddetti "giovanniti", discepoli del Battista rimasti legati al loro maestro, che continuavano a battezzare nel suo nome (cfr. Atti 19,3: "Quale battesimo avete ricevuto? Il battesimo di Giovanni") e vedevano addirittura in lui, e non in Gesù, il Messia! Il movimento dei giovanniti, detto "battista", era assai popolare e annunciava una salvezza per tutti mediante la conversione, la penitenza, e il rito del battesimo con acqua. Era dunque molto importante, al tempo di Matteo, ribadire e specificare a chiare lettere che in realtà lo stesso Giovanni Battista aveva indicato in Gesù il vero Messia.

3° - il livello della contemporaneità. Come in ogni epoca, probabilmente anche noi abbiamo un'idea non del tutto esatta del Dio cristiano, che ci crea ostacolo (cioè ci "scandalizza" nel senso etimologico); e anche noi siamo quindi invitati a considerare con attenzione le "opere" di Gesù e il messaggio che emerge dalla sua risposta, soprattutto la nota finale; infatti i "poveri", nel contesto matteano - cfr. Mt.5,3: "Beati i poveri in spirito" - non sono solo i poveri in senso materiale, ma anche e soprattutto "i piccoli", gli "umili", i "semplici", davvero liberi nel cuore e aperti all'annuncio.

E poi oggi è possibile un'altra forma di "scandalo" riguardo ai seguaci di Gesù.
"Vi è mai capitato - osserva Liliana Gilli - che qualcuno guardandovi negli occhi vi abbia chiesto:
Questo è lo scandalo: crederci, crederci veramente e cambiare (in una conversione che è continua!), perché si è convinti che Gesù è il Messia, perché certo si apprezzano le sue opere, ma ce lo fa riconoscere come nostro Redentore quella che l'evangelista Giovanni indica come la "gloria del Signore": la sua Morte e Resurrezione."