lunedì 29 marzo 2010

domenica delle palme 28 marzo 2010

28 MARZO 2010
DOMENICA DELLE PALME NELLA PASSIONE DEL SIGNORE
Carissimi : In questa occasione vi invio non una normale predica, ma una meditazione di p. Cantalamessa, che può farvi da guida per tutta la settimana santa.
Vi porgo i più sinceri auguri per la Santa Pasqua. Vivetela nella certezza di avere acquistato in Cristo la libertà vera e la capacità di amare.
Don Michele


LETTURA
Lettura del profeta Isaia 52, 13 - 53, 12

Così dice il Signore Dio: / «Ecco, il mio servo avrà successo, / sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente. / Come molti si stupirono di lui / – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto / e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo –, / così si meraviglieranno di lui molte nazioni; / i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, / poiché vedranno un fatto mai a essi raccontato / e comprenderanno ciò che mai avevano udito. / Chi avrebbe creduto al nostro annuncio? / A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore? / È cresciuto come un virgulto davanti a lui / e come una radice in terra arida. / Non ha apparenza né bellezza / per attirare i nostri sguardi, / non splendore per poterci piacere. / Disprezzato e reietto dagli uomini, / uomo dei dolori che ben conosce il patire, / come uno davanti al quale ci si copre la faccia; / era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. / Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, / si è addossato i nostri dolori; / e noi lo giudicavamo castigato, / percosso da Dio e umiliato. / Egli è stato trafitto per le nostre colpe, / schiacciato per le nostre iniquità. / Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; / per le sue piaghe noi siamo stati guariti. / Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, / ognuno di noi seguiva la sua strada; / il Signore fece ricadere su di lui / l’iniquità di noi tutti. / Maltrattato, si lasciò umiliare / e non aprì la sua bocca; / era come agnello condotto al macello, / come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, / e non aprì la sua bocca. / Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; / chi si affligge per la sua posterità? / Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, / per la colpa del mio popolo fu percosso a morte. / Gli si diede sepoltura con gli empi, / con il ricco fu il suo tumulo, / sebbene non avesse commesso violenza / né vi fosse inganno nella sua bocca. / Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. / Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, / vedrà una discendenza, vivrà a lungo, / si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. / Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce / e si sazierà della sua conoscenza; / il giusto mio servo giustificherà molti, / egli si addosserà le loro iniquità. / Perciò io gli darò in premio le moltitudini, / dei potenti egli farà bottino, / perché ha spogliato se stesso fino alla morte / ed è stato annoverato fra gli empi, / mentre egli portava il peccato di molti / e intercedeva per i colpevoli».

SALMO
Sal 87

® Signore, in te mi rifugio.

Signore, Dio della mia salvezza,
davanti a te grido giorno e notte.
Giunga fino a te la mia preghiera,
tendi l’orecchio alla mia supplica. ®

Io sono sazio di sventure,
la mia vita è sull’orlo degli inferi.
Sono annoverato fra quelli che scendono nella fossa,
sono come un uomo ormai senza forze.
Sono libero, ma tra i morti. ®

Hai allontanato da me i miei compagni,
mi hai reso per loro un orrore.
Sono prigioniero senza scampo,
si consumano i miei occhi nel patire.
Tutto il giorno ti chiamo, Signore,
verso di te protendo le mie mani. ®

EPISTOLA
Lettera agli Ebrei 12, 1b-3

Fratelli, avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento. Egli, di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di Dio. Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo.

VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Giovanni 11, 55 - 12, 11

In quel tempo. Era vicina la Pasqua dei Giudei e molti dalla regione salirono a Gerusalemme prima della Pasqua per purificarsi. Essi cercavano Gesù e, stando nel tempio, dicevano tra loro: «Che ve ne pare? Non verrà alla festa?». Intanto i capi dei sacerdoti e i farisei avevano dato ordine che chiunque sapesse dove si trovava lo denunciasse, perché potessero arrestarlo. Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betània, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. E qui fecero per lui una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali. Maria allora prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo. Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che stava per tradirlo, disse: «Perché non si è venduto questo profumo per trecento denari e non si sono dati ai poveri?». Disse questo non perché gli importasse dei poveri, ma perché era un ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. Gesù allora disse: «Lasciala fare, perché ella lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me». Intanto una grande folla di Giudei venne a sapere che egli si trovava là e accorse, non solo per Gesù, ma anche per vedere Lazzaro che egli aveva risuscitato dai morti. I capi dei sacerdoti allora decisero di uccidere anche Lazzaro, perché molti Giudei se ne andavano a causa di lui e credevano in Gesù.

2009-04-10- Predica del Venerdì Santo 2009 nella Basilica di S. Pietro di p. R. Cantalamessa


“Fino alla morte, e alla morte di croce”


“Christus factus est pro nobis oboediens usque ad mortem, mortem autem crucis”: “Per noi Cristo si è fatto obbediente fino alla morte. E alla morte di croce”. Nel bi-millenario della nascita dell’apostolo Paolo, riascoltiamo alcune sue fiammeggiati parole sul mistero della morte di Cristo che stiamo celebrando. Nessuno meglio di lui può aiutarci a comprenderne il significato e la portata.

Ai Corinzi scrive a modo di manifesto: “I Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio” (1 Cor 1, 22-24). La morte di Cristo ha una portata universale: ”Uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti” (2 Cor 5, 14). La sua morte ha dato un senso nuovo alla morte di ogni uomo e di ogni donna.

Agli occhi di Paolo la croce assume una dimensione cosmica. Su di essa Cristo ha abbattuto il muro di separazione, ha riconciliato gli uomini con Dio e tra di loro, distruggendo l’inimicizia (cf. Ef. 2,14-16). Da qui la primitiva tradizione svilupperà il tema della croce albero cosmico che con il braccio verticale unisce cielo e terra e con il braccio orizzontale riconcilia tra loro i diversi popoli del mondo. Evento cosmico e nello stesso tempo personalissimo: “Mi ha amato e ha dato se stesso per me!” (Gal 2, 20). Ogni uomo, scrive l’Apostolo, è “uno per cui Cristo è morto” (Rom 14,15).

Da tutto ciò nasce il sentimento della croce, non più come castigo, rimprovero o argomento di afflizione, ma gloria e vanto del cristiano, cioè come una giubilante sicurezza, accompagnata da commossa gratitudine, alla quale l’uomo si innalza nella fede: “Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo” (Gal 6, 14).

Paolo ha piantato la croce al centro della Chiesa come l’albero maestro al centro della nave; ne ha fatto il fondamento e il baricentro di tutto. Ha fissato per sempre il quadro dell’annuncio cristiano. I vangeli, scritti dopo di lui, ne seguiranno lo schema, facendo del racconto della passione e morte di Cristo il fulcro verso cui tutto è orientato.

Si resta stupiti di fronte all’impresa portata a termine dall’Apostolo. Per noi oggi è relativamente facile vedere le cose in questa luce, dopo che la croce di Cristo, come diceva Agostino, ha riempito la terra e brilla ora sulla corona dei re [1]. Quando Paolo scriveva, essa era ancora sinonimo della più grande ignominia, qualcosa che non si doveva neppure nominare tra persone educate.



Lo scopo dell’anno paolino non è tanto quello di conoscere meglio il pensiero dell’Apostolo (questo gli studiosi lo fanno da sempre, senza contare che la ricerca scientifica richiede tempi più lunghi di un anno); è piuttosto, come ha ricordato in più occasioni il Santo Padre, quello di imparare da Paolo come rispondere alle sfide attuali della fede.

Una di queste sfide, forse la più aperta mai conosciuta fino ad oggi, si è tradotta in uno slogan pubblicitario scritto sui mezzi di trasporto pubblico di Londra e di altre città europee: “Dio probabilmente non esiste. Dunque smetti di tormentarti e goditi la vita”: There’s probably no God. Now stop worrying and enjoy your life.”

L’elemento di maggior presa di questo slogan non è la premessa “Dio non esiste”, ma la conclusione: “Goditi la vita!” Il messaggio sottinteso è che la fede in Dio impedisce di godere la vita, è nemica della gioia. Senza di essa ci sarebbe più felicità nel mondo! Paolo ci aiuta a dare una risposta a questa sfida, spiegando l’origine e il senso di ogni sofferenza, a partire da quella di Cristo.

Perché “era necessario che il Cristo patisse per entrare nella sua gloria”? (Lc 24, 26). A questa domanda si dà talvolta una risposta “debole” e, in un certo senso, rassicurante. Cristo, rivelando la verità di Dio, provoca necessariamente l’opposizione delle forze del male e delle tenebre e queste, come era avvenuto nei profeti, porteranno al suo rifiuto e alla sua eliminazione. “Era necessario che il Cristo patisse” andrebbe dunque inteso nel senso di “era inevitabile che il Cristo patisse”.

Paolo da una risposta “forte” a quella domanda. La necessità non è di ordine naturale, ma soprannaturale. Nei paesi di antica fede cristiana si associa quasi sempre l’idea di sofferenza e di croce a quella di sacrificio e di espiazione: la sofferenza, si pensa, è necessaria per espiare il peccato e placare la giustizia di Dio. È questo che ha provocato, in epoca moderna, il rigetto di ogni idea di sacrificio offerto a Dio e, per finire, l’idea stessa di Dio.

Non si può negare che talvolta noi cristiani abbiamo prestato il fianco a questa accusa. Ma si tratta di un equivoco che una migliore conoscenza del pensiero di san Paolo ha ormai definitivamente chiarito. Egli scrive che Dio ha prestabilito Cristo “a servire come strumento di espiazione” (Rom 3,25), ma tale espiazione non opera su Dio per placarlo, ma sul peccato per eliminarlo. “Si può dire che sia Dio stesso, non l’uomo, che espia il peccato... L’immagine è più quella della rimozione di una macchia corrosiva o la neutralizzazione di un virus letale che quella di un’ira placata dalla punizione”[2].

Cristo ha dato un contenuto radicalmente nuovo all’idea di sacrificio. In esso “non è più l’uomo ad esercitare un’influenza su Dio perché questi si plachi. Piuttosto è Dio ad agire affinché l’uomo desista dalla propria inimicizia contro di lui e verso il prossimo. La salvezza non inizia con la richiesta di riconciliazione da parte dell’uomo, bensì con la richiesta di Dio: ‘Lasciatevi riconciliare con Lui” (1 Cor 2,6 ss)”[3].

Il fatto è che Paolo prende sul serio il peccato, non lo banalizza. Il peccato è, per lui, la causa principale dell’infelicità degli uomini, cioè il rifiuto di Dio, non Dio! Esso rinchiude la creatura umana nella “menzogna” e nella “ingiustizia” (Rom 1, 18 ss.; 3, 23), condanna lo stesso cosmo materiale alla “vanità” e alla “corruzione” (Rom 8, 19 ss.) ed è la causa ultima anche dei mali sociali che affliggono l’umanità.

Si fanno analisi a non finire della crisi economica in atto nel mondo e delle sue cause, ma chi osa mettere la scure alla radice e parlare di peccato? L’elite finanziaria ed economica mondiale era diventata una locomotiva impazzita che avanzava a corsa sfrenata, senza darsi pensiero del resto del treno rimasto fermo a distanza sui binari. Stavamo andando tutti “contromano”.

L’Apostolo definisce l’avarizia insaziabile una “idolatria” (Col 3,5) e addita nella sfrenata cupidigia di denaro “la radice di tutti i mali” (1 Tim 6,10). Possiamo dargli torto? Perché tante famiglie ridotte al lastrico, masse di operai che rimangono senza lavoro, se non per la sete insaziabile di profitto da parte di alcuni? E perché, nel terremoto degli Abruzzi di questi giorni, sono crollati tanti palazzi costruiti di recente? Cosa aveva indotto a mettere sabbia di mare al posto del cemento?



Con la sua morte, Cristo però non ha soltanto denunciato e vinto il peccato; ha anche dato un senso nuovo alla sofferenza, anche a quella che non dipende dal peccato di nessuno, come, appunto, il dolore di tante vittime del terremoto che ha sconvolto la vicina regione dell’Abruzzo. Ne ha fatto una via alla risurrezione e alla vita. Il senso nuovo dato da Cristo alla sofferenza non si manifesta tanto nella sua morte, quanto nel superamento della morte, cioè nella risurrezione. “È morto per i nostri peccati, è risorto per la nostra giustificazione” (Rom 4, 25): i due eventi sono inseparabili nel pensiero di Paolo e della Chiesa.

E’ un’esperienza umana universale: in questa vita piacere e dolore si susseguono con la stessa regolarità con cui, al sollevarsi di un’onda nel mare, segue un avvallamento e un vuoto che risucchia indietro il naufrago. “Un so che di amaro - ha scritto il poeta pagano Lucrezio - sorge dall’intimo stesso di ogni piacere e ci angoscia in mezzo alle delizie”[4]. L’uso della droga, l’abuso del sesso, la violenza omicida, sul momento danno l’ebbrezza del piacere, ma conducono alla dissoluzione morale, e spesso anche fisica, della persona.

Cristo, con la sua passione e morte, ha ribaltato il rapporto tra piacere e dolore. Egli “in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottomise alla croce” (Eb 12,2). Non più un piacere che termina in sofferenza, ma una sofferenza che porta alla vita e alla gioia. Non si tratta solo di un diverso susseguirsi delle due cose; è la gioia, in questo modo, ad avere l’ultima parola, non la sofferenza, e una gioia che durerà in eterno. “Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui” (Rom 6,9). E non lo avrà neppure su di noi.
Questo nuovo rapporto tra sofferenza e piacere si riflette nel modo di scandire il tempo della Bibbia. Nel calcolo umano, il giorno inizia con la mattina e termina con la notte; per la Bibbia comincia con la notte e termina con il giorno: “E fu sera e fu mattina: primo giorno”, recita il racconto della creazione (Gen 1,5). Non è senza significato che Gesù morì di sera e risorse di mattino. Senza Dio, la vita è un giorno che termina nella notte; con Dio è una notte che termina nel giorno, e un giorno senza tramonto.

Cristo non è venuto dunque ad aumentare la sofferenza umana o a predicare la rassegnazione ad essa; è venuto a darle un senso e ad annunciarne la fine e il superamento. Quello slogan sui bus di Londra e di altre città viene letto anche da genitori che hanno un figlio malato, da persone sole, o rimaste senza lavoro, da esuli fuggiti dagli orrori della guerra, da persone che hanno subito gravi ingiustizie nella vita… Io cerco di immaginare la loro reazione nel leggere le parole: “Probabilmente Dio non c’è: goditi dunque la vita!” E con che?

La sofferenza resta certo un mistero per tutti, specialmente la sofferenza degli innocenti, ma senza la fede in Dio essa diventa immensamente più assurda. Le si toglie anche l’ultima speranza di riscatto. L’ateismo è un lusso che si possono concedere solo i privilegiati della vita, quelli che hanno avuto tutto, compresa la possibilità di darsi agli studi e alla ricerca.



Non è la sola incongruenza di quella trovata pubblicitaria. “Dio probabilmente non esiste”: dunque, potrebbe anche esistere, non si può escludere del tutto che esista. Ma, caro fratello non credente, se Dio non esiste, io non ho perso niente; se invece esiste, tu hai perso tutto! Dovremmo quasi ringraziare chi ha promosso quella campagna pubblicitaria; essa ha servito alla causa di Dio più che tanti nostri argomenti apologetici. Ha mostrato la povertà delle sue ragioni ed ha contribuito a scuotere tante coscienze addormentate.

Dio però ha un metro di giudizio diverso dal nostro e se vede la buona fede, o una ignoranza incolpevole, salva anche chi in vita si è affannato a combatterlo. Ci dobbiamo preparare a delle sorprese, a questo riguardo, noi credenti. “Quante pecore ci sono fuori dell’ovile, esclama Agostino, e quanti lupi dentro!”: “Quam multae oves foris, quam multi lupi intus! ”[5].

Dio è capace di fare dei suoi negatori più accaniti, i suoi apostoli più appassionati. Paolo ne è la dimostrazione. Che cosa aveva fatto Saulo di Tarso per meritare quell’incontro straordinario con Cristo? Che cosa aveva creduto, sperato, sofferto? A lui si applica ciò che Agostino diceva di ogni elezione divina: “Cerca il merito, cerca la giustizia, rifletti e vedi se trovi altro che grazia” [6]. È così che egli spiega la propria chiamata: “Io non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono” (1 Cor 15, 9-10).

La croce di Cristo è motivo di speranza per tutti e l’anno paolino un’occasione di grazia anche per chi non crede ed è in ricerca. Una cosa parla a loro favore davanti a Dio: la sofferenza! Come il resto dell’umanità, anche gli atei soffrono nella vita, e la sofferenza, da quando il Figlio di Dio l’ha presa su di sé, ha un potere redentivo quasi sacramentale. È un canale, scriveva Giovanni Paolo II nella “Salvifici doloris”, attraverso cui le energie salvifiche della croce di Cristo sono offerte all’umanità[7].

All’invito a pregare “per coloro che non credono in Dio”, seguirà, tra poco, una toccante preghiera in latino del Santo Padre. Tradotta in italiano, essa dice così: “Dio onnipotente ed eterno, tu hai messo nel cuore degli uomini una così profonda nostalgia di te, che solo quando ti trovano hanno pace: fa’ che, al di là di ogni ostacolo, tutti riconoscano i segni della tua bontà e, stimolati dalla testimonianza della nostra vita, abbiano la gioia di credere in te, unico vero Dio e Padre di tutti gli uomini. Per Cristo nostro Signore.



[1] S. Agostino, Enarr. in Psalmos, 54, 12 (PL 36, 637).
[2] J. Dunn, La teologia dell’apostolo Paolo, Paideia, Brescia 1999, p. 227.
[3] G. Theissen – A. Merz, Il Gesù storico. Un manuale, Queriniana, Brescia 20032, p. 573.
[4] Lucrezio, De rerum natura, IV, 1129 s.
[5] S. Agostino, In Ioh. Evang. 45,12.
[6] S. Agostino, La predestinazione dei santi 15, 30 (PL 44, 981).
[7] Cf. Enc. “Salvifici doloris”, 23.



RITO ROMANO
Vangelo
Lc 22,14 - 23,56 (forma breve: Lc 23,1-49)

Passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Luca
C Quando fu l’ora, Gesù prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse: + “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio”. C E preso un calice, rese grazie e disse: + “Prendetelo e distribuitelo tra voi, poiché vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finche non venga il regno di Dio”.
Fate questo in memoria di me
C Poi preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: + “Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. C Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese il calice dicendo: + “Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi”.
Guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo è tradito
“Ma ecco, la mano di chi mi tradisce è con me, sulla tavola. Il Figlio dell’uomo se ne va, secondo quanto è stabilito; ma guai a quell’uomo dal quale è tradito!”. C Allora essi cominciarono a domandarsi a vicenda chi di essi avrebbe fatto ciò.
Io sto in mezzo a voi come colui che serve
Sorse anche una discussione, chi di loro poteva essere considerato il più grande. Egli disse: + “I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti chi è il più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve. Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; e io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno e siederete in trono a giudicare le dodici tribù di Israele.
Tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli
Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli”. C E Pietro gli disse: P “Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte”. C Gli rispose: + “Pietro, io ti dico: non canterà oggi il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di conoscermi”.
Deve compiersi in me questa parola della Scrittura C Poi disse: + “Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?”. C Risposero: P “Nulla”. C Ed egli soggiunse: + “Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così una bisaccia; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. Perché vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: ‘‘E fu annoverato tra i malfattori’’. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo termine”. C Ed essi dissero: P “Signore, ecco qui due spade”. C Ma egli rispose: + “Basta!”.
In preda all’angoscia, pregava più intensamente
C Uscito se ne andò, come al solito, al monte degli Ulivi; anche i discepoli lo seguirono. Giunto sul luogo, disse loro: + “Pregate, per non entrare in tentazione”. C Poi si allontanò da loro quasi un tiro di sasso e, inginocchiatosi, pregava: + “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà”. C Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo. In preda all’angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra. Poi, rialzatosi dalla preghiera, andò dai discepoli e li trovò che dormivano per la tristezza. E disse loro: + “Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione”.
Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo?
C Mentre egli ancora parlava, ecco una turba di gente; li precedeva colui che si chiamava Giuda, uno dei Dodici, e si accostò a Gesù per baciarlo. Gesù gli disse: + “Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo?”. C Allora quelli che eran con lui, vedendo ciò che stava per accadere, dissero: P “Signore, dobbiamo colpire con la spada?”. C E uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio destro. Ma Gesù intervenne dicendo: + “Lasciate, basta così!”. C E toccandogli l’orecchio, lo guarì. Poi Gesù disse a coloro che gli eran venuti contro, sommi sacerdoti, capi delle guardie del tempio e anziani: + “Siete usciti con spade e bastoni come contro un brigante? Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete steso le mani contro di me; ma questa è la vostra ora, è l’impero delle tenebre”.
Uscito, Pietro pianse amaramente
C Dopo averlo preso, lo condussero via e lo fecero entrare nella casa del sommo sacerdote. Pietro lo seguiva da lontano. Siccome avevano acceso un fuoco in mezzo al cortile e si erano seduti attorno, anche Pietro si sedette in mezzo a loro. Vedutolo seduto presso la fiamma, una serva fissandolo disse: P “Anche questi era con lui”. C Ma egli negò dicendo: P “Donna, non lo conosco!”. C Poco dopo un altro lo vide e disse: P “Anche tu sei di loro!”. C Ma Pietro rispose: P “No, non lo sono!”. C Passata circa un’ora, un altro insisteva: P “In verità anche questo era con lui; è anche lui un Galileo”. C Ma Pietro disse: P “O uomo, non so quello che dici”. C E in quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: “Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte”. E uscito, pianse amaramente.
Indovina: chi ti ha colpito?
Frattanto gli uomini che avevano in custodia Gesù lo schernivano e lo percuotevano, lo bendavano e gli dicevano: P “Indovina: chi ti ha colpito?”. C E molti altri insulti dicevano contro di lui.
Lo condussero davanti al sinedrio
Appena fu giorno, si riunì il consiglio degli anziani del popolo, con i sommi sacerdoti e gli scribi; lo condussero davanti al sinedrio e gli dissero: P “Se tu sei il Cristo, diccelo”. C Gesù rispose: + “Anche se ve lo dico, non mi crederete; se vi interrogo, non mi risponderete. Ma da questo momento starà il Figlio dell’uomo seduto alla destra della potenza di Dio”. C Allora tutti esclamarono: P “Tu dunque sei il Figlio di Dio?”. C Ed egli disse loro: + “Lo dite voi stessi: io lo sono”. C Risposero: P “Che bisogno abbiamo ancora di testimonianza? L’abbiamo udito noi stessi dalla sua bocca”.
Non trovo nessuna colpa in quest’uomo
C [Tutta l’assemblea si alzò, lo condussero da Pilato e cominciarono ad accusarlo: P “Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re”. C Pilato lo interrogò: P “Sei tu il re dei Giudei?”. C Ed egli rispose: + “Tu lo dici”. C Pilato disse ai sommi sacerdoti e alla folla: P “Non trovo nessuna colpa in quest’uomo”. C Ma essi insistevano: P “Costui solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea fino a qui”. C Udito ciò, Pilato domandò se era Galileo e, saputo che apparteneva alla giurisdizione di Erode, lo mandò da Erode che in quei giorni si trovava anch’egli a Gerusalemme.
Erode con i suoi soldati insulta Gesù
Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto, perché da molto tempo desiderava vederlo per averne sentito parlare e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui. Lo interrogò con molte domande, ma Gesù non gli rispose nulla. C’erano là anche i sommi sacerdoti e gli scribi, e lo accusavano con insistenza. Allora Erode, con i suoi soldati, lo insultò e lo schernì, poi lo rivestì di una splendida veste e lo rimandò a Pilato. In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici; prima infatti c’era stata inimicizia tra loro.
Pilato abbandona Gesù alla loro volontà
Pilato, riuniti i sommi sacerdoti, le autorità e il popolo, disse: P “Mi avete portato quest’uomo come sobillatore del popolo; ecco, l’ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in lui nessuna colpa di quelle di cui lo accusate; e neanche Erode, infatti ce l’ha rimandato. Ecco, egli non ha fatto nulla che meriti la morte. Perciò dopo averlo severamente castigato, lo rilascerò”. C Ma essi si misero a gridare tutti insieme: P “A morte costui! Dacci libero Barabba!”. C Questi era stato messo in carcere per una sommossa scoppiata in città e per omicidio. Pilato parlò loro di nuovo, volendo rilasciare Gesù. Ma essi urlavano: P “Crocifiggilo, crocifiggilo!”. C Ed egli, per la terza volta, disse loro: P “Ma che male ha fatto costui?
Non ho trovato nulla in lui che meriti la morte. Lo castigherò severamente e poi lo rilascerò”. C Essi però insistevano a gran voce, chiedendo che venisse crocifisso; e le loro grida crescevano. Pilato allora decise che la loro richiesta fosse eseguita. Rilasciò colui che era stato messo in carcere per sommossa e omicidio e che essi richiedevano, e abbandonò Gesù alla loro volontà.
Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me
Mentre lo conducevano via, presero un certo Simone di Cirene che veniva dalla campagna e gli misero addosso la croce da portare dietro a Gesù.
Lo seguiva una gran folla di popolo e di donne che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui. Ma Gesù, voltandosi verso le donne, disse: + “Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: Beate le sterili e i grembi che non hanno generato e le mammelle che non hanno allattato. Allora cominceranno a dire ai monti: Cadete su di noi! E ai colli: Copriteci! Perché, se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco?”.
C Venivano condotti insieme con lui anche due malfattori per essere giustiziati.
Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno
Quando giunsero al luogo detto Cranio, là crocifissero lui e i due malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. Gesù diceva: + “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno”.
C Dopo essersi poi divise le sue vesti, le tirarono a sorte.
Questi è il re dei Giudei
Il popolo stava a vedere, i capi invece lo schernivano dicendo: P “Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto”. C Anche i soldati lo schernivano, e gli si accostavano per porgergli dell’aceto, e dicevano: P “Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso”. C C’era anche una scritta, sopra il suo capo: Questi è il re dei Giudei.
Oggi sarai con me nel paradiso
Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: P “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!”. C Ma l’altro lo rimproverava: P “Neanche tu hai timore di Dio, benché condannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male”. C E aggiunse: P “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. C Gli rispose: + “In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso”. Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito C Era verso mezzogiorno, quando il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Il velo del tempio si squarciò nel mezzo. Gesù, gridando a gran voce, disse: + “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. C Detto questo spirò.

Qui si genuflette e si fa una breve pausa.

Visto ciò che era accaduto, il centurione glorificava Dio: P “Veramente quest’uomo era giusto”. C Anche tutte le folle che erano accorse a questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornavano percuotendosi il petto. Tutti i suoi conoscenti assistevano da lontano e così le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea, osservando questi avvenimenti.]
Giuseppe pone il corpo di Gesù in una tomba scavata nella roccia
C’era un uomo di nome Giuseppe, membro del sinedrio, persona buona e giusta. Non aveva aderito alla decisione e all’operato degli altri. Egli era di Arimatea, una città dei Giudei, e aspettava il regno di Dio. Si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. Lo calò dalla croce, lo avvolse in un lenzuolo e lo depose in una tomba scavata nella roccia, nella quale nessuno era stato ancora deposto. Era il giorno della Parasceve e già splendevano le luci del sabato. Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono la tomba e come era stato deposto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo, secondo il comandamento.

martedì 16 marzo 2010

Vangelo della V domenica di quaresima (21 Marzo 2010)

Domenica 21 marzo 2010 V di Quaresima o di Lazzaro

avviso:

Vi allego la relazione tenuta in LIUC venerdì 12 da padre B. Sorge sulla Caritas in veritate.


LETTURA
Lettura del libro del Deuteronomio 6, 4a; 26, 5-11

In quei giorni. Mosè disse: «Ascolta, Israele: tu pronuncerai queste parole davanti al Signore, tuo Dio: “Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi. Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele. Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai dato”. Le deporrai davanti al Signore, tuo Dio, e ti prostrerai davanti al Signore, tuo Dio. Gioirai, con il levita e con il forestiero che sarà in mezzo a te, di tutto il bene che il Signore, tuo Dio, avrà dato a te e alla tua famiglia».

SALMO
Sal 104 (105)

® Lodate il Signore, invocate il suo nome.
Rendete grazie al Signore e invocate il suo nome,
proclamate fra i popoli le sue opere.
A lui cantate, a lui inneggiate,
meditate tutte le sue meraviglie. ®

L’ha stabilita per Giacobbe come decreto,
per Israele come alleanza eterna,
quando disse: «Ti darò il paese di Canaan
come parte della vostra eredità». ®

Quando erano in piccolo numero,
pochi e forestieri in quel luogo,
non permise che alcuno li opprimesse
e castigò i re per causa loro:
«Non toccate i miei consacrati,
non fate alcun male ai miei profeti». ®

EPISTOLA
Lettera di san Paolo apostolo ai Romani 1, 18-23a

Fratelli, l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia, poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha manifestato a loro. Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute. Essi dunque non hanno alcun motivo di scusa perché, pur avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio, ma si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno scambiato la gloria del Dio incorruttibile con un’immagine e una figura di uomo corruttibile.

VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Giovanni 11, 1-53

In quel tempo. Un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dirgli: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato». All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?». Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui». Disse queste cose e poi soggiunse loro: «Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato; ma io vado a svegliarlo». Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se si è addormentato, si salverà». Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!». Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse agli altri discepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!». Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo». Dette queste parole, andò a chiamare Maria, sua sorella, e di nascosto le disse: «Il Maestro è qui e ti chiama». Udito questo, ella si alzò subito e andò da lui. Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. Allora i Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro. Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?». Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberàtelo e lasciàtelo andare». Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui. Ma alcuni di loro andarono dai farisei e riferirono loro quello che Gesù aveva fatto. Allora i capi dei sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dissero: «Che cosa facciamo? Quest’uomo compie molti segni. Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui, verranno i Romani e distruggeranno il nostro tempio e la nostra nazione». Ma uno di loro, Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno, disse loro: «Voi non capite nulla! Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!». Questo però non lo disse da se stesso, ma, essendo sommo sacerdote quell’anno, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo.





Il Vangelo ci conduce nel villaggio di Betania, quasi alle porte di Gerusalemme. Gesù aveva qui una famiglia amica, quella di Marta, Maria e Lazzaro. Spesso si recava da loro per riposarsi. Questa volta era venuto perché gli avevano detto che il suo amico Lazzaro era malato.

Gesù non voleva stargli lontano, anche se questo poteva comportare per lui la morte.
I discepoli non mancano di farglielo notare. Anzi tentarono di fermarlo, una volta saputo che Lazzaro era morto. Che senso aveva rischiare per nulla?
Ancora una volta i discepoli non avevano compreso la grandezza dell'amore del Signore, venuto non per salvare se stesso, ma gli altri! Essi volevano tenerlo lontano da Lazzaro, lontano da quell'uomo su cui ormai tutti avevano posto una pietra sopra.

Non possiamo non pensare ai tanti uomini e alle tante donne sui quali ancora oggi è posta sopra una pietra pesante. Talora sono popoli interi ad essere oppressi da una fredda e pesante lastra. Sono coloro su cui grava la guerra, la fame, la solitudine, la tristezza, la disgrazia, il pregiudizio. Il viaggio Il viaggio recente del Papa in Africa li ha messi per un po’ sotto l’attenzione del mondo, anche se sappiamo che presto non ci penseremo più, abbiamo già tanti problemi nostri!

Queste pietre tristi e pesanti non gravano per caso o per un amaro destino; sono poste dagli uomini; spesso c'è come una gara crudele a scavarsi la fossa vicendevolmente e a rincorrersi per chiuderla con una lastra pesante. I discepoli di Gesù, anche oggi, molto spesso vogliono tenersi lontano, stare a distanza dai tanti Lazzaro sepolti e oppressi.
Magari anch'essi come Marta rivolgono a Gesù una sorta di rimprovero: "Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!".

È come dire: "Se tu Signore fossi stato vicino, non sarebbero accadute quelle disgrazie", oppure: "Se tu fossi stato accanto a quel popolo, non sarebbero successi tali stermini", e così via.
Il Vangelo, in verità, ci dice che non è Gesù a stare lontano, ma gli uomini. E talora si impedisce persino a Gesù di avvicinarsi.

Chiediamoci piuttosto: dove siamo noi, mentre milioni di persone muoiono di fame? dove siamo noi mentre migliaia di persone sono sole e abbandonate negli ospedali? dove siamo noi mentre vicino e lontano c'è gente che muore senza nessuno, che soffre senza che alcuno se ne accorga? e si potrebbe continuare.
Ebbene, vicino a costoro troviamo Gesù. Solo lui sta lì accanto, e piange su questi suoi amici abbandonati, come pianse su Lazzaro.

Gesù sta da solo davanti a Lazzaro, a sperare contro tutto e tutti. Persino le sorelle cercano di dissuaderlo mentre egli vuol far aprire la tomba. "Signore, già manda cattivo odore, poiché è di quattro giorni", gli dice Marta. Sì! Già puzza. Come puzzano i poveri; come puzzano i campi profughi con centinaia di migliaia, talora milioni, di persone; come puzzano tutti coloro sui quali si abbatte la cattiveria degli uomini.

Ma Gesù non si ferma. Il suo affetto per Lazzaro è molto più forte della rassegnazione delle sorelle; è molto più saggio della stessa ragionevolezza, della stessa evidenza delle cose. L'amore del Signore non conosce confini, neppure quelli della morte; vuole l'impossibile.

Quella tomba, perciò, non è l'abitazione definitiva degli amici di Gesù. Per questo grida: "Lazzaro, vieni fuori!". L'amico sente la voce di Gesù, appunto, come sta scritto: "le pecore conoscono la sua voce", e ancora: "il buon pastore chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori" (Gv 10, 3). Lazzaro ascolta, ed esce. E Gesù invita gli altri a sciogliere le bende all'amico. Ma sciogliendo Lazzaro "morto", Gesù in verità scioglie ognuno di noi dal proprio egoismo, dalla propria freddezza, dalla propria indifferenza, dalla morte dei sentimenti.
Racconta un'antica tradizione orientale che Lazzaro, una volta risuscitato, non mangiasse altro che dolci. Questo per sottolineare che la vita donata dal Signore è dolce, bella; che i sentimenti che il Signore deposita nel cuore sono forti e teneri, robusti e amorevoli, e sconfiggono ogni amarezza e asprezza.


Rito romano

V Domenica di Quaresima (Anno C)

Prima Lettura
Is 43,16-21

Dal libro del profeta Isaia
Così dice il Signore,
che offrì una strada nel mare
e un sentiero in mezzo ad acque possenti,
che fece uscire carri e cavalli,
esercito ed eroi insieme;
essi giacciono morti: mai più si rialzeranno;
si spensero come un lucignolo, sono estinti:
“Non ricordate più le cose passate,
non pensate più alle cose antiche!
Ecco, faccio una cosa nuova:
proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?
Aprirò anche nel deserto una strada,
immetterò fiumi nella steppa.
Mi glorificheranno le bestie selvatiche,
sciacalli e struzzi,
perché avrò fornito acqua al deserto,
fiumi alla steppa,
per dissetare il mio popolo, il mio eletto.
Il popolo che io ho plasmato per me
celebrerà le mie lodi”.

Salmo responsoriale (Sal 125)

Grandi cose ha fatto il Signore per noi.

Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si aprì al sorriso,
la nostra lingua si sciolse in canti di gioia.

Allora si diceva tra i popoli:
“Il Signore ha fatto grandi cose per loro”.
Grandi cose ha fatto il Signore per noi,
ci ha colmati di gioia.

Riconduci, Signore, i nostri prigionieri,
come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime
mieterà con giubilo.

Nell'andare, se ne va e piange,
portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con giubilo,
portando i suoi covoni.

Seconda Lettura
Fil 3,8-14

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi
Fratelli, tutto io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede.
E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti.
Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch'io sono stato conquistato da Gesù Cristo.
Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.

Acclamazione al Vangelo
(Ez 33,11)

Gloria a te, o Cristo, Verbo di Dio!
Io non voglio la morte del peccatore,
ma che si converta e viva.
Gloria a te, o Cristo, Verbo di Dio!

Vangelo: Gv 8,1-11
Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma all'alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava.
Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”. Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo.
Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra.
E siccome insistevano nell'interrogarlo, alzò il capo e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi.
Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Alzatosi allora Gesù le disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. Ed essa rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù le disse: “Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più”.

commento di mons. V. Paglia

Con questa quinta domenica, la Quaresima volge alla fine e si avvia verso la grande e santa settimana della passione, morte e risurrezione di Gesù. Più volte, in questo tempo, siamo stati esortati alla conversione del nostro cuore, eppure ognuno di noi si scopre ancora tanto simile a se stesso. Forse abbiamo ascoltato poco la parola di Dio, e non si è radicata nel cuore e nella realtà della nostra vita; insomma, ci ha trasformati poco. Non diciamo questo per la mania di fare bilanci o per riproporre un inutile pessimismo. Credo, invece, che tutti siamo ben consapevoli della difficoltà che ha il tempo del Signore a inserirsi nello scorrere convulso del nostro tempo quotidiano; e degli ostacoli che i sentimenti e gli inviti di Dio trovano nella selva dei nostri sentimenti e dei tanti inviti che ogni giorno riceviamo. Questo tempo opportuno di Quaresima spesso lo abbiamo soffocato con gli impegni, con le preoccupazioni, e perché no, con le banalità che ci prendono e ci soggiogano. E così ognuno è rimasto quel che era. Questa domenica ci viene nuovamente incontro, e in certo modo ci prende e ci trascina davanti a Gesù ancora una volta. E di fronte a lui non è possibile sentirsi come quel fariseo che si lodava da solo, perché è il Signore della misericordia e non un esattore esigente.
È l'alba di un nuovo giorno e Gesù, scrive il vangelo di Giovanni (8,1-11), sta di nuovo nel tempio a insegnare. Una calca di gente lo circonda. Improvvisamente il cerchio degli ascoltatori viene aperto da un gruppo di scribi e farisei che spingono davanti a loro una donna sorpresa in adulterio. La trascinano, gettandola in mezzo al cerchio, proprio davanti a Gesù, e gli chiedono se si debba o no applicare la legge di Mosè. Questa legge, dicono, impone di «lapidare donne come questa» (gli scribi e i farisei si riferiscono alle disposizioni contenute nel Levitico, 20,10; e nel Deuteronomio, 22,22-24; che prevedono la morte per gli adulteri). Ma non sono mossi dallo zelo per la legge, tanto meno sono interessati al dramma di quella donna. Vogliono tendere un tranello al giovane profeta di Nazaret per screditarlo davanti alla gente che sempre più numerosa corre ad ascoltarlo.
Se condanna la donna, ragionano, va contro la tanto conclamata misericordia; se la perdona, si mette contro la legge. In ambedue i casi ne esce sconfitto. Gesù, chinatosi, si mette a «scrivere con il dito per terra». È un atteggiamento strano: Gesù sta in silenzio, come farà durante la passione davanti a personaggi come Pilato ed Erode. Il Signore della parola, l'uomo che aveva fatto della predicazione la sua vita e il suo servizio fino alla morte, ora tace. Si china e si mette a scrivere nella polvere.
Non sappiamo cosa Gesù scrive e cosa pensa in quel momento; possiamo invece immaginare i sentimenti indispettiti dei farisei e forse intuire cosa c'è nel cuore di quella donna la cui speranza di sopravvivenza è legata a un uomo da cui, peraltro, non esce né una parola, né un cenno. Dietro l'insistenza dei farisei Gesù alza il capo e pronuncia una frase che getta un poco di luce sui loro pensieri: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei» (v. 7). E si china di nuovo a scrivere per terra. La risposta disarma tutti. Colti nel segno da queste parole, «se ne vanno uno per uno cominciando dai più anziani fino agli ultimi» (v. 9), nota con arguzia l'evangelista. Rimane solo Gesù con la donna. Si trovano l'una davanti all'altro, la miseria e la misericordia.
A questo punto Gesù riprende a parlare; lo fa come di solito, con il suo tono, la sua passione, la sua tenerezza, la sua fermezza. Alza la testa e chiede alla donna: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella risponde: «Nessuno, Signore». La parola di Gesù diviene profonda, per nulla indifferente, anzi piena di misericordia. È una parola buona, di quelle che solo il Signore sa pronunciare: «Neanche io ti condanno; va'e d'ora in poi non peccare più» (v. 11). Gesù era l'unico che avrebbe potuto alzare la mano e lanciare le pietre per lapidarla; l'unico giusto. La prese per mano e l'alzò da terra; in verità la sollevò dalla sua condizione di miseria, e la rimise in piedi: non era venuto per condannare, e tanto meno per consegnare alla morte per lapidazione; è venuto per parlare e per rialzare alla vita. Dice a quella donna: «Va'», come dire: ritorna alla vita, riprendi il tuo cammino. E aggiunge: «Non peccare più», ossia: percorri la via sulla quale ti ho posto, la via della misericordia e del perdono. È la via sulla quale il Signore, di domenica in domenica, mette coloro che si avvicinano a lui.

CARITAS IN VERITATE
PROSPETTIVE ETICHE, SOCIO-CULTURALI E POLITICHE
BARTOLOMEO SORGE S.I.

La caduta del muro di Berlino, vent’anni fa, ha posto fine al confronto-scontro durato quasi tre secoli tra modelli di società ispirati a ideologie diverse: la «democrazia liberalcapitalistica», ispirata alla cultura liberale; il «socialismo reale», ispirato al marxismo; e la «nuova cristianità», ispirata alla cultura giudaico-cristiana (elaborata soprattutto da Jacques Maritain).
Nel 1989 è imploso il modello del «socialismo reale», mostrando che la filosofia marxista era stata smentita dalla storia. Nel 2008, insieme con la «bolla finanziaria» è esploso il «liberalcapitalismo», mostrando che la cultura liberale del libero mercato lasciato a se stesso, conduce alle secche del «pensiero debole», del nichilismo e del relativismo etico, e non è in grado di fondare la democrazia su un’etica razionalistica autoreferenziale. Nello stesso tempo, è entrato in crisi anche il modello di «nuova cristianità» (la cosiddetta «terza via» tra liberalismo e socialismo) sia per l’estendersi del fenomeno della secolarizzazione, sia in seguito alle acquisizioni dottrinali e pastorali del Concilio Vaticano II. Il vuoto prodotto dalla crisi delle ideologie è stato riempito da una nuova ideologia «libertaria» e «tecnocratica», che si è imposta come «pensiero unico».
Ebbene, Benedetto XVI scrive l’enciclica Caritas in veritate per far fronte alle sfide che provengono sia dal predominio della cultura libertaria e tecnocratica, sia dai processi di globalizzazione che richiedono un nuovo modello di sviluppo mondiale. Pertanto, il suo messaggio è duplice: 1) in primo luogo, contiene una critica di fondo all’«ideologia tecnocratica»; 2) in secondo luogo, indica alcuni principi etici, culturali e politici, su cui fondare lo sviluppo umano integrale, di cui ha bisogno il mondo globalizzato del XXI secolo.

1. Critica dell’«ideologia tecnocratica»
Alla caduta del Muro di Berlino, molti gridarono: «Ha vinto il capitalismo!». Il primo a dire che ciò non era vero fu Giovanni Paolo II nell’enciclica Centesimus annu, insistendo sul fatto che, anche dopo la crisi del socialismo reale, permangono nel mondo le ingiustizie e le discriminazioni, denunciate da Leone XIII e dai successivi pontefici: «La crisi del marxismo non elimina nel mondo le situazioni di ingiustizia e di oppressione, da cui il marxismo stesso, strumentalizzandole, traeva alimento» (n. 26).
Ora, con l’enciclica sociale Caritas in veritate, Benedetto XVI va oltre: senza nulla togliere all’importanza storica della Rerum novarum di Leone XIII, ritiene però più adeguata ai problemi sociali di oggi l’enciclica Populorum progressio di Paolo VI. La prende perciò come punto di riferimento, fino a definirla «la Rerum novarum dell’epoca contemporanea» (n. 8).
Infatti – spiega il Papa – dopo la smentita storica del «socialismo reale» e ora anche del «liberalcapitalismo», la «questione sociale» oggi non è più quella originaria della «lotta di classe» tra proletari e capitalisti, né quella del confronto tra modelli opposti di economia marxista e liberale, né la ricerca di un’equa distribuzione delle risorse tra il Nord e il Sud del mondo. Oggi, la questione sociale è divenuta «questione antropologica». La sfida sta soprattutto nel modo di concepire la vita umana, la quale – attraverso il ricorso alle biotecnologie di cui l’uomo dispone – può essere manipolata in mille modi: dalla fecondazione in vitro alla ricerca sugli embrioni, alla clonazione e all’ibridazione umana.
È avvenuto, cioè, che al posto delle ideologie politiche del XIX e XX secolo, ha preso vigore una cultura libertaria che, nello stesso tempo, alimenta la nuova «ideologia tecnocratica» e ne è alimentata. L’uomo oggi è come ubriacato dal potere di cui dispone. Grazie alle risorse della scienza e della tecnica, egli è «convinto – scrive Benedetto XVI – di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società […]. La convinzione di essere autosufficiente e di riuscire a eliminare il male presente nella storia solo con la propria azione ha indotto l’uomo a far coincidere la felicità e la salvezza con forme immanenti di benessere materiale e di azione sociale» (n. 34).
In sostanza, questa cultura libertaria e tecnologica dominante sottovaluta il fatto che la società umana è una comunità di esseri in relazione tra loro, e non un gregge di individui anonimi uno accanto all’altro, ciascuno dei quali pensa solo a se stesso. Di conseguenza, il giudizio etico rimane subordinato all’efficienza, all’innovazione tecnologica e al consenso sociale, senza alcun riferimento ai valori radicati nella stessa persona umana, nella sua coscienza morale e religiosa. Ritorna la tentazione di sempre: che bisogno c’è di Dio, se l’uomo basta a se stesso e si può liberare con le proprie mani? Perché insistere sull’uomo «immagine e somiglianza di Dio», quando la tecnica mi consente di clonarlo in laboratorio, a immagine e somiglianza mia? Ma non è così – risponde l’enciclica – «il vero sviluppo non consiste primariamente nel fare. Chiave dello sviluppo è un’intelligenza in grado di pensare la tecnica e di cogliere il senso pienamente umano del fare dell’uomo, nell’orizzonte di senso della persona presa nella globalità del suo essere» (n. 70). E Benedetto XVI conclude: «Senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia» (n. 78).
In altre parole, il vizio di fondo della cultura libertaria – trasformatasi ormai nel «pensiero unico» tecnocratico dominante – sta nel suo intrinseco materialismo utilitaristico: cioè, nel ritenere che abbia valore solo ciò che è «efficace»; che valga di più ciò che consente i risultati migliori e «rende» di più in termini di produttività e di sviluppo economico: la cosiddetta «politica del fare». A questa cultura, che corrode i principi su cui si fonda la civiltà umana, occorre opporre – dice l’enciclica – una concezione umana integrale dello sviluppo, un nuovo umanesimo, fondato su alcuni principi essenziali di natura etica, culturale e politica.

2. Per uno sviluppo umano integrale
Benedetto XVI espone quindi i principi fondamentali, condivisibili e universali, di un nuovo umanesimo integrale che consenta di superare l’ideologia tecnocratica dominante e di realizzare uno sviluppo veramente umano, di cui ha bisogno il mondo globalizzato del XXI secolo. Tali principi riguardano: a) il piano etico, b) il piano culturale e sociale, c) il piano politico.

a) Sul piano etico: «libertà responsabile»
La Caritas in veritate insiste anzitutto sui principi etici. L’enciclica muove da un presupposto: il concetto di progresso umano come «vocazione», già rievocato da Paolo VI al n. 42 della Populorum progressio: «Non v’è dunque umanesimo vero se non aperto verso l’Assoluto, nel riconoscimento d’una vocazione, che offre l’idea vera della vita umana». Benedetto XVI commenta: «Paolo VI ha voluto dirci, prima di tutto, che il progresso è, nella sua scaturigine e nella sua essenza, una vocazione: “Nel disegno di Dio, ogni uomo è chiamato a uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione”» (n. 16). Su questo presupposto il Papa costruisce la Caritas in veritate.
Lo fa movendo dalla verità incontrovertibile che la vita è ricevuta, è un «dono». Nessuno se la può dare da sé. Ogni persona è essenzialmente un «chiamato alla vita» (un progetto di Dio), una «vocazione» da accogliere con gratitudine e da realizzare liberamente e responsabilmente: «Ciascuno trova il suo bene aderendo al progetto che Dio ha su di lui, per realizzarlo in pienezza: in tale progetto infatti egli trova la sua verità ed è aderendo a tale verità che egli diventa libero (cfr Giovanni 8, 22)» (n. 1). La verità è questa: siamo tutti «chiamati alla vita» (Dio è padre di tutti), quindi siamo tutti fratelli (figli dell’unico Padre).
Questo rapporto inscindibile tra verità (unica paternità) e carità (fraternità universale) è il concetto chiave fondamentale – innovativo – sul quale poggia l’intero documento: ogni uomo (credente o non credente) è chiamato a fare la «stupefacente esperienza» di un duplice dono (della gratuità): la carità e la verità. L’uomo è fatto per l’amore e per la verità. Ciò rende la persona umana essenzialmente un essere-in-relazione. «La gratuità è presente nella sua vita in molteplici forme, spesso non riconosciute a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica dell’esistenza. L’essere umano è fatto per il dono, che ne esprime e attua la dimensione di trascendenza» (n. 34). Anche la verità è un dono più grande di noi, ci precede come il dono della carità, «non è prodotta da noi, ma sempre trovata o, meglio, ricevuta» (ivi).
Conclude il Papa: «Perché dono ricevuto da tutti, la carità nella verità è una forza che costituisce la comunità, unifica gli uomini secondo modalità in cui non ci sono barriere né confini» (ivi).
Questa categoria della «relazione» ci porta a scoprire che «la creatura umana, in quanto di natura spirituale, si realizza nelle relazioni interpersonali. Più le vive in modo autentico, più matura anche la propria identità personale. Non è isolandosi che l’uomo valorizza se stesso, ma ponendosi in relazione con gli altri e con Dio. […] Ciò vale anche per i popoli» (n. 53).
La chiave dell’enciclica sta tutta in questa premessa etica, valida per tutti indistintamente (credenti, diversamente credenti o non credenti): nessuno può fare, se prima non riceve. Ecco perché Dio non si può espellere dalla coscienza umana. L’uomo è fatto per la verità e per l’amore, e Dio – che è verità e amore – è l’unica risposta possibile non solo alle attese dell’intelligenza (verità), ma anche alle attese del cuore (amore).
Quindi, la «carità nella verità» non è soltanto l’essenza dell’annuncio cristiano, ma è anche la risposta alle attese naturali della ragione e della coscienza di ogni persona umana. Di conseguenza, se si vuole che le relazioni umane siano solide — non solo quelle personali «private» dei rapporti di amicizia, familiari o di gruppo, ma anche quelle «pubbliche» dei rapporti sociali, economici e politici —, esse si dovranno fondare su una «carità» che sia anche «vera».
Dal punto di vista pratico – dice l’enciclica – bisognerà, dunque, educare alla Libertà responsabile. Se lo sviluppo umano integrale è risposta dell’uomo alla sua vocazione trascendente, è necessario che il progresso sia sempre conforme alla dignità dell’uomo, cioè sia libera e responsabile. Dice Benedetto XVI: «La vocazione è un appello che richiede una risposta libera e responsabile. Lo sviluppo umano integrale suppone la libertà responsabile della persona e dei popoli: nessuna struttura può garantire tale sviluppo al di fuori e al di sopra della responsabilità umana» (n. 17). Quindi, non c’è sviluppo integrale, senza il riconoscimento della dignità della persona umana, della sua libertà e responsabilità: «Solo se libero, lo sviluppo può essere integralmente umano; solo in un regime di libertà responsabile esso può crescere in maniera adeguata» (ivi).
Se, dunque, il vero progresso consiste nella realizzazione libera e responsabile della vocazione che l’uomo ha ricevuto, ne consegue che lo «sviluppo umano integrale» non può non fare riferimento a Colui che chiama, cioè non può che essere trascendente. È questa la ragione per cui Dio e la religione non si possono escludere dall’orizzonte umano.

b) Sul piano socio-culturale: «fraternità»
Il mondo si va unificando. Sul fenomeno della globalizzazione Giovanni Paolo II aveva già richiamato l'attenzione: «Nel mondo diviso e sconvolto da ogni tipo di conflitti - egli scriveva già nel 1987 -, si fa strada la convinzione di una radicale interdipendenza e, per conseguenza, la necessità di una solidarietà che la assuma e traduca sul piano morale. Oggi, forse più che in passato gli uomini si rendono conto di essere legati da un comune destino da costruire insieme se si vuole evitare la catastrofe per tutti» (Sollicitudo rei socialis [1987], n. 26).
Ora, Benedetto XVI dedica l’enciclica Caritas in veritate appunto al mondo che si globalizza. Infatti, la globalizzazione non è solo un fenomeno economico e finanziario; è divenuto soprattutto un fenomeno sociale e culturale. Con la libera circolazione dei beni, dei servizi, dei capitali e del lavoro entrano in circolo pure le idee, si diffondono culture e mentalità diverse, si propagano stili differenti di vita; perciò, la globalizzazione produce cultura ed è essa stessa una cultura: un modo nuovo di comprendere il lavoro umano, di impostare le relazioni sociali.
Il pericolo dunque è che, nel vuoto di ideali e di principi etici seguito alla crisi delle culture e alla fine delle ideologie, la logica libertaria prevalga su ogni altra e s’imponga come cultura egemone: «A partire dal crollo del sistema collettivistico nell’Europa centrale e orientale, con le sue conseguenza per il Terzo Mondo – avvisava già Giovanni Paolo II - l’umanità è entrata in una nuova fase nella quale l’economia di mercato sembra aver conquistato virtualmente tutto il mondo. Ciò ha portato con sé non solo una crescente interdipendenza delle economie e dei sistemi sociali, ma anche la diffusione di nuove idee filosofiche ed etiche basate sulle nuove condizioni di lavoro e di vita introdotte in quasi tutte le parti del mondo. […] Una delle preoccupazioni della Chiesa circa la globalizzazione è che essa è divenuta rapidamente un fenomeno culturale. Il mercato come meccanismo di scambio è divenuto lo strumento di una nuova cultura. […] Il mercato impone il suo modo di pensare e di agire e imprime sul comportamento la sua scala di valori» (Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, 27 aprile 2001, in Aggiornamenti Sociali, 6 [2001] 525s.).
È evidente infatti che la nuova cultura libertaria e l’ideologia tecnocratica, lasciate a se stesse e prive di anima etica, favoriscono l’egoismo e la mancanza di solidarietà, la frammentazione sociale, allargano la forbice tra ricchi e poveri, creano nuove forme di colonialismo culturale.
Nello stesso tempo, però, non c’è dubbio che la globalizzazione offre pure prospettive nuove e straordinarie di crescita non solo economica, ma sociale e culturale: può servire a una maggior comprensione tra i popoli, alla pace, allo sviluppo, alla promozione dei diritti umani. Pertanto, «la globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno» (Ivi, 526). Non va dunque sopravvalutata, quasi fosse la panacea di tutti i mali, né va demonizzata, quasi fosse l’origine di tutti i mali. Va invece orientata responsabilmente al servizio dell’uomo, allo sviluppo umano di tutti. Solo una «globalizzazione solidale» eviterà che nascano nuove schiavitù, peggiori di quelle antiche, e che i poveri vengano spogliati di ciò che hanno di più prezioso, cioè della propria cultura e della stessa libertà.
Dal punto di vista pratico – dice l’enciclica – bisognerà impegnarsi per dare un’anima solidale alla globalizzazione, facendo crescere la Fraternità. Anche su questo punto, Benedetto XVI si rifà all’affermazione di Paolo VI, secondo cui lo sviluppo, per essere veramente umano, ha bisogno di fraternità. «Il mondo è malato — si legge al n. 66 della Populorum progressio —. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli».
Benedetto XVI fa sua questa prospettiva di Paolo VI. Le gravi situazioni di sottosviluppo, denunciate da Paolo VI — commenta papa Ratzinger — sono tuttora persistenti, se non addirittura aggravate, nel mondo globalizzato; si pensi, per esempio, all’attività finanziaria utilizzata male in modo prevalentemente speculativo, ai flussi migratori abbandonati drammaticamente a se stessi, allo sfruttamento sregolato delle risorse della Terra, alla corruzione e all’illegalità (cfr n. 21). È questa la prova – afferma – che senza «carità nella verità» non si dà fraternità, né sviluppo vero, umano e integrale; è la dimostrazione che le strutture economiche e le istituzioni (di cui nessuno nega l’importanza) da sole non bastano, se manca l’attenzione alle componenti umane e umanizzanti dello sviluppo.
Qui sta appunto il limite dell’ideologia tecnocratica, oggi dilagante. Infatti – continua Benedetto XVI –, gli uomini non potranno mai, da soli, realizzare la vera fraternità: «la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli. La ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità»; il motivo è che non si può prescindere dal fatto che essa – conclude il Papa – «ha origine da una vocazione trascendente di Dio Padre, che ci ha amati per primo, insegnandoci per mezzo del Figlio che cosa sia la carità fraterna» (n. 19).

c) Sul piano politico: «reciprocità»
Sul piano politico, l’affievolimento del senso della dignità della persona, dello spirito di solidarietà e della responsabilità dei cittadini, in seguito al diffondersi del «pensiero unico» e dell’ideologia tecnocratica, ha messo in crisi la «democrazia rappresentativa», che aveva consentito all’Italia di risorgere dalle macerie materiali e morali, dopo la seconda guerra mondiale e dopo la dittatura fascista. La ragione è che la cultura libertaria dominante corrode i pilastri su cui poggia la democrazia: la dignità della persona, la solidarietà, la sussidiarietà responsabile; la persona è ridotta a individuo, la solidarietà a mero formalismo legale, la partecipazione dei cittadini è sempre più ristretta da forme di «autoritarismo democratico».
Ora, i valori su cui si fonda la democrazia non li crea lo Stato; il quale invece li trova, li tutela e li coordina in vista del bene comune, come dice l’art. 2 della nostra Costituzione («La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo»). I valori, cioè, vengono prima della libera organizzazione della società, non dipendono da maggioranze politiche provvisorie e mutevoli, ma sono iscritti nella coscienza di ogni uomo e, in quanto tali, sono punto di riferimento normativo della stessa legge civile. Sono gli stessi valori etici fondamentali, recepiti non solo dalla nostra Costituzione, ma anche dalle Carte internazionali dei diritti umani, sancite dall’ONU, e anche dall’art. 17 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), che aggiorna quello istitutivo di Roma, varato a Lisbona nel 2007 e successivamente ratificato ed entrato in vigore nel 2010, insieme con il Trattato sull’Unione Europea (TUE), che aggiorna quello di Maastricht.
Ogni qual volta si mettono in discussione l’uno o l’altro di questi valori (anche se ciò avvenisse col consenso della «maggioranza»), si intacca l’ordinamento democratico nelle sue fondamenta. C’è il pericolo che la democrazia, privata della sua anima etica, si trasformi paradossalmente in strumento di oppressione e apra la strada a forme di totalitarismo mascherato, a un’assurda «democrazia totalitaria». Di democrazia si può anche morire. Una democrazia non fondata sui valori etici si può trasformare nella forma più «illiberale» di governo. È appunto la crisi della «democrazia rappresentativa».
In particolare la cultura libertaria alimenta il «populismo», una patologia mortale della democrazia, che si sviluppa ogni qual volta la politica perde l’anima etica e l’ispirazione ideale. Il «populismo», come dice il termine stesso, consiste nel privilegiare il rapporto diretto del leader con «il popolo» e con la piazza, anziché passare attraverso le istituzioni e gli strumenti di mediazione politica, propri della democrazia rappresentativa e delle sue regole, quasi che il «popolo sovrano» possa decidere quello che gli pare e piace. Non è così. «La sovranità – recita l’art. 1 Cost. – appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione», cioè di quel patto fondamentale che il popolo sovrano ha approvato in forma solenne e duratura in un momento decisivo e drammatico della propria storia.
La «maggioranza parlamentare» non si identifica con «il popolo» tutto intero. Il Governo uscito vincitore dalle urne esprime certamente la «maggioranza» del Paese, e proprio per questo è tenuto e legittimato a governarlo. Ma dovrà rispettare e tenere conto di tutte le legittime forme di rappresentanza democratica dei cittadini, quali l’opposizione e altre realtà minoritarie le quali, nella misura e nel modo che a esse compete, sono responsabili del bene comune non meno della maggioranza, secondo regole uguali per tutti.
Il «populismo» invece nega nei fatti questo principio fondamentale della democrazia rappresentativa: trasforma il Parlamento in mera cassa di risonanza delle decisioni dell’Esecutivo, attraverso l’uso indiscriminato del voto di fiducia; sottovaluta le varie forme di rappresentanza democratica della società (a cominciare dai sindacati), ritenendole portatrici «solo» di interessi particolari o corporativi; scorge nel bilanciamento dei poteri (che è lo strumento fondamentale per il retto funzionamento del sistema democratico) e nelle istituzioni di tutela democratica (quali il Presidente della Repubblica e la Corte Costituzionale) un ostacolo, anziché una garanzia.
Dal punto di vista pratico – dice l’enciclica – bisognerà applicare il principio della «reciprocità». In un primo senso, «reciprocità» significa che le scelte politiche e le riforme vanno affrontate sul piano politico in una prospettiva interdisciplinare, collegando i vari aspetti dello sviluppo in una visione d’insieme. «Le valutazioni morali e la ricerca scientifica – ribadisce la Caritas in veritate – devono crescere insieme […] e la carità deve animarle in un tutto armonico interdisciplinare, fatto di unità e di distinzione. La dottrina sociale della Chiesa, che ha “un’importante dimensione interdisciplinare”, può svolgere, in questa prospettiva, una funzione di straordinaria efficacia» (n. 31).
Tipico è il discorso sui diritti umani, che sono tutti collegati tra loro: i diritti individuali non si possono svincolare da una visione complessiva di diritti e doveri, altrimenti la rivendicazione dei diritti diviene l’occasione per mantenere i privilegi di pochi: «i diritti presuppongono doveri senza i quali si trasformano in arbitrio» (n. 43). Per fare un esempio: per quanto riguarda il lavoro, occorre saper conciliare gli interessi dei lavoratori con quelli del capitale; occorre trovare il giusto equilibrio tra il lavoro che c’è (chi lavora) e il lavoro che non c’è (chi non lavora), tra esigenze della produzione ed esigenze dell’ambiente, tra diritti dei lavoratori e rispetto dei diritti degli utenti dei servizi, tra esigenze delle persone anziane e quelle dei giovani.
Soprattutto – insiste Benedetto XVI – è necessario che in politica si tenga sempre presente la stretta connessione ( o «reciprocità») che esiste tra etica personale ed etica sociale. Quando l’etica personale si disgiunge dall’etica sociale, si producono fenomeni di degrado come quelli che oggi affliggono la politica, la finanza e l’economia: «Lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle loro coscienze l’appello del bene comune. Sono necessarie sia la preparazione professionale sia la coerenza morale» (n. 71)
Ciò posto, la «reciprocità» ha pure un secondo senso sul quale il Papa ritorna con insistenza: un progresso integralmente umano non può prescindere dal contributo della coscienza religiosa. Su questa «reciprocità» concorda oggi anche la cultura laica. Una delle grandi scommesse dell’illuminismo era stata che la democrazia liberale si sarebbe autoalimentata autonomamente e spontaneamente, senza bisogno di apporti esterni. Ebbene questa scommessa è fallita. La democrazia – riconosce N. Bobbio – ha dimostrato di non essere in grado di sapersi alimentare spontaneamente, di non essere autosufficiente (BOBBIO N., Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1984). Anche Jürgen Habermas – riprendendo il «teorema» di Ernst-Wolfgang Böckenförde, secondo il quale lo Stato non può generare da sé le condizioni per la propria esistenza, ma ha bisogno di presupposti esterni – arriva a sostenere che c’è bisogno della religione per ricivilizzare la modernità: la religione, tradotta politicamente in linguaggio laico, può aiutare la società europea a conservare le proprie risorse morali (Cfr RATZINGER J. – HABERMAS J., Ragione e fede in dialogo, a cura di Bosetti G., Marsilio, Venezia 2005.). E si comprende. Infatti, la democrazia è uno strumento, un metodo; non può essere autosufficiente, non ha in sé le radici con cui alimentarsi. Pertanto, il problema più urgente per uscire dalla crisi presente è aiutare la democrazia a ritrovare la sua fondazione etica, la quale sua volta – come già spiegava B. Croce, il patriarca della cultura liberale,– poggia necessariamente sul senso religioso (Cfr CROCE B., Cultura e vita morale, cap. XXII: Fede e programmi, Laterza, Bari 1955, 161.166).
Emblematica, in proposito, è la consonanza di Nicolas Sarkozy, il presidente della Francia laicista: «È legittimo per la democrazia e rispettoso della laicità – ha detto ricevendo il Papa a Parigi nel settembre 2008 – dialogare con le religioni. Queste, e in particolare la religione cristiana, con la quale condividiamo una lunga storia, sono patrimonio di riflessione e di pensiero, non solo su Dio, ma anche sull’uomo, sulla società e persino su quella preoccupazione, oggi centrale, che è la natura e la tutela dell’ambiente. Sarebbe una follia privarcene, sarebbe semplicemente un errore contro la natura e contro il pensiero. È per questo che faccio appello ancora una volta a una laicità positiva. Una laicità che rispetti, una laicità che riunisca, una laicità che dialoghi. E non una laicità che escluda e che denunci. In questa epoca in cui il dubbio e il ripiegamento su se stessi pongono le nostre democrazie davanti alla sfida di rispondere ai problemi del nostro tempo, la laicità positiva offre alle nostre coscienze la possibilità di scambiare opinioni, al di là delle credenze e dei riti, sul senso che noi vogliamo dare alla nostra esistenza. La ricerca di senso».
L’enciclica Caritas in veritate insiste molto sul rapporto di «reciprocità» tra religione e progresso dell’umanità. Come fare in pratica? La risposta sta nel dialogo fecondo e nella proficua collaborazione tra la ragione e la fede religiosa: «La ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede, e questo vale anche per la ragione politica, che non deve credersi onnipotente. A sua volta, la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico volto umano. La rottura di questo dialogo comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo dell’umanità» (n. 56).
Concludendo, «la Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire e non pretende “minimamente d’intromettersi nella politica degli Stati”. Ha però una missione di verità da compiere, in ogni tempo ed evenienza, per una società a misura dell’uomo, della sua dignità, della sua vocazione» (n. 9). Il contributo specifico della Chiesa allo sviluppo umano integrale consiste nel promuovere un umanesimo trascendente, che eviti all’umanità globalizzata
di cadere in «una visione empiristica e scettica della vita, incapace di elevarsi sulla prassi» (ivi).

martedì 9 marzo 2010

14 MARZO 2010 DOMENICA DEL CIECO - IV di Quaresima

14 MARZO 2010 DOMENICA DEL CIECO - IV di Quaresima

PROGRAMMA QUARESIMALE IN TRE PICCOLE MOSSE PIU’ UNA

1. CHE COSA HAI FATTO PER I POVERI FINO A IERI?
2. CHE COSA HAI FATTTO OGGI PER I POVERI?
3. CHE COSA PENSI DI FARE PER I POVERI DOMANI?

3+1. SE NON HAI PASSATO IL TEST PROVA A PREGARE.

ECCOTI ORA LETTURE E COMMENTO



LETTURA
Lettura del libro dell’Esodo 17, 1-11

In quei giorni. Tutta la comunità degli Israeliti levò le tende dal deserto di Sin, camminando di tappa in tappa, secondo l’ordine del Signore, e si accampò a Refidìm. Ma non c’era acqua da bere per il popolo. Il popolo protestò contro Mosè: «Dateci acqua da bere!». Mosè disse loro: «Perché protestate con me? Perché mettete alla prova il Signore?». In quel luogo il popolo soffriva la sete per mancanza di acqua; il popolo mormorò contro Mosè e disse: «Perché ci hai fatto salire dall’Egitto per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?». Allora Mosè gridò al Signore, dicendo: «Che cosa farò io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno!». Il Signore disse a Mosè: «Passa davanti al popolo e prendi con te alcuni anziani d’Israele. Prendi in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo, e va’! Ecco, io starò davanti a te là sulla roccia, sull’Oreb; tu batterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà». Mosè fece così, sotto gli occhi degli anziani d’Israele. E chiamò quel luogo Massa e Merìba, a causa della protesta degli Israeliti e perché misero alla prova il Signore, dicendo: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?». Amalèk venne a combattere contro Israele a Refidìm. Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalèk. Domani io starò ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio». Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalèk, mentre Mosè, Aronne e Cur salirono sulla cima del colle. Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk.

SALMO
Sal 35 (36)

® Signore, nella tua luce vediamo la luce.
Signore, il tuo amore è nel cielo,
la tua fedeltà fino alle nubi,
la tua giustizia è come le più alte montagne,
il tuo giudizio come l’abisso profondo:
uomini e bestie tu salvi, Signore. ®

Quanto è prezioso il tuo amore, o Dio!
Si rifugiano gli uomini all’ombra delle tue ali,
si saziano dell’abbondanza della tua casa:
tu li disseti al torrente delle tue delizie. ®

È in te la sorgente della vita,
alla tua luce vediamo la luce.
Riversa il tuo amore su chi ti riconosce,
la tua giustizia sui retti di cuore. ®

EPISTOLA
Prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicesi 5, 1-11

Riguardo ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte. E quando la gente dirà: «C’è pace e sicurezza!», allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta; e non potranno sfuggire. Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri. Quelli che dormono, infatti, dormono di notte; e quelli che si ubriacano, di notte si ubriacano. Noi invece, che apparteniamo al giorno, siamo sobri, vestiti con la corazza della fede e della carità, e avendo come elmo la speranza della salvezza. Dio infatti non ci ha destinati alla sua ira, ma ad ottenere la salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Egli è morto per noi perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui. Perciò confortatevi a vicenda e siate di aiuto gli uni agli altri, come già fate.

VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Giovanni 9, 1-38b

In quel tempo. Passando, il Signore Gesù vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo». Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe» – che significa Inviato. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». Egli rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so». Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!». Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!». Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori. Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!».

«Sono luce del mondo», risponde Gesù ai discepoli che gli chiedono perché l'uomo che hanno davanti è cieco, dalla nascita. Di notte nessuno ci vede; siamo tutti ciechi. Quando però viene la luce, c'è chi chiude gli occhi e resta nelle tenebre, c'è chi li apre ed è illuminato.

Nel prologo si dice che la Parola, vita di tutto ciò che esiste, è luce degli uomini (1,4). Gesù, Parola diventata carne, Figlio dell'uomo e Figlio di Dio, si è rivelato nei cc. 5-8 come vita; ora, nel c. 9, si manifesta come luce.

Vita e luce sono intimamente connesse: venire alla luce significa nascere. Inoltre ogni realtà è conosciuta e utile per l'uomo quando viene alla luce della sua intelligenza. Infine l'amore dà una luce particolare al cuore, che fa vedere con occhi nuovi. La luce è principio di tutto: fa esistere e conoscere, godere e amare. Il contrario della luce è la tenebra e la notte, la cecità e l'inganno, la tristezza e l'odio: la morte.

In questo capitolo si presenta l'itinerario battesimale: è un cammino di illuminazione che ci fa uomini nuovi, nati dall'alto (3,3), da quell'acqua che è lo Spirito (3,5). I battezzati sono chiamati «illuminati» (cf. Eb 6,4; 10,32); un antico inno battesimale dice: «Svegliati, o tu che dormi, destati dai morti e Cristo ti illuminerà» (Ef 5,14).

Si dice spesso che la fede è cieca, confondendola con l'irrazionalità della creduloneria, equamente diffusa tra chi crede di credere e chi crede di non credere. La fede cristiana è essenzialmente un «vedere». Non si tratta di avere visioni singolari o strane: si tratta semplicemente di aprire gli occhi sulla realtà. L'uomo infatti è cieco dalla nascita: i suoi occhi, più che finestre sull'altro, sono specchi che riflettono i suoi fantasmi, scambiati per verità. Il buio e la paura gli hanno chiuso gli occhi e gli fanno proiettare sulle palpebre i suoi timori. Solo la luce dell'amore gli permette di aprire gli occhi e vedere ciò che c'è.

Il testo inizia con un cieco che vede e termina con dei presunti vedenti che restano ciechi. In mezzo c'è il processo di illuminazione dell'ex cieco. La conoscenza che egli ha di Gesù come «quell'uomo» (v. 11), diventa sempre più chiara e profonda: è un profeta (v. 17), è da Dio (v. 33), è il Figlio dell'uomo, è il Signore che vede e adora (vv. 35-38). Dall'iniziale «non so dove sia» (cf. v. 12), giunge ad accoglierlo come quello che parla con lui (v. 37).

Le resistenze che l'ex cieco incontra - sono fuori o dentro di lui? - lo portano a scoprire la sua identità: diventa una persona libera di pensare senza pregiudizi, indipendente dalle pressioni altrui e capace di contraddire chi nega la realtà. È un uomo nuovo, che torna a rispecchiare il Volto di cui e immagine: è «io sono» (v. 9), che sta davanti a «Io-Sono»!

Nel racconto noi siamo come i vari personaggi. O ci identifichiamo con il cieco, per fare la sua stessa esperienza di luce, o siamo tra quelli che vogliono restare ciechi, perché presumono di non esserlo (v. 41).

Dopo questo segno, le cui implicazioni sono sviluppate nel c. 10, segue nel c. 11 la risurrezione di Lazzaro, espressamente collegata alla guarigione del cieco (11,37). «Vedere» infatti è rinascere a vita nuova.

La Parola, luce e vita di tutto, testimonia di se stessa semplicemente mostrando ciò che è in ciò che fa: comunica se stessa illuminando e facendo vedere ogni realtà nella sua differenza. La sua venuta provoca una crisi, con un duplice esito: c'è chi l'accoglie e chi la rifiuta. Questo è il giudizio, di vita o di morte, che l'uomo compie su se stesso. Il testo evangelico ci pone davanti agli occhi questo processo perché lo conosciamo e, liberati dall'inganno, possiamo giungere alla verità che ci fa vivere.

L'ostilità incontrata dal cieco illuminato è la medesima che ha dovuto sostenere Gesù da parte dei suoi contemporanei. È la stessa che deve sostenere la Chiesa di Giovanni da parte del suo ambiente e ogni credente da parte del mondo. Il Vangelo è eterno e racconta una storia sempre attuale: in ogni tempo c'è un cieco che viene alla luce e mostra ai presunti vedenti che sono ciechi, perché aprano gli occhi sulla loro situazione. La luce fa breccia nelle tenebre di una persona concreta: gli altri sono chiamati a fare la stessa esperienza, superando le proprie resistenze uguali a quelle che emergono nel racconto.

Le parole ricorrenti danno continuità alla narrazione e ne offrono la chiave di lettura: cieco (13 volte), aprire gli occhi (7 volte), vedere (8 volte), vedere di nuovo (4 volte), lavarsi (5 volte), fango (5 volte), generare (5 volte), genitori (6 volte), conoscere (11 volte), peccare (2 volte su un totale di 4 in Giovanni), peccatore (4 volte, solo qui in Giovanni), come (6 volte), dove (2 volte), chi e che cosa (6 volte). Inoltre, ci sono vocaboli unici oppure rari in Giovanni: nascita, sputare, sputo, fango, ungere, timorato di Dio, straordinario, mendicare, essere espulsi dalla sinagoga, adorare e confessare. Questi termini illustrano cos'è il battesimo, come avviene e cosa comporta.

Dal punto di vista formale il racconto, introdotto da un dibattito sul peccato (v. 2s) ripreso più avanti (v. 25s), è ben congegnato: al segno (vv. 1-7) segue prima l'interrogatorio del cieco da parte della folla (vv. 8-12) e da parte dei farisei (vv. 13-17), poi quello dei suoi genitori da parte dei giudei (vv. 18-23) ed infine quello del cieco da parte dei giudei (vv. 24-34). Il tutto si conclude, come all'inizio, con un incontro con Gesù (vv. 35-38) e un giudizio: la luce del mondo è venuta a dare la vista ai cíechi e a convincere di cecità chi crede di vedere (vv. 39-41).

C'è una «lotta continua» nell'uomo, sia per chi viene alla luce sia per chi resta nelle tenebre. Chi viene alla luce deve sostenere l'opposizione delle tenebre; chi resta nelle tenebre avverte il dilagare della luce, che non riesce ad arrestare. È una lotta interiore a ciascuno di noi: «La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste» (Gal 5,17). Infatti quando vogliamo il bene, sentiamo le resistenze del male; quando facciamo il male, sentiamo il rimorso della coscienza, perché siamo fatti per il bene. È il dramma dell'uomo, in cui si compie il faticoso passaggio dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita. Oggi, come allora, le «tenebre» sono da individuare in quel sistema di «omologazioni» che ci impedisce di vivere la libertà di essere noi stessi.

Gesù è luce del mondo: ci fa venire alla luce della nostra verità, che è la sua stessa di Figlio.

La Chiesa si riconosce nel cieco e nel suo lento cammino battesimale, che la illumina e la porta a vedere e seguire il pastore della vita.


A tutti buona continuazione del cammino quaresimale

Don Michele

RITO ROMANO
IV Domenica di Quaresima - Laetare (Anno C)
Prima Lettura
Gs 5,9.10-12
Dal libro di Giosuè
In quei giorni, il Signore disse a Giosuè: “Oggi ho allontanato da voi l'infamia d'Egitto”.
Gli Israeliti si accamparono a Galgala e celebrarono la Pasqua al quattordici del mese, alla sera, nella steppa di Gerico.
Il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della regione, azzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno.
La manna cessò il giorno seguente come essi ebbero mangiato i prodotti della terra, e non ci fu più manna per gli Israeliti; in quell'anno mangiarono i frutti della terra di Canaan.
Salmo responsoriale (Sal 33)
Il Signore è vicino a chi lo cerca.
Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore,
ascoltino gli umili e si rallegrino.

Celebrate con me il Signore,
esaltiamo insieme il suo nome.
Ho cercato il Signore e mi ha risposto
e da ogni timore mi ha liberato.

Guardate a lui e sarete raggianti,
non saranno confusi i vostri volti.
Questo povero grida e il Signore lo ascolta,
lo libera da tutte le sue angosce.
Seconda Lettura
2Cor 5,17-21
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove.
Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione.
Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio.
Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio.
Acclamazione al Vangelo
(Lc 15,18)
Gloria e lode a te, o Cristo!
Mi alzerò e andrò da mio padre e gli dirò:
Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te!
Gloria e lode a te, o Cristo!
Vangelo: Lc 15,1-3.11-32
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: “Costui riceve i peccatori e mangia con loro”.
Allora egli disse loro questa parabola: “Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Partì e si incamminò verso suo padre.
Quando era ancora lontano, il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l'anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: È tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. Egli si indignò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.
COMMENTO DI P. RANIERO CANTALAMESSA

Il vangelo della IV domenica di Quaresima è una delle pagine più celebri del vangelo di Luca e di tutti e quattro i vangeli: la parabola del figliol prodigo. Tutto, in questa parabola, è sorprendente; mai Dio era stato dipinto agli uomini con questi tratti. Ha toccato più cuori questa parabola da sola che tutti i discorsi dei predicatori messi insieme. Essa ha un potere incredibile di agire sulla mente, sul cuore, sulla fantasia, sulla memoria. Sa toccare le corde più diverse: il rimpianto, la vergogna, la nostalgia.

La parabola è introdotta con queste parole: "Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: Costui riceve i peccatori e mangia con loro". Allora egli disse loro questa parabola..." (Lc 15, 1-2). Seguendo questa indicazione, vogliamo riflettere sull'atteggiamento di Gesù verso i peccatori, spaziando su tutto il vangelo, mossi dallo scopo che ci siamo prefissi in questo commento ai vangeli della Quaresima, di conoscere meglio chi era Gesù, cosa sappiamo storicamente di lui.

È nota l'accoglienza che Gesù riserva ai peccatori nel vangelo e l'opposizione che essa gli procurò da parte dei difensori della legge che lo accusavano di essere "un mangione e beone, amico di pubblicani e peccatori" (Lc 7, 34). Uno dei detti storicamente meglio attestati di Gesù suona: "Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori" (Mc 2, 17). Sentendosi da lui accolti e non giudicati, i peccatori lo ascoltavano volentieri.

Ma chi erano i peccatori, quale categoria di persone veniva designata con questo termine? Qualcuno, nell'intento di scagionare del tutto gli avversari di Gesù, i farisei, ha sostenuto che con questo termine si intendono "i trasgressori deliberati e impenitenti della legge", in altre parole i criminali, i fuori legge. Se fosse così, gli avversari di Gesù avevano tutta la ragione di scandalizzarsi e di ritenerlo persona irresponsabile e socialmente pericolosa. Sarebbe come se oggi un sacerdote frequentasse abitualmente mafiosi e criminali e accettasse i loro inviti a pranzo, con il pretesto di parlare loro di Dio.

In realtà le cose non stanno così. I farisei avevano una loro visione della legge e di ciò che è conforme o contrario ad essa e consideravano reprobi tutti quelli che non si conformavano alla loro rigida interpretazione della legge. Peccatori, insomma, erano per loro tutti quelli che non seguivano le loro tradizioni e i loro dettami. Seguendo la stessa logica, gli Esseni di Qumran consideravano ingiusti e violatori della legge i farisei stessi! Succede anche oggi. Certi gruppi ultraortodossi considerano automaticamente eretici tutti quelli che non la pensano esattamente come loro.

Un eminente studioso scrive a questo riguardo: "Non è vero che Gesù aprisse le porte del regno a criminali incalliti e impenitenti, o negasse l'esistenza di 'peccatori'. Gesù si oppose agli steccati che venivano eretti nel corpo d'Israele, per i quali alcuni israeliti venivano trattati come se fossero fuori del patto e esclusi dalla grazia di Dio" (James Dunn).

Gesù non nega che esista il peccato e che esistano i peccatori. Il fatto di chiamarli "malati" lo dimostra. Su questo punto egli è più rigoroso dei suoi avversari. Se questi condannano l'adulterio di fatto, egli condanna anche l'adulterio di desiderio; se la legge diceva di non uccidere, lui dice che non si deve neppure odiare o insultare il fratello. Ai peccatori che si avvicinano a lui, egli dice: "Va' e non peccare più"; non dice: "Va' e continua come prima".

Quello che Gesù condanna è di stabilire per conto proprio qual è la vera giustizia e disprezzare gli altri, negando loro perfino la possibilità di cambiare. È significativo il modo in cui Luca introduce la parabola del fariseo e del pubblicano: "Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri" (Lc 18,9). Gesù era più severo verso coloro che, sprezzanti, condannavano i peccatori, che verso i peccatori stessi.

Ma il fatto più nuovo e inaudito nel rapporto tra Gesù e i peccatori non è la sua bontà e misericordia verso di loro. Questo si può spiegare umanamente. C'è, nel suo atteggiamento, qualcosa che non si può spiegare umanamente, cioè ritenendo che Gesù fosse un uomo come gli altri, ed è il fatto di rimettere i peccati.

Gesù dice al paralitico: "Figliolo, i tuoi peccati ti sono perdonati". "Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?", gridano inorriditi i suoi avversari. E Gesù: "Affinché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere di rimettere i peccati, Alzati, disse al paralitico, prendi il tuo lettuccio e va' a casa tua". Nessuno poteva verificare se i peccati di quell'uomo erano stati rimessi o no, ma tutti potevano costatare che si alzava e camminava. Il miracolo visibile attestava quello invisibile.

Anche l'esame dei rapporti di Gesù con i peccatori, contribuisce dunque a dare una risposta alla domanda: Chi era Gesù? Un uomo come gli altri, un profeta, o qualcosa di più e di diverso? Durante la sua vita terrena Gesù non affermò mai esplicitamente di essere Dio (e abbiamo spiegato in precedenza anche perché), ma agì attribuendosi poteri che sono esclusivi di Dio.

Torniamo adesso al vangelo di domani e alla parabola del figliol prodigo. C'è un l'elemento comune che unisce tra loro le tre parabole della pecorella smarrita, della dramma perduta e del figliol prodigo narrate una di seguito all'altra nel capitolo 15 di Luca. Cosa dice il pastore che ha ritrovato la pecorella smarrita e la donna che ha ritrovato la sua dramma? "Rallegratevi con me!". E cosa dice Gesù a conclusione di ognuna delle tre parabole? "Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione".

Il leitmotiv delle tre parabole è dunque la gioia di Dio. (C'è gioia "davanti agli angeli di Dio", è un modo tutto ebraico di dire che c'è gioia "in Dio"). Nella nostra parabola, la gioia straripa e diventa festa. Quel padre non sta più nella pelle e non sa cosa inventare: ordina di tirare fuori il vestito di lusso, l'anello con il sigillo di famiglia, di uccidere il vitello grasso, e dice a tutti: "Mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato".

In un suo romanzo, Dostoevskij descrive un quadretto che ha tutta l'aria di una scena osservata dal vero. Una donna del popolo tiene in braccio il suo bambino di poche settimane, quando questi - per la prima volta, a detta di lei- le sorride. Tutta compunta, ella si fa il segno della croce e a chi le chiede il perché di quel gesto risponde: "Ecco, allo stesso modo che una madre è felice quando nota il primo sorriso del suo bimbo, così si rallegra Iddio ogni volta che un peccatore si mette in ginocchio e rivolge a lui una preghiera fatta con tutto il cuore" (L'Idiota, Milano 1983, p. 272). Chissà che qualcuno, ascoltando, non decida di dare finalmente a Dio un po' di questa gioia, di fargli un sorriso prima di morire...