venerdì 24 febbraio 2012

prima domenica di quaresima 26 febbraio 2012

DOMENICA ALL’INIZIO DI QUARESIMA 2012

Frase di inizio quaresima: Se ti accusassero di essere cristiano, troverebbero prove contro di te?

In questo invio ci sono molti materiali per la riflessione quaresimale. Potete anche leggerli con calma nei prossimi giorni.

Innanzitutto la testimonianza di don Luigi Serenthà, grande prete milanese, morto alcuni anni fa:

Al risveglio dopo l’operazione [asportazione di CRC] il Signore pian piano attraverso modi un po’ drastici mi ha condotto a capire cosa vuol dire fare la volontà di Dio, abbandonando ogni protagonismo, ogni possibilità di fare appello a sé e alle proprie forze, perché i primi giorni sono stati veramente duri.

La prima reazione è di avvertire che il proprio corpo è lontanissimo ed è stato malmenato e uno ha una specie di risentimento; cosa avete fatto a quel corpo, con l’anestesia, con questi tagli, con queste intubazioni da ogni parte. Dopo però uno dice: «Bene, non posso mica vivere separato dal mio corpo»; non può pensare, non può fare altre cose, se non al fin fine accettare di essere se stesso secondo il proprio corpo, accettare la propria corporeità è l’unico gesto antropologico che è veramente possibile; decidere di stare in quel corpo che è un corpo che ha una paura enorme.

Stare in quel corpo vuol dire accettare di vivere nell’angoscia. Ad ogni porta che si apriva avevo un sobbalzo per il timore che venisse ancora qualcuno a bucarmi o farmi del male; trattenevo il respiro perché respirare un po’ forte a volte voleva dire risvegliare dolori da tutte le parti, avevo paura a muovermi e la mia anima era partecipe di questa angoscia; vivevo soltanto di un sottile sentimento di angoscia.

Ma è lì che forse ho capito almeno più da vicino cosa vuol dire aver fede, con una certezza assoluta.

Il Signore ti tiene per mano e tu non sei abbandonato al nulla, ma sei nelle mani di uno e tu puoi soltanto offrire l’angoscia al Signore; non puoi offrire pensieri profondi, non puoi dargli nulla di particolarmente consistente; forse ho detto: «Signore, forse questa è la fede, è la certezza che io non posso fare più nulla, se non avere paura; tu però mi tieni per mano, tu sei con me; certezza assoluta di non essere mai separato dalle mani di Dio». Questi sono stati i pochi pensieri che riuscivo a formulare.

Forse i mistici arrivano per le vie di fede a capire che questo è il vero abbandono; questo ha anche un riverbero nella carne, ha una manifestazione di sofferenza nella carne.

Invece noi poveri peccatori, noi credenti un po’ superficiali, forse abbiamo bisogno di esse-re toccati nella carne per capire qualche cosa per abbandonarsi nella carne, nello spirito al mistero di Dio.

Devo dire che questa scoperta, pur non togliendomi per niente l’angoscia e la paura, mi dava un grande senso di pace.

Dicevo: «Signore mi hai fatto un dono eccezionale, mi hai fatto capire cosa vuol dire crede-re in te, sapere che Tu agisci in me quando io proprio non sono capace di fare alcuna azio-ne, se non avere una grande paura, avere una grande angoscia che penetra nell’anima e nel corpo».

Il cammino quaresimale è il tempo favorevole per riscoprire il dono e il perdono di Dio, ovvero il ricominciamento dell’alleanza nel segno battesimale. Si tratta di prendere coscienza della possibilità decisiva offerta da JHWH in Cristo e del «segno» che adempie in modo eccedente la nuova «alleanza» (berît). Si tratta, in altre parole, di lasciarsi con-quistare dall’evangelo del Regno. Il cambio di mentalità richiesto dall’appello di Gesù non può essere un’operazione di superficiale maquillage; va alle radici della libertà.

Nella veglia pasquale, l’annuncio della risurrezione di Gesù dovrà trovarci cambiati, per aver vissuto con la pienezza dello Spirito il tempo favorevole accordatoci da Dio, essere stati conquistati dall’utopia del suo Regno, aver cambiato mentalità e aver cre-duto all’Evangelo.

* * * * * *

Ora un piccolo decalogo, mandatomi da un amico; un altro amico argutamente ha fatto osservare che manca l’astensione dal cibo materiale, perché a quello ci pensa il governo!

il digiuno gradito a Dio.JPG

LETTURA
Lettura del profeta Isaia 57, 15 - 58, 4a


In quei giorni. / Isaia disse: «Così parla l’Alto e l’Eccelso, / che ha una sede eterna e il cui nome è santo. / “In un luogo eccelso e santo io dimoro, / ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati, / per ravvivare lo spirito degli umili / e rianimare il cuore degli oppressi. / Poiché io non voglio contendere sempre / né per sempre essere adirato; / altrimenti davanti a me verrebbe meno / lo spirito e il soffio vitale che ho creato. / Per l’iniquità della sua avarizia mi sono adirato, / l’ho percosso, mi sono nascosto e sdegnato; / eppure egli, voltandosi, / se n’è andato per le strade del suo cuore. / Ho visto le sue vie, / ma voglio sanarlo, guidarlo e offrirgli consolazioni. / E ai suoi afflitti / io pongo sulle labbra: ‘Pace, / pace ai lontani e ai vicini / – dice il Signore – e io li guarirò’”. / I malvagi sono come un mare agitato, / che non può calmarsi / e le cui acque portano su melma e fango. / “Non c’è pace per i malvagi”, dice il mio Dio. / Grida a squarciagola, non avere riguardo; / alza la voce come il corno, / dichiara al mio popolo i suoi delitti, / alla casa di Giacobbe i suoi peccati. / Mi cercano ogni giorno, / bramano di conoscere le mie vie, / come un popolo che pratichi la giustizia / e non abbia abbandonato il diritto del suo Dio; / mi chiedono giudizi giusti, / bramano la vicinanza di Dio: / “Perché digiunare, se tu non lo vedi, / mortificarci, se tu non lo sai?”. / Ecco, nel giorno del vostro digiuno curate i vostri affari, / angariate tutti i vostri operai. / Ecco, voi digiunate fra litigi e alterchi».


SALMO
Sal 50 (51)

® Pietà di me, o Dio, nel tuo amore.

Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro. ®



Sì, le mie iniquità io le riconosco,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto. ®



Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo,
nel segreto del cuore mi insegni la sapienza.
Distogli lo sguardo dai miei peccati,
cancella tutte le mie colpe. ®



EPISTOLA

Seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 4, 16b - 5, 9


Fratelli, se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria: noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne.
Sappiamo infatti che, quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli. Perciò, in questa condizione, noi gemiamo e desideriamo rivestirci della nostra abitazione celeste purché siamo trovati vestiti, non nudi. In realtà quanti siamo in questa tenda sospiriamo come sotto un peso, perché non vogliamo essere spogliati ma rivestiti, affinché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita. E chi ci ha fatti proprio per questo è Dio, che ci ha dato la caparra dello Spirito.
Dunque, sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo – camminiamo infatti nella fede e non nella visione –, siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore. Perciò, sia abitando nel corpo sia andando in esilio, ci sforziamo di essere a lui graditi.

VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Matteo 4, 1-11

In quel tempo. Il Signore Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: / “Non di solo pane vivrà l’uomo, / ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”».
Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: / “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo / ed essi ti porteranno sulle loro mani / perché il tuo piede non inciampi in una pietra”».
Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: / “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”».
Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: «Vattene, Satana! Sta scritto infatti: / “Il Signore, Dio tuo, adorerai: / a lui solo renderai culto”».
Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.

Commento

La struttura dell’episodio è scandita dalle tre richieste del tentatore e dalle rispettive risposte di Gesù (vv. 3-4. 5-7. 8-10). Esse sono incluse tra una breve introduzione (vv. 1-2) e una ancora più sintetica conclusione, a modo di cornice dei tre dialoghi.

vv. 1-2: L’ambientazione nel deserto è fondamentale per comprendere quanto avviene in seguito. Gesù risponde al tentatore con tre “parole” tratte dal Deuteronomio e pre-cisamente dal momento in cui il quinto libro della Tôrâ parla del cammino di Israele nel deserto (Dt 6-8). Lo ha sottolineato correttamente padre J. Dupont:

L’influenza di Deut. 6-8 non si limita alle citazioni esplicite. Possiamo dire che è là che dobbiamo cercare il tema fondamentale del racconto, la chiave che dà il significato all’episodio. Ma anche altri testi biblici hanno ugualmente dato il loro apporto; bisognerà precisare il posto che spetta loro. C’è innanzitutto la citazione del salmo 91 fatta dal demonio, come pure alcune allusioni o reminiscenze che non si possono trascurare. […] Le quattro citazioni esplicite sono fatte sulla Bibbia greca. Nella forma in cui noi lo possedia-mo, il racconto ci giunge da parte di uomini che leggono la Bibbia in greco e non in ebrai-co. DUPONT, Le tentazioni, pp. 12-13.

Anche i «quaranta giorni e quaranta notti» richiamano l’esperienza di Mosè chiama-to da JHWH sul monte per ricevere la Tôrâ (Es 24,18; 34,28; già ripresi anche da Elia in 1 Re 19,8). Tutta la simbologia esodica è fortemente presente in questo racconto, fa-cendo eco ad altre riletture neotestamentarie. L’espressione ἀνήχθη εἰς τὴν ἔρημον ὑπὸ τοῦ πνεύματος «fu condotto nel deserto dallo Spirito» richiama infatti la riscrittura del deserto rielaborata in Rm 8. Qui Paolo rilegge il triplice movimento esodico applican-dolo all’esperienza del credente alla maniera di Gesù: essere fatti uscire dalla condizio-ne di peccato e morte, per essere condotti dallo Spirito ed essere introdotti nella gloria della piena salvezza (il soggetto è sempre Dio o lo Spirito). Anche questo rimando aiu-ta il lettore a leggere unitariamente il deserto di Israele e di Mosè., il deserto di Gesù e il deserto necessario per la vita del credente.

vv. 3-4: La prima tentazione che segue il digiuno di Gesù parte dal cibo. La provoca-zione del tentatore è di utilizzare la condizione di Figlio di Dio per soddisfare senza problemi la fame. È la tentazione di utilizzare le qualità o le realtà che uno possiede per il proprio tornaconto, invece che metterle a servizio del piano di Dio che è la soli-darietà fra gli uomini. Potremmo dire che è la tentazione di un ateismo pratico. Nel piano di Dio (cf il segno della condivisione dei pani e dei pesci in tutti e quattro i van-geli: Mc 6,34-44; 8,1-9 e paralleli) il cibo necessario per vivere e sostenerci nel cammi-no non si ottiene con prodigi spettacolari, ma attraverso la condivisione ispirata dall’amore. Come dimostra l’intera vita di Gesù, il pane che porta l’uomo alla sua pie-nezza non è il pane che si riceve, ma il «pane» che si dà, cioè il dono di sé agli altri (cf l’ultima cena).Cf J. MATEOS - F. CAMACHO, L'alternativa Gesù e la sua proposta per l'uomo (Orizzonti Biblici), Citta-della Editrice, Assisi 1989, p. 56-57.

vv. 5-7: La seconda tentazione, secondo l’ordine di Matteo, porta in sé la proposta di un dio alienante, che vorrebbe mantenere infantile l’uomo. È il tentatore questa volta a citare la Scrittura (Sal 91,11-12), ma ciò dimostra solo che essa non deve essere inter-pretata alla lettera o con frasi estrapolate dal contesto, perché alla fine può essere uti-lizzata persino per sostenere posizioni diaboliche. La tentazione è un invito a un quieti-smo e a un provvidenzialismo estremo, che porta a rinunciare alle proprie responsabilità: questo esito non può che accompagnarsi al fanatismo religioso e all’annullamento dell’umano. Un dio così impedirebbe ogni libertà.

Gesù invece ha sempre vinto questa tentazione espressa da coloro che gli chiedeva-no segni prodigiosi (cf Mc 8,11-13; Mt 12,38-40; 16,1-4; Lc 8,14-21) sino all’estremo momento della croce quando gli astanti, deridendolo, gli chiesero di scendere dalla croce come condizione per credere in lui (Mc 15,29-32 e paralleli).

vv. 8-10: Infine, la terza tentazione di Matteo è quella più radicale; è l’idolatria che rimpiazza l’adesione al Dio vivo e vero. Come scriveva Simone Weil, «fra due uomini che non hanno l’esperienza di Dio, colui che lo nega gli è forse più vicino. Il falso Id-dio che somiglia in tutto al vero – eccettuata l’impossibilità di toccarlo – impedisce per sempre di accedere al vero». S. WEIL, L’ombra e la grazia, Introduzione di G. HOURDIN, Traduzione di F. FORTINI (Testi di Spiri-tualità), Rusconi Editore, Milano 1985: 122.

Il potere si sostituisce all’onnipotenza divina, ma questa non si manifesta nel togliere di mezzo la croce, bensì nel vincerla. Satana si identifica in tutti coloro che pensano di salvare il mondo attraverso azioni di forza e potenza, come Pietro che rifiuta la scelta tracciata da Gesù, subito dopo averlo riconosciuto come Messia (cf Mt 16,22-23).

È la tentazione più allettante, perché le strutture di potere ottundono la mente, ieri come oggi; hanno sempre gli stessi meccanismi e chi si lascia trascinare da questa logi-ca alla fine giunge a perdere il senso stesso dell’essere uomini. La «signoria di Dio» è tutt’altra faccenda.

Ogni potere che opprime l’uomo annullando o in qualche modo riducendo la sua libertà è nemico dell’umano e quindi anche dell’autentico divino. Mi torna alla mente la celebre pagina di Dostoevskij ne I fratelli Karamazov:

«No, tu non ha il diritto di aggiungere niente a quello che hai detto un tempo. E ciò sareb-be come togliere agli uomini la libertà che difendevi tanto sulla terra. [...] Non hai detto spesso “voglio rendervi liberi”? Ebbene, li hai visti, questi uomini “liberi”.[...] Sì, ci è co-stato caro [...] ma abbiamo infine compiuto quell'opera in tuo nome. Ci sono occorsi 15 se-coli di dura fatica per instaurare la libertà; ma ormai è cosa fatta e solida. Non lo credi che sia ben solida? Mi guardi con dolcezza; e non ti degni neppure di indignarti? Ma sappi che mai gli uomini si sono creduti tanto liberi come ora, e tuttavia la loro libertà essi l’hanno umilmente posta ai nostri piedi. Ciò è opera nostra, a dir la verità; e la libertà che tu sogna-vi? [...] Perché solo ora, per la prima volta (parla, s’intende, dell’inquisizione) è diventato possibile pensare alla felicità degli uomini. L’uomo è naturalmente un ribelle; forse che i ribelli possono essere felici? Tu eri stato avvertito, di avvertimenti ne hai avuti tanti, ma non ne hai tenuto conto. Hai respinto l’unico mezzo che permette agli uomini di diventare felici. Per fortuna, andandotene, ci hai trasmesso la tua opera; hai promesso, hai solenne-mente confermato con le tue parole, ci hai dato il diritto di legare e di sciogliere. E non puoi, ora, pensare di ritoglierci quel diritto. Perché dunque sei venuto a disturbarci? ».

F.M. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, 2 volumi, a cura di E. BAZZARELLI (I Grandi Scrittori Stra-nieri 293-294), UTET, Torino 1969, vol. I, pp. 353-354.

Gesù risponde al tentatore con la stessa forza con cui respinge l’opposizione ami-chevole di Pietro di salvaguardargli una fine ingloriosa. Mai Gesù si è lasciato inganna-re da questa tentazione idolatrica e in ogni modo ha esortato i suoi discepoli a vincere ogni logica di dominio sugli altri (cf Mt 18).

Alla fine l’esteriorità più satanica: adorare il maligno, che vuol dire essere appagati per quanto facciamo, la sicurezza umana al posto della grazia che è dono di Dio. Gesù procla-ma invece l’assoluta e indiscussa unicità dell’adorazione: solo a Dio, e del servizio a lui solo. Solo a Dio, mentre verso tutti gli altri si presta il nostro umile servizio di carità. B. CALATI, Conoscere il cuore di Dio. Omelie per l’anno liturgico, EDB, Bologna 2001, p. 43.

Le risposte di Gesù non sono soltanto la sintesi delle scelte fondamentali della sua esistenza, giungendo sino all’estremo della croce, ma sono anche l’indicazione delle ca-ratteristiche che dovranno essere proprie dei suoi discepoli e permettere a tutti di rico-noscerli: a) la fedeltà a Dio, intesa come solidarietà e dedizione verso gli uomini; b) la responsabilità personale e la fatica della libertà in un servizio mai terminato; c) il rifiuto di ogni bramosia di potere, quel potere insaziabile che finisce per sostituire il vero Dio con un idolo fatuo.

Le tre citazioni di Deuteronomio (8,3; 6,16; 6,13), presenti nelle risposte di Gesù al tentatore, sono una ripresa della spiritualità dell’esodo e dei segni che hanno accompagnato il cammino del popolo nel deserto: la manna, l’acqua dalla roccia e l’ingresso in Canaan, con la scelta per il vero Dio (è proprio l’ordine seguito da Matteo).


PER LA NOSTRA VITA:

1. Sin dal primo istante della sua vita, a un livello interiore che noi possiamo solo intuire da molto lontano, Gesù era in situazione d’invocazione di suo Padre con un’intensità unica. In questa prospettiva, la questione che ogni tanto viene sollevata in teologia, “Gesù sapeva di essere Dio?”, perde ogni pertinenza. Sullo sfondo delle sue decisioni e dei suoi atti, prima di ogni coscienza di sé esplicita e di ogni sapere teorico, c’è in Gesù un riferimento al Padre, una sorta di estroversione fondamentale, che cer-co di esprimere qui con la formula di “invocazione permanente”. Il resto della sua vita, […] dovette essere penetrato da questa esperienza del Padre, vale a dire anche dell’a-scolto permanente di colui che dice: “Tu sei il mio Figlio”. Un’esperienza pura di filia-zione di questo genere avrà evidentemente svolto un ruolo, essenziale così come nasco-sto anche a colui che la viveva, nel discernimento compiuto sui passi da fare, sulle de-cisioni da prendere, e le parole da dire, come pure sui momenti da accettare e da sof-frire. Spontaneamente, tutto ciò è vissuto come “le cose del Padre mio”. G. LAFONT, Che cosa possiamo sperare, Traduzione dal francese di D. GIANOTTI (Nuovi Saggi Teolo-gici 89), EDB, Bologna 2011, p. 213.

2. Rinunciare a fidarsi di Dio?

La parola delle tentazioni suscita in noi disagio. Ne possiamo avere una percezione riduttiva, anche se il vangelo ci conduce subito con forza a cogliere la decisività della prova tra due forze in conflitto: lo Spirito, che conduce Gesù nel deserto per essere ten-tato appunto dal diavolo.

Il dissidio tra la volontà del Padre, richiamata da Gesù attraverso la Scrittura, e la seduzione del maligno, messo in opera nel campo aperto del deserto, ha come conte-nuto l’autosufficienza, il potere e la gloria del mondo, fino all’estrema provocazione di mettere le mani “su Dio”.

Incontriamo e contempliamo Gesù tentato

dalla necessità – “ebbe fame”

dal potere

dalla gloria del mondo.

Messo alla prova, portato in giro, trascinato, provocato alla confusione dei primati. È la prefigurazione sintetica del suo itinerario umano. Davanti a Lui la volontà del Pa-dre come unico assoluto. Fedele. La sua missione non era il potere e la gloria che pure gli uomini aspettavano da Lui, ma la fedeltà al disegno salvifico del Padre. Il prezzo dell’umiliazione, dell’ostilità umana fino alla morte. Prova nell’umanità e fedeltà alla volontà del Padre.

Il deserto è luogo della fame e della mormorazione. Nel deserto Gesù si offre come fedele. Quaranta giorni e quaranta notti, digiunando, scrive Matteo. La fame, la neces-sità e l’affidamento al Padre provvidente. Gesù non rinuncia a fidarsi del Padre di fronte alla provocazione di sfruttare la prerogativa del “figlio nel quale il Padre si com-piace”, come nel Battesimo era stato riconosciuto. Non si sottomette alla sfida dell’au-tosufficienza e del “potere del Figlio” per avere pane. Rimane fedele nell’umanità alla volontà del Padre e alla sua Parola. Nella geografia evangelica lui stesso diverrà pane per la fame di molti, rinunciando a sfamare se stesso, fino a divenire pane della vita per ogni uomo. F. CECCHETTO, Testi inediti.

3. Strumentalizzare Dio?

Il diavolo trascina Gesù fino al “pinnacolo” del tempio di Gerusalemme. Il dissidio mette alla prova Gesù il Messia e il suo diritto di verificare la forza di Dio nel proteg-gerlo. Un evento miracoloso e spettacolare, una sfida di potere. Il diavolo trascina Ge-sù dal deserto alla città di Gerusalemme, centro del potere. Tutto viene offerto come nuova tentazione; il Figlio dovrà strumentalizzare il Padre. Ma la geografica evangelica ci istruisce ancora: l’affidamento al Padre non passa per gesti spettacolari e insolenti, né provoca Dio; Gesù addirittura rinuncia a servirsi della prerogativa di Figlio, affi-dandosi passo dopo passo alla benevolenza di Dio. Si disegna qui quanto incontriamo alla fine del Vangelo: «se è veramente Figlio di Dio, scenda dalla croce». Sul Golgota il diavolo trova la parola nei passanti, nei sommi sacerdoti, negli scribi e negli anziani, che sfidano ancora il Figlio a strumentalizzare il disegno di Dio Padre. Gesù si abban-dona alla sua volontà e non chiede di essere risparmiato dalla prova. F. CECCHETTO, Testi inediti.

4. Sempre di più la vita cristiana sembra esaurirsi in un certo “modo di compor-tarsi”, in un codice di buona condotta. Sempre di più il cristianesimo si aliena in una modalità sociale adattata al metro delle esigenze umane meno degne, del conformismo, della conservazione sterile, della ristrettezza del cuore, della paura di osare, come pure al metro di un moralismo insignificante che cerca di adornare la viltà e l’assicurazione individuale con l’ornamento funereo delle convenienze sociali. Gli uomini che vera-mente hanno sete di vita, che disperatamente lottano per distinguere una qualche luce nel mistero ermetico dell’esistenza umana, cioè gli uomini ai quali primariamente e per eccellenza si rivolge il vangelo di salvezza, ebbene tutti costoro rimangono inevitabil-mente lontani dalla convenzionalità sociale razionalmente organizzata del cristianesimo stabilito. In questo clima odierno, per un gran numero di uomini, di cristiani, l’ascesi anche solo come parola è alquanto incomprensibile. Se uno parla di digiuno e di con-tinenza e di volontaria limitazione dei desideri individuali è sicuro che sarà accolto da ironia o da un’aria di condiscendenza. CH. YANNARAS, La libertà dell’ethos. Alle radici della crisi morale dell’Occidente, Traduzione di B. PETRA dalla seconda edizione greca (Etica Teologica Oggi 2), EDB, Bologna 1984, p. 115.

5. Se vi è un tempo per ogni cosa che avviene sotto il cielo, come dice l’Ecclesiaste, e una di tali cose è la nostra vita religiosa, esaminiamo se pare bene, e cerchiamo in ogni momento quali azioni siano proprie di ogni tempo. E’ certo, infatti, che per quelli che combattono, c’è un tempo per l’impassibilità e un tempo per dominare le passioni – lo dico per quelli che cominciano la lotta. C’è un tempo per le lacrime e un tempo per l’aridità del cuore, un tempo per obbedire e un tempo per comandare; un tempo per digiunare e un tempo per partecipare ai banchetti; un tempo per combattere il cor-po, nostro nemico, e un tempo per mettere a morte le passioni; un tempo per la burra-sca dell’anima e un tempo per la calma della mente; un tempo per la tristezza del cuo-re e un tempo per la gioia spirituale; […] un tempo per la preghiera incessante e un tempo per il sincero servizio. Non cerchiamo, ingannati da zelo orgoglioso, di fare prima del tempo le cose che vanno fatte a loro tempo. Non cerchiamo in inverno ciò che è dell’estate, o al tempo della semina, ciò che deve venire nel tempo della mietitura, perché c’è un tempo per seminare le fatiche e un tempo per mietere gli ineffabili doni di grazia.Citazione di G. Climaco, in Abitare i deserti dell’anima (Comunità Monastiche in Dialogo), Il Segno dei Gabrielli, San Pietro in Cariano 2009, p. 52.

6. Le tentazioni spirituali […] hanno un duplice scopo: il credente deve cadere nel peccato della superbia spirituale (“securitas”) o soccombere nel peccato della tristezza (“desperatio”). Ambedue i peccati, però, si riconducono all’unico peccato della tenta-zione di Dio.

Satana ha pertanto tentato la carne e lo Spirito di Gesù a non credere nella Parola di Dio […] Gesù perciò subisce la tentazione carnale, l’alta tentazione spirituale e infine la perfetta tentazione, e tuttavia in tutte e tre è esposto solamente l’unica tentazione con-tro la tentazione di Dio.

Neppure la tentazione di Gesù è quell’eroica lotta dell’uomo contro potenze cattive, quale volentieri e facilmente pensiamo che sia. Nella tentazione pure lui è spogliato di tutte le sue forze, è lasciato solo da Dio e dagli uomini, pure lui deve subire con paura la rapina di satana e ritrovarsi nell’oscurità totale. Non gli rimane altro che la Parola di Dio che salva, regge e sostiene, che lo mantiene saldo, e che per lui combatte e vince. La notte delle ultime parole di Gesù: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato, è qui subentrata; essa seguirà all’ora di questa tentazione come l’ultima tentazione car-nale, spirituale e perfetta del Redentore. Gesù, mentre soffre l’abbandono da parte di Dio e degli uomini, ha la Parola e il giudizio di Dio dalla propria parte. Mentre è espo-sto indifeso e debole alla potenza di satana, supera la tentazione. Egli fu tentato come noi – ma senza peccato.

Perciò nella tentazione di Gesù non rimane realmente nulla al di fuori della Parola e della promessa di Dio; non la propria forza e la gioia di combattere contro il male, bensì la forza e la vittoria di Dio, che mi mantiene saldo nella Parola. (D. BONHOEFFER, Scritti scelti (1933-1945), pp. 400-401).

7. La tentazione del discepolo è l’allontanamento dalla sequela.

Avanzare con la necessità, con la nostra sapienza e le nostre ragionevolezze; sognare che la via del discepolato non conosca prova, tentazione appunto, nel radicale signifi-cato che la pagina evangelica ci offre, significa rinunciare a fidarsi di Dio, riducendolo alla nostra misura.

Il nostro deserto si è fatto impalpabile, le nostre grida sono state consolate da parole seducenti, ingannevoli. Tutto ci scivola addosso: il dolore e l’amore, l’amarezza e le piccole gioie, le domande, e Dio? È la nostra stessa assenza alle cose autentiche, il no-stro rifiuto della storia a farne l’assente, la delusione di sentirci abbandonati nella pro-va.

L’imprevedibilità e la sorpresa di Dio giunge a incrociare lo scandalo che si patisce quando percepiamo che la sua carità si dona e serve fino alla morte di croce del Figlio. Quando si incontrano questi eventi il nostro vivere cerca le vie di fuga: autosufficienza, potere… «Dov’è dunque la sua potenza?», si chiede così il discepolo.

Persone libere e affidate a Dio possono intenderlo, rispondendo alla chiamata, cre-dendo alla forza e al dono della conversione, sempre, anche quando si confonde nel deserto della prova.

Il suo agire nella nostra vita non dà torpore, inedia. Egli sta nella mischia con la no-stra umanità, al fianco nostro; e nostra misura è la nuda fede a questa presenza. Pure se l’individualismo ha fiaccato la fiducia in Lui, l’azione divina non è astrazione o estraniazione dalla storia: si confonde con il lamento e la confessione di fede e con ogni fatica di cammino.

La fedeltà al disegno di Dio insegna a non inseguire segni straordinari. La tentazio-ne per il discepolo, nella geografia della Parola, è quella di non riconoscerlo nel suo agire nell’ordinarietà. Riconoscerlo e confessarlo dentro la “terra umana” è solo della fede.

La conversione del cuore – altro segno! – è l’incrollabile affidamento nel suo agire anche quando tocca il confine delle smentite. L’esperienza della conversione sta nel divenire umani, come Egli vuole, non lavorare per Lui, o – delirio – fare al suo posto. Dimettere la pretesa di tutto comprendere, al nostro modo, raffinata manipolazione di Lui. Cercare conferma e ratifica è un instancabile vizio della mente. È la tentazione di soffrire meno, un nichilismo dolce: il deserto è il “non luogo” mai concluso e definito entro il quale spogliare la mente, per servire Dio. F. CECCHETTO, Testi inediti.


(Ceneri)

Ci visita, noi ceneri,

un sogno ricorrente

di fertilità. Rilustrano

le pietre

in esso, le argille,

sono colmi di pioggia i recipienti...

E infine

a un ordine, a un richiamo

lei va incontro -

chi comanda è Kronos...

o un seme

che le s’apre

dentro la persuade -

questo non lo sappiamo - ma

(con pena

e desiderio sale

la primavera dal suo ade, fumiga

esalando dal sottosuolo,

s’alza

in nebbia, in nuvola

e ora si diffonde, cenere

viva tra le stecchite trame

e le siepi ancora irte,

si lacera agli sterpi

dove appunta i primi segni

delle sue rosse gemme.

Siamo

noi pure

dentro l’animato grembo

dove nascita

e morte si affrontano

sì, ma solo per confondersi...

Siamo in quella mischia

non sapendo da che parte,

l’una o l’altra,

l’una e l’altra

unite in un sussulto

e spasimo di danza...

O uomo

dura poco la tua storia, la tua vita

come si misura? Come?

M. LUZI, L’opera poetica, a cura e con un saggio introduttivo di S. VERDINO (I Meridiani), Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1998, 42001, pp. 919-920.

venerdì 17 febbraio 2012

ULTIMA DOMENICA DOPO L’EPIFANIA - detta «del perdono»

ULTIMA DOMENICA DOPO L’EPIFANIA - detta «del perdono»

LetturaLettura del profeta Isaia 54, 5-10
In quei giorni. Isaia disse: «Tuo sposo è il tuo creatore, / Signore degli eserciti è il suo nome; / tuo redentore è il Santo d’Israele, / è chiamato Dio di tutta la terra. / Come una donna abbandonata / e con l’animo afflitto, ti ha richiamata il Signore. / Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù? / – dice il tuo Dio –. / Per un breve istante ti ho abbandonata, / ma ti raccoglierò con immenso amore. / In un impeto di collera / ti ho nascosto per un poco il mio volto; / ma con affetto perenne / ho avuto pietà di te, / dice il tuo redentore, il Signore. / Ora è per me come ai giorni di Noè, / quando giurai che non avrei più riversato / le acque di Noè sulla terra; / così ora giuro di non più adirarmi con te / e di non più minacciarti. / Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, / non si allontanerebbe da te il mio affetto, / né vacillerebbe la mia alleanza di pace, / dice il Signore che ti usa misericordia». SalmoSal 129 (130) ® L’anima mia spera nella tua parola.Dal profondo a te grido, o Signore;Signore, ascolta la mia voce.Siano i tuoi orecchi attentialla voce della mia supplica. ®Se consideri le colpe, Signore,Signore, chi ti può resistere?Ma con te è il perdono:così avremo il tuo timore. ®Io spero, Signore.Spera l’anima mia, attendo la sua parola.Israele attenda il Signore,perché con il Signore è la misericordiae grande è con lui la redenzione. ®

EpistolaLettera di san Paolo apostolo ai Romani 14, 9-13
Fratelli, per questo Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi.Ma tu, perché giudichi il tuo fratello? E tu, perché disprezzi il tuo fratello? Tutti infatti ci presenteremo al tribunale di Dio, perché sta scritto: «Io vivo, dice il Signore: / ogni ginocchio si piegherà davanti a me / e ogni lingua renderà gloria a Dio».Quindi ciascuno di noi renderà conto di se stesso a Dio. D’ora in poi non giudichiamoci più gli uni gli altri; piuttosto fate in modo di non essere causa di inciampo o di scandalo per il fratello. VangeloLettura del Vangelo secondo Luca 18, 9-14
In quel tempo. Il Signore Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato.
Lettura del profeta Isaia. 54, 5-10L'esilio è il punto di riferimento fondamentale e drammatico per l'esperienza di Israele: ha segnato il crollo di tutte le istituzioni, della propria coesione, del regno, di Gerusalemme e del tempio. Perciò questo popolo vive, nello stesso tempo, nella delusione e nella nostalgia, ma senza nessuna prospettiva sul futuro. Il profeta ha invece grandi sogni e già nel capitolo 52 incoraggia dicendo: "Rivestiti della tua magnificenza" ossia "Gerusalemme, indossa le vesti più splendide" (52,1). La promessa è per un prossimo riscatto che il Signore è capace di fare senza danaro (52,2) e "il mio popolo conoscerà il mio nome, comprenderà in quel giorno che io dicevo: «eccomi»" (52,6).Testi successivi aprono la rivelazione di un misterioso "servo di Dio" (capp 52- 53).Nel capitolo 54 viene ripreso con chiarezza l'invito di speranza di Dio e del profeta a questo popolo, nessun futuro, rassegnato e angosciato. Come garanzia, Dio dice e svela il suo nome (che qui sono tanti): "Il tuo creatore, il Signore degli eserciti, il redentore, Santo di Israele, Dio di tutta la terra, ma soprattutto sposo" (54,5). Il Signore dà garanzie: la donna che è stata abbandonata avrà ancora più figli della donna sposata, la desolazione di questo popolo vinto scomparirà all'invito di Dio: "Allarga lo spazio della tua tenda, stendi i teli della tua dimora senza risparmio, allunga le cordicelle, rinforza i tuoi paletti perché ti allargherai a destra e a sinistra e la tua discendenza possiederà le nazioni" (54,2-3). Continuano ad essere riprese le immagini del tempo dell'Esodo: è un popolo di pastori, nomade e quindi le immagini che si susseguono sono quelle del tempo della liberazione dall'Egitto, quando un popolo, nella sua gioventù, si sposa con il suo Dio Liberatore, nel deserto.il profeta tende a ricostruire una semplice teologia della storia dove gli avvenimenti di Israele sono rilevati. All'inizio ci sono l'abbandono della legge di Dio e quindi la desolazione, pur nella presenza di Dio che ama profondamente. Ma poi l'annuncio del profeta garantisce nell'oggi l'amore verso il popolo che smuove gli ostacolo, l'attenzione a riscattarlo, la prospettiva del benessere (verranno le nazioni), e della ricchezza di vita (v 2) e quindi un giuramento che Dio fa a questo popolo per incoraggiarlo: "Giuro di non più adirarmi con te e di non più minacciarti"(54,9). Dio fa un giuramento e lo ricollega all'impegno preso con Noè con cui ha mantenuto la parola. Il popolo sa verificare che effettivamente, dopo il diluvio, non è più avvenuta nessuna inondazione che abbia sommerso il mondo. Così il mondo ha continuato a crescere e si è sviluppato in pace.Il testo è ricco di speranza, e tuttavia la storia di Israele manifesta tempi drammatici. Giovanni Battista e Gesù diranno allora che la fedeltà del Signore è importante, ma se non ci si gioca in una fedeltà anche da parte nostra, la tragedia avverrà ugualmente perché è procurata da noi. Dio non ripudia ma vanno smantellate le sicurezze che ciascuno crede d'aver raggiunto, manipolando la realtà o interpretandola solo come ubbidienza formale, legata a gesti di ossequio anche pesanti alla legge che li illuse e ma che tuttavia non ricostituiva nel cuore la fiducia nella novità di Dio e la sua misericordia. In questa prospettiva si può rileggere la predicazione di Gesù stesso e quindi il suo rifiuto a intravedere nella legge una garanzia senza misericordia, Nel suo ricordare continuamente il credente deve poter accogliere la paternità di Dio e maturarla nella volontà di Dio. Gli ebrei si sentirono garantiti dalla parola del profeta e immaginarono che la salvezza potesse essere presente automaticamente. Così si prepararono con le proprie mani la tragedia e comunque la certezza che Gerusalemme non sarebbe stata presa. Eppure crollò negli anni 70 d.C., proprio con i Romani in una totale distruzione. Gesù stesso insistette quando gli riferirono di alcuni Galilei che Pilato aveva fatto giustiziare:: "Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo".(Luca 13,3).Lettera di san Paolo apostolo ai Romani. 14, 9-13San Paolo si preoccupa, negli ultimi capitoli della sua "lettera ai romani", di affrontare alcuni problemi concreti che egli sta probabilmente verificando anche a Corinto da cui scrive. È una situazione, questa, che può portare disorientamento e lacerazioni all'interno della comunità cristiana: quella cioè della convivenza tra persone che provengono dal giudaismo e dal paganesimo. Le prime sono spesso ancora cariche di quella esperienza e di quell'abitudine religiosa che fa selezionare i cibi o i giorni, preoccupandosi degli alimenti puri o impuri; le altre persone, provenienti dal paganesimo, invece, non se ne preoccupano affatto perché non hanno nella propria tradizione una esperienza di selezione tra puro e impuro. Questo capitolo inizia così: "Accogliete tra di voi chi è debole nella fede senza discuterne le esitazioni" (14,1).Paolo dice che ci sono persone che hanno una fede debole, vivono con scrupolo il nuovo atteggiamento e la nuova predicazione e comunque sono portati a giudicare gli altri che non si preoccupano della purezza o meno dei cibi che mangiano. Quelli che invece si sono fatti una convinzione più profonda e più matura della fede superano queste preoccupazioni e si orientano profondamente verso Cristo e la sua volontà, ma rischiano di considerare infantili i loro fratelli e sorelle che invece mantengono alcuni costumi giudaici.L'apostolo sottolinea il principio della sottomissione dell'appartenenza a Cristo. "Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno di noi muore per se stesso; se viviamo, viviamo per il Signore; se moriamo, moriamo per il Signore" (14,7). Paolo ricorda che siamo del Signore e che Gesù morì e risuscitò per noi. Ci ha riscattati, ci ha comperato con il suo sangue e questa padronanza che Egli ha conquistato ci porta al suo stesso criterio di attenzione e di amore. Secondo il suo sacrificio la vita cristiana consiste nel non giudicare ma nello sviluppare una carità reciproca di attenzione e di accoglienza. Né il debole può giudicare e condannare il forte né la persona forte può disprezzare il debole. Solo Gesù è il giudice supremo. Solo Lui può esaminarci nell'ultimo giudizio e solo lui è capace di saper analizzare la nostra fede e i nostri errori.Così il clima della comunità cristiana deve essere un clima di accoglienza, di fiducia reciproca, di rispetto.E se questo vale nei riguardi della fede, una comunità ci sente accogliente e forte per rispettare i valori che Dio pone nella vita di ciascuno. Infatti una comunità cristiana vive con amore, ma è anche testimone responsabile di un mondo che ha bisogno di generosità, di gratuità, di attenzione e di fiducia reciproca.Lettura del Vangelo secondo Luca. 18, 9-14Gesù si esprime spesso in parabole poiché, per lui, l'esemplificazione della vita quotidiana diventa un vero registro di comprensione e di moralità. Esse permettono, attraverso i gesti quotidiani totalmente comprensibili, di intravedere le nuove linee che Gesù suggerisce nei riguardi del Padre, del Regno, di Lui stesso. Mentre il racconto, d'altra parte, è comprensibile, le conclusioni, spesso, procurano un profondo disorientamento perché non necessariamente la parabola corrisponde al nostro buon senso. Ma la parabola, molto facilmente, spiazza le attese e confonde i normali criteri di giudizio.L'ascoltatore di Gesù non deve certo dimenticare quello che il Signore dice: "i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie" (Is 55,8), ma da un personaggio così concreto, un rabbi, un maestro, uomo tra uomini non ci si può aspettare questa straordinaria novità. Così pensano i suoi interlocutori che, spesso, lo rifiutano.Questa parabola, detta del "fariseo e del pubblicano", fa parte di quelle sconcertanti novità che Gesù porta poiché sembra scalzare completamente i criteri della giustizia e criteri della coerenza etica.Il fariseo è un uomo di grande fede e di coraggiosa attenzione morale: digiuna due volte la settimana: il lunedì e il giovedì; tende a riparare i peccati degli altri e a intercedere per il popolo per ricevere le benedizioni di Dio. Un normale ebreo credente è, invece, impegnato, secondo la legge, al digiuno una volta all'anno. Il fariseo si preoccupa di pagare la tassa al tempio, la decima di tutto quello che acquista: grano, vino, olio, il primogenito del gregge e si preoccupa anche di pagare la tassa al posto dei contadini i quali, spesso, nella loro povertà, si fanno furbi e non adempiono all'obbligo; così il fariseo paga la decima anche per gli altri, di tasca propria, ogni volta che acquista un prodotto. In tal modo può dire al Signore: "Molti sono disonesti ma, Signore, non prendertela; molti sono bravi come me". Il fariseo è un buon religioso, si sente a suo agio davanti a Dio, prega in piedi con grande dignità ed è orgoglioso del tanto bene che compie.Il pubblicano teme il Signore ed ha paura. Sa di non comportarsi bene, sa di non essere degno di pregare, sa che è impossibile per lui la salvezza perché collabora con i romani che sono oppressori del popolo di Dio; le tasse che esige sono sempre molto più alte rispetto a quello che i contribuenti dovrebbero pagare e non difficilmente usa la forza dei militari che ha sempre con sé per obbligare e per difendersi. Se volesse convertirsi secondo la legge, dovrebbe restituire tutto quello che ha rubato, aggiungendovi il 20% di interessi e abbandonare immediatamente la sua infame professione. Poiché tutto questo è impossibile per lui, i rabbini affermano che per i pubblicani la salvezza è impossibile.Questi sono i due personaggi di cui parla Gesù ai discepoli: siamo infatti in un contesto di spiegazione non aperto alla folla che può benissimo non accettare. Gesù parla ai discepoli che si fidano di Lui e hanno deciso di seguirlo. Perciò queste fanno parte delle linee fondamentali di vita che i discepoli debbono accogliere e maturare dentro di sé. La conclusione è sconcertante perché il pubblicano è reso giusto da Dio: ha infatti riconosciuto di non essere all'altezza, e l'unica speranza che resta è la misericordia del Signore; non ha altre soluzioni da presentare.Il fariseo ritorna a casa come è avvenuto: con tutte le sue opere buone, con il suo orgoglio di persona onesta, con la sua consapevolezza di poter giudicare tutti e il mondo peggiori di lui, con la sicurezza di essere stato ascoltato da Dio. Ma il Signore non lo giustifica, non lo rende giusto. Il fariseo è un ingenuo che crede d'aver capito tutto di Dio. Ha rispetto della Legge, ma non ha scoperto la misericordia del Signore e quindi non sa di aver bisogno di Dio per camminare nella giustizia.Il pubblicano, che non è un modello di vita virtuosa, è il povero che è sa di offrire a Dio solo la consapevolezza di essere disonesto e peccatore ma è il povero che sa di potersi e doversi fidare di Dio. Non sulle opere buone può contare ma solo sulla gratuità.La parabola che Luca racconta è chiaramente rivolta allo stile di una comunità cristiana: c'è il pericolo per i buoni di sentirsi migliori degli altri, di chiudersi nella propria onestà e di disprezzare. C'è il pericolo di lacerare la comunità cristiana tra i giusti e disonesti, e perciò incapace di accogliersi, incapace di scoprire i valori delle cose belle che ciascuno porta, incapace di pensare che Dio si occupa di tutti.Il fariseo, in fondo, onesto nel suo comportamento, ha sequestrato Dio per sé a e immagina che il Signore, come lui, abbia schifo dei peccatori.Questa parabola pone grossi problemi nei nostri giudizi verso le persone. Questo non significa che dobbiamo dire che ogni persona, comunque, si comporta in modo onesto e serio. Ogni persona, qualunque cosa faccia, ha la responsabilità di fare quello che è giusto. Ma questo ci dice che dobbiamo saper seriamente analizzare la realtà e saper individuare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato agli occhi di Dio, ciò che vale e ciò che non vale. Ma non possiamo fare un salto qualitativo e giudicare la persona come abbiamo giudicato i suoi gesti. Ogni persona è un mistero e solo Dio sa leggere questo mistero. A noi, dice Gesù, spetta di vedere il bene e di amarlo, ma anche di accogliere, di portare pace, di individuare ciascuno come persona che merita attenzione. Perlomeno almeno persone per cui si prega con amore.

venerdì 10 febbraio 2012

Domenica 12 febbraio 2012 “sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato”

Domenica 12 febbraio 2012

“sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato”

Lettura del profeta Osea 6, 1-6

Così dice il Signore Dio: «Voi dite: “Venite, ritorniamo al Signore: / egli ci ha straziato ed egli ci guarirà. / Egli ci ha percosso ed egli ci fascerà. / Dopo due giorni ci ridarà la vita / e il terzo ci farà rialzare, / e noi vivremo alla sua presenza. / Affrettiamoci a conoscere il Signore, / la sua venuta è sicura come l’aurora.

Verrà a noi come la pioggia d’autunno, / come la pioggia di primavera che feconda la terra”. / Che dovrò fare per te, Èfraim, / che dovrò fare per te, Giuda? / Il vostro amore è come una nube del mattino, / come la rugiada che all’alba svanisce. / Per questo li ho abbattuti per mezzo dei profeti, / li ho uccisi con le parole della mia bocca / e il mio giudizio sorge come la luce: / poiché voglio l’amore e non il sacrificio, / la conoscenza di Dio più degli olocausti».

Sal 50 (51)

® Tu gradisci, o Dio, gli umili di cuore.

Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;

nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità.

Lavami tutto dalla mia colpa,

dal mio peccato rendimi puro. ®

Tu non gradisci il sacrificio;

se offro olocausti, tu non li accetti.

Uno spirito contrito è sacrificio a Dio;

un cuore contrito e affranto tu, o Dio, non disprezzi. ®

Nella tua bontà fa’ grazia a Sion,

ricostruisci le mura di Gerusalemme.

Allora gradirai i sacrifici legittimi,

l’olocausto e l’intera oblazione. ®

Lettera di san Paolo apostolo ai Gàlati 2, 19 - 3, 7

Fratelli, mediante la Legge io sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me. Dunque non rendo vana la grazia di Dio; infatti, se la giustificazione viene dalla Legge, Cristo è morto invano.

O stolti Gàlati, chi vi ha incantati? Proprio voi, agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso! Questo solo vorrei sapere da voi: è per le opere della Legge che avete ricevuto lo Spirito o per aver ascoltato la parola della fede? Siete così privi d’intelligenza che, dopo aver cominciato nel segno dello Spirito, ora volete finire nel segno della carne? Avete tanto sofferto invano? Se almeno fosse invano! Colui dunque che vi concede lo Spirito e opera portenti in mezzo a voi, lo fa grazie alle opere della Legge o perché avete ascoltato la parola della fede?

Come Abramo ebbe fede in Dio e gli fu accreditato come giustizia, riconoscete dunque che figli di Abramo sono quelli che vengono dalla fede.

Lettura del Vangelo secondo Luca 7, 36-50

In quel tempo. Uno dei farisei invitò il Signore Gesù a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo. Vedendo questo, il fariseo che l’aveva invitato disse tra sé: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!».

Gesù allora gli disse: «Simone, ho da dirti qualcosa». Ed egli rispose: «Di’ pure, maestro». «Un creditore aveva due debitori: uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta. Non avendo essi di che restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi di loro dunque lo amerà di più?». Simone rispose: «Suppongo sia colui al quale ha condonato di più». Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene». E, volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio; lei invece, da quando sono entrato, non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non hai unto con olio il mio capo; lei invece mi ha cosparso i piedi di profumo. Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco». Poi disse a lei: «I tuoi peccati sono perdonati». Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: «Chi è costui che perdona anche i peccati?». Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!».

Commento

In questo bellissimo brano biblico riscontriamo alcune caratteristiche proprie del terzo evangelo: l'attenzione di Luca per le donne, la sua insistenza sulla misericordia di Gesù, lo spazio dato ai temi dell'ospitalità e del perdono.

Ci viene data anzitutto la possibilità di constatare ancora una volta la portata davvero "rivoluzionaria" dell'annuncio e della missione di Gesù. Dapprima la situazione si presenta chiara e indiscutibile: una donna gravemente e abitualmente peccatrice entra all'improvviso nella casa del fariseo e, forse non osando ungere il capo di Gesù con il prezioso olio profumato che ha portato (come si usava in segno di onore con gli ospiti di riguardo), si pone dietro i piedi di Gesù che sporgevano dal divano su cui era sdraiato a mensa (come si usava allora), e rende a questi piedi tutti gli onori possibili e immaginabili.

Il suo comportamento si presta facilmente ad una pesante critica nei confronti di Gesù: ma come, non sa il rabbi che una donna di tal fatta "contamina" quelli che tocca rendendoli non idonei all'incontro con Dio? e non ricordava Deut.23,19, che proibiva di accettare doni per uso sacro da una prostituta? C'era una sola possibile attenuante, che Gesù non sapesse che tipo di donna fosse quella che gli rendeva omaggio. Lo pensa anche Simone; ma allora, che profeta è?

Questo è dapprima il quadro della situazione, ma ecco che proprio la parola di Gesù (la piccola parabola e la successiva spiegazione), cioè l'annuncio che egli fa', il "kerygma", rovescia la situazione, capovolge il quadro: Simone, il "giusto" che disprezza la prostituta, compare come colui che ama Gesù meno della donna e lei, additata al pubblico ludibrio, viene abbondantemente elogiata da Gesù per il suo comportamento, insistentemente contrapposto a quello del fariseo; "…tu non mi hai dato l'acqua per i piedi, lei invecetu non hai unto il mio capo…..lei invece mi ha cosparso i piedi di profumo….."

La parabola-kerygma ha svelato la "verità" dei personaggi implicati: come non può non riconoscere lo stesso Simone, colui cui viene condonato di più, ama di più; dunque la pubblica peccatrice ama il Signore molto più di Simone; cosa evidente non solo nel comportamento coraggioso e anticonformista della donna, ma nel fatto che il fariseo ha sì invitato Gesù a casa sua (segno di apertura e magari di simpatia nei suoi confronti), ma ha ben tenuto le distanze da lui (evitando di compiere nei suoi confronti gli usuali gesti di riguardo), per non apparire, agli occhi dei benpensanti, troppo compromesso con quel rabbi originale e anche "scandaloso"!

La "punta" dell'episodio appare dunque il rapporto perdono-amore, enunciato nella paraboletta e ripreso da Gesù con un'inversione di termini, che sembra contraddire la prima affermazione, come si vede confrontando il v.42 con il v.47.

Diamo la voce al biblista Mauro Orsatti: "Che cosa concludere? Il perdono di Gesù è causa (parabola) o conseguenza (episodio)?....Il testo, bisogna riconoscerlo, offre qualche difficoltà di comprensione…..Una soluzione viene dalla considerazione del nostro rapporto con la divinità. Gesù
con le sue parole ripropone il contrasto espresso nella parabola e più ancora nell'atteggiamento della donna. Il perdono di Dio e l'amore della creatura si inseguono in una complessa articolazione di
rapporti che non è facile definire: per amare Dio bisogna essere perdonati (o almeno possedere una certa familiarità con il divino, cfr. Giov. 6,44: "Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato"), quindi il perdono precede l'amore. D'altro canto, è altrettanto vero che gesti di amore favoriscono o "provocano" il perdono, cosicché l'amore precede il perdono … Si può risolvere l'apparente contraddizione del rapporto amore-perdono e perdono-amore dicendo che entrambi sono veri: la donna riceve il perdono pieno dopo aver compiuto gesti di amore e questi gesti sono permessi da una conoscenza almeno complessiva della bontà di Gesù." (M. Orsatti, Luca: vangelo al femminile, Ancora, pp.104-106)

Amore e perdono sono dunque correlativi. E per ciascuno di noi che cosa significano? Potremmo riflettere su come viviamo il Sacramento della Riconciliazione, sulla scorta dell'ultimo "Ordo penitentiae" e con l'aiuto del Card. Martini (in "L'evangelizzatore in San Luca" pp.75-80 passim).

"La confessione breve e frequente, in cui si elencano le proprie mancanze, può dar luogo a un "colloquio penitenziale", cioè un dialogo fatto con una persona che mi rappresenta la Chiesa, (concretamente un sacerdote), nel quale cerco di vivere la riconciliazione in una maniera più ampia.
Si comincia con una pagina biblica, magari un salmo, che uno ha cercato perché corrispondente al suo stato d'animo; si recita poi una preghiera, magari spontanea, che mette subito in un'atmosfera di verità. Segue un triplice momento:


a) Confessio laudis: dall'ultima confessione, quali sono le cose per cui sento di dover maggiormente ringraziare Dio? Quelle cose nelle quali sento che Dio mi è stato particolarmente vicino, in cui ho sentito il suo aiuto, la sua presenza? Si comincia così con un'espressione di ringraziamento e di lode, che mette la nostra vita nel giusto quadro.


b) Confessio vitae: a partire dall'ultima confessione che cosa è che, soprattutto davanti a Dio, non vorrei che fosse stato? Che cosa mi pesa? Che cosa vorrei che Dio togliesse da me? Mettiamo tali situazioni davanti a Dio per esserne purificati, situazioni e fatti che richiamiamo alla nostra mente secondo uno schema di esame di coscienza (solitamente i dieci comandamenti e i precetti evangelici), per dichiararli al sacerdote e chiederne il perdono.


c) Confessio fidei: è la preparazione immediata a ricevere il perdono di Dio; davanti a Lui proclamiamo: Signore, io conosco la mia debolezza, ma so che Tu sei più forte. Credo nella tua potenza sulla mia vita, credo nella tua capacità di salvarmi così come sono adesso. Affido la mia peccaminosità a Te, rischiando tutto, la metto nelle tue mani e non ne ho più paura.


Occorre vivere l'esperienza di salvezza come esperienza di fiducia, di gioia, come il momento in cui Dio entra nella nostra vita e ci dà la Buona Notizia: "va' in pace", mi sono preso io carico dei tuoi peccati, della tua peccaminosità, del tuo peso, della tua fatica, della tua poca fede, delle tue interiori sofferenze, dei tuoi crucci. Li ho presi tutti su di me, me li sono caricati perché tu ne sia libero.

La confessione non è soltanto un dovere: è un'occasione lieta in cui Gesù aiuta ciascuno di noi a comprendere che cosa desidera che facciamo, e anche tutto quello che ci promette e tutto quello che ci dona." (Card. Martini)

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
PER LA XX GIORNATA MONDIALE DEL MALATO
(11 FEBBRAIO 2012)

«Àlzati e va'; la tua fede ti ha salvato!» (Lc 17,19)

Cari fratelli e sorelle!

In occasione della Giornata Mondiale del Malato, che celebreremo il prossimo 11 febbraio 2012, memoria della Beata Vergine di Lourdes, desidero rinnovare la mia spirituale vicinanza a tutti i malati che si trovano nei luoghi di cura o sono accuditi nelle famiglie, esprimendo a ciascuno la sollecitudine e l'affetto di tutta la Chiesa. Nell'accoglienza generosa e amorevole di ogni vita umana, soprattutto di quella debole e malata, il cristiano esprime un aspetto importante della propria testimonianza evangelica, sull'esempio di Cristo, che si è chinato sulle sofferenze materiali e spirituali dell'uomo per guarirle.

1. In quest'anno, che costituisce la preparazione più prossima alla Solenne Giornata Mondiale del Malato che si celebrerà in Germania l'11 febbraio 2013 e che si soffermerà sull'emblematica figura evangelica del samaritano (cfr Lc 10,29-37), vorrei porre l'accento sui «Sacramenti di guarigione», cioè sul Sacramento della Penitenza e della Riconciliazione, e su quello dell'Unzione degli Infermi, che hanno il loro naturale compimento nella Comunione Eucaristica.

L'incontro di Gesù con i dieci lebbrosi, narrato nel Vangelo di san Luca (cfr Lc 17,11-19), in particolare le parole che il Signore rivolge ad uno di questi: «Àlzati e va'; la tua fede ti ha salvato!» (v. 19), aiutano a prendere coscienza dell'importanza della fede per coloro che, gravati dalla sofferenza e dalla malattia, si avvicinano al Signore. Nell'incontro con Lui possono sperimentare realmente che chi crede non è mai solo! Dio, infatti, nel suo Figlio, non ci abbandona alle nostre angosce e sofferenze, ma ci è vicino, ci aiuta a portarle e desidera guarire nel profondo il nostro cuore (cfr Mc 2 ,1-12).

La fede di quell'unico lebbroso che, vedendosi sanato, pieno di stupore e di gioia, a differenza degli altri, ritorna subito da Gesù per manifestare la propria riconoscenza, lascia intravedere che la salute riacquistata è segno di qualcosa di più prezioso della semplice guarigione fisica, è segno della salvezza che Dio ci dona attraverso Cristo; essa trova espressione nelle parole di Gesù: la tua fede ti ha salvato. Chi, nella propria sofferenza e malattia, invoca il Signore è certo che il Suo amore non lo abbandona mai, e che anche l'amore della Chiesa, prolungamento nel tempo della sua opera salvifica, non viene mai meno. La guarigione fisica, espressione della salvezza più profonda, rivela così l'importanza che l'uomo, nella sua interezza di anima e di corpo, riveste per il Signore. Ogni Sacramento, del resto, esprime e attua la prossimità di Dio stesso, il Quale, in modo assolutamente gratuito, «ci tocca per mezzo di realtà materiali …, che Egli assume al suo servizio, facendone strumenti dell'incontro tra noi e Lui stesso» (Omelia, S. Messa del Crisma, 1 aprile 2010). «L'unità tra creazione e redenzione si rende visibile. I Sacramenti sono espressione della corporeità della nostra fede che abbraccia corpo e anima, l'uomo intero» (Omelia, S. Messa del Crisma, 21 aprile 2011).

Il compito principale della Chiesa è certamente l'annuncio del Regno di Dio, «ma proprio questo stesso annuncio deve essere un processo di guarigione: "... fasciare le piaghe dei cuori spezzati" (Is 61,1)» (ibid.), secondo l'incarico affidato da Gesù ai suoi discepoli (cfr Lc 9,1-2; Mt 10,1.5-14; Mc 6,7-13). Il binomio tra salute fisica e rinnovamento dalle lacerazioni dell'anima ci aiuta quindi a comprendere meglio i «Sacramenti di guarigione».

2. Il Sacramento della Penitenza è stato spesso al centro della riflessione dei Pastori della Chiesa, proprio a motivo della grande importanza nel cammino della vita cristiana, dal momento che «tutto il valore della Penitenza consiste nel restituirci alla grazia di Dio stringendoci a lui in intima e grande amicizia» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1468). La Chiesa, continuando l'annuncio di perdono e di riconciliazione fatto risuonare da Gesù, non cessa di invitare l'umanità intera a convertirsi e a credere al Vangelo. Essa fa proprio l'appello dell'apostolo Paolo: «In nome di Cristo ... siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2 Cor 5,20). Gesù, nella sua vita, annuncia e rende presente la misericordia del Padre. Egli è venuto non per condannare, ma per perdonare e salvare, per dare speranza anche nel buio più profondo della sofferenza e del peccato, per donare la vita eterna; così nel Sacramento della Penitenza, nella «medicina della confessione», l'esperienza del peccato non degenera in disperazione, ma incontra l'Amore che perdona e trasforma (cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsin. Reconciliatio et Paenitentia, 31).

Dio, «ricco di misericordia» (Ef 2,4), come il padre della parabola evangelica (cfr Lc 15,11-32), non chiude il cuore a nessuno dei suoi figli, ma li attende, li cerca, li raggiunge là dove il rifiuto della comunione imprigiona nell'isolamento e nella divisione, li chiama a raccogliersi intorno alla sua mensa, nella gioia della festa del perdono e della riconciliazione. Il momento della sofferenza, nel quale potrebbe sorgere la tentazione di abbandonarsi allo scoraggiamento e alla disperazione, può trasformarsi così in tempo di grazia per rientrare in se stessi e, come il figliol prodigo della parabola, ripensare alla propria vita, riconoscendone errori e fallimenti, sentire la nostalgia dell'abbraccio del Padre e ripercorrere il cammino verso la sua Casa. Egli, nel suo grande amore, sempre e comunque veglia sulla nostra esistenza e ci attende per offrire ad ogni figlio che torna da Lui, il dono della piena riconciliazione e della gioia.

3. Dalla lettura dei Vangeli, emerge chiaramente come Gesù abbia sempre mostrato una particolare attenzione verso gli infermi. Egli non solo ha inviato i suoi discepoli a curarne le ferite (cfr Mt 10,8; Lc 9,2; 10,9), ma ha anche istituito per loro un Sacramento specifico: l'Unzione degli Infermi. La Lettera di Giacomo attesta la presenza di questo gesto sacramentale già nella prima comunità cristiana (cfr 5,14-16): con l'Unzione degli Infermi, accompagnata dalla preghiera dei presbiteri, tutta la Chiesa raccomanda gli ammalati al Signore sofferente e glorificato, perché allevi le loro pene e li salvi, anzi li esorta a unirsi spiritualmente alla passione e alla morte di Cristo, per contribuire così al bene del Popolo di Dio.

Tale Sacramento ci porta a contemplare il duplice mistero del Monte degli Ulivi, dove Gesù si è trovato drammaticamente davanti alla via indicatagli dal Padre, quella della Passione, del supremo atto di amore, e l'ha accolta. In quell'ora di prova, Egli è il mediatore, «trasportando in sé, assumendo in sé la sofferenza e la passione del mondo, trasformandola in grido verso Dio, portandola davanti agli occhi e nelle mani di Dio, e così portandola realmente al momento della Redenzione» (Lectio divina, Incontro con il Clero di Roma, 18 febbraio 2010). Ma «l'Orto degli Ulivi è ... anche il luogo dal quale Egli è asceso al Padre, è quindi il luogo della Redenzione ... Questo duplice mistero del Monte degli Ulivi è anche sempre "attivo" nell'olio sacramentale della Chiesa ... segno della bontà di Dio che ci tocca» (Omelia, S. Messa del Crisma, 1 aprile 2010). Nell'Unzione degli Infermi, la materia sacramentale dell'olio ci viene offerta, per così dire, «quale medicina di Dio ... che ora ci rende certi della sua bontà, ci deve rafforzare e consolare, ma che, allo stesso tempo, al di là del momento della malattia, rimanda alla guarigione definitiva, alla risurrezione (cfr Gc 5,14)» (ibid.).

Questo Sacramento merita oggi una maggiore considerazione, sia nella riflessione teologica, sia nell'azione pastorale presso i malati. Valorizzando i contenuti della preghiera liturgica che si adattano alle diverse situazioni umane legate alla malattia e non solo quando si è alla fine della vita (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 1514), l'Unzione degli Infermi non deve essere ritenuta quasi «un sacramento minore» rispetto agli altri. L'attenzione e la cura pastorale verso gli infermi, se da un lato è segno della tenerezza di Dio per chi è nella sofferenza, dall'altro arreca vantaggio spirituale anche ai sacerdoti e a tutta la comunità cristiana, nella consapevolezza che quanto è fatto al più piccolo, è fatto a Gesù stesso (cfr Mt 25,40).

4. A proposito dei «Sacramenti di guarigione» S. Agostino afferma: «Dio guarisce tutte le tue infermità. Non temere dunque: tutte le tue infermità saranno guarite... Tu devi solo permettere che egli ti curi e non devi respingere le sue mani» (Esposizione sul Salmo 102, 5: PL 36, 1319-1320). Si tratta di mezzi preziosi della Grazia di Dio, che aiutano il malato a conformarsi sempre più pienamente al Mistero della Morte e Risurrezione di Cristo. Assieme a questi due Sacramenti, vorrei sottolineare anche l'importanza dell'Eucaristia. Ricevuta nel momento della malattia contribuisce, in maniera singolare, ad operare tale trasformazione, associando colui che si nutre del Corpo e del Sangue di Gesù all'offerta che Egli ha fatto di Se stesso al Padre per la salvezza di tutti. L'intera comunità ecclesiale, e le comunità parrocchiali in particolare, prestino attenzione nell'assicurare la possibilità di accostarsi con frequenza alla Comunione sacramentale a coloro che, per motivi di salute o di età, non possono recarsi nei luoghi di culto. In tal modo, a questi fratelli e sorelle viene offerta la possibilità di rafforzare il rapporto con Cristo crocifisso e risorto, partecipando, con la loro vita offerta per amore di Cristo, alla missione stessa della Chiesa. In questa prospettiva, è importante che i sacerdoti che prestano la loro delicata opera negli ospedali, nelle case di cura e presso le abitazioni dei malati si sentano veri «"ministri degli infermi", segno e strumento della compassione di Cristo, che deve giungere ad ogni uomo segnato dalla sofferenza» (Messaggio per la XVIII Giornata Mondiale del Malato, 22 novembre 2009).

La conformazione al Mistero Pasquale di Cristo, realizzata anche mediante la pratica della Comunione spirituale, assume un significato del tutto particolare quando l'Eucaristia è amministrata e accolta come viatico. In quel momento dell'esistenza risuonano in modo ancora più incisivo le parole del Signore: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno» (Gv 6,54). L'Eucaristia, infatti, soprattutto come viatico è - secondo la definizione di sant'Ignazio d'Antiochia - «farmaco di immortalità, antidoto contro la morte» (Lettera agli Efesini, 20: PG 5, 661), sacramento del passaggio dalla morte alla vita, da questo mondo al Padre, che tutti attende nella Gerusalemme celeste.

5. Il tema di questo Messaggio per la XX Giornata Mondiale del Malato, «Àlzati e va'; la tua fede ti ha salvato!», guarda anche al prossimo «Anno della fede», che inizierà l'11 ottobre 2012, occasione propizia e preziosa per riscoprire la forza e la bellezza della fede, per approfondirne i contenuti e per testimoniarla nella vita di ogni giorno (cfr Lett. ap. Porta fidei, 11 ottobre 2011). Desidero incoraggiare i malati e i sofferenti a trovare sempre un'ancora sicura nella fede, alimentata dall'ascolto della Parola di Dio, dalla preghiera personale e dai Sacramenti, mentre invito i Pastori ad essere sempre più disponibili alla loro celebrazione per gli infermi. Sull'esempio del Buon Pastore e come guide del gregge loro affidato, i sacerdoti siano pieni di gioia, premurosi verso i più deboli, i semplici, i peccatori, manifestando l'infinita misericordia di Dio con le parole rassicuranti della speranza (cfr S. Agostino, Lettera 95, 1: PL 33, 351-352).

A quanti operano nel mondo della salute, come pure alle famiglie che nei propri congiunti vedono il Volto sofferente del Signore Gesù, rinnovo il ringraziamento mio e della Chiesa, perché, nella competenza professionale e nel silenzio, spesso anche senza nominare il nome di Cristo, Lo manifestano concretamente (cfr Omelia, S. Messa del Crisma, 21 aprile 2011).

A Maria, Madre di Misericordia e Salute degli Infermi, eleviamo il nostro sguardo fiducioso e la nostra orazione; la sua materna compassione, vissuta accanto al Figlio morente sulla Croce, accompagni e sostenga la fede e la speranza di ogni persona ammalata e sofferente nel cammino di guarigione dalle ferite del corpo e dello spirito.

A tutti assicuro il mio ricordo nella preghiera, mentre imparto a ciascuno una speciale Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 20 novembre 2011, Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo, Re dell'Universo.

Benedictus PP XVI