mercoledì 27 ottobre 2010

Domenica 31 Ottobre 2010 II DOPO LA DEDICAZIONE

Avvisi:

Martedì 2 novembre in cappella liuc (ore 13.00) si celebrerà la santa messa per tutti i defunti

In fondo al testo troverete informazioni per una serie di incontri di formazione sociopolitica rivolta ai giovani. Mi pare degna di attenzione.


La necessità del vangelo

Lettura del Vangelo secondo Matteo 22, 1-14

In quel tempo. Il Signore Gesù riprese a parlare loro con parabole e disse: «Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: “Dite agli invitati: Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

La necessità assoluta del vangelo

Nella precedente riflessione abbiamo lasciato da parte il tema della necessità del Vangelo per la vita degli uomini. Tale necessità deriva direttamente dal comando di Gesù di battezzare e fare discepole tutte le genti.

Il vangelo di oggi ripropone questa necessità: “Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali”.

Il re della parabola non si lascia scoraggiare dal rifiuto dei primi invitati e fa entrare al suo banchetto ogni sorta di persone. A ciascuno è stato dato l’abito nuziale come omaggio del padrone di casa (si capisce allora la grave mancanza di chi non l’ha indossato).

Quindi, secondo il Vangelo, dobbiamo entrare alla festa con l’abito nuziale. Detto altrimenti il Vangelo deve essere predicato e deve rivestire la vita di ciascuno.

Quand’ero bambino

I missionari erano guardati con profonda ammirazione, perché impegnavano e spesso sacrificavano la loro vita per fare quello che avremmo voluto fare tutti: far conoscere il volto di Cristo agli uomini che lo ignoravano.

Oggi i missionari sono apprezzati perché aprono scuole, ospedali, insegnano a coltivare la terra, scavano pozzi per l’acqua.

I missionari hanno sempre fatto le due cose insieme.

Siamo cambiati noi. Ci interessa poco che gli uomini conoscano Cristo. Se tutto va bene siamo ancora sensibili alle opere di carità.

Giovanni Paolo II

In una sua enciclica (Redemptoris Missio) ha detto che negli ultimi 50 anni la Chiesa ha perso lo slancio missionario.

Tra le tante cause di questo fenomeno il Papa citava l’idea che bisogna rispettare la coscienza degli altri e l’idea che ognuno ha la sua religione e non ha senso proporgliene un’altra.

Forse la vera causa della perdita dello slancio missionario è la secolarizzazione interiore che ha indebolito la nostra fede.

Le due cause di sopra sono due scuse per giustificare un modo povero di vivere la fede, quello individualista.

La fede come farmaco per il nostro bisogno di spiritualità origina un modo di vivere il cristianesimo privatistico, senza slancio missionario e comunitario.

È questo il motivo per cui ci sono ancora tanti credenti, ma la Chiesa ha poche forze per annunciare il Vangelo.

Smontiamo le idee sbagliate

Numero 1. Pensate che la coscienza possa avere paura della verità? Pensate che la parola di Cristo, con la sua bellezza e profondità, possa danneggiare la ricerca di verità che ogni uomo di buona volontà compie? Spero che diciate di NO.

E allora come possiamo pensare che proporre nella libertà la persona di Gesù, possa essere una ferita per la coscienza degli uomini?

Numero 2. Nel mondo ci sono tante religioni. Fanno parte del Mistero di Dio, che non lascia mai gli uomini senza un minimo di luce. Ma il fatto che gli uomini abbiano un po’ di luce non deve impedire che possano essere illuminati da Cristo: “Veniva nel mondo la luce vera,

quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9). Le religioni sono lo sforzo dell’uomo verso Dio. Si tratta di un cammino accidentato che si avvicina alla verità di Dio, ma in mezzo a tanti elementi di incertezza. Nel Cristianesimo è Dio che è venuto e viene incontro a noi. La sua verità, il suo amore, la sua amicizia danno bellezza, senso, forza alla nostra vita.

Per me vivere è Cristo

Disse così S. Paolo. E siccome non erano parole visse tutta la sua vita cristiana da missionario.

Abbiamo scoperto allora la necessità della predicazione del Vangelo. C’è piena identificazione tra Cristo e annuncio del Vangelo.

Chi conosce veramente Cristo e se ne innamora comprende al volo che il dono più grande che può fare agli altri uomini e di portare essi pure alla conoscenza del Signore.

Se hai riempito lo stomaco di un piccolo africano, hai fatto bene. Ma per dargli speranza dovrai fargli conoscere Cristo.

Oggi come al tempo della parabola, la gente va ai propri affari. Sembra che si possa vivere senza Vangelo. Per forza, se morissimo perché siamo increduli non ci sarebbe più la libertà di credere.

Ma non è lo stesso stare con Gesù o senza di Lui. Chi è innamorato di Cristo lo sa e brucia dalla voglia di essere missionario.

State bruciando?

Rito romano

Vangelo: Lc 19,1-10

In quel tempo, Gesù, entrato in Gerico, attraversava la città. Ed ecco un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere quale fosse Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, poiché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per poterlo vedere, salì su un sicomoro, poiché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”. In fretta scese e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: “È andato ad alloggiare da un peccatore!”. Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: “Ecco, Signore, io dò la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto”. Gesù gli rispose: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch'egli è figlio di Abramo; il Figlio dell'uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto”.

PRIMO COMMENTO ALLE LETTURE
a cura di Daniele Salera

"È andato ad alloggiare da un peccatore". Così gli abitanti di Gerico sentenziano circa il fatto che Gesù è finalmente entrato nella casa-vita di Zaccheo. "Quanta ipocrisia, che cuore indurito!" diremmo oggi da osservatori esterni. Eppure in quegli uomini ciechi perché "auto-salvati" ci siamo noi… pensate alle tante critiche e pettegolezzi di cui si riempie la nostra bocca quando "facciamo la radiografia" di coloro che a diverso titolo ci sono accanto e magari sono anche fratelli o sorelle nella fede!
Dunque, bella questa storia… anzi bellissima, perché è il racconto di un miracolo, di una resurrezione (segna il passaggio da una vita secondo la carne ad una secondo lo Spirito, dalle opere di morte a quelle che provengono dai salvati), e ci dà anche l'occasione di fissare bene le idee su due punti in particolare:
1. Considerare come i tempi di Dio siano molto diversi dai tempi dell'uomo, soprattutto quando si tratta di convertirci e redimerci.
2. Ci aiuta a fare chiarezza su una domanda che spesso non trova risposta in noi: quanto dipende da Dio e quanto dall'uomo circa la nostra vita di santità, il nostro desiderio di compiere la sua volontà?
1: questa prima considerazione si sviluppa a partire dal testo di Sapienza 11,22-12,2 con cui si apre la Liturgia della Parola. Attraverso questo brano ci viene ricordato che il nostro è un Dio che "ha compassione e aspetta il nostro pentimento […] corregge a poco a poco e ammonisce", dunque i tempi che relazionano la sua compassione con la nostra conversione sono "tempi lunghi", sono i tempi dell'attesa e della pazienza. Normalmente coniughiamo questa virtù con la sopportazione del male o di chi ci molesta, quasi mai la correliamo al tempo che passa e che cambia il cuore dell'uomo. Sì, abbiamo un Dio paziente, che attende, e questa è la lunghezza d'onda del suo amore: ci è dato, è presente, rispetta la nostra natura umana -pur volendola deificare- e così accade.
Anche per Zaccheo e i suoi contemporanei è stato così; quante volte incontrandolo i credenti e coerenti avranno detto "ma non cambia mai!", quante volte l'avranno giudicato e definitivamente classificato come "perduto". Ma il loro subitaneo giudizio non cambiava le cose, invece la sospensione del giudizio di Dio sì!
Quando dunque preghiamo il Padre Nostro e chiediamo che vengano rimessi i nostri debiti ricordiamo questa "lentezza" del giudizio di Dio su di noi per poi deciderci a rivivere una somigliante attesa della conversione del fratello quando subito dopo affermiamo "come noi li rimettiamo ai nostri debitori". L'attesa di Dio diventi così l'attesa anche nostra, di noi che vorremmo gli altri cambiassero subito, di noi che ci facciamo prendere dall'ansia, dal nervosismo e dall'angoscia quando sosteniamo relazioni difficili e pesanti o quando ci sembra che nulla cambi di ciò che non va.
2: pensiamo a ciò che accade nel racconto: Zaccheo ha sentito parlare di Gesù, sa che sta passando da quelle parti, vuole vederlo, ma c'è un impedimento oggettivo che è in lui ma in qualche modo non dipende da lui (la sua statura, è basso) e allora che fa? Si arrende? No, usa l'intuito e la fantasia: sale sul sicomoro. In più c'è un impedimento soggettivo: è un peccatore da tutti conosciuto come tale, è uno di quelli che non solo si trova in una condizione di peccato ma è anche odiato da tutti perché servitore del potere occupante nonché disonesto a discapito della gente comune. Quel Gesù era un uomo di Dio, può un uomo di Dio avere a che fare con chi è nel peccato? Circa questo secondo impedimento non c'è intuito o fantasia cui attingere: il peccato c'è, Zaccheo lo sa, ed esso coincide con la sua vita, anzi quasi è la sua vita perché intesse e condiziona le sue relazioni ed il suo sostentamento. Qui solo Dio ci può "mettere mano"… e così accade. Gesù "fa strike" su tutta la linea, come solo lui sa fare. Zaccheo, dopo quest'incontro non è più lo stesso: la sua vita, i suoi legami col passato e con la sua disonestà non ci sono più, sono svaniti nel nulla. Ma cosa è dipeso da lui e cosa da Dio perché si arrivasse a quest'esito? Zaccheo desiderava incontrare Gesù ed è salito sul sicomoro: dunque tu risveglia il tuo desiderio d'infinito, di vita bella, d'incontro personale e profondo con Cristo e trova il tuo sicomoro o anche ricordati di non separarti da quel sicomoro su cui già sei salito magari per altri motivi (quell'amico fedele che Dio t‘ha messo accanto, quel gruppo che ti aiuta a stare col Signore, quella Sua Parola che quando la leggi t'illumina, quel passare in chiesa da solo per contemplarLo prima di andare a lavoro o a lezione, quel colloquio col don che da tanto tempo stai rimandando, ecc.); il resto lo fa Lui, abbi fiducia perché lo farà benissimo, i Suoi tempi e le Sue strade non sono i tuoi (grazie a Dio)!

SECONDO COMMENTO ALLE LETTURE
a cura di Rocco Pezzimenti

1. Personaggio emblematico e modernissimo, Zaccheo "cercava di vedere chi fosse Gesù, ma non ci riusciva". Basso di statura, a significare che, da sé, non poteva arrivare a vedere, come tanti oggi e sempre. Come pochi è, però, mosso da un gran desiderio: Vedere, ascoltare, quasi toccare il Maestro. Zaccheo "era capo dei pubblicani e ricco" rileva il Vangelo, quasi a significare la sua distanza dalla grazia, come pubblicano, e la sua "impotenza" da ricco che non riusciva a vedere il Salvatore. Sembra essere in un momento cruciale della sua vita, ad una svolta, e si arrampica su un albero, mosso dal sincero desiderio di vedere.

2. Il Signore passa proprio lì sotto, alza gli occhi a mostrare che una simile curiosità andava, in qualche modo, ripagata perché, in questo caso, evidenzia una ricerca, un principio di fede. Zaccheo è premiato per questo suo ardire. Gesù lo invita a scendere. Il testo sottolinea "in fretta" perché deve fermarsi con lui. Che sollecitudine manifesta il Signore! Da parte sua il ricco pubblicano non perde tempo: "Scese subito e lo accolse con gioia". Come sempre, capita in tanti altri episodi evangelici, non mancano i mormoratori: "È andato ad alloggiare in casa di un peccatore!". Come sempre, invece di rallegrarsi, c'è chi insinua, chi pecca di presunzione.

3. Ci sarebbe da essere felici - diceva Ambrogio - per tutti; infatti, se si può salvare il capo dei pubblicani, chi può disperare della salvezza? Invece no, l'invidia porta ad ignorare la portata dell'evento ed a criticare persino la somma bontà di Gesù che con la sua misericordia apre il cuore del peccatore ad altro bene. Zaccheo, di fatto, resta sorpreso e si apre alla carità: "Signore, do ai poveri la metà dei miei beni e se ho rubato a qualcuno gli restituisco il quadruplo". I mormoratori, gli invidiosi, restano attaccati alle loro misere considerazioni, spesso peccaminose, mentre Gesù sentenzia: "Oggi la salvezza è entrata in questa casa".

4. Era ricco, ma prima egoista, poi generoso. Non è la ricchezza il problema, ma il suo utilizzo. Zaccheo è diventato generoso perché si scosta dalla folla, cioè dal modo comune di pensare. Prende coscienza, vuole capire chi è Cristo e, una volta capito, sa di non poter più essere lo stesso. Dovremmo pregare per questo, perché, come ci ricorda oggi la lettera di San Paolo, il Signore "dia buon esito ad ogni vostra volontà di bene e all'opera della vostra fede".

5. Per capire tutto questo bisogna conservare, tramite la preghiera, una serenità d'animo veramente cristiana tanto che, ancora San Paolo, ci ricorda: "di non lasciarvi facilmente agitare nel vostro animo e spaventare da oracoli o discorsi" di vario genere. Opinioni fatue e fallaci che oggi, ancor più di ieri, tendono a farci reputare inutile il messaggio evangelico, con l'unico scopo di ingannarci sul vero senso della vita.

Crescere con la
Buona Politica
PRESENTAZIONE DEL CORSO
Lo scopo di questo corso è duplice: fornire gli
strumenti concettuali per una seria e profonda
educazione politica e formare persone interessate
a partecipare in prima persona all’agone politico.
I primi incontri sono di carattere storico con
excursus approfonditi nella vita dei maggiori partiti
di massa che hanno guidato l’Italia. Attraverso la
storia della DC, del PSI, del PCI e della Destra,
dei suoi valori e dei suoi protagonisti, il corso si
propone di comprendere meglio i partiti politici
odierni e le loro dinamiche.
La seconda parte invece approfondisce alcuni
temi importanti e attuali della nostra società: la
sicurezza, il federalismo, il mondo del lavoro e i
principi di solidarietà.
Il corso vedrà la partecipazione di relatori e ospiti
di spicco del mondo politico e intellettuale.
Il corso si rivolge agli studenti della scuola
secondaria, agli studenti universitari
e a i giovani fino ai 35 anni.
Partecipazione gratuita.
Frequenza obbligatoria.
Attestato di partecipazione a fine corso.
Iscrizione: entro il 5 Novembre.
Dove e quando:
Calendario degli incontri:
11 Novembre (giovedì) La partecipazione politica:
la forma partito è ancora attuale?
Padre BARTOLOMEO SORGE
26 Novembre I partiti politici nel 2010
ANDREA BIENATI
10 Dicembre Storia dei partiti politici: il PSI e il PCI
PAOLO TENCONI , PAOLO PILLITTERI, LUIGI CORBANI
14 Gennaio Storia dei partiti politici: la DC
PAOLO TENCONI, PIERO BASSETTI
28 Gennaio La Destra e la trasformazione degli anni ‘90.
MARCO RIZZI
11 Febbraio La politica della sicurezza
ACHILLE SERRA
25 Febbraio Federalismo e autonomia
GIANCARLO PAGLIARINI, PAOLO SABBIONI
11 Marzo Impresa, lavoro e società pubbliche
GIULIO SAPELLI, ELIO BORGONOVI
25 Marzo Le politiche per il welfare e i principi di
solidarietà nella “Caritas in Veritate”
Mons. GIAMPAOLO CREPALDI, SAVINO PEZZOTTA
8 Aprile Analisi dei dati elettorali e organizzazione
di una campagna mediatica
ANTONIO VALENTE, ANTONGIULIO BUA
Frequenza quindicinale, ogni venerdì.
Apertura corsi ore 18:00 con aperitivo
e inizio incontro ore 19:30
Società Umanitaria
Via Daverio, 7
Milano
Enrico Marcora, consigliere reg. Lombardia
Alessandro Sancino, consigliere prov. Milano
Collegio San Carlo e dell’Istituto Leone XIII.
È un’iniziativa di:
con la partecipazione di:

martedì 19 ottobre 2010

Domenica 24 Ottobre 2010 LA VOCAZIONE



I dopo la Dedicazione - Il mandato missionario

Lettura del Vangelo secondo Matteo 28, 16-20

In quel tempo. Gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che il Signore Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

Il vangelo della prossima domenica pur essendo breve contiene molti temi.

Innanzitutto il dubbio dei discepoli, che rimane anche di fronte alla presenza del Risorto.

In secondo luogo il potere universale di Cristo, fondamento dell’opera missionaria della Chiesa

L’ordine di predicare il vangelo e di battezzare tutte le genti.

Infine la promessa di Cristo di essere sempre accanto ai discepoli.

C’è da confondersi!

Scelgo per questa volta il terzo punto: il comando di Cristo di annunciare il Vangelo a tutte le Genti.

Questo comando può essere visto almeno sotto due profili: a) il vangelo è necessario per la vita di ogni uomo. Restare senza vangelo significa restare senza la luce, il senso della vita, l’amore vero, la speranza che vince la morte.

b) il secondo profilo è quello per cui si manifesta il progetto di Dio e tale progetto diventa la vocazione dell’uomo. È su questo punto che ci fermiamo.

Dal comando di Gesù nasce la vocazione per l’uomo.

Avete mai pensato che Pietro e gli altri apostoli hanno cambiato vita nella maturità?

Ciò è accaduto perché Gesù con la sua amicizia, la sua parola, il suo esempio ha sconvolto la gerarchia di valori e di abitudini che si era sedimentata nella loro esistenza.

Dopo l’incontro con Cristo, gli apostoli ritengono che insieme a Lui si può anche dare la vita (e dopo la Pentecoste lo faranno tutti).

Da Cristo non vogliono più essere separati. Tutto ciò che non porta a Lui è spazzatura dice s. Paolo.

La convinzione di questi semplici personaggi del popolo ebreo è elementare, ma decisiva: Cristo è il tesoro vero della vita. Quello che ti dirà di fare sarà il bene vero per la tua vita. Alle nozze di Cana, Maria disse: “fate quello che vi dirà”.

Dopo la risurrezione, Gesù li invia al mondo ed essi faranno ciò che Lui dice.

Si entra nella logica della vocazione religiosa quando si crede che la vita sarà spesa bene non quando realizziamo i nostri progetti elaborati per noi stessi e per il nostro prestigio, ma quando si farà ciò che Dio ci chiederà di fare.

Dove Dio mi metterà, là io staro bene.

Questa convinzione fa a pugni con la moda contemporanea della autorealizzazione, vista come affermazione di se stessi in termini di potere, denaro, visibilità. Questo aspetto è talmente chiaro che è inutile insistervi.

Le vocazione religiose sono in calo per questo motivo: non mi fido del posto che Dio mi assegnerà e non cerco neppure la sua eventuale chiamata; e sono invece concentrato nella conquista della mia posizione.

La sparizione del matrimonio come vocazione

Il fatto più preoccupante dei nostri tempi non è però il calo delle vocazioni religiose, ma la tendenziale sparizione delle vocazione matrimoniale.

E si capisce.

Se smetti di ascoltare Dio perché hai paura di amare secondo la sua prospettiva, smetterai di amare. Punto.

L’uomo e la donna smettono di stare insieme? Ovviamente no (almeno nella generalità). Ma smetteranno di stare insieme secondo il progetto del dono d’amore reciproco e totale. Siccome non si può stare soli, si sta insieme in qualche modo, spesso senza entusiasmo, senza speranza, senza gioia.

La perdita o la conquista della giovinezza

Due anni fa un mio caro amico don è partito per Haiti, il paese più disgraziato del pianeta. Niente di strano dato che di missionari ce ne sono ancora. Il fatto è che questo era un apprezzato parroco di un nostro paese del varesotto e alla bella età di 67 anni decide di andare in missione e proprio là.

Quando ero giovane mi aveva fatto molti regali con la sua testimonianza e amicizia, ma questo è stato il più grosso dono che mi abbia fatto.

Mi ha fatto capire che la vocazione non è fatto di una volta, anche se nella giovinezza si fanno le scelte più decisive, ma rimane evento che accompagna la vita della persona.

Un uomo vivo si chiede sempre a quale amore deve rispondere. Se fa così è sempre giovane. Ed è sempre capace di sorprese.

Chi sta vicino a Gesù e gli dice di sì ha scoperto il segreto della vita che non muore.

RITO ROMANO

Luca 18,9-14

In quel tempo, 9 Gesù disse ancora questa

parabola per alcuni che avevano l’intima

presunzione di essere giusti e disprezzavano

gli altri:

10 «Due uomini salirono al tempio a

pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.

11 Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra

sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono

come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri,

e neppure come questo pubblicano. 12

Digiuno due volte alla settimana e pago le

decime di tutto quello che possiedo”.

13 Il pubblicano invece, fermatosi a distanza,

non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo,

ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi

pietà di me peccatore”.

14 Io vi dico: questi, a differenza dell’altro,

tornò a casa sua giustificato, perché

chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si

umilia sarà esaltato».

Luca 18,9-14

L’intima presunzione di essere giusti, disprezzando gli altri, per Gesù arriva fino

alla preghiera, che dovrebbe essere il luogo di verità per ciascuno di noi, in

quanto ci ritroviamo faccia a faccia con il Signore. La preghiera è il luogo

privilegiato in cui la memoria di ciò che contraddice il senso della vita viene

posto davanti al Signore per ottenere una risposta da parte sua.

Con questa parabola Gesù vuole aiutarci a capire che nessuno si può considerare

migliore degli altri. Anche Paolo, che abbiamo visto nella seconda lettura essere

convinto della bontà della propria vita, ai Filippesi scrive così: «ciascuno di voi,

con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso» (2,3).

Il fariseo alimenta la propria presunzione nell’osservanza dei comandamenti e dei

rituali religiosi. Egli si fa forte della propria fedeltà alla legge per giudicare gli

altri, invece di ringraziare il Signore per quanto ha ricevuto gratuitamente da lui.

Per questo si ritrova in una situazione di non verità, perché non sa riconoscere la

realtà della propria vita, che non è merito suo, in quanto il dono originario viene

dal Signore e lui vi ha solo corrisposto con giustizia. Non è lui la fonte della sua

vita buona, ma il Signore.

Il pubblicano è consapevole della propria condizione di peccatore, e chiede al

Signore di avere pietà di lui. Egli si ritrova così nella verità della propria vita e

proprio per questo sarà esaudito.

Gesù conclude con un detto sull’esaltazione e l’umiltà. Quest’ultima è condizione

necessaria e sufficiente per ottenere la salvezza: necessaria perché senza l’umiltà,

che parte dalla consapevolezza della propria condizione di fragilità, ci ritroviamo

nella menzogna; sufficiente perché chi è umile sa accogliere la salvezza che viene

da Dio, che ama gli umili («Il Signore ama il suo popolo, incorona gli umili di

vittoria» Sal 149,4).

mercoledì 13 ottobre 2010

Domenica 17 ottobre 2010 festa della dedicazione del Duomo Vivere in un camper invece che nella casa, quasi come Ulisse

Domenica 17 ottobre 2010 festa della dedicazione del Duomo

VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Luca 6, 43-48

In quel tempo. Il Signore Gesù disse ai suoi discepoli: «Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo. L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda. / Perché mi invocate: “Signore, Signore!” e non fate quello che dico? Chiunque viene a me e ascolta le mie parole e le mette in pratica, vi mostrerò a chi è simile: è simile a un uomo che, costruendo una casa, ha scavato molto profondo e ha posto le fondamenta sulla roccia. Venuta la piena, il fiume investì quella casa, ma non riuscì a smuoverla perché era costruita bene».

Il Vangelo non è una esercitazione letteraria e neppure una buona parola che si dice per esortare a qualche bel sentimento: esso è teso a costruire una casa, la casa della propria vita. Ebbene, chi ascolta il Vangelo e lo mette in pratica è un uomo prudente, perché costruisce la sua vita sulla pietra; chi invece ascolta soltanto, e non segue il Vangelo, è uno stolto, perché sarà travolto dalle avversità. Ovviamente è ancora peggio se neppure si ascolta la Parola di Dio.
Sulla sabbia basta un'onda leggera per travolgere tutto quello che si è costruito; di qui anche il detto popolare sui "castelli di sabbia". In verità spesso la vita ci riserva spesso scrosci violenti e venti impetuosi. Per questo l'avvertimento di Gesù è saggio e amichevole.

La sabbia non è lontana. Non bisogna fare lunghe file o chilometri di strada per arrivarci. Ce l'abbiamo nel cuore. La sabbia è l'orgoglio di sé, dei propri sentimenti, delle proprie convinzioni, è l'arroganza di chi pretende di avere sempre ragione anche davanti al Signore, è la freddezza di chi è indifferente ai bisogni degli altri. La stagione della sabbia può durare un giorno, un mese, un anno, o anche una vita intera. È il tempo in cui non si ascolta il Vangelo né tanto meno lo si mette in pratica. Quanti uomini, quante donne dovrebbero ammettere che la loro costruzione umana è crollata, e non lo ammettono, perché non vogliono rivelare che nel loro cuore c'è sabbia! Stiamo attenti, perché la sabbia è anche deserto; anzi la sabbia fa il deserto, crea solitudine, amarezza, assenza di vita felice. Il Signore ci ha fatto dono della pietra ove poter costruire la nostra vita. La pietra non siamo noi, è il Signore stesso, è il suo Vangelo, che rimane saldo e non crolla.

Vivere in un camper invece che nella casa, quasi come Ulisse

Cerchiamo di capire come si costruisce quella vera casa dell’uomo che è la coscienza.

Il passaggio dall'agire spontaneo e 'infantile' alla scelta libera si configura sempre e di necessità come una seconda nascita. Solo con la libertà che si determina si ha la vita dello spirito; il compimento della libertà si ha quando essa si affida non solo alla promessa del reale, ma, in ultima istanza alla promessa di Dio. Questo passaggio necessario è molto complesso, perché vi agiscono processi psicologici, processi culturali e le stesse scelte libere del soggetto.

Possiamo avere un primo chiarimento di questa complessità se ci chiediamo quale sia il ruolo svolto dalla cultura.

La cultura offre alla stessa coscienza personale una prima istruzione dei significati dell'agire. Ma queste indicazioni hanno un doppio profilo: da un lato sono assolutamente necessarie; d’altro lato esse sono insufficienti.

Sono necessarie perché il soggetto ha bisogno di testimonianze che gli facciano comprendere il senso dell’agire buono, nel quale è racchiusa la promessa di vita buona e di senso. Sono insufficienti, perché il soggetto libero, di fronte a queste testimonianze deciderà di se stesso, solo se le riterrà affidabili.

Quindi la vita dello spirito, che abbiamo chiamato seconda nascita dovuta all’esercizio della libertà, non è il risultato scontato di un processo educativo.

Questa seconda nascita non può mai essere considerata come un fatto compiuto; è invece atto che deve essere sempre da capo ripreso; è un permanente debito o un dovere di sempre del soggetto.

Si può dire che la verità più profonda del dovere morale è il riconoscimento di un debito permanente che l’uomo ha di decidere di sé, esercitando la libertà.

Esiste una scansione che conduce dal provvisorio al definitivo, al momento in cui riconosciuto il tempo pieno (che nel Vangelo coincide con la presenza di Gesù), la libertà si determina in modo incondizionato. Questa concezione della libertà comporta che il soggetto umano viva l’esperienza della ripresa di se stesso e non invece della continua ricerca di nuovi esperimenti.

La Bibbia ci istruisce abbondantemente sul tema della ripresa, ma prima svolgiamo alcune considerazioni in relazione alla sua completa assenza nella cultura contemporanea.

Dobbiamo richiamare alla nostra attenzione che cosa sia un atto libero: esso è l’atto mediante il quale si riconosce insieme l'imperativo proposto dalla coscienza espresso da un tempo particolare (kairós), un tempo che finalmente consente la disposizione di sé da parte del soggetto; in tal senso, da un tempo pieno.

L’atto libero è strutturalmente articolato nei due momenti: quello dell'agire mediante il quale il soggetto si cerca, e rispettivamente quello dell'agire mediante il quale il soggetto invece si dona, o comunque dispone di sé stesso.

Il cammino morale come ricerca di sé

Ora la cultura contemporanea si concentra sul primo momento, quello della ricerca e non approda quasi mai al secondo momento, quello in cui il soggetto decide di sé.

Dimenticare il secondo momento dell’atto libero, significa negare la libertà dell’uomo.

Figura emblematica di questa situazione culturale è quella di Ulisse, l’eroe che cerca sempre, senza mai approdare alla patria, perché non crede che ci sia patria. Per lui e per la cultura contemporanea non esiste una terra promessa verso cui dirigersi decisamente. Per questo l’eroe preferisce vagare e vivere le emozioni delle nuove esperienze come risposta alle sue aspirazioni. In questo senso egli non è libero.

Ma se la cultura contemporanea non riconosce nessuna terra promessa, diventa conseguentemente incapace di proporre anche le prime evidenze della vita buona sia alle nuove generazione sia agli stessi adulti, che debbono sempre daccapo vivere il proprio impegno morale.

La situazione può essere sinteticamente descritta così: la cultura pubblica non propone un ideale di vita buona e la coscienza del singolo resta in balia di se stessa, senza alcun punto di riferimento. Ciò comporta una regressione della coscienza dei singoli, che tendono ad agire soltanto sulla base delle emozioni (persistono modalità infantili nel comportamento degli adulti). Infatti nella misura in cui il rapporto tra cultura pubblica e coscienza del soggetto stenta a realizzarsi, cresce per il soggetto la difficoltà a passare dal comportamento emotivo a quello intenzionale e libero. Il soggetto minaccia di rimanere infantile: per un primo lato, prepotente come un bambino; per altro lato impotente come un bambino. L'impotenza di cui si dice è quella che si esprime nell'atteggiamento di chi può essere soltanto spettatore patetico della propria vita; secondo i casi, lo spettatore è soddisfatto, oppure invece offeso e risentito per la deludente qualità di ciò che gli tocca vedere. In ogni caso, egli rimane spettatore e non attore.

È evidente quanto questa situazione culturale, in cui manca il tempo pieno, il tempo per l’esercizio della libertà, sia una provocazione per la coscienza cristiana. Infatti nel contesto sociale descritto diventa problematica la stessa formazione psicologica della coscienza che è condizione perché possa poi prodursi in maniera adeguata la stessa decisione della fede.

Il cammino morale come ripresa di sé

Di segno diverso come dicevamo è la figura della vita umana raccomandata dalla tradizione biblica.

La Bibbia propone la figura della ripresa, non della ricerca permanente. Le prime vicende della vita dischiudono un senso, o più francamente una promessa, che l'uomo alla fine può e deve scegliere senza più incertezze. Soltanto quando egli giunga a tale scelta, giunge insieme alla sua vera nascita (Gv 3) . Tale figura della vita trova la sua realizzazione compiuta nel destino di Gesù, e dunque nel vangelo che proclama tale destino come rivelazione escatologica della verità del destino di ogni uomo. E tuttavia lo stesso riconoscimento della verità del vangelo di Gesù, proprio perché verità di un compimento, suppone la ripresa di una vicenda precedente: quella di Mosè e dei profeti anzi tutto, ma tramite quella e al di là di quella la vicenda universale dei figli di Adamo.

Nel libro dell’Esodo sono mostrati i due tempi della libertà: dapprima Israele è condotto come su “ali di aquila”, il viaggio è facile, conseguenza della liberazione operata da Dio. Israele è chiamato all’alleanza e in questo contesto di dono e promessa di Dio riceve la legge. Come dire che il senso della legge può essere compreso solo nel contesto dell’azione liberatrice di Dio costituisce Israele come popolo.

Ma verrà un tempo in cui si dovranno affrontare delle prove. Solo attraverso di esse il popolo potrà comprendere la verità della legge.

Uno schema analogo può essere riconosciuto come operante anche nel caso dell'esperienza dei profeti. Nella loro vicenda esistenziale si manifesta questa legge: l'identità personale in prima battuta è assegnata dall'iniziativa sorprendente di Dio, che anticipa ogni consapevolezza e tanto più ogni scelta dell'uomo stesso. All'iniziativa preveniente di Dio, che lo elegge e lo chiama, il profeta deve consentire liberamente. Lo schema trova illustrazione eloquente nelle 'confessioni' di Geremia; egli ha all'inizio consentito con entusiasmo facile alla vocazione; ma poi, dolorosamente istruito dal destino effettivo che quella vocazione gli ha riservato, sospetta che la sua prima risposta sia stata il risultato di proditoria seduzione da parte di Dio; vorrebbe ritrattare quella risposta, e non parlare più in suo nome; ma un fuoco ardente chiuso nelle sue ossa gli impedisce quasi fisicamente di tacere la parola di Dio (cfr. Ger 20,7-9).

La scansione in due tempi della risposta alla vocazione di Dio appare operante anche nella vicenda dei discepoli al seguito di Gesù. Essi sono stati scelti come apostoli da Gesù, ancor prima ch'essi potessero capire e aderire pienamente a tale iniziativa. Certo, alla chiamata del maestro essi hanno risposto liberamente fin dall'inizio. Ma le ripetute incomprensioni che si producono tra loro e il Maestro mettono in discussione la loro consapevolezza, e quindi anche la libertà della loro prima risposta. Una seconda risposta, questa sì libera, verrà solo dopo che essi saranno istruiti dalla loro stessa vicenda precedente. La forma della loro scelta allora sarà appunto quella del consenso al destino assegnato dall'iniziativa solitaria del Maestro. Sapete ciò che vi ho fatto?, chiede Gesù ai suoi dopo la lavanda dei piedi (Gv 13,12); soltanto a procedere da una tale consapevolezza, soltanto a misura in cui diverrete partecipi delle mie intenzioni, potrete conoscere anche quale sia il comandamento a cui conformare la vostra vita. Ciò che Gesù ha fatto di loro - e in certo senso anche con loro - realizza appunto la figura del tempo pieno, che consente di volere e di disporre in forma compiuta della vita. La seconda nascita è una ripresa della prima.

E solo la seconda nascita è stabile come la casa fondata sulla roccia.

Rito romano

Vangelo: Lc 18,1-8

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi: “C'era in una città un giudice, che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno. In quella città c'era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: Fammi giustizia contro il mio avversario. Per un certo tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: Anche se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno, poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga continuamente a importunarmi”.
E il Signore soggiunse: “Avete udito ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà a lungo aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”.

Ci avviamo verso la conclusione dell'anno liturgico. E' stato un tempo nel quale, di domenica in domenica, siamo stati portati alla contemplazione del mistero di Gesù. Le nostre settimane, i nostri giorni, sono stati come lievitati dal fermento della Parola di Dio. Anche in questa domenica, riceviamo in dono della Parola di Dio che si innerva nella vita dei nostri giorni. E' la breve parabola della vedova insistente: una situazione tipica, non solo negli usi giuridici dell'Antico Testamento. Anche oggi, non di rado, accade che un prepotente si avvalga di cavilli giuridici per strappare a poveri indifesi quel poco che hanno. Il giudice – riprendendo la parabola evangelica - dovrebbe, con imparzialità e tempestività, difendere quella povera donna. Ma il magistrato si comporta esattamente al rovescio: non teme né Dio, né gli uomini ("C'era in quella città un giudice che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno"). In un certo modo viene rappresentata l'arroganza del potere, che spesso troviamo nella storia degli uomini. Già il profeta Isaia l'aveva denunciata: "Guai a coloro che fanno decreti iniqui e scrivono in fretta sentenze oppressive, per negare la giustizia ai miseri e per frodare del diritto i poveri del mio popolo, per fare delle vedove la loro preda e per spogliare gli orfani, dice il Signore"(Is. 10, 1-2). A questo punto inizia la storia raccontata dalla parabola: cosa farà la povera vedova in questa situazione di palese ingiustizia? Oltretutto, nel mondo ebraico, donne come lei erano il simbolo della debolezza, oltreché le più esposte al sopruso. Dio stesso si fa loro difensore; viene infatti invocato con il titolo di "difensore delle vedove", ormai prive della tutela del marito (Sal. 68,6). Questa donna, comunque, non si rassegnò all'ingiustizia, come in genere invece solevano fare tutte. Era certamente una vittima, ma tutt'altro che rassegnata. Con insistenza, infatti, si recava dal giudice pretendendo la giusta soddisfazione. Non lo fece solo una volta, ma più volte; con tenacia non si stancava di pretendere il giusto, finche quel giudice non si decise a prendere in esame il suo caso. "Disse tra sé: anche se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno, poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga più ad importunarmi". Così termina la parabola. Importanti sono le brevi conclusioni poste da Gesù. Inizialmente sembrano alquanto sconcertanti, perché pone in parallelo il giudice della parabola con Dio stesso. Si tratta di un paradosso, usato altre volte nei Vangeli, per togliere dalla nostra mente ogni dubbio: "Avete udito ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà a lungo aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente". Sì, Dio non ci farà aspettare a lungo, farà giustizia prontamente (qualcuno traduce "all'improvviso", "quando meno te lo aspetti"), se con insistenza rivolgiamo a Lui la nostra preghiera. In effetti, i credenti hanno una forza incredibile nella preghiera, un'energia che riesce a cambiare il mondo. Siamo tutti, forse, come quella povera vedova, deboli, senza particolari poteri; eppure questa debolezza, nella preghiera insistente, diviene una forza potente; appunto, come per quella vedova che riuscì ad intaccare la durezza del giudice.

Purtroppo è facile per noi cadere nella sfiducia e nell'incredulità, lasciarsi travolgere dalle cose di questo mondo, dalle nostre ansie, dalle nostre sicurezze, e dimenticare la preghiera. La prima lettura della liturgia, tratta dal libro dell'Esodo (17, 8-13), è un esempio incredibile della "forza debole" della preghiera. La Scrittura ci presenta la figura di Mosè con le mani alzate verso il cielo, mentre Israele affronta in battaglia Amalek, nella piana di Refidim. Mosè impersona tutto il popolo in preghiera. Quando lui prega il popolo di Israele vince, non appena abbassa le mani, subito prevale il nemico. Aronne e Cur intervengono, uno da una parte e l'altro dall'altra, per sorreggergli le mani, fino al momento della vittoria finale. Nella preghiera costante, noi credenti, possiamo trovare il fondamento per costruire la nostra vita e per edificare la stessa città degli uomini, certi di quanto scrive il salmo 127: "Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori".

martedì 5 ottobre 2010

novita' novita' novita' Domenica 10 Ottobre 2010

Novità!!!

Da oggi il commento al vangelo avrà una forma diversa:

In linea generale commenterò solo il testo del vangelo, per evitare dispersioni. Ma la cosa più importante e nuova consiste nell’estrazione di un tema posto dal vangelo e nella sua trattazione più ampia e profonda.

Oggi cominciamo con il tema dell’accoglienza che ci porta a riflettere sul fondamentale valore della relazione interumana.

In fondo metterò il testo del vangelo secondo il rito romano, con un commento di autori qualificati.


VANGELO di rito ambrosiano


Lettura del Vangelo secondo Matteo 10, 40-42

In quel tempo. Il Signore Gesù disse: «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto. Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».

Commento

In poche righe il Vangelo (ricordiamo sempre che di tratta della parola di Gesù) svolge una profondissima teoria delle relazioni personali:

- Gesù vuole essere accolto da ogni uomo; accogliere Lui vorrà dire accogliere la Vita. Quindi occorre scegliere di accoglierlo se si vuole entrare nella vita vera.

- l’accoglienza della persona del prossimo realizzerà l’accoglienza della persona di Cristo, quindi accogliendo l’uomo si accoglie Dio.

- È un’idea originale del vangelo.

Ritroviamo questa novità assoluta in un altro fondamentale passo di Matteo: "Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?".Gli rispose: "Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti".

Qui i due comandamenti, quello di amare Dio e di amare luogo sono legati inscindibilmente. Questo legame fa del Cristianesimo non una teoria, ma una vita concreta. La fede in Cristo diventa apertura del cuore e delle mani agli uomini, in un atteggiamento di servizio e di amore.

- sembra che il discorso sia riservato solo ai discepoli. In realtà l’argomentazione riguarda tutti gli uomini, che in Cristo sono stati fatti figli di Dio.

- le parole di Gesù possono estendersi a tutti gli uomini perché per essere uomini è necessario accogliersi vicendevolmente. L’uomo non è autosufficiente, anche se crede di esserlo.

- MARTIN BUBER. Per una riflessione approfondita sulla necessità della relazione umana come via essenziale alla comprensione alla realizzazione della persona, ci facciamo aiutare dal pensiero del filosofo ebreo austriaco Martin Buber. Se è un pò difficile fate lo sforzo di pensare o di interrogarmi via mail.

Io e Tu (Ich und Du)

Nella sua filosofia , Martin Buber sottolinea la propensione duplice verso il mondo:

la relazione Io-Tu e la relazione Io-esso.
Né l'Io, né il Tu vivono separatamente, ma essi esistono nel contesto Io-Tu, antecedente la sfera dell'Io e la sfera del Tu. Così, né l'Io né il esso esistono separatamente, ma esistono unicamente nel contesto Io-esso.

La relazione Io-Tu è assoluta solo rispetto a Dio - il Tu eterno - e non può essere pienamente realizzato negli altri domini dell'esistenza, comprese le relazioni umane, dove sovente Io-Tu fa posto all'Io-esso (Io-Tu o Io-esso non dipendono dalla natura dell'oggetto, ma dal rapporto che il soggetto istituisce con l'oggetto).

L'essere umano non può trasfigurarsi ed accedere a una dimensione di vita autentica senza entrare nella relazione Io-Tu, confermando così l'alterità dell'altro, che comporta un impegno totale: “La prima parola Io-Tu non può essere detta se non dall'essere tutto intero, invece la parola Io-esso non può mai essere detta con tutto l'essere”. Io e Tu sono due esseri sovrani, l'uno non cerca di condizionare l'altro né di utilizzarlo.

Secondo Buber l'uomo può vivere senza dialogo, ma chi non ha mai incontrato un Tu non è pienamente un essere umano. Tuttavia, chi si addentra nell'universo del dialogo assume un rischio considerevole dal momento che la relazione Io-Tu esige un'apertura totale dell'Io, esponendosi quindi anche al rischio del rifiuto e al rigetto totale.

La realtà soggettiva dell'Io-Tu si radica nel dialogo, mentre il rapporto strumentale Io-esso si realizza nel monologo, che trasforma il mondo e l'essere umano stesso in oggetto. Nel piano del monologo l'altro è reificato - è percepito e utilizzato - diversamente dal piano del dialogo, dove è incontrato, riconosciuto e nominato come essere singolare. Per qualificare il monologo Buber parla di Erfahrung (una esperienza “superficiale” degli attributi esteriori dell'altro) o di Erlebnis (una esperienza interiore insignificante) che si oppone a Beziehung - la relazione autentica che interviene tra due esseri umani.

Lo "stretto spartiacque"

Queste convinzioni si oppongono tanto all'individualismo, dove l'altro non è percepito che in rapporto a se stessi, quanto alla prospettiva collettivista, dove l'individuo è occultato a vantaggio della società.

Vi è chi ha utilizzato questa idea per spiegare il passo biblico della “dispersione delle lingue”: nessun individuo è nominato, perché la lingua unica conosce una voce unica. Babele vive intera sotto lo stivale di un dirigente che ha una sola idea: uguagliare Dio. Ma è Questi dunque a intervenire facendo nascere il sentimento dell'essere intero, non cosificato.
Per Buber una persona non può vivere nel senso pieno della parola se non si trova nella sfera interumana: “Sullo stretto spartiacque dove l'Io e il Tu si incontrano, nella zona intermediaria”, che è una realtà esistenziale - un evento che avviene realmente tra due esseri umani.

Il volto dell'Altro e il volto di Dio

Il pensiero in Buber con la sua concezione che afferma l'essenza della vita come relazione per cui non si dà una soggettività che non sia simultaneamente intersoggettività sembra muoversi verso una concezione unitaria dell'essere, tuttavia questa direzione del suo pensiero si ferma proprio là quando si tratta di affrontare le due realtà, quella umana e quella divina trattate sino ad oggi come appartenenti a due ordini differenti. Egli infatti nel ribadire come nell'unità dialogica, la "coppia Io-Tu", il volto dell'Altro rimanda sì al volto di Dio ma non è comunque il volto di Dio mantiene l'insanabile frattura tra la realtà mondana e la realtà divina come separazione insuperabile.

Questa difficoltà della filosofia di Buber è superata dall’annuncio cristiano dell’Incarnazione del Figlio di Dio. Nell’Incarnazione Dio, chiamato anche il Totalmente Altro, perché non lo si può conoscere senza che Lui stesso si riveli, prende la carne umana, si fa Figlio dell’uomo, se ne può guardare il volto e come Lui stesso dice, ogni volta che si accoglie un uomo si accoglie Dio stesso e si dissolve ogni schizofrenia tra mondo trascendente e mondo immanente.