mercoledì 22 giugno 2011

Domenica 25 Giugno 2011 e festa del corpus domini



DOMENICA II DOPO PENTECOSTE

LETTURA
Lettura del libro del Siracide 17, 1-4. 6-11b. 12-14


Il Signore creò l’uomo dalla terra / e ad essa di nuovo lo fece tornare. / Egli assegnò loro giorni contati e un tempo definito, / dando loro potere su quanto essa contiene. / Li rivestì di una forza pari alla sua / e a sua immagine li formò. / In ogni vivente infuse il timore dell’uomo, / perché dominasse sulle bestie e sugli uccelli. / Discernimento, lingua, occhi, / orecchi e cuore diede loro per pensare. / Li riempì di scienza e d’intelligenza / e mostrò loro sia il bene che il male. / Pose il timore di sé nei loro cuori, / per mostrare loro la grandezza delle sue opere, / e permise loro di gloriarsi nei secoli delle sue meraviglie. / Loderanno il suo santo nome / per narrare la grandezza delle sue opere. / Pose davanti a loro la scienza / e diede loro in eredità la legge della vita. / Stabilì con loro un’alleanza eterna / e fece loro conoscere i suoi decreti. / I loro occhi videro la grandezza della sua gloria, / i loro orecchi sentirono la sua voce maestosa. / Disse loro: «Guardatevi da ogni ingiustizia!» / e a ciascuno ordinò di prendersi cura del prossimo.

SALMO
Sal 103 (104)

® Benedici il Signore, anima mia!
Sei tanto grande, Signore, mio Dio!
Sei rivestito di maestà e di splendore,
avvolto di luce come di un manto,
tu che distendi i cieli come una tenda,
costruisci sulle acque le tue alte dimore. ®

Egli fondò la terra sulle sue basi:
non potrà mai vacillare.
Tu l’hai coperta con l’oceano come una veste;
al di sopra dei monti stavano le acque.
Hai fissato loro un confine da non oltrepassare,
perché non tornino a coprire la terra. ®

Tu mandi nelle valli acque sorgive
perché scorrano tra i monti.
Tu fai crescere l’erba per il bestiame
e le piante che l’uomo coltiva
per trarre cibo dalla terra. ®

EPISTOLA
Lettera di san Paolo apostolo ai Romani 1, 22-25. 28-32


Fratelli, mentre si dichiaravano sapienti, gli uomini sono diventati stolti e hanno scambiato la gloria del Dio incorruttibile con un’immagine e una figura di uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili. Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, tanto da disonorare fra loro i propri corpi, perché hanno scambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno adorato e servito le creature anziché il Creatore, che è benedetto nei secoli. Amen. E poiché non ritennero di dover conoscere Dio adeguatamente, Dio li ha abbandonati alla loro intelligenza depravata ed essi hanno commesso azioni indegne: sono colmi di ogni ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d’invidia, di omicidio, di lite, di frode, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, arroganti, superbi, presuntuosi, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia. E, pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo le commettono, ma anche approvano chi le fa.

VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Matteo 5, 2. 43-48

In quel tempo. Il Signore Gesù si mise a parlare e insegnava alle folle dicendo: «Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste».

Commento al Vangelo

Dopo il “Discorso della Montagna” in cui Gesù ha elencato inizialmente le “beatitudini”, dice

Matteo, (discorso fondativo della linea morale della nuova alleanza), la proposta di Gesù

continua, sviluppando attraverso sei antitesi, che possono sembrare contrapposizioni ma che

si risolvono in esempi di revisione e di reinterpretazione della legge (“Avete inteso che fu

detto dagli antichi…Ma io vi dico”: 5,21-48). Quest'oggi leggiamo l'ultimo esempio.

Siamo a confronto con testi che Gesù offre alla sua comunità perché sappia misurare le

proprie mentalità, e quindi scelte e stili di vita morale su alcuni criteri che Gesù ritiene

indispensabili per le scelte quotidiane dell'esistenza

Qui si parla di amore senza escludere nessuno.

“Avete inteso che fu detto: "Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico". Gesù trasforma

radicalmente tale mentalità, suggerendo la misura su cui ci si deve giudicare. Misura è la

perfezione del Padre nella sua misericordia e nel suo perdono:: "Siate perfetti come è perfetto

il Padre vostro celeste”.

Per sé nel Primo Testamento non si parla di odio ai nemici, salvo in alcuni salmi in cui

vengono ricordate le “guerre sante” in un linguaggio molto arcaico: "Non odio forse i tuoi

nemici, Signore ? Li detesto con odio implacabile" (Salmo 139,12-22). In alcuni scritti delle

comunità di Qumran (comunità religiose ebraiche al tempo di Gesù), si ritrovano anche

espressioni di amore per i credenti (i “figli della luce”) e odio per i pagani (”i figli delle

tenebre”).

E tuttavia anche nella Bibbia alcuni testi incoraggiano a non ricambiare il male: “Non dire:

«Come ha fatto a me così io farò a lui, renderò a ciascuno come si merita». (Prov 24,29)

oppure “Quando vedrai l'asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a

se stesso: mettiti con lui a scioglierlo dal carico” (Es23,5). In questo caso i rabbini

incoraggiavano ad un'attenzione particolare verso i connazionali. Comunque il tutto si

racchiudeva in un'attenzione agli appartenenti al popolo ebraico.

"Quali ricompensa per quali interventi?". La ricompensa corrisponde al salario che un

lavoratore riceve per un lavoro eseguito bene. Il testo può incoraggiarci a capire che

l'elemento fondamentale della ricompensa sia la gratuità, base di misura su cui Dio poggia il

suo riconoscimento. Ci si gioca infatti sulla novità, sulla sorpresa della stile di Dio tra noi,

sulla misericordia ed il perdono in un tempo di normale sospetto, di dominio ingiusto, di

eserciti di conquista che si impongono con la violenza.

L'amare solo i propri amici corrisponde a ciò che fanno anche le persone del più basso livello

morale, additate al disprezzo pubblico, che sono "i pubblicani", dipendenti e servi dell'impero

romano, normalmente colpevoli di estorsioni: appaltatori e raccoglitori di imposte.

Gesù invece dice: "Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori". Se amare

suppone una faticosa revisione dei propri sentimenti e quindi dei propri comportamenti, il

pregare richiede, più chiaramente, un puro atto interiore che spesso fa diventare drammatica

la scelta ed è, però, l’inizio di una conversione. La preghiera ha proprio il significato di unirci

al Signore, purificarci la mente e il cuore e accostare l'altro come un figlio di Dio.

Proprio questo Dio è colui che si mostra disponibile verso tutti e, attraverso Gesù, è colui che

predica e vive per il perdono di tutti.

Perfetto è colui che è disposto a rivedere i propri criteri per unirsi alla volontà di Dio.

Perfetto allora è colui che si unisce a Dio profondamente, che raccoglie la sua volontà in tutta

la sua grandezza. Perfetto è colui che sa di non essere perfetto, ma sa di dover camminare

poiché la perfezione è sempre oltre il proprio orizzonte.

Nel rito romano si celebra la solennità del Corpus Domini, che in ambrosiano si celebra nel giorno tradizionale del giovedì

Giovanni 6,51-58

In quel tempo, Gesù disse alla folla:

51 «Io sono il pane vivo, disceso dal

cielo. Se uno mangia di questo pane

vivrà in eterno e il pane che io darò è

la mia carne per la vita del mondo».

52 Allora i Giudei si misero a

discutere aspramente fra loro: «Come

può costui darci la sua carne da

mangiare?».

53 Gesù disse loro: «In verità, in

verità io vi dico: se non mangiate la

carne del Figlio dell’uomo e non

bevete il suo sangue, non avete in voi

la vita. 54 Chi mangia la mia carne e

beve il mio sangue ha la vita eterna e

io lo risusciterò nell’ultimo giorno. 55

Perché la mia carne è vero cibo e il

mio sangue vera bevanda.

56 Chi mangia la mia carne e beve il

mio sangue rimane in me e io in lui.

57 Come il Padre, che ha la vita, ha

mandato me e io vivo per il Padre,

così anche colui che mangia me vivrà

per me. 58 Questo è il pane disceso

dal cielo; non è come quello che

mangiarono i padri e morirono. Chi

mangia questo pane vivrà in eterno».

Giovanni 6,51-58

Dopo la moltiplicazione dei pani, il giorno seguente Gesù pronuncia,

secondo l’evangelista Giovanni, un lungo discorso sul significato di

quanto accaduto. Gesù si identifica con il pane disceso dal cielo, la manna che aveva

nutrito il popolo nella traversata del deserto. Egli non è solo il pane, ma

è il suo corpo, la sua carne che ora dà la vita.

I Giudei faticano a comprendere questo doppio livello simbolico: dal

pane a Gesù, da Gesù alla sua carne. Mangiare la carne di Gesù e bere il

suo sangue vuol dire identificarsi con il suo agire che è fonte di vita e,

in questo modo, farlo proprio, così da partecipare alla vita del Signore

risorto e farne diventare partecipi gli altri.

Al v. 57 c’è la chiave del discorso di Gesù che ci fa uscire dalla

materialità della carne da mangiare per farci entrare nella dinamica

della relazione tra il Padre e il Figlio.

Gesù enuncia la similitudine che esiste tra il mandato del Padre, che ha

la vita, al Figlio: quella di dare la vita agli uomini, e colui che mangia

Gesù, che vivrà per il Figlio.

Il Padre manda il Figlio, che vive per il Padre,

è simile a:

chi mangia me, vivrà per me.

E’ una similitudine che possiamo chiamare “sghemba”, non diretta, ma

che ci fa comprendere come chi incorpora il mandato del Padre al

Figlio, vivrà dello stesso mandato del Figlio.

Ora Gesù è più della manna, che non permise ai padri di vivere, infatti

essi videro la morte. Gesù è un pane che fa vivere in eterno, cioè anche

se si muore, si vivrà con lui risorto.

Approfondimento

Eucaristia, Profezia di Comunione

2010-08-27- Fabriano, Relazione alla 61a Settimana Liturgica Nazionale


1. La Chiesa comunione

Nella lettera apostolica Novo millennio ineunte, che possiamo considerare il suo testamento pastorale, Giovanni Paolo II pone la koinonia al centro della sua visione della Chiesa del terzo millennio. Scrive:

“L'altro grande ambito in cui occorrerà esprimere un deciso impegno programmatico, a livello di Chiesa universale e di Chiese particolari è quello della comunione (koinonìa) che incarna e manifesta l'essenza stessa del mistero della Chiesa […].È realizzando questa comunione di amore che la Chiesa si manifesta come ‘sacramento’, ossia ‘segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano’ (Lumen gentium, 1)” [1].

Con queste parole Giovanni Paolo II non ha solo raccolto e sintetizzato la dottrina del Vaticano II sulla Chiesa come comunione, ma le ha fatto fare un passo avanti. “La comunione incarna e manifesta l’essenza stessa del mistero della Chiesa”: la Chiesa dunque è comunione. Solo così la Chiesa è veramente riflesso della Trinità. Il principio base della teologia trinitaria è: “In Dio tutto è comune, eccetto la distinzione derivante dalla relazione”[2]; il principio fondamentale dell’ecclesiologia è: ”Nella Chiesa tutto è comune, eccetto la distinzione derivante dal ministero”.

Due concetti ci possono aiutare a capire la novità di questa ecclesiologia rispetto a quella anteriore: il concetto di stato e quello di nazione. “Nazione” indica il popolo, la realtà sociale, le persone; “stato” indica l’organizzazione di questa realtà: il governo che la regge, la costituzione su cui si regge, i diversi poteri (giudiziario, legislativo ed esecutivo), i simboli che la rappresentano. Non è la nazione che è a servizio dello stato, ma lo stato a servizio della nazione.

Potremmo dire, per analogia, che un tempo la Chiesa era vista soprattutto come stato, ora è vista soprattutto come nazione, come popolo di Dio; una volta era vista prevalentemente come gerarchia, ora è vista prevalentemente come koinonia. L’una e l’altra cosa, si sa, è essenziale: cosa sarebbe, per rimanere nel piano dell’analogia, uno stato senza la nazione, se non un’entità puramente teorica e senza scopo? Ma cosa sarebbe una nazione senza uno stato, se non una moltitudine amorfa di persone, in perenne conflitto tra di loro? Ciò che è cambiato non sono, dunque, gli elementi costitutivi della Chiesa, ma semmai il loro ordine e la priorità tra di essi.

“Se dunque, conclude la Novo millennio ineunte, la saggezza giuridica, ponendo precise regole alla partecipazione, manifesta la struttura gerarchica della Chiesa e scongiura tentazioni di arbitrio e pretese ingiustificate, la spiritualità della comunione conferisce un'anima al dato istituzionale con un'indicazione di fiducia e di apertura che pienamente risponde alla dignità e responsabilità di ogni membro del Popolo di Dio”.

Attenendomi al tema propostomi, “L’Eucaristia, profezia di comunione”, vorrei riflettere sull’Eucaristia come il sacramento che realizza e manifesta la koinonia della Chiesa e nello stesso tempo ne proclama le esigenze. In altre parole, l’Eucaristia come profezia, ma anche epifania della comunione ecclesiale. Nell’enciclica “Ecclesia de Eucaristia”, lo stesso Sommo Pontefice Giovanni Paolo II scriveva: “

“La Chiesa, mentre è pellegrinante qui in terra, è chiamata a mantenere ed a promuovere sia la comunione con Dio Trinità sia la comunione tra i fedeli. A questo fine essa ha la Parola e i Sacramenti, soprattutto l'Eucaristia, della quale essa « continuamente vive e cresce » e nella quale in pari tempo esprime se stessa. Non a caso il termine comunione è diventato uno dei nomi specifici di questo eccelso Sacramento”[3].
Per svolgere il tema proposto, prendo lo spunto dal seguente noto testo di S. Paolo: “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane” (1 Cor 10, 16-17).

La parola “corpo” ricorre due volte nei due versetti, ma con un significato diverso. Nel primo caso (“il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?”), corpo indica il corpo reale di Cristo, nato da Maria, morto e risorto; nel secondo caso (“siamo un corpo solo”), corpo indica il corpo mistico, la Chiesa. Non si poteva dire in maniera più chiara e più sintetica che la comunione eucaristica è sempre comunione con Dio e comunione con i fratelli; che c’è in essa una dimensione, per così dire, verticale e una dimensione orizzontale e che perciò la comunione eucaristica è l’attuazione sacramentale dei due massimi comandamenti della legge: “Amerai il Signore Dio tuo…e il prossimo tuo come te stesso”.

2. L’Eucaristia comunione con Cristo

Paolo parla dell’Eucaristia come comunione con il corpo e il sangue di Cristo. Ma che significano esattamente le parole corpo e sangue? La parola “corpo”, nella Bibbia non indica, come nel nostro linguaggio attuale, una componente, o una parte, dell’uomo che, unita alle altre componenti che sono l’anima e lo spirito, forma l’uomo completo; indica tutta la vita in quanto si svolge in una dimensione corporea. Ha lo stesso significato che ha la parola “carne” in Giovanni ,14: “Il Verbo si è fatto carne”. Istituendo l’Eucaristia, Gesù ci ha lasciato in dono tutta la sua vita, dal primo istante dell’incarnazione all’ultimo momento, con tutto ciò che concretamente aveva riempito tale vita: silenzio, sudori, fatiche, preghiera, lotte, umiliazioni; in una parola “il vissuto” esistenziale e storico di Gesù.

Cosa aggiunge allora la parola “sangue”, se Gesù ci ha già donato tutta la sua vita nel suo corpo? Aggiunge la morte! Il termine “sangue” nella Bibbia non indica, infatti, un organo del corpo, cioè una parte di una parte dell’uomo; indica un evento: la morte. Se il sangue è la sede della vita (così si pensava allora), il suo “versamento” è il segno plastico della morte. Dire che l’Eucaristia è il mistero del corpo e del sangue del Signore, significa dire che è il sacramento della vita e della morte del Signore, il sacramento che rende presente nello stesso tempo l’incarnazione e la passione del Salvatore.

Cerchiamo di approfondire quale genere di comunione si stabilisce tra noi e Cristo nell’Eucaristia. In Giovanni 6, 57 Gesù dice: “Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me”. La preposizione “per” (in greco, dià) ha qui valore causale e finale; indica insieme un movimento di provenienza e un movimento di destinazione. Significa che chi mangia il corpo di Cristo vive “da” lui, cioè a causa di lui, in forza della vita che proviene da lui, e vive “in vista di” lui, cioè per la sua gloria, il suo amore, il suo Regno. Come Gesù vive del Padre e per il Padre, così, comunicandoci al santo mistero del suo corpo e del suo sangue, noi viviamo di Gesù e per Gesù.

E’ infatti il principio vitale più forte che assimila a sé quello meno forte, non viceversa. E’ il vegetale che assimila il minerale, non viceversa; è l’animale che assimila e il vegetale e il minerale, non viceversa. Così ora, sul piano spirituale, è il divino che assimila a sé l’umano, non viceversa. Sicché mentre in tutti gli altri casi è colui che mangia che assimila ciò che mangia, qui è colui che è mangiato che assimila a sé chi lo mangia. A colui che si accosta a riceverlo, Gesù ripete ciò che diceva ad Agostino: “Non sarai tu che assimilerai me a te, ma sarò io che assimilerò te a me”[4].

Un filosofo ateo ha detto: “L’uomo è ciò che mangia”, intendendo dire, con ciò, che nell’uomo non esiste una differenza qualitativa tra materia e spirito, ma che tutto, in esso, si riduce alla componente organica e materiale. Ma, ancora una volta, è avvenuto che un ateo ha dato, senza saperlo, la migliore formulazione a un mistero cristiano. Grazie all’Eucaristia, il cristiano è veramente ciò che mangia! Scriveva già, tanto tempo fa, san Leone Magno: “La nostra partecipazione al corpo e al sangue di Cristo non tende ad altro che a farci diventare quello che mangiamo”[5]

Nell’Eucaristia non c’è dunque solo comunione tra Cristo e noi, ma anche assimilazione; la comunione non è solo unione di due corpi, di due menti, di due volontà, ma è assimilazione all’unico corpo, l’unica mente e volontà di Cristo. “Chi si unisce al Signore forma con lui un solo Spirito” (1 Cor 6, 17).

Questi sono concetti ed esempi classici. Vorrei insistere su un aspetto esistenziale della comunione eucaristica del quale si parla meno. La Lettera agli Efesini dice che il matrimonio umano è un simbolo dell’unione tra Cristo e la Chiesa: "Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!” (Ef 5, 31-33). Ora, secondo san Paolo, la conseguenza immediata del matrimonio è che il corpo (cioè, nel senso biblico di corpo, tutta la persona) del marito diventa della moglie e, viceversa, il corpo della moglie diventa del marito (cfr. 1 Cor 7, 4).

Applicato all’Eucaristia questo significa che la carne incorruttibile e datrice di vita del Verbo incarnato diventa “mia”, ma anche la mia carne, la mia umanità, diventa di Cristo, è fatta propria da lui. Nell’Eucaristia noi riceviamo il corpo e il sangue di Cristo, ma anche Cristo “riceve” il nostro corpo e il nostro sangue! Gesú, scrive sant’Ilario di Poitiers, assume la carne di colui che assume la sua[6]. Egli dice a noi: “Prendi, questo è il mio corpo”, ma anche noi possiamo dire a lui: “Prendi, questo è il mio corpo”.

Non c’è nulla della mia vita che non appartenga a Cristo. Nessuno dovrebbe dire: “Ah, Gesú non sa cosa vuol dire essere sposato, essere donna, aver perso un figlio, essere malato, essere anziano, essere persona di colore!” Ciò che Cristo non ha potuto vivere “secondo la carne”, essendo stata la sua esistenza terrena, come quella di ogni uomo, limitata ad alcune esperienze, lo vive e “sperimenta” ora da risorto “secondo lo Spirito”, grazie alla comunione sponsale con la Chiesa. Tutto ciò che “mancava” alla piena “incarnazione” del Verbo si “compie” nell’Eucaristia. Aveva compreso il motivo profondo di ciò la beata Elisabetta della Trinità quando scriveva: “La sposa appartiene allo sposo. Il mio mi ha presa. Vuole che sia per lui un’umanità aggiunta” [7].

Quale inesauribile motivo di stupore e di consolazione al pensiero che la nostra umanità diventa l’umanità di Cristo! Ma anche quale responsabilità da tutto ciò! Se i miei occhi sono diventati gli occhi di Cristo, la mia bocca quella di Cristo, quale motivo per non permettere al mio sguardo di indugiare su immagini lascive, alla mia lingua di non parlare contro il fratello, al mio corpo di non servire come strumento di peccato. “Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di una prostituta?” (1Cor 6,15).

Dare a Gesú le nostre cose –fatiche, dolori, fallimenti e peccati- è però solo il primo atto. Dal dare si deve passare subito, nella comunione, al ricevere. Ricevere nientemeno che la santità di Cristo! Se non facciamo questo “colpo di audacia” non capiremo mai “l’enormità” che è l’Eucaristia.

C’è un atto che a compierlo con gli uomini costituisce reato ed è punito dalla legge, a compierlo invece con Cristo è non solo permesso, ma sommamente raccomandato: la “appropriazione indebita”. In ogni comunione Cristo ci “istiga” a fare una appropriazione indebita! (“Indebita”, cioè non dovuta, non meritata, puramente gratuita!). Dove mai si attuerà, concretamente, nella vita del credente, quel “meraviglioso scambio” (admirabile commercium) di cui parla la liturgia, se non si attua al momento della comunione? Lì abbiamo la possibilità di dare a Gesú i nostri cenci e ricevere da lui il “manto della giustizia” (Is 61,10). È scritto infatti che egli “per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione” (1 Cor 1,30). Ciò che egli è diventato “per noi” ci è destinato, ci appartiene. È una scoperta capace di mettere le ali alla nostra vita spirituale.

3. L’Eucaristia, comunione con la Trinità

Riflettere sull’Eucaristia è come vedersi spalancare davanti, a mano a mano che si avanza, orizzonti sempre più vasti che si aprono uno sull’altro, a perdita di vista. L’orizzonte cristologico della comunione si apre infatti su un orizzonte trinitario. In altre parole, attraverso la comunione con Cristo noi entriamo in comunione con tutta la Trinità. Nella sua “preghiera sacerdotale”, Gesù dice al Padre: “Che siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me” (Gv 17, 23). Quelle parole: “Io in loro e tu in me”, significano che Gesù è in noi e che in Gesù c’è il Padre. Non si può, perciò, ricevere il Figlio, senza ricevere, con lui, anche il Padre. La parola di Cristo: “Chi vede me vede il Padre” (Gv 14, 9) significa anche “chi riceve me riceve il Padre”.

Il motivo ultimo di ciò è che Padre, Figlio e Spirito Santo sono un’unica e inseparabile natura divina, sono “una cosa sola”. Scrive, a questo proposito, sant’Ilario di Poitiers: “Noi siamo uniti a Cristo che è inseparabile dal Padre. Egli, pur rimanendo nel Padre, resta unito a noi; così anche noi arriviamo all’unità con il Padre. Infatti, Cristo è nel Padre connaturalmente, in quanto da lui generato; ma, in certo modo, anche noi attraverso Cristo, siamo connaturalmente nel Padre. Egli vive in virtù del Padre e noi viviamo in virtù della sua umanità”[8].
Volendo esprimerci con precisione teologica, diciamo che nell’Eucaristia, il Figlio Gesù Cristo è presente naturalmente (cioè con la sua duplice natura divina e umana) ed è presente anche personalmente (come persona del Figlio); il Padre e lo Spirito Santo direttamente, sono presenti soltanto naturalmente (in forza dell’unità della natura divina), ma indirettamente in forza, cioè della pericoresi delle persone divine, sono presenti anche personalmente. In ognuna delle tre persone della Trinità, infatti, sono presenti le altre due.

Ciò che si dice del Padre vale anche dello Spirito Santo. Nel sacramento si ripete ogni volta (quotiescunque) quello che avvenne una sola volta (semel) nella storia. Al momento della sua nascita terrena, è lo Spirito Santo che dona al mondo il Cristo (Maria concepì per opera dello Spirito Santo!); al momento della morte, è Cristo che dona al mondo lo Spirito Santo (morendo, “emise lo Spirito”). Similmente, nell’Eucaristia, al momento della consacrazione è lo Spirito Santo che ci dona Gesù (è per l’azione dello Spirito che il pane si trasforma nel corpo di Cristo!), al momento della comunione è Cristo che, venendo in noi, ci dona lo Spirito Santo.

Sant’Ireneo dice che lo Spirito Santo è “la nostra stessa comunione con Cristo”[9]. Per usare il linguaggio di un teologo moderno, Heribert Muhlen, egli è la stessa “immediatezza” del nostro rapporto con Cristo, nel senso che fa da intermediario tra noi e lui, senza però costituire alcun diaframma; senza che nulla stia “in mezzo” tra noi e Gesù, perché Gesù e lo Spirito Santo sono anch’essi – come Gesù e il Padre – “una cosa sola”. Nella comunione Gesù viene a noi come colui che dona lo Spirito. Non come colui che un giorno, tanto tempo fa, diede lo Spirito, ma come colui che ora, consumato il suo sacrificio incruento sull’altare, di nuovo, “emette lo Spirito” (cf Gv 19, 30).

Intorno alla mensa eucaristica si realizza la “sobria ebbrezza dello Spirito”. Commentando un testo del Cantico dei Cantici, sant’Ambrogio scrive: “Ho mangiato il mio pane con il mio miele” (Ct 5, 1): vedi come non c’è amarezza, ma ogni soavità, in questo pane? “Ho bevuto il mio vino con il mio latte” (ibid.): vedi come si tratta di una gioia non inquinata da alcuna macchia? Ogni volta, infatti, che tu bevi, ricevi la remissione dei peccati e ti inebri spiritualmente. L’Apostolo dice: “Non ubriacatevi di vino, ma siate ricolmi dello Spirito” (Ef 5, 18); chi si inebria di vino vacilla ed è incerto, ma colui che si inebria di Spirito, viene come radicato in Cristo. Una santa ebbrezza è questa che opera la sobrietà del cuore”[10].

Di qui la celebre esclamazione dello stesso sant’Ambrogio, in un suo inno che ancora oggi si recita nella Liturgia delle Ore: “Beviamo con gioia l’abbondanza sobria dello Spirito!” (Laeti bibamus sobriam profusionem Spiritus). L’espressione “sobria ebbrezza” non è solo un ossimoro, un paradosso, o un tema soltanto poetico; è pieno di significato e di verità. L’effetto dell’ebbrezza è sempre quello di far uscire l’uomo da se stesso, dal proprio angusto limite. Ma mentre nell’ebbrezza materiale (vino, droga) l’uomo esce da sé, per vivere “al di sotto” del proprio livello razionale, quasi alla stregua delle bestie, nell’ebbrezza spirituale, esce da sé per vivere “al di sopra” della propria ragione, nell’orizzonte stesso di Dio. Ogni comunione dovrebbe terminare in un’estasi, se intendiamo, con questa parola, non i fenomeni straordinari, ma accidentali, che talvolta l’accompagnano nei mistici, ma, alla lettera, l’uscita (extasis) dell’uomo da se stesso, il “non sono più io che vivo” di Paolo.

Di questa presenza dell’intera Trinità nell’Eucaristia, i santi hanno fatto talvolta l’esperienza vissuta. “Mi sembrava di stare e giacere in mezzo alla Trinità”,diceva la B. Angela da Foligno parlando di una sua esperienza mistica durante la comunione. Nel Diario di santa Veronica Giuliani si legge: “Mi parve di vedere nel SS. Sacramento, come in un trono, Dio Trino e Uno: il Padre con la sua onnipotenza, il Figlio con la sua sapienza, lo Spirito Santo con il suo amore. Ogni volta che noi ci comunichiamo, l’anima nostra e il nostro cuore divengono tempio della SS. Trinità e, venendo in noi Dio, vi viene tutto il paradiso. Vedendo come Dio sta racchiuso nell’Ostia sacrosanta, stetti tutto il giorno fuori di me per il giubilo che provavo. Dovessi dare la vita a conferma di tale verità, la darei mille volte”[11].

Anche l’arte cristiana ha espresso questa visione trinitaria dell’Eucaristia. L’esempio più illustre è l’icona della Trinità di Rublëv. In essa Padre, Figlio e Spirito Santo, simboleggiati nei tre angeli che apparvero ad Abramo sotto la quercia di Mamre, formano una specie di mistico cerchio intorno all’altare e sembrano dire a chi guarda: “Siate in comunione tra voi come noi siamo in perfetta comunione tra di noi”. Nell’Eucaristia diventiamo commensali della Trinità.

4. L’Eucaristia e la koinonia ecclesiale

In questa seconda parte del mio intervento parlerò della dimensione orizzontale della comunione eucaristica, la comunione con il corpo di Cristo che è la Chiesa e, in senso diverso, con tutti gli uomini.

Il corpo di Cristo che è la Chiesa, scrive Agostino, si è formato a somiglianza del pane eucaristico; è passato attraverso le stesse vicissitudini: i suoi membri erano prima distinti e separati, come lo erano i diversi chicchi di grano sulle colline; sono stati mietuti, cioè riuniti dalla parola, macinati dai digiuni e dalle penitenze, impastati con acqua nel battesimo, cotti al fuoco dello Spirito Santo e sono diventati un unico corpo, come i chicchi di grano diventano un unico pane e gli acini di uva un unico vino[12]. Un inno della festa del Santissimo corpo e sangue di Cristo ha raccolto questa visione:

Frumento di Cristo noi siamo
cresciuto nel sole di Dio,
nell'acqua del fonte impastati,
segnati dal crisma divino.

In pane trasformaci, o Padre,
per il sacramento di pace:
un Pane, uno Spirito, un Corpo,
la Chiesa una-santa, o Signore.

Il pane eucaristico realizza dunque l’unità delle membra di Cristo tra di loro, significandola. Anche in questo, il sacramento significando causat. Nella comunione, dice la Lumen gentium, “l’unità del popolo di Dio è adeguatamente espressa e mirabilmente prodotta”[13]. In altre parole, ciò che i segni del pane e del vino esprimono sul piano visibile e materiale – l’unità di più chicchi di frumento e di una molteplicità di acini d’uva –, il sacramento lo realizza sul piano interiore e spirituale.

“Lo realizza”: non però da solo, automaticamente, ma con il nostro impegno. In questo senso si può dire che l’Eucaristia è “profezia” di comunione: nel senso che spinge ad essa, ne proclama le esigenze. Io non posso più disinteressarmi del fratello nell’accostarmi all’Eucaristia; non posso rifiutarlo, senza rifiutare Cristo stesso e staccarmi, io, dall’unità. Il Cristo che viene a me, nella comunione, è lo stesso Cristo indiviso che va anche al fratello che è accanto a me; egli, per così dire, ci lega gli uni agli altri, nel momento in cui ci lega tutti a sé. Qui risiede, forse, il significato profondo di quella frase che si legge talvolta negli scritti del Nuovo Testamento e dei primi secoli della Chiesa: “Uniti nella frazione del pane” (cf At 2, 42). Un paradosso: uniti nel dividere (“frazione” significa divisione!): noi siamo uniti nel dividere, meglio nel condividere, lo stesso pane!

All’interno della Messa, la comunione è il momento che più di tutti mette in luce la fondamentale unità di tutti i membri del popolo di Dio. In questo senso, oltre che profezia, essa è anche epifania di comunione. “L'Eucaristia crea comunione ed educa alla comunione”[14] Fino a quel momento prevale la distinzione dei ministeri: nella liturgia della parola il sacerdote rappresenta la Chiesa docente e l’assemblea la Chiesa discente; nella consacrazione appare la distinzione tra il sacerdozio ministeriale e quello universale di tutti i fedeli dal momento che solo il primo agisce in persona Christi. Nella comunione, al contrario, prevale ciò che accomuna tutti i credenti. L’Eucaristia che riceve il vescovo o il papa è esattamente la stessa che riceve l’ultimo dei battezzati.

Vediamo come si potrebbe esprimere più chiaramente nelle nostre eucaristie questa esigenza di comunione. Tocco un punto delicato, la comunione sotto le due specie. Non intendo sollevare nessuna polemica o contestazione; solo richiamare il pensiero e la novità del concilio che, su questo punto, rischiano di rimanere disattesi. Il concilio Vaticano II ha reintrodotto la possibilità della comunione sotto le due specie. Dice:

"Fermi restando i principi dottrinali stabiliti dal concilio di Trento, la comunione sotto le due specie si può concedere sia ai chierici e religiosi sia ai laici, in casi determinati dalla Sede Apostolica e secondo il giudizio del vescovo" [15].

La comunione sotto le due specie non solo è permessa, ma anche incoraggiata, con delle motivazioni teologiche fortissime. Nella istruzione per l’applicazione delle norme del concilio, Eucharisticum mysterium, si dice:

"La santa comunione esprime con maggiore pienezza la sua forma di segno, se viene fatta sotto le due specie. Risulta infatti più evidente il segno del banchetto eucaristico e si esprime più chiaramente la volontà divina di ratificare la nuova ed eterna alleanza nel sangue del Signore, ed è più intuitivo il rapporto tra il banchetto eucaristico e il convito escatologico del regno del Padre" [16].

Il nuovo Messale elenca ben quattordici casi in cui è permesso dare la comunione al calice ai presenti. Ad essi, molte conferenze episcopali ne hanno aggiunti altri. Si deve dire che, su questo punto, l'attuazione pratica della riforma liturgica non è andata al di là delle norme fissate dall'autorità ecclesiastica, come in altri casi, ma ne è rimasta al di qua. Non dico che si debba o si possa distribuire la comunione sotto le due specie a ogni Messa (anche se questo resta il traguardo ultimo e auspicabile), ma che almeno lo si faccia nei casi in cui è consentito dalle disposizioni stesse del magistero.

Non adduciamo con troppa facilità il principio della “naturale concomitanza”, secondo cui dove c’è un corpo vivo, lì c’è anche, di conseguenza, il suo sangue e che perciò il sangue di Cristo è già contenuto nel corpo di Cristo. Preso rigorosamente, con questo principio si viene a dire che la specie del vino è superflua nell’Eucaristia e Gesù poteva fare a meno di consacrare anche il calice. Il principio aristotelico della naturale concomitanza fa a pugni con l’idea biblica di segno che è alla base della nostra teologia sacramentaria. L’Eucaristia non l’ha istituita Aristotele, ma Gesù Cristo, ed è con le categorie di Cristo che bisogna spiegarla, anche se i concetti aristotelici hanno avuto il merito di aiutare a formulare il mistero, in un certo contesto culturale e preservarlo da errori.

L’Eucaristia, oltre che sacrificio, è anche un “sacrum convivium”, un banchetto, ma come può esprimere l’idea di banchetto se in essa si offre solo da mangiare e non da bere, o si offre da bere ad alcuni e non a tutti? Per lo stesso motivo si dovrebbe evitare, almeno come prassi sistematica, di distribuire ai fedeli le ostie consacrate in precedenza e prelevate dal tabernacolo. Questo fa pensare inevitabilmente a un banchetto in cui alcuni consumano le vivande preparate per l’occasione e altri vivande riscaldate o tirate fuori dal frigorifero. Il momento per eccellenza dell’uguaglianza di tutti i membri del popolo di Dio non dovrebbe trasformarsi mai in atto che discrimina.

A poco, tuttavia, gioverebbe rendere più frequente la comunione sotto le due specie, se ad essa non si affiancasse una catechesi atta a mettere in luce il significato del sangue di Cristo e a suscitarne un vivo desiderio nei fedeli. In mancanza di questa catechesi, i laici mostrano talvolta di preferire essi stessi la comunione con la sola specie del pane, per la gioia di poter tenere un attimo l’ostia nella mano.
E’ importante, non solo dal punto di vista teologico, ma anche da quello pastorale, tornare a valorizzare di più, nel contesto del mistero eucaristico, l’elemento del sangue. Perché Gesù ha voluto nascondere il suo sangue proprio nel segno del vino? Che cosa rappresenta il vino per gli uomini? Rappresenta la gioia, la festa; non rappresenta tanto l’utile (come il pane), quanto il dilettevole. Un salmo dice che “il vino allieta il cuore dell’uomo e il pane sostiene il suo vigore” (Sal 104,15). Il vino rappresenta, nella vita, la poesia e il colore; è come la danza rispetto al semplice camminare, o il giocare rispetto al lavorare, o il cantare rispetto al semplice parlare[17].

Se Gesù avesse scelto per l’Eucaristia pane e acqua, avrebbe inculcato solo la santificazione della sofferenza (“pane e acqua” sono infatti sinonimo di digiuno, di austerità e di penitenza). Scegliendo pane e vino, ha voluto rendere possibile anche la santificazione della gioia. Gesù nel deserto moltiplicò i pani per soddisfare la fame della gente, ma a Cana non “moltiplicò” il vino per soddisfare la sete della gente (c’erano ben sei giare di acqua a disposizione!), ma per la gioia e la festa dei commensali.

Ma come è possibile che lo stesso segno rappresenti, in quanto sangue, la sofferenza e la morte e, in quanto vino, la gioia? Non si escludono a vicenda queste due cose? No, se pensiamo al sacrificio fatto per amore, come fu quello di Cristo. Il vino, che la Bibbia chiama spesso “il sangue dell’uva”, ricorda il misterioso rapporto che esiste, nell’esperienza umana, tra amore e sacrificio. “Non si vive in amore senza dolore”[18].

L’Eucaristia rivela così, ancora una volta, la sua straordinaria presa sulla vita. La Gaudium et spes del Vaticano II inizia dicendo: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” [19]. Nulla -possiamo aggiungere- vi è di genuinamente umano che non trovi un’eco nell’Eucaristia! In essa viene raccolto e presentato a Dio, nello stesso tempo, tutto il dolore e tutta la gioia dell’umanità: il dolore nella realtà del sangue, la gioia nel suo corrispettivo simbolico del vino.

5. Comunione e condivisione

Ho parlato fin qui della comunione ecclesiale in genere, ma tra il prossimo con cui l’Eucaristia ci spinge a fare comunione c’è una categoria privilegiata: i poveri e i sofferenti in genere. Qui si innesta la valenza sociale dell’Eucaristia. Colui che pronunciò sul pane le parole: “Questo è il mio corpo”, ha detto queste stesse parole anche dei poveri. Le ha dette quando, parlando di quello che si è fatto, o non si è fatto, per l’affamato, l’assetato, il prigioniero, l’ignudo e l’esule, ha dichiarato solennemente: “L’avete fatto a me” e “Non l’avete fatto a me”.

Ricordo la prima volta che questa verità “esplose” dentro di me in tutta la sua luce. Ero in missione in un paese del terzo mondo e a ogni nuovo spettacolo di miseria che vedevo -ora un bambino dal vestitino a brandelli, il ventre tutto gonfio e il volto ricoperto di mosche, ora gruppetti di persone che rincorrevano un carro immondizie nella speranza di trarne qualcosa appena rovesciato nella discarica, ora un corpo piagato,- sentivo come una voce rimbombarmi dentro: “Questo è il mio corpo. Questo è il mio corpo”. C’era da averne davvero il “fiato mozzo”.

“Quando dunque vi radunate insieme – scriveva ai Corinzi – il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno infatti quando partecipa alla cena prende prima il proprio pasto e così uno ha fame l’altro è ubriaco” (1 Cor 11,20-21). Dire che questo “non è più un mangiare la cena del Signore” è come dire che questa non è più un’Eucaristia. È un’affermazione gravissima, anche dal punto di vista teologico, alla quale non si presta forse tutta l’attenzione dovuta.

Ora questa situazione, in cui “uno ha fame e l’altro, al contrario, è ubriaco” è in atto tra noi, non più su scala locale, ma su scala mondiale. Ai due personaggi della parabola –il ricco Epulone e il povero Lazzaro – corrispondono oggi, grosso modo, due emisferi e due mondi: il primo mondo e il cosiddetto “terzo mondo” (che in realtà rappresenta i “due terzi” del mondo!).

L’ansia di condividere qualcosa con chi è nel bisogno, siano essi vicini o lontani, deve essere parte integrante della nostra pietà e della nostra prassi eucaristica. Non c’è persona che, volendo, non possa, durante la settimana, compiere una delle opere elencate da Gesù e delle quali egli dice: “L’avete fatto a me!”. Condivisione infatti non è solo “dare” (pane, vestito, tetto), ma anche “visitare” (un carcerato, un ammalato, un anziano solo in casa...). Non è solo dare denaro, ma anche dare del proprio tempo. I poveri e i sofferenti non hanno meno bisogno di solidarietà e di amore che di pane da mangiare e di panni di cui coprirsi.

Gesù ha detto: “I poveri li avete sempre con voi, me, invece, non sempre mi avete” (Mt 26, 11). Questo è vero anche nel senso che non sempre possiamo comunicare con il corpo eucaristico di Cristo e, anche quando avviene, questo non dura che qualche istante, mentre sempre possiamo comunicare con lui attraverso i poveri. Basta volerlo; non ci sono limiti. I poveri li abbiamo davvero sempre a portata di mano. Ogni volta che siamo di fronte a una persona umana che soffre, specialmente di certe sofferenze estreme, dovremmo, con gli orecchi della fede, sentire dentro di noi la voce di Cristo che ci ripete: “Questo è il mio corpo!”.

Durante la sua ultima malattia, non potendo ricevere il viatico perché non tratteneva nulla, B. Pascal chiese che gli portassero in camera un povero. “Non potendo comunicare nel Capo, voglio almeno -diceva- comunicare nel suo corpo”[20]. Aveva compreso perfettamente il rapporto stretto che c’è tra Eucaristia e impegno per i poveri.

6. I presupposti e le esigenze di koinonia

Accenno a un ultimo tema, quello dei presupposti e delle esigenze oggettive della comunione eucaristica. Nell’enciclica già ricordata, “Ecclesia de Eucharistia”, Giovanni Paolo II dedica tutta una sezione a questo tema. Scrive:

“La celebrazione dell'Eucaristia, scrive, non può essere il punto di avvio della comunione, che presuppone come esistente, per consolidarla e portarla a perfezione... Solo in questo contesto si ha la legittima celebrazione dell'Eucaristia e la vera partecipazione ad essa. Perciò risulta un'esigenza intrinseca all'Eucaristia che essa sia celebrata nella comunione, e concretamente nell'integrità dei suoi vincoli” (§ 35).

Tra i requisiti di comunione il papa pone anzitutto lo stato di grazia che ci fa essere in comunione con Dio, ricordando l'ammonizione dell’Apostolo: “ Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice “ (1 Cor 11, 28). Siccome poi “la comunione ecclesiale è anche visibile, la comunione eucaristica, continua l’enciclica, richiede anche che si sia in comunione con il Sommo Pontefice e i vescovi e si sia uniti nella professione della stessa fede.

L’esigenza di comunione visibile non è così rigida da non ammettere eccezioni. Per esempio, in particolari circostanze, è permesso sia dare che ricevere la comunione ai fratelli ortodossi, anche se non in comunione con il Romano Pontefice, perché condividono la successione apostolica e la fede fondamentale della Chiesa cattolica. In certe circostanze particolari, riservate al giudizio del vescovo, è possibile (e talvolta avviene di fatto) che si applichi lo stesso criterio a credenti di altre confessioni cristiane (almeno nel concedere ad essi, se non nel ricevere da essi la comunione), purché condividano la fede fondamentale della Chiesa, compresa quella nella presenza reale di Cristo nell’Eucaristia.

L’Eucaristia, dicevamo, non è solo epifania, ma anche profezia di comunione. Si insiste giustamente sul fatto che l’Eucaristia presuppone la piena comunione ecclesiale, ma non si dovrebbe tacere il ruolo che l’Eucaristia, per sua natura, è destinata a svolgere nel promuovere la stessa comunione e in particolare la comunione tra tutti i cristiani. In altre parole, essa non è solo il segno di una comunione raggiunta, ma anche uno dei mezzi per raggiungerla. Affrettare il giorno in cui potremo davvero “condividere lo stesso pane” e così mostrare che siamo “un corpo solo”, è l’ardente aspirazione di tutti i credenti in Cristo. Con questo auspicio Giovanni Paolo II termina la sua enciclica Ecclesia de Eucharistia. Scrive:

“La via che la Chiesa percorre in questi primi anni del terzo millennio è anche via di rinnovato impegno ecumenico… Il tesoro eucaristico, che il Signore ha messo a nostra disposizione, ci stimola verso il traguardo della sua piena condivisione con tutti i fratelli, ai quali ci unisce il comune Battesimo. Per non disperdere tale tesoro, occorre però rispettare le esigenze derivanti dal suo essere Sacramento della comunione nella fede e nella successione apostolica”.

Con questo auspicio termino anch’io il mio discorso e mi scuso se è stato troppo lungo.



[1] Novo millennio ineunte, 42.
[2] “In Deo omnia sunt communia ubi non obstat relationis oppositio”.
[3] Giovanni Paolo II, Enc. “Ecclesia de Eucharistia”, 34
[4] Cf Agostino, Confessioni, VII, 10.
[5] S. Leone Magno, Sermone 12 sulla Passione, 7 (CCL 138A, p. 388).
[6] S. Ilario di Poitiers, De Trinitate, 8, 16 (PL 10, 248): “Eius tantum in se adsumptam habens carnem, qui suam sumpserit”.
[7] B. Elisabetta della Trinità, Lettera 261, alla mamma (in Opere, Roma 1967, p. 457).
[8] S. Ilario, De Trinitate, VIII, 13-16 (PL 10, 246 ss).
[9] S. Ireneo, Adversus haereses, III, 24, 1.
[10] S. Ambrogio, Sui sacramenti, V, 17 (PL 16, 449 s).
[11] S. Veronica Giuliani, Diario, 30 maggio 1715 (vol. III, Città di Castello 1973, p. 928).
[12] S. Agostino, Sermo Denis 6 (PL 46, 834 s).
[13] Lumen gentium, n. 11.
[14] Giovanni Paolo II, “Ecclesia de Eucharistia”, 40.
[15] Sacrosanctum concilium , 55.
[16] Eucharisticum mysterium, 32 ( AAS 59,1967, p. 558).
[17] Cf. L. Alonso Schökel, Meditaciones biblicas sobre la Eucaristia, Santander 1986, cap.6.
[18] Imitazione di Cristo, III, 5.
[19] Gaudium et spes, 1.
[20] Cf. Vita di Pascal, scritta dalla sorella Gilberte

giovedì 16 giugno 2011

domenica 19 giugno 2011

Domenica 19 giugno 2011


SANTISSIMA TRINITÀ - Solennità del Signore

LETTURA
Lettura del libro dell’Esodo 3, 1-15

In quei giorni. Mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb. L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio. Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele, verso il luogo dove si trovano il Cananeo, l’Ittita, l’Amorreo, il Perizzita, l’Eveo, il Gebuseo. Ecco, il grido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto come gli Egiziani li opprimono. Perciò va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti!». Mosè disse a Dio: «Chi sono io per andare dal faraone e far uscire gli Israeliti dall’Egitto?». Rispose: «Io sarò con te. Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte». Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno: “Qual è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io-Sono mi ha mandato a voi”». Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti: “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione».

Mosé scopre il suo progetto di vita poiché il Signore lo sceglie come mediatore, pastore,

responsabile del popolo di schiavi che il Signore stesso sta per liberare.

Si può dividere il capitolo in tre parti:

- l’apparizione di Dio (JHWH) al monte, “l’Oreb" (vv. 1-6),

- la vocazione di Mosé e la rivelazione del nome di Dio (vv. 7-14),

- il programma di azione.

Mosè ha lottato contro la morte e l’ingiustizia quando ha preso le difese di un ebreo schiavo,

strappandolo dalle mani di un aguzzino e uccidendo il violento. Ma, a questo punto, scopre che

tutto gli si mette contro. Anche i suoi, impauriti delle conseguenze, lo rifiutano (Es2,11-16). Così è

fuggito, trovando rifugio nel deserto, in una vita tranquilla di pastore. Si è accasato ed ha

dimenticato tutto e tutti, in una vita sempre uguale.

Poi c’è l’esperienza straordinaria del roveto che brucia senza consumarsi e via via il richiamo del

Dio vicino, che si svela progressivamente, attraverso le sue manifestazioni. Il fuoco accompagna

spesso la presenza di Dio nella Scrittura: illumina e riscalda ma anche è tempestoso e distrugge. Si

mostra inafferrabile e misterioso.

Alla curiosità di Mosé corrisponde l'invito di Dio che lo incoraggia ad avvicinarsi, ma solo e senza

sandali, senza protezione, perché il luogo è santo. I sandali, confezionati con pelle di animali

morti, profanano con la morte il luogo di Dio (ancora oggi i musulmani entrano senza scarpe nelle

moschee).

Dio parla e perciò la sua presenza suscita paura, sconvolgendo Mosé che si copre il volto. Sarà il

gesto abituale che troviamo lungo tutta la Scrittura: Elia (1 Re 19,13), i serafini di Isaia (Is 6,2) e,

su su, fino agli apostoli, sul monte della Trasfigurazione, si coprono il volto.

La Parola, che Dio pronuncia, è come una presentazione di Sé che rimanda alla storia del popolo,

all'ascendenza di Mosé che arriva fino ad Abramo e ai patriarchi. Ricordandoli, Dio garantisce la

memoria che un popolo schiavo ha perso, dimenticando così anche la sua benedizione e la sua

protezione. Ma Egli è fedele.

Il Signore, ricordando l'alleanza compiuta con i patriarchi, misura la sofferenza del suo popolo

come indegna: "Ho osservato, ho udito, conosco, sono sceso". L'analisi della situazione ha smosso

il cuore di Dio che progetta un futuro, attraverso la liberazione del popolo dalla schiavitù e

facendolo salire in un paese totalmente nuovo, ricco e fertile. Nel libro dell'Esodo si usa il verbo

“uscire” (usato 94 volte) per esprimere il significato di una liberazione-salvezza. Essa fa parte del

nucleo fondamentale della fede ebraica: "Il Signore ci ha fatto uscire dall’Egitto".

Non è un popolo che grida al Signore come preghiera e come speranza di intercessione. E’ un

popolo che grida per paura, per disperazione senza nessun riferimento e attesa. E Dio ascolta

questo grido.

Mosé sente la difficoltà di porsi davanti a Faraone e la risposta è curiosa. Un segno c’è ma si

avvererà quando tutto sarà finito. Siamo ad una ubbidienza totale e senza garanzie. «Io sarò con te.

Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto,

servirete Dio su questo monte»."Vado dal popolo e dico: il Dio dei nostri padri mi ha mandato. Mi

diranno: “Qual è il suo nome?”. Conoscere il nome di qualcuno, in un certo senso, è tentare di

impossessarsi della sua identità e quindi avere potere su di lui. E Dio non si svela per ciò che è

(resta sempre inaccessibile), ma per come si comporta. Il significato, infatti, corrisponde a: "Io

sono", anzi a “Io sarò colui che sarò”. Sarò una presenza fedele nei secoli e sarò accanto a questo

popolo, sottomettendo la potenza degli dei che lo opprimono.

E poiché Faraone si ritiene un Dio che vince, la lotta si svilupperà tra il Dio dell’Egitto e il Dio

degli straccioni e degli schiavi. L'ebraico non usa normalmente il verbo essere perché gli basta

avvicinare soggetto e predicato; qui il verbo essere indica un “essere all'opera”, “essere per”. Ecco

perché alla fine Dio ribadisce che il suo titolo più adeguato è «il Dio dei vostri padri, il Dio di

Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe».: Con i patriarchi Dio è stato sempre presente,

sempre attento, sempre attivo, una compagnia continua, una protezione fedele. Questo è il suo

modo di essere, di “essere per”. E il nome divino impronunciabile per l'ebraismo, il sacro

tetragramma YHWH, suona come un Dio che “fa essere, che fa liberi”.

Ma tutto il testo esprime anche una strana povertà di Dio. Per liberare il popolo Dio ha bisogno di

Mosè e lo incalza, lo assedia, accetta tutte le sue scuse e vi pone soluzioni. Tanto è desideroso di

liberare, tanto è premuroso di mandare un liberatore, pur accettandone i limiti. E’ una grande

riflessione per noi.


SALMO
Sal 67 (68)

® Cantate a Dio, inneggiate al suo nome.
O Dio, quando uscivi davanti al tuo popolo,
quando camminavi per il deserto,
tremò la terra, i cieli stillarono
davanti a Dio, quello del Sinai,
davanti a Dio, il Dio di Israele. ®

Di giorno in giorno benedetto il Signore:
a noi Dio porta la salvezza.
Il nostro Dio è un Dio che salva;
al Signore Dio appartengono
le porte della morte. ®

Verranno i grandi dall’Egitto,
l’Etiopia tenderà le mani a Dio.
Regni della terra, cantate a Dio,
cantate inni al Signore.
Riconoscete a Dio la sua potenza. ®

EPISTOLA
Lettera di san Paolo apostolo ai Romani 8, 14-17

Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.

Nel mondo ebraico non è praticata l’adozione mentre lo è nel mondo greco – romano e questo

serve a Paolo per spiegare, nella famiglia di Gesù, il rapporto con il Padre e la fraternità di Cristo.

Paolo si sforza di portare un esempio comprensibile alla cultura corrente (è una lettera scritta ai

romani): il figlio adottivo riceve lo stesso trattamento dei figli naturali, gode degli stessi diritti e

partecipa all’eredità.

Ma Paolo, nella sua sintesi, oltrepassa l’esempio per regalarci il significato della vita del credente

che supera il linguaggio giuridico per arrivare alla trasformazione interiore di figli di una stessa

famiglia. La nostra vita è un cammino. "Coloro che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono

figli di Dio".

Siamo sulla linea dell'Esodo, del popolo che cammina e che ha bisogno di una presenza e di un

orientamento. Se l'Esodo è stato, fondamentalmente, caratterizzato dal triplice movimento: "uscire

- camminare - entrare", qui Paolo si richiama al momento intermedio del “camminare” nel deserto.

E’ un cammino coraggioso e bisogna lasciarsi guidare dallo Spirito come Gesù che "fu condotto

dallo Spirito nel deserto" (Lc 4,1). Lo Spirito guida, anima, ispira, conforta chiunque si rende

docile alla sua azione, chiunque non lo rattrista ("Non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio,

con il quale foste segnati per il giorno della redenzione." (Ef4,30).

"Figli di Dio e non schiavi". Lo schiavo ubbidisce ma il suo cuore è in conflitto con chi lo

comanda. Invece Gesù vede l'obbedienza con amore e ci annuncia che noi siamo figli adottivi,

trasformati interiormente con il dono di un animo capace di sentire e invocare Dio come Padre.

Lo Spirito crea in noi questa novità e sviluppa la disponibilità ad invocare Dio come "Papà" ("Abbà")

dal giorno del Battesimo.

In conclusione si sviluppa in questo breve testo una splendida rivelazione trinitaria che garantisce

una famiglia nuova con Dio. Siamo in una presenza inimmaginabile di pienezza e di amore: di

amore di Dio per noi.


VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Giovanni 16, 12-15

In quel tempo. Il Signore Gesù disse ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

Commento

Giovanni indica, nei “discorsi di addio” di Gesù, il ruolo dello Spirito Santo, come garante della

verità. E' chiamato "avvocato difensore" (Paraclito: 15,26; 16,7), dono del Padre (14,16-26);

capace di rendere testimonianza a Gesù (15,26), lo glorifica (16,14) e prende le sue difese di fronte

al mondo (16,8). Sarà mandato da Cristo ma come comune dono di sé e del Padre (15,26). Ha

infatti origine presso il Padre e il Figlio, viene dal cielo: Nell'ora della prova non lascerà soli i

discepoli, ma il Paraclito rafforzerà la loro fede e li renderà capaci di una testimonianza

coraggiosa. La sua missione specifica, poi, è quella di "avvocato difensore" di Gesù sia per

"convincere il mondo" di essere nel peccato quando lo rifiuta come Cristo e Signore, e sia di non

essere nel giusto quando lo condanna a morte perché si è proclamato Figlio di Dio. Soprattutto

compito dello Spirito è di operare nella coscienza dei credenti una vera e propria revisione del

processo di Gesù (16,8-11).

Qui, in questo testo, ci sentiamo in un clima di addio, con significativi richiami al futuro,

nell’imminenza del distacco da Gesù. Gesù è consapevole degli avvenimenti prossimi che si

svolgeranno nello spazio di poche ore e che saranno sconvolgenti. Sa che i discepoli non capiranno

nulla, ma sa anche che ogni spiegazione fatta ora è troppo pesante e assolutamente

incomprensibile. Perciò viene fatta una promessa che abbraccia, insieme, sia gl avvenimenti

prossimi, tragici e assolutamente oscuri, e sia il futuro in cui i discepoli si troveranno come

disorientati, con un messaggio enorme e una fragilità intellettuale e psicologica drammatica.

“Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso” (v 12).

Nell'apparente abbandono del gruppo dei discepoli un altro ospite terrà il posto di Gesù mentre il

risorto ritorna al Padre. La missione di Gesù è finita e lo Spirito Santo sarà testimone della sua

presenza (Gv.14,26; 15,26). “Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità”

(v13).

Il compito dello Spirito continua l'azione di Cristo poiché rende presente, in modo nuovo, la novità

di Dio tra noi, anche se non tangibilmente. Lo Spirito ci aprirà gli occhi. Nonostante le molte "cose

pesanti" da cogliere e da portare, dice Gesù, lo Spirito sosterrà questo Regno, questo suo sviluppo

dinamico, questa esperienza nuova e, spesso, controproducente e paradossale, i segni e le proposte,

le regole di vita cristiana (il giogo, per i rabbini, era il peso della legge), la fedeltà a Dio e agli

uomini, il sacrificio della fatica e della coerenza.

Tutto questo si mostrerà e lo Spirito ci sosterrà e non saranno cose nuove ma verranno da ciò che

Gesù ha detto, ha creduto ed ha vissuto.

In questa azione, in questa presenza e in questo cammino nella storia si svela la Trinità.

- La ricchezza del Padre che crea ed è sempre aperto per ricreare un mondo nuovo è

garanzia di vita.

- La gloria del Figlio che ha accettato di vivere la fatica di riconciliazione nel mondo e

l’obbedienza al progetto del Padre costituisce finalmente la famiglia gioiosa e aperta di Dio.

- Lo Spirito continua ad alimentare il dono della vita, della verità e della speranza.

Lo Spirito ha un'azione educativa da svolgere.

Al centro resta la Parola di Gesù che viene dal Padre, delineando il progetto di orizzonti di luce, e

viene riproposta nella storia dallo Spirito.

E nella storia lo Spirito sostiene il procedere fiducioso di una umanità che, alimentata ogni giorno

da una presenza silenziosa, riscopre ricchezze di verità e desideri di comunione nonostante i

cumuli di macerie, di ingiustizie, di ipocrisie e di guerre.

Tutta la storia va letta, allora, come opera di una umanità visitata dal Dio Trinitario. L’umanità, in

essa, consapevole o meno, è sostenuta da una presenza assidua, discreta, avvolgente di vita e di

bellezza che, comunque, non ci abbandona e chiede ai credenti in Gesù di essere portatori fedeli e

consapevoli della Parola sempre nuova del Signore.

venerdì 10 giugno 2011

Domenica, 12 Giugno 2011 PENTECOSTE - Solennità del Signore


Messa del giorno

LETTURA
Lettura degli Atti degli Apostoli 2, 1-11

Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, i discepoli si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frìgia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».

SALMO
Sal 103 (104)

® Del tuo Spirito, Signore, è piena la terra. oppure ® Alleluia, alleluia, alleluia.

Benedici il Signore, anima mia!
Sei tanto grande, Signore, mio Dio!
Quante sono le tue opere, Signore!
La terra è piena delle tue creature. ®

Togli loro il respiro: muoiono,
e ritornano nella loro polvere.
Mandi il tuo spirito, sono creati,
e rinnovi la faccia della terra. ®

Sia per sempre la gloria del Signore;
gioisca il Signore delle sue opere.
A lui sia gradito il mio canto,
io gioirò nel Signore. ®

EPISTOLA

Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 12, 1-11

Riguardo ai doni dello Spirito, fratelli, non voglio lasciarvi nell’ignoranza. Voi sapete infatti che, quando eravate pagani, vi lasciavate trascinare senza alcun controllo verso gli idoli muti. Perciò io vi dichiaro: nessuno che parli sotto l’azione dello Spirito di Dio può dire: «Gesù è anàtema!»; e nessuno può dire: «Gesù è Signore!», se non sotto l’azione dello Spirito Santo. Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue. Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole.

VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Giovanni 14, 15-20

In quel tempo. Il Signore Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi».

Nel Vangelo dl Giovanni continua il "discorso di addio" che nelle Scritture ritroviamo in altre

circostanze: Giacobbe (Gen 49), S. Paolo (Atti 20,17-38). Qui è riproposto il messaggio globale: la

ricapitolazione di tutto l'insegnamento di Gesù in una forma dialogica e familiare, la promessa

dello Spirito e la rivelazione del progetto di Dio Padre sull'esistenza di Gesù (soprattutto nella

preghiera sacerdotale: c.17).

• Stretta relazione tra amare Gesù e osservare i suoi comandamenti: non si dice di quali

comandamenti si tratti, ma si sintetizzano, nel richiamo alla sua predicazione e alla concretezza, in

un rapporto con Lui. Non si tratta di proclamare principi o pronunciare discorsi, ma di accogliere i

comandi di Gesù.

• Dono del Paraclito: “Egli vi darà un altro Paraclito”:primo dei cinque testi che riguardano lo

Spirito (Paraclito, Spirito di verità, Spirito Santo) nel discorso dopo la cena. Inviato dal Padre (o da

Cristo) dopo la partenza di Gesù (16,7;7,39;At 2,33), dimorerà per sempre presso i discepoli

(14,15-17), per “insegnare” e “ricordare” completando la comprensione dell’insegnamento di

Cristo (14,25-26). Lo Spirito conduce i discepoli in cammini di verità (8,32), spiegando loro il

senso degli avvenimenti futuri (16,12-15; cf.2,22;12,16;13,7;20,9).

La tradizione ebraica conosce un personaggio chiamato "Paraclito", "difensore" che aveva la

funzione di sedersi accanto agli accusati in tribunale e di ridimensionare o cancellare le accuse di

chi era citato in giudizio. Gesù si preoccupa di rassicurare i discepoli perché finora il "difensore consolatore"

è stato Lui. Ma dopo la sua morte ci sarà un "altro Consolatore" che abiterà

stabilmente in loro.

Come portatore di verità, insegnando e facendo ricordare ciò che Gesù ha detto (Gv 14,26),

condurrà i discepoli verso la verità completa (Gv 16,13). Infatti alla Comunità cristiana, che Gesù

lascia, resta il preziosissimo compito di sviluppare la missione iniziata da Gesù nel mondo. E’

perciò fondamentale che si rafforzi con chiarezza la fede della Chiesa e di ciascuno nella Chiesa.

Il mondo non vede e non conosce: non ha capacità di comunione ma Gesù tiene fortemente al

mondo.

Nel Vangelo di Giovanni "mondo" ha 3 significati diversi: 1) mondo è l'ambiente in cui opera

l'uomo = la terra. 2) indica l'umanità che Dio ama (Gv 3,16: “Dio ha tanto amato il mondo da

mandare il suo Figlio”). 3) indica una realtà in mano al maligno: il “principe di questo mondo”

(Gv12, 31) che si oppone a Gesù, ma Gesù lo vince (“Io ho vinto il mondo”: Gv 16,33).

Il cristiano, in tutti i tempi, diventa luogo di incontro, dimora del Dio trinitario poiché la pienezza

di Dio si apre nel cuore del credente che si trasforma nella tenda stessa di Dio: "Se uno mi ama,

osserverà la mia Parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a Lui e prenderemo dimora presso di

lui" (Gv 14,23).

La Pentecoste è come una grande garanzia che Gesù ci lascia: nello Spirito resta con noi. Il Dio

trinitario cammina nel tempo, trasforma con noi il mondo, ci irrobustisce e ci aiuta a scoprire i suoi

segni, le sue tracce nella storia. Gli avvenimenti degli ultimi 50 annui ne sono un esempio

bellissimo, tutto da riscoprire.



C’è nell’Evangelo di oggi, domenica di Pentecoste, cinquantesimo giorno dopo la Pasqua, un tratto di singolare tenerezza: Gesù nell’imminenza della sua separazione dai discepoli, promette loro: “Non vi lascerò orfani”. Poco prima si era rivolto a loro chiamandoli affettuosamente: “Figliolini miei, sono con voi ancora per poco” (13, 33). Gesù avverte la tristezza che avvolge il cuore dei discepoli: “Perché vi ho detto questo la tristezza ha riempito il vostro cuore” (16,6). “Ora siete nel dolore ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà” (ibid 22).

Il vangelo non è estraneo ai sentimenti che abitano il nostro cuore. Gesù e i discepoli hanno vissuto insieme, condividendo fatiche e entusiasmi, sono diventati amici e così Gesù li chiama. L’imminente separazione non può non provocare tristezza, smarrimento. Eppure dopo Gesù non vi sarà il vuoto ma una sua diversa presenza. Ecco la promessa di un altro Paraclito, un altro che stia accanto. Un altro, un secondo: il primo è stato Gesù, adesso è il tempo del suo Spirito. Gesù sarà con i suoi attraverso il suo Spirito. Questo annuncio deve radicare in noi la certezza che i giorni che viviamo non sono privi della presenza del Signore grazie al suo Spirito. Certamente noi non vediamo e non tocchiamo Gesù, non udiamo la sua voce eppure grazie al suo Spirito sarà con noi per sempre, anzi lo vedremo, sarà in noi e noi saremo in lui. Sulle strade del mondo i discepoli di Gesù, la sua Chiesa, hanno la certezza d’essere accompagnati dal Signore Gesù, grazie al suo Spirito. Ma questo clima di confidenza e di tenerezza è turbato da un ripetuto cenno al mondo: mondo che non può ricevere lo Spirito, non lo vede e non lo conosce. E ancora “il mondo non mi vedrà più”.

Impariamo a stare nel mondo

E’ importante nel quarto Vangelo, che appunto stiamo leggendo, l’uso del termine ‘mondo’. Ha una duplice accezione. Una nettamente positiva e sta ad indicare tutta la benevolenza di Dio. Ricordiamo la stupenda affermazione: “Dio ha tanto amato il mondo fino a dare il suo Figlio …”. Parola carica di ottimismo, piena di confidenza, perché Gesù è il Salvatore del mondo, la luce del mondo. Poi, via via, il termine assume una connotazione sempre più negativa: il mondo è quanto si chiude, si oppone a Gesù, fino a dire che il mondo è tutto sotto il potere del Maligno. Vuol dire, allora, che senza disprezzo per il mondo il discepolo di Gesù deve avere uno sguardo lucido capace di riconoscere tutti i segni negativi, tutte le molteplici forme di male che deturpano il volto dell’uomo e della terra.

L’ottimismo cristiano, radicato nella certezza che Dio ha tanto amato il mondo, non può condurre all’ingenuità che non riconosce nella coscienza dell’uomo e quindi nei solchi del mondo, innumerevoli forme di negatività e di male. Ai suoi discepoli e quindi anche a noi Gesù ha promesso il dono del suo Spirito: noi abitiamo un tempo carico della presenza dello Spirito di Gesù e per questo il nostro sguardo verso il tempo, il mondo, la storia deve essere sguardo positivo, confidente, in una parola ‘ottimista’. Ma non ingenuo né superficiale perché nel mondo, abitato dallo Spirito di Gesù, Spirito che rinnova il volto della terra, sono presenti e operanti segni di negatività.

Né ottimismo ingenuo ma nemmeno disprezzo e fuga dal mondo, ma uno stare dentro il mondo con la forza dello Spirito di Gesù: rispondendo al male sempre e solo con l’inerme forza del bene, creando bellezza nel degrado e nella volgarità … ricordate la preghiera di Francesco d’Assisi: Signore, fa’ di me uno strumento della tua pace …