martedì 19 luglio 2011

Domenica 24 Luglio 2011 commento al Vangelo e lettura estiva: le ragioni della scelta.



DOMENICA VI DOPO PENTECOSTE

LETTURA
Lettura del libro dell’Esodo Es 33, 18 - 34, 10

In quei giorni. Mosè disse al Signore: «Mostrami la tua gloria!». Rispose: «Farò passare davanti a te tutta la mia bontà e proclamerò il mio nome, Signore, davanti a te. A chi vorrò far grazia farò grazia e di chi vorrò aver misericordia avrò misericordia». Soggiunse: «Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo». Aggiunse il Signore: «Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano, finché non sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere». Il Signore disse a Mosè: «Taglia due tavole di pietra come le prime. Io scriverò su queste tavole le parole che erano sulle tavole di prima, che hai spezzato. Tieniti pronto per domani mattina: domani mattina salirai sul monte Sinai e rimarrai lassù per me in cima al monte. Nessuno salga con te e non si veda nessuno su tutto il monte; neppure greggi o armenti vengano a pascolare davanti a questo monte». Mosè tagliò due tavole di pietra come le prime; si alzò di buon mattino e salì sul monte Sinai, come il Signore gli aveva comandato, con le due tavole di pietra in mano. Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. Il Signore passò davanti a lui, proclamando: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione». Mosè si curvò in fretta fino a terra e si prostrò. Disse: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi. Sì, è un popolo di dura cervice, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità». Il Signore disse: «Ecco, io stabilisco un’alleanza: in presenza di tutto il tuo popolo io farò meraviglie, quali non furono mai compiute in nessuna terra e in nessuna nazione: tutto il popolo in mezzo al quale ti trovi vedrà l’opera del Signore, perché terribile è quanto io sto per fare con te».

SALMO
Sal 76 (77)

® Mostrami, Signore, la tua gloria.
La mia voce verso Dio: io grido aiuto!
La mia voce verso Dio, perché mi ascolti.
Nel giorno della mia angoscia io cerco il Signore,
nella notte le mie mani sono tese e non si stancano;
l’anima mia rifiuta di calmarsi. ®

Tu trattieni dal sonno i miei occhi,
sono turbato e incapace di parlare.
È forse cessato per sempre il suo amore,
è finita la sua promessa per sempre?
Può Dio aver dimenticato la pietà,
aver chiuso nell’ira la sua misericordia? ®

Ricordo i prodigi del Signore,
sì, ricordo le tue meraviglie di un tempo.
Vado considerando le tue opere,
medito tutte le tue prodezze. ®

EPISTOLA
Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 3, 5-11

Fratelli, che cosa è mai Apollo? Che cosa è Paolo? Servitori, attraverso i quali siete venuti alla fede, e ciascuno come il Signore gli ha concesso. Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma era Dio che faceva crescere. Sicché, né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio, che fa crescere. Chi pianta e chi irriga sono una medesima cosa: ciascuno riceverà la propria ricompensa secondo il proprio lavoro. Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete campo di Dio, edificio di Dio. Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un saggio architetto io ho posto il fondamento; un altro poi vi costruisce sopra. Ma ciascuno stia attento a come costruisce. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo.

VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Luca 6, 20-31

In quel tempo. Il Signore Gesù, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: / «Beati voi, poveri, / perché vostro è il regno di Dio. / Beati voi, che ora avete fame, / perché sarete saziati. / Beati voi, che ora piangete, / perché riderete. / Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti. Ma guai a voi, ricchi, / perché avete già ricevuto la vostra consolazione. / Guai a voi, che ora siete sazi, / perché avrete fame. / Guai a voi, che ora ridete, / perché sarete nel dolore e piangerete. / Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti. Ma a voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. Da’ a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro. / E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro».

Luca segue la trama del Vangelo di Marco fino al versetto 6,2, se si escludono i primi due capitoli dell’infanzia di

Gesù (cc 1-2). A questo punto si stacca per inserire altro materiale (chiamato “piccolo inserto: 6,2-8,3) che contiene il

“discorso della. pianura” in parallelo al “discorso della montagna” di Matteo (cc 5-7).

Mentre Matteo deve aver elaborato tutto il materiale con altri testi ripresi dalla predicazione di Gesù, Luca propone le

Beatitudini in uno stile alquanto diverso. Infatti Matteo elenca otto Beatitudini sul mondo dei sofferenti (più una

rivolta agli discepoli); Luca invece ne riporta quattro, facendole seguire da quattro maledizioni antitetiche, rivolte

direttamente agli uditori nella seconda persona plurale: “Beati voi”,..”guai a voi…”. Il linguaggio di Luca è

immediato ed efficace. mentre Matteo, rivolgendosi in terza persona, dà al testo un sapore più astratto (salvo

l'ultima): “Beati i poveri, beati quelli che piangono, ecc”, e aggiunge qualche parola, dando al testo un significato più

spirituale: “Beati i poveri in spirito, beati quelli che hanno fame e sete della giustizia…”.

Così Matteo, inserendo le beatitudini in una catechesi ecclesiale, ha prospettive morali-esistenziali. Luca, invece, non

vuole tanto svelare precetti nuovi, ma proclamare un bene, un nuovo modo di essere, la novità assoluta che piace a

Dio e che per noi è inedita.

Sia in Matteo che in Luca tutta la proposta di Gesù è rivolta ai discepoli e non alla gente, per cui la beatitudine è

proclamata a chi crede in Gesù e ha fatto scelte di valore come Gesù ha insegnato.

“Poveri e ricchi”: i poveri sono beati se diventano il segno della scelta definitiva di Dio: e il mondo si salva

attraverso scelte umili e povere. I ricchi invece non fanno intravvedere Dio, Padre di Gesù ma un mondo di idoli

attraverso le loro scelte di vita e la loro mentalità. –

“Affamati e sazi”: coloro che mancano perfino del cibo vivono la povertà estrema e sono lo specchio

limpido di Dio che soccorre attraverso Gesù e la sua provvidenza. I sazi invece abusano e sprecano e offuscano

l’immagine di Dio. Si godono la vita, non aiutano negando ad altri di partecipare alla propria abbondanza (vedi la

parabola di Lazzaro e del ricco epulone:Lc16,19-31). Così vanno incontro a una fame insaziabile di verità, di

giustizia e di amore che sarà loro negata.

“Dolenti e gaudenti”: ci sono nella vita persone che soffrono con dolore lacerante e assomigliano a Gesù,

servo sofferente. Essi troveranno in Dio la sua pienezza e la sua gioia già qui, poiché sta per venire a visitarli. Quelli,

invece, che godono e non accettano lo stile di Gesù, sì troveranno con stupore nella tragedia.

“Perseguitati e raccomandati”: perseguitati sono coloro che, a causa della loro fede, diventano oggetto di

odio, rancore, rifiuto. La contrapposizione non è con i persecutori ma con coloro che sono osannati e giustificati

(dalla gente). Come Gesù, anche i cristiani. Come è stato colpito il capo, colpiranno anche le membra, ma c’è la

certezza di camminare sulla strada giusta, verso il Padre.

Il secondo e il terzo richiamo (“coloro che sono sazi e coloro che ridono”) hanno come riferimento il banchetto

messianico a cui non potranno prendere parte poiché non si sono sintonizzati con la venuta del Regno di Dio.

Il “discorso della pianura” di Luca vuole offrire alla comunità cristiana prospettive e stimoli di collaborazione con il

Padre che, attraverso Gesù, libera il suo popolo e lo salva. Potrebbe essere significativo anche il confronto con il

“Magnificat” (sempre di Luca 1,46-56) dove viene annunciato il capovolgimento delle situazioni.

Sembra comunque che questo testo sia più antico che non quello di Matteo.

La seconda parte, che qui ci viene parzialmente prospettata (6,27-35), propone concretamente alcuni atteggiamenti di

credenti all'interno della vita quotidiana. Si tratta di far maturare un amore (greco:”agape”) che assomigli all'amore di

comunione di Dio con il suo popolo.

Il rapporto amico-nemico viene sviluppato in uno stile di novità in quattro punti: “amare i nemici, fare del bene a chi

vi odia, benedite chi vi maledice e pregate per chi vi maltratta”.

Altri quattro richiami sulla vita quotidiana fanno riferimento “alla violenza, alla pretesa degli altri nella loro

ingordigia (chiedere in mantello e chiedere danaro), alla gratuità (non richiedere)”. Questo testo conclude in quella

che viene chiamata “la regola d'oro” e che si trova, in modo frequente, in altre religioni, riletta, per lo più nei termini

del “non fare:: "Non fare agli altri quello che non vuoi che gli altri facciano a te".

Qui Gesù parla in prospettive positive:” E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro". E

questo comporta, prima di tutto, un’analisi delle proprie attese e del proprio desiderio per poter sapere trattare gli altri

allo stesso modo con cui vorremmo che gli altri trattassero noi ". Ma per i cristiani la regola d'oro procede per

parametri ancora più profondi: "Vi do un comandamento nuovo: e vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi

così amatevi anche voi gli uni gli altri. Per questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per

gli altri" (Gv 13,33- 34).

Le Beatitudini sono un orizzonte che si prospetta sul cammino futuro, ogni giorno. Se uno vuole camminare non può

ignorarlo. Ma nello stesso tempo ci obbliga a misurarci, sia sulla strada che stiamo compiendo passo passo, sia

sull'orientamento che stiamo prendendo.

Le Beatitudini non sono un sogno, ma si prospettano come la nuova logica della vita, disposta a ricreare il mondo

nella misericordia e nella pace.

Nel loro complesso i tre testi della liturgia odierna ci obbligano a rivedere i nostri criteri di giustizia di attesa nel mondo di Dio (Mosé).

Ci invitano a ricordare che il vero criterio ci viene dato da Gesù che pone il fondamento della vita.

Ci viene declinato uno stile di atteggiamenti davanti a cui non saremo mai sufficientemente all'altezza, e tuttavia

restano sempre riferimenti fondamentali per ricostruire tempi nuovi.

Non va mai dimenticato, tuttavia, che le Beatitudini sono state proposte ai discepoli e non alla folla. È normale che la

folla non le capisca, ma è anche una scoperta splendida e sconcertante, nello stesso tempo, accorgersi che qualcuno,

che ci sembra lontano dal Signore, viva gli stessi criteri e gli stessi progetti. È il segno del lavoro della grazia di Dio

nella vita delle persone.

Lettura estiva

LE RAGIONI DELLA SCELTA:

VIVERE NEL PROVVISORIO O RISCHIARE NEL DEFINITIVO?

INTRODUZIONE

La virtù cristiana sulla quale ci proponiamo di riflettere ha un nome insolito: il "discernimento". Non è un nome contemplato nei cataloghi tradizionali delle virtù, di cui parlavano i catechismi di un tempo. Tanto meno se ne parla nei catechismi recenti; nei quali a stento si può trovare il nome stesso di "virtù". E tuttavia si tratta di una virtù assolutamente fondamentale e insieme assolutamente rara; dobbiamo riconoscere tutti di possederla in misura assai scarsa. Il discernimento può essere definito, in primissima approssimazione, come la qualità dell'animo che consente di riconoscere in ogni circostanza quello che conviene fare; e consente, prima ancora, di scorgere in ogni circostanza che conviene fare qualcosa, che si può e si deve prendere una decisione, che insomma le diverse situazioni in cui ci veniamo via via a trovare ci riguardano, ci interpellano, ci invitano a prendere parte, non ci respingono invece nella situazione troppo comoda (ma anche, sotto altro profilo, troppo scomoda) di coloro che sono sempre e soltanto spettatori.

Questa preliminare descrizione, per forza di cose ancora molto vaga, è tuttavia sufficiente a suggerire due considerazioni contrastanti.

La prima è questa: il discernimento è una virtù tanto generica, indeterminata e complessa, da scoraggiare ogni tentativo di riflettervi sopra.

La seconda considerazione è invece quest'altra: la riflessione sul discernimento è urgente.

È vero infatti che nella vita siamo troppo spesso come paralizzati dall'indecisione; da un'indecisione d'altra parte che non si può descrivere quasi fosse incertezza tra due o più scelte alternative tra le quali non sappiamo scegliere; molto spesso l'indecisione è più radicale: siamo incerti, addirittura, se convenga prendere una qualsiasi decisione, o non convenga piuttosto far finta di niente ed estraniarci dalla situazione in cui di fatto veniamo a trovarci, quasi essa non ci riguardasse in alcun modo.

Il difetto di discernimento è forse una colpa? O è invece un'incapacità insuperabile e senza responsabilità, della quale sia possibile al massimo lamentarci, non invece pentirci?

La risposta non è semplice. Certamente concorrono a determinare questo difetto anche circostanze obiettive, che sfuggono alla responsabilità di ciascuno, e in particolare alla responsabilità di chi è giovane e sembra quasi sopraffatto dalle complessità della vita. E tuttavia a questo difetto di discernimento contribuisce anche la libertà di ciascuno, come suggerisce il rimprovero che un giorno Gesù rivolse alle folle.

Gesù diceva ancora alla gente: "Quando ve-

dete una nuvola che sale da ponente, voi

dite subito: 'Presto pioverà', e così avviene.

Quando invece sentite lo scirocco, dite: 'Farà

caldo', e così accade. Ipocriti! Siete capaci di

capire l'aspetto del cielo e della terra, e allora

come mai non sapete capire quel che accade

in questo tempo? Perché non giudicate da voi

stessi ciò che è giusto?" (Lc 12,54-57).

L'obiettivo ultimo della nostra riflessione sarà proprio questo: capire come la nostra "ipocrisia" possa renderci incapaci di giudicare da noi stessi quello che è giusto. Ma per giungere a questo obiettivo, occorre cominciare da lontano, e chiarire anzitutto a livello umano generale, psicologico, che cosa esiga la capacità di discernimento.

L'IDEA GENERALE DI DISCERNIMENTO

Riprendiamo l'idea generale. Il discernimento è ciò che ci consente di distinguere in ogni circostanza quello che conviene fare.

Il primo interrogativo che si pone è questo: quello che conviene fare, si dice; ma conviene in rapporto a quale obiettivo? Sono molti infatti gli obiettivi che l'uomo può proporsi nella vita, e in rapporto a ciascuno di tali obiettivi sembra essere richiesto un genere diverso di discernimento. Al medico occorre una capacità di discernimento che nasce dalla conoscenza professionale della sua disciplina, e dall'esperienza pratica in essa. All'insegnante occorre un altro genere di cultura e di esperienza. E così si dica per ogni singola professione.

All'obiezione rispondiamo che, parlando di discernimento, non intendiamo riferirci alla capacità di giudizio richiesta da una qualsiasi professione; né intendiamo più in generale riferirci al giudizio su ciò che conviene fare in rapporto a obiettivi particolari e contingenti della vita. Intendiamo invece riferirci al giudizio su ciò che conviene in rapporto all'obiettivo generalissimo d'essere uomini veri; o se si vuole, ci riferiamo alla capacità di giudizio richiesta dal mestiere di vivere: un mestiere dunque non facoltativo ma obbligatorio per tutti.

La cultura del nostro tempo ci ha abituati a pensare l'agire umano in generale quasi dovesse essere sempre giustificato dall'uno o dall'altro obiettivo che noi ci proponiamo. Mentre in realtà le forme più importanti dell'agire umano non si giustificano in rapporto a obiettivi determinati, che possano essere definiti e scelti in anticipa, prima di prendere in esame le forme dell'azione mediante le quali raggiungerli: le forme più importanti dell'agire si giustificano per se stesse.

Facciamo un esempio. Può accadere, in certe situazioni, che io mi chieda se convenga o meno dire la verità; oppure, in altre situazioni, se convenga o meno iniziare un'amicizia o continuarla. Ma molto prima che accada di trovarmi in tali situazioni di incertezza, è accaduto che io dicessi molte volte la verità e ne apprezzassi subito la bellezza; così come è accaduto che io conoscessi gratuitamente e senza decisione deliberata l'esperienza dell'amicizia, e ne apprezzassi l'incomparabile ragione di bene.

Quello che conviene all'uomo non si decide in anticipo, sulla base di obiettivi astrattamente pensati e giudicati come degni d'essere perseguiti. Così come, più radicalmente, non si giudica in anticipo se convenga vivere, per decidere poi di conseguenza di venire al mondo. Al mondo ci si trova senza averlo scelto. E tuttavia non ci si rimane, o meglio, non ci si vive davvero a meno di sceglierlo. È la vita stessa che, anteriormente a ogni nostra deliberazione, deve suscitare presso la nostra coscienza evidenze tali da persuaderla che appunto conviene vivere, o detto altrimenti, che la vita è buona e si può liberamente scegliere di accettarne l'impegno.

Possiamo così giungere all'individuazione di una prima e fondamentalissima radice della nostra indecisione. Siamo con tanta frequenza indecisi a proposito di quello che conviene fare nelle singole situazioni, perché in realtà non abbiamo ancora deciso se convenga vivere, e per che cosa convenga vivere.

L'INDECISIONE RADICALE

Per illustrare questa indecisione radicale possiamo servirci di un'immagine: quella dello spettatore, per esempio dello spettatore televisivo. È nota a tutti una tentazione caratteristica di tale spettatore: quella di cambiare continuamente il canale. È nota a tutti anche questa spiacevole conseguenza dell'inclinazione a cambiare canale: va a finire che si passano ore alla televisione senza in realtà vedere nulla; senza vedere nulla, s'intende, dall'inizio alla fine, nulla di concluso.

Ci domandiamo: ma come potrebbe uno decidere che conviene guardare questo o quell'altro spettacolo, prima di averlo effettivamente visto? In anticipo, si possono avere al massimo vaghi indizi a proposito del valore o dell'interesse di ciò che si potrebbe vedere: un giudizio sicuro è possibile farselo soltanto dopo la visione effettiva. L'obiezione sembra condurre alla conclusione scoraggiante che vedere uno spettacolo è sempre una specie di terno al lotto: si corre il rischio di perdere tempo per niente.

La conclusione non dice tutta la verità. Ignora infatti una differenza, che viceversa non può essere ignorata: la differenza, intendiamo dire, fra il guardare per vedere se vale la pena di continuare, e il guardare invece avendo già deciso di continuare, e dunque con un'attesa, con un desiderio di capire. Chi guarda con un tale desiderio vede molte cose che non vede invece chi guarda soltanto per vedere se ne vale la pena. Vede di più, perché ha un interesse, ha dei motivi, ha delle domande; insomma, è impegnato attivamente nella visione. Naturalmente potrà anche capitare disgraziatamente di constatare che lo spettacolo non è all'altezza delle proprie attese; potrà anche apparire ragionevole spegnere l'apparecchio prima della fine. Ma, in ogni caso, cominciare a guardare con un motivo consente di apprezzare ciò che viceversa assai più difficilmente potrà essere apprezzato da chi non attende nulla di determinato, ma solo s'aspetta che lo spettacolo stesso susciti in lui un qualsiasi interesse, visto ch'egli non ne ha preventivamente nessuno.

Serviamoci di un'altra immagine, un poco meno futile. Pensiamo a un rapporto umano, per esempio a un'amicizia, o meglio a una conoscenza superficiale che potrebbe anche diventare un'amicizia.

Potrebbe diventare: lo diventerà effettivamente? Molto dipende da te. Certo, non puoi decidere dall'inizio con certezza quello che potrà scaturire da una tale conoscenza.

E tuttavia puoi - o magari devi - decidere dall'inizio se rispondere ai motivi di interesse che di fatto una tale conoscenza ti propone. Per rispondere, devi esprimerti, anche solo interrogare quella persona: interrogare è già un atto mediante il quale ti impegni, manifesti di fatto un interesse, e magari anche qualche cosa di più, manifesti certi lati della tua persona, in qualche misura cominci a legarti. Proprio la consapevolezza di questo fatto può indurre - più o meno consapevolmente - ad andare assai cauti nell'approccio con una nuova conoscenza. E tuttavia, più si è cauti, più improbabile diventa l'eventualità di scoprire che l'amicizia è possibile ed è conveniente.

Vediamo, in altri termini, confermata una legge generale della vita: essa dispiega un senso e un valore soltanto a misura che la libertà di ciascuno di fatto consente a quelle opportunità preliminari che essa suscita.

Una delle ragioni fondamentali che spiegano come mai noi ci troviamo tanto spesso nell'apparente impossibilità di deciderci, di discernere ciò che conviene, è appunto da cercare nella diffusa inclinazione a trattenerci nella condizione di chi è spettatore della vita, ma non vive effettivamente. Detto altrimenti, per scoprire quello che conviene nella vita, occorre anzitutto avere il coraggio dei propri desideri, e cimentare effettivamente tali desideri nel confronto con la realtà. Solo in tal modo essi crescono, si approfondiscono, si precisano, magari talvolta anche si correggono, e tuttavia si determinano. Altrimenti essi intristiscono, sino ad assumere i tratti di una patetica nostalgia.

C'è un brevissimo racconto di Franz Kafka che illustra con particolare efficacia la paralisi della "nostalgia", la paralisi cioè che sembra rendere impossibile il "ritorno" pure desiderato. "Nostalgia" vuol dire appunto questo: dolore (algos) per un ritorno (nóstos) impossibile.

Ritorno

Sono ritornato, ho attraversato l'ingresso e mi

guardo intorno. È il vecchio cortile di mio

padre. La pozzanghera nel mezzo. Attrezzi

vecchi, inservibili, intricati tra loro ostacola-

no il passaggio alla scala del solaio. Il gatto

sta in agguato sulla ringhiera. Un panno a

brandelli, avvolto un giorno per giuoco intor-

no a un palo, si agita al vento. Sono arrivato.

Chi mi riceverà? Chi aspetta dietro la porta

della cucina? Dal camino esce il fumo, si sta

bollendo il caffè per la sera. Ti senti a tuo

agio, senti di essere a casa tua? Non lo so,

sono molto incerto. É la casa di mio padre,

ma freddi stanno gli oggetti l'uno accanto al-

l'altro, come se ciascuno badasse ai fatti suoi

che in parte ho dimenticati, in parte mai co-

nosciuti. Pur essendo figlio del babbo, del

vecchio agricoltore, come potrò essere utile,

che cosa sono per loro? E non oso bussare al-

la porta della cucina, ascolto soltanto da lon-

tano, da lontano sto in ascolto, in piedi, ma

non in modo che mi si possa sorprendere a

origliare. E siccome ascolto da lontano, non

afferro nulla, odo o credo forse soltanto di

udire un leggero ticchettio d'orologio che pa-

re mi giunga dai giorni dell'infanzia. Ciò che

si svolge in cucina è un segreto di coloro che

vi stanno e che me lo nascondono. Quanto

più si indugia fuori della porta, tanto più si

diventa estranei. E se ora qualcuno aprisse la

porta e mi rivolgesse una domanda? Non sa-

rei io stesso come uno che voglia custodire il

suo segreto?

RAGIONI DI SEMPRE E RAGIONI DI OGGI

PER ESSERE INDECISI

L'inclinazione dell'uomo a trattenersi dietro il vetro, anziché entrare decisamente nella stanza - ossia, nel teatro della vita - non è certo una novità della nostra epoca.

È invece una tentazione radicalmente connessa alla condizione umana. Più precisamente, è la tentazione che nasce da un progetto impossibile: quello di conoscere bene come si concluderà la storia della vita umana prima di viverla. È la tentazione di sfuggire al rischio della libertà. E tuttavia, la libertà non può esserci senza rischio.

Sapere bene prima di scegliere sarebbe possibile solo a condizione che la vita, di cui si cerca la conoscenza, non fosse la nostra: non fosse cioè quella che soltanto a condizione che noi la vogliamo, e nella forma in cui noi la vogliamo, si realizza.

L'uomo è possibile soltanto nella libertà. E d'altra parte la libertà comporta di necessità la fede, ossia l'atto che accorda credito a ciò che inizialmente si configura soltanto come una pro-messa; la promessa per adempiersi esige che tu ci creda. Il discernimento delle possibilità concrete, che via via s'affacciano alla nostra coscienza portate dalle circostanze varie della vita, può prodursi unicamente a condizione che tu abbia una speranza, e dunque una promessa da inseguire. Dice la leggenda di san Lorenzo che ogni volta che una stella cade dal cielo s'avvera un tuo desiderio. La caduta di una stella lascia una traccia brevissima, quasi istantanea, nel cielo. Perché tu possa approfittare di quell'istante, è indispensabile che tu tenga sempre pronto un desiderio nell'animo. Ma non è soltanto nella notte di san Lorenzo che cadono le stelle dal cielo: tutta la vita umana è come una notte di san Lorenzo. Si propongono all'improvviso oc-casioni propizie per i tuoi desideri: come, neppure tu lo sai; quelle occasioni assomigliano a stelle cadenti. Ma perché tu possa davvero cogliere quelle occasioni, è indispensabile che tu viva ininterrottamente animato da un desiderio, o da molti desideri. La tentazione di cui sopra si diceva, a trattenersi dietro il vetro, è appunto la tentazione di sospendere i desideri, finché non appaia concretamente la possibilità di realizzarli, adducendo il pretesto che è inutile desiderare l'impassibile; anzi, non solo è inutile, ma fa molto soffrire.

La verità è invece che, a meno di tenere sempre vivi molti desideri, le stelle cadono dal cielo inutilmente; ossia, fuori d'immagine, le opportunità della vita scorrono via in un attimo senza che tu faccia in tempo a riconoscerle e fermarle.

Possiamo trovare nella Bibbia molte immagini di questa inclinazione dell'uomo a trattenersi dietro il vetro. Ne segnaliamo una sola, offerta dal vangelo (cf. Mc 11,27-33). Passa Gesù attraverso Gerusalemme, attraverso il tempio: egli è la stella cadente per eccellenza, è l'opportunità decisiva perché s'adempia il desiderio di vita dell'uomo. Ma gli uomini del tempio non sono convinti di questa luce improvvisa e impetuosa. Gli chiedono: "Con quale autorità fai queste cose?". Vorrebbero avere un'e-videnza chiara e indubitabile della sua autorità, prima di decidersi. Gesù non risponde alla loro domanda ma rivolge a loro stessi una domanda: già in questo modo egli mostra come ciò che manca al discernimento di quell'ora non può essere aggiunto da lui stesso, o da Dio, ma deve essere aggiunto dalla risoluzione di coloro che lo interrogano. La domanda di Gesù riguarda il battesimo di Giovanni: veniva da Dio o dagli uomini? Riconoscere questa evidenza preliminare, che cioè la missione di Giovanni veniva da Dio, e dunque il suo invito alla penitenza doveva essere accolta, la sua promessa doveva e poteva suscitare un desiderio nel cuore dell'uomo, era condizione preliminare per riconoscere l'autorità stessa di Gesù. Ma i sommi sacerdoti, gli scribi e gli anziani non si erano mostrati disposti a tale impegno preliminare; essi preferivano tenersi liberi per ogni eventualità, e per il momento restare a vedere.

"Neanch'io vi dico con quale autorità faccio queste cose" : la dichiarazione esplicita di Gesù dà voce a uno stato di cose che si produce comunque. Non può capire il senso e il valore della sua presenza se non chi già anteriormente s'è disposto in un atteggiamento di attesa della sua venuta.

Ci sono tuttavia ragioni storiche più precise che operano in questo nostro tempo nel senso di inclinare l'uomo ad assumere un atteggiamento di distacco nei confronti delle forme immediate dell'esperienza, e di alimentare quindi anche al di là della consapevolezza esplicita di ciascuno un senso di cronica incertezza di fronte a tutte le situazioni di scelta. Si tratta di ra-gioni assai complesse, legate per un lato alla qualità dei rapporti umani quali essi risultano dalle rapide e profonde trasformazioni civili, e legate per altro lato alla nuova cultura, cioè ai modi di pensare e di giudicare attivamente alimentati dalle voci più diffuse e ascoltate del dibattito pubblico.

Non possiamo qui addentrarci nell'analisi sistematica di tali ragioni complesse. Ci accontentiamo di segnalarne sinteticamente il significato. I rapporti umani, nella presente società fattasi estremamente complessa, sono diventati mediamente assai impersonali e distaccati; sicché accade più difficilmente che ciascuno di noi trovi spontaneamente in essi occasioni promettenti di impegno e di coinvolgimento personale. La complessità sociale inclina di per sé alla cautela, e cioè a spiare le occasioni propizie per ricavare dallo scambio sociale questo o quell'altro vantaggio, ma rimanendone fondamentalmente fuori per quanto riguarda la propria identità più profonda ed essenziale.

Di conseguenza accade anche che tale identità più profonda trovi minori opportunità per chiarirsi e determinarsi. La coscienza personale, che si vede quasi condannata a rimanere cautamente nel nascondimento, diventa alla fine più oscura ai suoi stessi occhi, e quindi anche meno sicura nei suoi giudizi.

Tale tendenza obiettiva appare come rinforzata dalla cultura diffusa, che propone quale ideale l'autonomia personale. L'autonomia personale è, in un certo senso, un ideale che tutti possiamo sottoscrivere; ma a patto che non la intendiamo come "autarchia", cioè quasi significasse la possibilità per ciascuno di noi di venire a capo di sé, dei propri ideali, della propria identità, senza dover dipendere dall'esperienza dell'agire effettivo e dalle opportunità che tale agire offre di scoprirsi e di "realizzarsi". L'ideale dell’ “autarchia” induce di fatto a restringere al massimo i propri interessi e i propri desideri, per non essere costretti a troppo dipendere dagli altri e dalla realtà tutta. L’ “io” che mira all’ “autarchia” diventa quasi ineluttabilmente un "io minimo", rannicchiato nello spazio strettissimo del presente e delle cose prossime. Appunto perché "minimo", tale "io" appare insieme meno capace di discernimento.

Vediamo un po' più da vicino queste due figure che abbiamo appena accennate, quella dell’“autarchia” e quella dell’”io minimo”, per verificare come esse alimentino di fatto un'accresciuta difficoltà a decidere nei casi concreti quello che conviene.

L'IO AUTARCHICO

Psicologi, sociologi, letterati, intellettuali di ogni genere ripetono fino alla noia una diagnosi comune: l'uomo soffre per crisi di identità. Per essere più precisi, essi non parlano di solito di una crisi di identità dell'uomo in quanto tale, ma della crisi d'identità dei padri, delle donne, dei giovani, dei preti, e praticamente d'ogni altra figura umana che una volta sembrava capace di plasmare l'identità personale dei soggetti interessati.

Sembra per altro valere anche per l'uomo il principio che vale per il carciofo: non lo si può scoprire togliendogli le bucce; tolte tutte le bucce, è tolto anche il carciofo. Tolte tutte le sue figure sociali, rischiamo di togliere anche l'uomo. Non c'è, per esempio, un uomo in generale, al di là della distinzione tra uomo e

donna; l'idea che si possa raggiungere l'identità essenziale dell'umano prescindendo almeno per un momento dalla distinzione "accidentale" tra uomo e donna è uno dei tipici pregiudizi moderni. Chi sia l'uomo si manifesta anche ed essenzialmente attraverso l'incontro tra uomo e donna; tutto ciò che confonde e sfigura questo incontro, confonde e sfigura insieme anche l'identità essenziale dell'umano.

Quello che si dice della distinzione tra uomo e donna vale anche per la distinzione tra genitore e figlio, oppure per la distinzione tra giovane e vecchio, tra adolescente e maturo, tra cittadino e straniero, tra credente e non credente, tra chierico e laico.

Tutte queste distinzioni - si dice - sono "troppo condizionate" dalla tradizione, dalla civiltà, dalla storia in genere. Quindi, per conoscere l'essenziale dell'uomo, è meglio prescinderne. Di fatto accade che, quando se ne prescinda, l'identità "essenziale" dell'uomo diventa vaga, scoloritissima, addirittura nulla.

Un fenomeno simile a quello accennato rischia di prodursi, al di là del dibattito tra intellettuali, nell'esperienza psicologica di ciascuno. Ciascuno di noi infatti ha molti "caratteri" socialmente riconosciuti: è maschio o femmina, è giovane o adulto, è cattolico o ateo, è settentrionale o meridionale, è di famiglia borghese od operaia, eccetera.

Ma in questi "caratteri" egli non si riconosce, anche se in qualche misura non può fare a meno di tenerne conto nella vita concreta d'ogni giorno. L’ ”essenziale” tuttavia è altrove. Ciascuno di noi presume di avere una "personalità" assolutamente singolare, nella quale soltanto consisterebbe la sua vera identità. Questa "personalità" non gli è nota, e tuttavia proprio essa dovrebbe costituire il principio supremo d'ogni apprezzamento. Che cosa conviene, e che cosa non conviene? Conviene quello che “mi realizza” - si dice -. Conviene quel tipo di impiego pratico

nel quale io mi sento "realizzato". Questo è il criterio astrattamente enunciato. Ma quando si passa all'applicazione concreta di esso, ci si accorge di un grosso rischio: che cioè assolutamente nulla appaia capace di realizzarmi.

Di fatto molti nostri giudizi concreti, e soprattutto molti lamenti, sembrano configurare la realizzazione di un tale rischio: "Nessuno mi capisce"; "per me non c'è mai posto da nessuna parte"; "quell'ambiente non mi dice niente" ; "quella compagnia m'annoia" ; "non ci trovo alcun gusto" ; eccetera.

C'è una famosissima pagina di Robert Musil, che descrive con grande efficacia la figura de L'uomo senza qualità, dell'uomo cioè che, considerando tutte le qualità comuni (professione, nazione, classe sociale, sesso, tipo psicologico, eccetera) come non propriamente sue, di fatto non trova alcuna ospitalità nel reale per la sua vera e più profonda identità; essa lo induce a rifugiarsi nella fantasia.

I suoi nove caratteri sociali sono come rivoli accidentali, "ed egli non è in fondo che una piccola conca dilavata da tutti quei rivoli".

Perciò ogni abitante della terra ha ancora un

decimo carattere, e questo altro non è se non

la fantasia passiva degli spazi non riempiti;

esso permette all'uomo tutte le cose meno

una: prendere sul serio ciò che fanno i suoi al-

tri nove caratteri e ciò che accade di loro; va-

le a dire, con altre parole, che gli vieta preci-

samente ciò che lo potrebbe riempire.

Il "decimo carattere" è appunto quell'identità personale che ciascuno di noi presume di avere, al di là di tutto ciò che succede nella vita banale di ogni giorno.

Tale "decimo carattere", lungi dal divenire principio di discernimento di ciò che di fatto accade di vivere ogni giorno, distacca dal reale e induce a vivere di "fantasia passiva": a vivere cioè di sognate possibilità mai realizzate, e a sopportare gli accadimenti effettivi solo sostenuti dalla confortante consapevolezza che tanto non si tratta di cosa seria e irrevocabile. Tutto può essere in ogni momento ritrattato.

Per rimediare a tale rischio della nostra vita, occorre riconoscere invece con forza che la verità della nostra identità personale non può essere cercata nella "fantasia passiva", né tanto meno può essere supposta come già realizzata nel segreto della nostra coscienza: va invece cercata e realizzata entro la trama della nostra storia effettiva, credendo nella possibilità e nel dovere di discernere un senso in ogni particolare di tale storia.

Certo, il senso di cui si dice va oltre la piattezza dei fatti accaduti; va oltre essi, ma non li ignora, non li scavalca come accidenti non seri. Il problema del discernimento è appunto que- sto: riuscire ad ascoltare la voce dei fatti, o anche "i segni dei tempi".

L'IO MINIMO

Il destino dell’ “io autarchico” è quello di diventare "io minimo" : di diventare cioè un "io" che, incapace di crescere a misura dell'esperienza effettivamente vissuta, va a finire che si difenderà da quest'esperienza sentendola come una fastidiosa insidia alla sua sufficienza. Il libro di Giona ci offre un'immagine suggestiva, e insieme piacevolmente ironica, dell"'io minimo". Pensiamo in particolare alle ultime righe del libro, là dove si dice come il piccolo profeta, colpito alla testa dal sole dopo la morte dell'alberello di ricino, invocasse la morte.

Dio disse a Giona: "Ti sembra giusto essere

così sdegnato per una pianticella di ricino?".

Egli rispose: " Sì che è giusto: ne sono sdegna-

to al punto di invocare la morte" (Gn 4,9).

Il piccolo Giona è ridotto a tanta meschinità da dover far dipendere il senso e il valore della propria vita da una pianticella di ricino, perché non ha creduto nella grande possibilità che il Signore gli indicava, quella appunto di essere profeta e di occuparsi di una grande città come Ninive.

Simili a tanti piccoli Giona diventiamo spesso tutti noi, trovandoci quasi costretti a far dipendere il senso della nostra vita dalla buona salute, dalla facile digestione, dal fatto di non soffrire d'insonnia, dalla promozione a un esame, o dall'applauso di questo o quell'altro amico alla nostra ultima impresa. Diventiamo così vulnerabili quando rinunciamo a cercare un senso nella trama distesa e molteplice dei nostri giorni e ci rifugiamo nello stato d'animo del momento. Non sapendo vedere al di là dello stato d'animo, di tutto giudichiamo in rapporto ad essa; e così giungiamo a giudizi paradossali e ridicoli.

Certo, anche lo stato d'animo ha un'importanza nella vita. Esso però non deve essere il criterio del nostro giudizio sul bene e sul male. Deve essere piuttosto come una spia che ci invita di volta in volta a cercare un senso per quello che viviamo: un senso per la noia, un senso per l'ansia e il nervosismo, un senso per la gioia, un senso per la tristezza e la malinconia. E il senso di cui si dice è quello che soltanto la meditazione sugli accadimenti della vita può manifestare; ancora una volta giungiamo al discernimento dei "segni dei tempi".

Se viceversa non abbiamo il coraggio, la pazienza, la perseveranza, o addirittura la fede necessari per effettuare un tale discernimento, accadrà di necessità che il piacevole stato d'animo diventa il fine della vita, mentre lo spiacevole stato d'animo diventa la fine della vita. Siccome i piaceri sono tanto più sicuri da ottenere quanto più sono piccoli, appunto verso piccoli piaceri inclinerà la nostra voglia, disprezzando invece i grandi ideali, quasi essi costituissero specchietti per le allodole.

C'è una pagina assai efficace di Friedrich Nietzsche, che descrive l'uomo moderno ("l'ultimo uomo", come lui lo chiama) esattamente come l'uomo dalle piccole voglie: "una vogliuzza per il giorno, una per la notte, ma sempre badando alla salute".

Merita di leggere e meditare su queste pagine:

Guardate! Io vi mostro l'ultimo uomo.

"Che cos'è l'amore? e la creazione? e il de-

siderio? Che cos'è una stella?": così chiede

l'ultimo uomo, e ammicca.

La terra sarà divenuta allora piccina, e su di

essa saltellerà l'ultimo uomo che rimpiccioli-

sce ogni cosa.

La sua razza è indistruttibile come quella del-

la pulce; l'ultimo uomo vive più a lungo di

tutti.

"Noi abbiamo inventato la felicità", dicono

gli ultimi uomini, e ammiccano.

Essi hanno abbandonato le contrade dove du-

ro era vivere: giacché si ha bisogno di calore.

Si ama ancora il vicino e ci si stropiccia a lui:

giacché si ha bisogno di calore.

Ammalarsi e diffidare è per essi un peccato:

avanzano guardinghi. Folle chi incespica an-

cora nei sassi o negli uomini!

Un po' di veleno di quando in quando: ciò

produce sogni gradevoli. E molto veleno infi-

ne, per una gradevole morte.

Si lavora ancora poiché il lavoro è uno sva-

go. Ma si ha cura che lo svago non affatichi

troppo.

Non si diviene più poveri e ricchi: entrambe

queste cose sono troppo opprimenti. Chi vuo-

le ancora regnare? Chi ancora obbedire? En-

trambe queste cose sono troppo opprimenti.

Nessun pastore e un solo gregge! Tutti vo-

gliono la stessa cosa, tutti sono uguali: chi

sente altrimenti, va da sé al manicomio.

"Una volta tutti erano pazzi", dicono i più

astuti, e ammiccano.

Ora la gente ha gli occhi aperti, e sa bene

tutto ciò che accadde: se non ne ha di moti-

vi da ridere! Ci si bisticcia ancora, ma subì-

to ci si riconcilia, altrimenti ci si rovina lo

stomaco.

C'è il piacerino per il giorno e il piacerino

per la notte: ma sempre badando alla salute.

"Noi abbiamo inventato la felicità", dicono,

e ammiccano gli ultimi uomini.

E a questo punto Zarathustra terminò il pri-

mo discorso, che si chiama anche "il prolo-

go", giacché l'interruppe il clamore e la gioia

della folla. "Dacci questo ultimo uomo, o Za-

rathustra - si gridava - rendici simili a que-

st'ultimo uomo, e il superuomo te lo puoi te-

nere!". E tutto il popolo giubilava e faceva

schioccare la lingua. Ma Zarathustra divenne

triste e disse al suo cuore:

"Essi non mi comprendono: io non sono boc-

ca per queste orecchie.

Troppo a lungo, certo, vissi sulla montagna,

e troppo a lungo ascoltai il sussurro dei ru-

scelli e degli alberi: ora parlo, per loro, come

un capraio.

L'anima mia è serena e luminosa quale mon-

tagna al mattino. Ma essi pensano che io sia

freddo e un buffone dalle burle atroci.

Ed ecco che mi guardano e ridono: e men-

tre ridono anche mi odiano. Vi è del ghiac-

cio nel loro riso".

L'IO IDEALISTA

C'è però anche un altro atteggiamento, apparentemente al polo opposto rispetto a quello dell'"io minimo", che di fatto conduce a risultati pratici molto simili; o comunque conduce al risultato di disprezzare ogni compito concreto come cosa poco seria. Intendiamo riferirci all'atteggiamento dell'uomo "idealista". Come definire 1"'idealista"?

È colui che non ha nella vita soltanto "voglie" passeggere; ma neppure ha volontà precise. Ha soprattutto grandi ideali, tanto più grandi quanto più ideali, e cioè definiti o immaginati a prescindere da ogni riferimento al reale, e soprattutto da ogni riferimento alla sua esperienza reale.

Serviamoci dà riferimento a un caso più concreto della vita, all'esperienza dà rapporto tra ragazzo e ragazza. Penso sia facile per tutti immaginare come si comporti a tale riguardo 1"'ultimo uomo", quello delle piccole voglie. Meno facile forse è immaginare come si comporti l’ “idealista”. Egli, così almeno dichiara, ha un preciso "ideale" di donna (il discorso si può fare ovviamente anche dal punto di vista della donna); tanto più preciso ed esigente è l'ideale, quanto meno si confronta con le effettive esperienze vissute dalla persona in questione. Ponendo ogni ragazza incontrata a confronto con tale ideale, accadrà che il nostro ragazzo giunga in fretta a bocciarle quasi tutte. A noi però a questo punto sorge un dubbio: non sarà per caso che questo ragazzo ha un grande ''ideale" di donna (ed eventualmente di matrimonio) perché non vuole sposarsi? Perché non è disposto cioè ad accettare l'impegno e il rischio di costruire liberamente una storia d'amore? L'esperienza concreta dimostra che, almeno in questa materia del rapporto uomo - donna, l’ ”idealismo” è per lo più una difesa.

Sembra ragionevole pensare che un'analoga funzione di difesa, un sospetto idealismo, giochi in molti modi in ogni campo della vita. Gli esempi generali che si possono ricordare sono soltanto quelli più appariscenti e comuni. Pensiamo a un esempio fin troppo banale: quello offerto dalla molta gente che, in nome di un ideale di politica tanto puro quanto irrealistico, pronuncia una sbrigativa sentenza di condanna nei confronti di tutti coloro i quali di politica di fatto si occupano. "Sono tutti uguali", dice l'uomo qualunque: l'uomo cioè che, indossando i panni del censore della corruzione politica dilagante, in realtà è qualunquista, e si sbriga in tal modo del fastidioso compito di operare un discernimento all'interno di un ambito della vita civile che è effettivamente di complessità scoraggiante. Quello che accade nei confronti della politica, d'altra parte, accade spesso anche nei confronti di ambiti più ristretti come sono una scuola, una parrocchia, una fabbrica e qualsiasi altra unità associativa.

Sempre queste realtà debbono misurarsi con i difficili problemi del consenso, e quindi con le resistenze individuali che sembrano impedire o quanto meno rallentare ogni consenso. Appunto in risposta a tale complessità si determina facilmente la reazione dà risentimento: una reazione immatura, e talvolta addirittura infantile, e che tuttavia facilmente si veste dei panni di un astratto moralismo. Il proprio progetto è senz'altro valutato come quello giusto e ideale; se di fatto esso non si può realizzare, la colpa è del reale, e non dell'ideale: tutti sono così stupidi o così disonesti, eccetera, eccetera. Da capo, il singolo si sottrae al compito più difficile ed edificante che sarebbe quello di cercare il possibile, certo il meglio possibile, ma a partire dai dati concreti, e non da astratte prese di posizione sentenziose.

La forma esasperata dell'idealismo etico, che invece di misurarsi con il possibile proclama sentenze a procedere dall'ideale, è l'estremismo politico, o addirittura il progetto di un cambiamento violento delle situazioni sociali. Molti terroristi degli anni '70 hanno cominciato la loro esperienza da posizioni idealistiche e utopiche, e sono diventati violenti quasi perché offesi dall'impraticabilità storica delle idee astratte che avevano in testa.

Pur senza la teorizzazione della violenza, un certo estremismo catastrofico nel giudizio sulla politica, o più in generale sulla società civile quale di fatto esistente, sembra essere una tentazione facile per l'idealismo cristiano, specie giovanile. In molti ambienti del volontariato cattolico - realtà encomiabilissima e della quale non si possono in alcun modo minimizzare i meriti sociali - circola una visione addirittura demonizzante della società civile e delle sue istituzioni politiche, dall'esercito alla magistratura, dal governo alla scuola. È necessario interrogarsi su tale visione, e produrre un discernimento di tale ambigua miscela tra idealismo etico e rifiuto della complessità sociale. Soltanto da un simile discernimento potrà maturare un atteggiamento anzitutto più cordiale, ma poi anche più intelligente ed esperto, nei confronti della concretezza storica entro la quale noi viviamo.

Non serve a nulla pronunciare sentenze generali sul corso del mondo, se tali sentenze non aiutano in alcun modo la decisione e l'impegno personali nella concreta situazione in cui siamo posti a vivere. Così insegna il sapiente nel libro del Siracide, che fra tutti i libri sapienziali è il più attento al tema del discernimento inteso come capacità di giudicare la qualità del momento singolo, ed è il più sospettoso nei confronti delle sentenze generali:

Non si può dire: Che è questo? Perché quel-

lo? Tutte le cose saranno indagate al tempo

giusto ...

Non si può dire: Che è questo? Perché quel-

lo? Poiché tutte le cose sono state create per

un fine...

Non si può neppure dire: Questo è peggiore

di quello. A suo tempo ogni cosa sarà rico-

nosciuta come buona (Sir 39,16b.21.34).

"Non si può dire ...": s'intende, non si può dire in generale, non si può dire in nome di una presunta legge universale, della quale noi avremmo conoscenza adeguata.

Dagli avvenimenti noi dobbiamo lasciarci istruire, rinunciando alla tentazione di istruire Dio sul come dovrebbe governare il mondo. L'esortazione a non pronunciare sentenze generali s'accompagna all'affermazione che il vero sapiente è colui che sa a proposito di ciò che lo riguarda, che sa istruire se stesso, e non quello che sa istruire tutti.

C'è l'uomo esperto maestro di molti, ma inu-

tile per se stesso. C'è chi posa a saggio nei

discorsi ed è odioso: a costui mancherà ogni

nutrimento; non gli è stato concesso il favore

del Signore, poiché è privo di ogni sapienza.

C'è chi è saggio solo per se stesso, e i frut-

ti della sua scienza sono i più sicuri (Sir

31,19-22).

L'idealismo dunque diventa sapienza vera e non sospetta soltanto quando esso si mostra capace di farci scoprire iniziative buone da prendere, opportunità favorevoli in cui impegnarsi; è invece da sospettare quando sa esprimersi soltanto nella forma di un giudizio universale sul mondo.

L'IO FARISEO

Quelli che non sanno giudicare questo tempo, secondo Gesù, sono fondamentalmente i farisei. La difesa da essi usata nei confronti di ciò che i tempi obiettivamente esigerebbero da loro è l'appello alla legge; ancora una volta, l'appello a una norma di carattere generale, che può essere applicata al concreto in forma quasi meccanica, senza cioè passare per il cuore e plasmarlo.

Dall'albero buono nascono frutti buoni, ed è soltanto un occhio limpido e senza travi che può discernere quello che conviene momento per momento.

I farisei invece presumono di conoscere bene quello che conviene o non conviene in base alla legge generale.

Così, ad esempio, i tempi esigerebbero da loro misericordia e gioia riconoscente di fronte allo spettacolo dei molti peccatori che si convertono alla parola di Gesù; essi invece si lamentano e chiedono ai discepoli: "Perché il vostro maestro mangia insieme ai puhblicani e ai peccatori?" (Mt 9,11). Il giusto infatti - come dice il Salmo 1,1-2 - "non indugia sulla via dei peccatori e non siede in compagnia degli stolti; ma si compiace nella legge del Signore, meditandola giorno e notte". Gesù si difende dall'accusa appellandosi alla parola del profeta Osea: "Misericordia io voglio, e non sacrificio" (Mt 9,13).

Ma Gesù non intende in alcun modo opporre il profeta alla legge; soltanto vuole avvertire che la legge stessa diventa ingiusta, quando lo spirito dell'uomo sia torbido.

La legge diventa grossolana, quando l'uomo cerca in essa non un mezzo per perseguire ciò che è giusto, ma un mezzo per giustificarsi. La legge diventa come un filtro che ferma i moscerini, e lascia entrare i cammelli. Diventa come una lavatura esteriore, che lascia sussistere dentro il cuore dell'uomo ogni sorta di malvagità.

Gesù stesso ha suggerito una spiegazione di come debba essere interpretata la legge, per essere condotta a perfezione. Pensiamo al brano di Matteo 5,17-48. Alla luce di una tale spiegazione appare assolutamente chiaro come la legge non possa suggerire immediatamente quale sia l'opera buona nella situazione concreta; ma solo possa rendere buono l'uomo, perché egli stesso diventi capace di giudicare del bene e del male al di là di ogni regola generale chiara e distinta.

Dice per esempio Gesù:

Avete inteso che fu detto agli antichi: Non

uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto al

giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con

il proprio fratello, sarà sottoposto al giudizio

(Mt 5,21-22).

L'impressione prima è che Gesù esageri: se dovrà essere giudicato ogni uomo che s'adira, non potrà salvarsi nessuno! Ma più radicalmente, l'obiezione è questa: davvero l'ira è sempre ingiusta? Dipende da come intendi l'ira. C'è infatti un'ira che ha il senso del dispetto e del desiderio di vendetta; c'è invece un'ira che è indignazione di fronte allo spettacolo dei torti inflitti al debole. C'è un'ira contro qualcuno, e c'è invece un'ira a favore di qualcuno. Distinguere le due, o le molte, qualità di ira, è un compito complesso e sottile, che certo non si può assolvere mediante ricette generali.

Alla fine è indispensabile la sapienza del cuore, per riconoscere quell'ira che equivale a un omicidio, all'auspicio, cioè, che l'altro sia tolto di mezzo. E tuttavia, prima di giungere a quel fine e per giungere a quel fine serve anche la legge: il comandamento che proibisce di uccidere, proibisce certo anche di desiderare la morte dell'altro. Desiderare l'assenza dell'altro, o il suo silenzio, d'altra parte, molto può assomigliare a desiderarne la morte; il comandamento "non uccidere" ci aiuta a produrre un discernimento di molti nostri pensieri e sentimenti che solo illusoriamente ci sembrano innocenti e normali, e così si dica per tutti gli altri comandamenti.

Non pensate che io sia venuto ad abolire la

legge o i profeti; non sono venuto per abolire

ma per dare compimento (Mt 5,17).

Il compimento della legge d'altra parte è quello realizzato quando la legge è ricondotta alla radice del comportamento umano; e la radice è il cuore.

Non c'è nulla infatti - dice ancora Gesù -

fuori dell'uomo che, entrando in lui, possa

contaminarlo; sono invece le cose che escono

dall'uomo a contaminarlo (Mc 7,15).

"Le cose che escono dall'uomo" sono le sue intenzioni, e dunque le sue azioni: queste solo lo possono contaminare. Le cose che da fuori entrano nell'uomo sono, nel discorso di Gesù, immediatamente i cibi; ma sono più generalmente: immagini, parole, e addirittura comportamenti incapaci di plasmare un'intenzione. Tutte queste cose non hanno alcun potere di rendere l'uomo ingiusto, e neppure giusto; esse sono e rimangono esteriori, finché non se ne scorga la rilevanza sotto il profilo del cuore. Il discernimento di ciò che conviene dunque è possibile soltanto in questa forma, quale discernimento delle intenzioni umane; tale discernimento ha bisogno certo anche della legge; ma esso se ne serve quale strumento per capire il cuore, non invece come catalogo di azioni esteriori che nella loro esteriorità sarebbe possibile classificare come buone o rispettivamente cattive.

In generale, la nostra epoca sembra più portata al disprezzo della legge e a un'apologia facile della trasgressione, piuttosto che al legalismo. In realtà, sotto il profilo morale le cose non stanno così. Ma non è soltanto un vantaggio. Il rimedio al fariseismo non è infatti l'abolizione della legge, ma la capacità di comprenderne il senso e il valore in termini più che materiali ed esteriori. In ogni caso, il fariseismo continua a insidiare l'uomo d'oggi come quello di tutti i tempi. E oggi come sempre il fariseismo consiste nel tentativo di esonerarsi dalla responsabilità personale nella situazione concreta appellandosi a una pretesa regola generale. Le forme più caratteristiche del fariseismo contemporaneo sembrano essere quella del comportamento burocratico e quella della moda.

Come intendere il comportamento burocratico? Esso è, sotto un primo punto di vista, una necessità della società contemporanea, caratterizzata da una esasperata divisione dei compiti e da organizzazioni complessissime.

Il comportamento del singolo all'interno di tali apparati non può essere semplicemente affidato a un supposto buon senso personale; l'organizzazione non definisce soltanto i compiti complessivi a cui ciascuno deve assolvere, ma codifica scrupolosamente le procedure a cui conformarsi. Non c'è per altro alcuna codificazione che possa rendere superfluo il buon senso, e cioè il senso della responsabilità personale a fronte della singola situazione concreta. L'apparato burocratico pesante e inerte è spesso sentito dal singolo come un ostacolo in rapporto al compito di dare una risposta equa alla domanda della situazione concreta. Le ripetute frustrazioni del buon senso, impedito di esercitarsi dalla burocrazia, rischiano di generare un modello di comportamento che inclina sistematicamente alla dimissione di ogni responsabilità nascondendosi dietro al regolamento.

Un'analisi di questo genere ci sembra per tanti aspetti descrivere quello che accade per esempio nella scuola; in un'istituzione dunque alla quale sono affidati compiti decisamente irriducibili a codificazione burocratica e tali invece da impegnare ineluttabilmente la responsabilità personale.

E tuttavia gli insegnanti - e per certa parte anche gli alunni - inclinano decisamente a un comportamento burocratico, a un comportamento cioè che mira a eludere ogni coinvolgimento della persona, appellandosi continuamente al regolamento. Sarebbe per altro ingiusto limitarsi a una denuncia esclusivamente morale (e dunque "moralistica") di questo stato di cose: esso è per una buona parte il risultato di un eccesso di regulation della professione dell'insegnante; un eccesso che per un lato aggrava l'esercizio di quella professione di adempimenti formali che comportano uno sproporzionato dispendio di tempo e di energie, e per altro lato ostacola in molti modi l'esercizio del buon senso personale. La scuola burocratizzata costituisce un test particolarmente eloquente della minaccia più generale che pesa sulla società tutta: la minaccia appunto che siano sistematicamente mortificati i possibili contributi del soggetto morale, dunque del soggetto umano per eccellenza, alla vita sociale, in forza dell'irrigidimento di una regolamentazione che appare soprattutto informata al principio del sospetto di tutti contro tutti.

Oltre che impoverire la vita sociale, l'ipertrofia burocratica rischia di produrre un'atrofia del soggetto morale stesso; mancano infatti a tale soggetto le occasioni opportune per esercitare la responsabilità personale e per crescere dunque nella capacità di discernimento responsabile.

L'altra forma caratteristica del fariseismo contemporaneo è quella della moda. Il campo privilegiato di affermazione della moda è, come si sa, quello dell'abbigliamento. In tale campo la diffusione della moda è attivamente coltivata dall'industria, è cioè una strategia per vendere. Ma la strategia in questione può di fatto essere perseguita con tanto successo perché essa corrisponde a un bisogno obiettivo del singolo nella società di massa. Il bisogno a cui alludiamo è quello del riconoscimento. A tale bisogno il singolo dispera di poter provvedere attraverso le risorse propriamente personali: egli infatti, come s'è visto, ha un'identità debole e incerta, la quale esita ad esprimersi se non in contesti particolarmente ristretti e improbabili. La moda offre una risorsa alternativa di riconoscimento: più facile e più generalizzata.

Non a caso la moda riguarda per eccellenza l'abbigliamento, e cioè l'aspetto esteriore e superficiale della persona, quello subito accessibile all'occhio dell'estraneo. La moda d'altra parte potenzia le capacità mimiche del soggetto, le capacità cioè di imitazione di modelli preformati, i quali possono essere adottati appunto così come si indossa un vestito.

La moda tuttavia non riguarda soltanto il vestito nel senso letterale del termine. Riguarda più in generale tutti i comportamenti del tempo libero, e dunque tutti i consumi: pensiamo in particolare a quelli dello spettacolo, della musica, della letteratura, dell'informazione. In tutti questi campi l'inclinazione del singolo nella società di massa rischia di diventare quella di fare "come se": di procedere cioè dal "dogma" per cui ciò che è da molti apprezzato è per ciò stesso ciò che vale, e dunque occorre fare "come se" mi piacesse, imparando quindi attraverso la ripetizione mimica esteriore ad apprezzare ciò che magari in un primo momento appare estraneo e poco convincente. Il singolo infatti, di fronte alla percezione della propria estraneità rispetto ai moduli comuni, è più incline a dubitare di sé che di quei moduli comuni. Il soggetto diventa, anche attraverso tale via, un fariseo, uno cioè per il quale la facciata vale più della sostanza, il giudizio altrui più del giudizio proprio.

I SEGNI DEL TEMPO

La decisione è possibile soltanto a condizione che nel presente si schiuda un'opportunità di agire, nella quale giocare se stessi. La decisione, per essere davvero tale, non può essere soltanto decisione a proposito di questo o di quest'altro, ma deve essere decisione a proposito di sé. Decidere vuol dire sempre decider-si. Ma per decidersi è indispensabile individuare nella situazione presente un appello che proprio a me si rivolge.

Talvolta, se fossimo attenti alle vibrazioni dello spirito, potremmo accorgerci che saremmo anche disposti a compiere un'opera buona; anzi, ci farebbe addirittura piacere compierla; soltanto ci trattiene il pensiero che quell'opera potrebbe legarci anche per domani. Siccome del domani ci sembra di non poter disporre, o meglio ci sembra più conveniente non disporre, va a finire che di fatto rinunciamo anche all'opportunità presente. Questa esperienza può aiutarci a comprendere molte cose importanti. Anzitutto ci fa comprendere come un'opera davvero buona impegni la persona, e non soltanto il tempo di una giornata o una certa somma di denaro: impegna l'essere della persona, e non il suo avere. Inoltre, ci fa comprendere quale sia il senso obiettivo dell'inclinazione oggi assai diffusa a mantenere aperte il più gran numero di possibilità per domani: tale inclinazione è un indice dell'estraneità dell'uomo nei confronti di suo presente; in altri termini, è un indice del come l'uomo non scorga nel presente forme plausibili per giocarsi, forme che gli consentano insieme di determinare se stesso e le proprie attese nei confronti del domani.

L'opera buona a cui sopra si faceva cenno non sarebbe sentita come pericolosa e di possibile pregiudizio per il domani, qualora il soggetto scorgesse in essa un'occasione opportuna per essere buono, e non semplicemente per fare una beneficenza.

La condizione perché l'uomo si decida nel presente è infatti proprio questa: che egli riconosca nell'azione richiesta a lui dal tempo presente un'azione nella quale può, e anzi deve, esprimersi il suo spirito. Solo se l'azione riesce a dar forma alle sue più essenziali intenzioni, può essere insieme adottata cordialmente da chi la compie, e non invece posta con mille riserve, quasi aggiungendo ad essa un commento di questo genere: oggi mi comporto così, ma non traetene conclusioni precipitose a proposito di quello che io penso, sento, voglio, e in definitiva a proposito di quello che io sono. L'approfondimento di questa considerazione esige che introduciamo la distinzione fra due modi di concepire l'agire dell'uomo, e quindi tra due modi corrispondenti di concepire il tempo.

Secondo il primo modello, l'agire dell'uomo vale per le sue conseguenze; ma le conseguenze non sono mai del tutto sicure, dipendono infatti da molte circostanze imprevedibili, e soprattutto dalla libertà degli altri. Il tempo è in tale prospettiva concepito come successione cronologica degli avvenimenti; il senso del tempo è quello determinato dalla connessione tra causa ed effetto, tra accadimenti di oggi e conseguenze di domani.

Secondo l'altro modello, invece, l'agire umano vale per ciò che significa; non dunque in ultima istanza per le conseguenze incerte che produrrà domani, ma per il senso sicuro che fin da oggi esso afferma. La possibilità di un'affermazione assoluta nell'oggi dipende da una concezione del tempo diversa da quella cronologica. I greci avevano due parole diverse per dire "tempo": una era chrónos, e il suo significato corrispondeva press'a poco alla concezione quantitativa moderna del tempo cronologico; l'altra parola era invece kairós, che dovrebbe tradursi press'a poco così: "tempo giusto per". La distinzione rimane presente anche nel greco del Nuovo Testamento: il "tempo" di cui si parla in Luca 12,56 è dunque quello che Gesù m'invita a giudicare, è il kairós e non il chrónos.

Può aiutarci a intendere il significato del "tempo giusto" il famoso brano di Qoelet sulla diversa qualità dei tempi:

Per ogni cosa c'è il suo momento,

il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.

C'è un tempo per nascere

e un tempo per morire,

un tempo per piantare

e un tempo per sradicare le piante.

Un tempo per uccidere

e un tempo per guarire,

un tempo per demolire

e un tempo per costruire.

Un tempo per piangere

e un tempo per ridere,

un tempo per gemere

e un tempo per ballare.

Un tempo per gettare sassi

e un tempo per raccoglierli,

un tempo per abbracciare

e un tempo per astenersi dagli abbracci.

Un tempo per cercare

e un tempo per perdere,

un tempo per serbare

e un tempo per buttare via.

Un tempo per stracciare

e un tempo per cucire,

un tempo per tacere

e un tempo per parlare.

Un tempo per amare

e un tempo per odiare,

un tempo per la guerra

e un tempo per la pace (Qo 3,1-8).

Il senso del brano è chiaro: a seconda delle circostanze, possono apparire all'uomo convenienti tutte le azioni, e il contrario di tutte le cose. Ogni cosa è "bella" - si dice subito dopo (Qo 3,11) - "a suo tempo" ; che vuol dire: è conveniente se compiuta nel tempo giusto. Non si può dunque dire in generale che cosa conviene e che cosa invece sconviene nella vita dell'uomo; che cosa conviene, dev'essere detto in particolare, e non in generale. La conclusione che il saggio trae da questa constatazione è piuttosto incerta.

Per un lato egli dice: l'uomo non può capire l'opera di Dio dall'inizio alla fine, e tuttavia non può cancellare dal suo cuore quest'idea e quest'attesa, di conoscere cioè il senso di tutte le cose dall'inizio alla fine; sicché l'uomo deve vivere in croce, o quanto meno in atteggiamento di umile riconoscimento del mistero di Dio

(cf. Qo 3, 10-14). Per altro lato invece egli dice: "Vanità delle vanità, tutto è vanità" ; visto che quello che in un momento appare bello e desiderabile, nel momento successivo appare invece come nulla, occorre dire che nulla sembra consistente nella vita. Il libro del Qoelet offre, nella sua incertezza, una specie di istruzione sul problema dei "segni dei tempi". Potremmo tentare di riassumere questo problema nei termini seguenti.

I diversi momenti (kairoi) della vita sembrano a prima vista proporre un compito determinato e "bello" alla libertà dell'uomo. Ma questa prima impressione appare in un secondo momento quasi cancellata dal mutare dei tempi, e dal conseguente mutare degli apprezzamenti. La varietà sconnessa dei tempi della vita umana rischia di insinuare nell'anima dell'uomo il germe del dubbio universale. Il dubbio è, più precisamente, quello che all'uomo non sia concessa la possibilità di alcuna opera "perfetta", di alcuna opera cioè che egli possa approvare definitivamente e senza pentimenti, con la quale egli possa in qualche modo identificarsi.

La frammentazione dei tempi può essere superata soltanto a una condizione: che l'uomo riesca a scorgere, al di là della diversa qualità dei tempi e quindi anche del suo agire nel tempo, l'unità di un senso capace di raccogliere la molteplicità delle forme. La coerenza dell'agire, e quindi la dedizione incondizionata a ciascun frammento di esso, sono rese possibili dal riferimento a ciò che sta oltre il tempo.

L'agire umano non si comprende nella sua successione cronologica, ma nell'unità della testimonianza che esso esprime in rapporto all'eterno.

Leggere i tempi della vita umana quali "segni" vuol dire infatti leggere in essi la voce dello Spirito stesso di Dio, e dunque a Lui rispondere con la propria azione, e non alla sollecitazione di questo o quell'altro futuro attraente. I " segni dei tempi" sono "segni dello Spirito".

I SEGNI DELLO SPIRITO

Al discernimento della voce dello Spirito, attraverso la trama degli avvenimenti che scandiscono la nostra vita, concorrono molti elementi: la conoscenza della legge di Dio, l'istruzione di tanti esempi illuminanti, l'esperienza procurata da molte vicende già vissute, la maturazione psicologica raggiunta attraverso i rapporti umani più fondamentali, tutto ciò insomma che concorre a plasmare la nostra coscienza morale.

Che cos'è infatti la coscienza morale, se non la coscienza del bene che interpella la nostra libertà? E che cos'è il bene, se non la causa buona alla quale merita che dedichiamo la nostra vita, sbarazzandoci finalmente di quell'ingombrante preoccupazione che consiste nel tentare di trattenere la vita, o di "salvare" la vita?

Il nome concreto di bene, il nome che dà un volto a questo termine astratto e insieme dà un volto a Dio - il bene infatti, si capisce subita, è Dio stesso - è il nome di Gesù Cristo. Attraverso l'immagine del Figlio di Dio fatto uomo noi riusciamo insieme a dare voce a quello Spirito che da sempre "geme" dentro di noi, ma senza che possiamo da noi stessi distinguerne la voce (cf. Rm 8,z6-z?).

Attraverso dunque l'immagine del Figlio fatto uomo, attraverso le molte immagini proposte dalla sua predicazione, ma soprattutto attraverso l'immagine del suo gesto supremo, quello della dedizione di sé fino alla morte, noi troviamo la via di comporre in unità la dispersione frammentaria dei tempi della vita, e troviamo insieme la via di comporre in unità la nostra stessa immagine.

Facciamo un esempio concreto del come il riferimento a Cristo avvii al discernimento dei tempi. Lo prendiamo dalla vicenda dei discepoli al suo seguito, e più precisamente dal contrasto che viene a crearsi tra il loro modo di comportarsi e i criteri di giudizio propri dei custodi della legge o degli stessi discepoli di Giovanni.

I discepoli di Giovanni e i farisei stavano fa-

cendo digiuno. Alcuni vennero da Gesù e gli

domandarono: "Perché i discepoli di Gio-

vanni e i discepoli dei farisei fanno digiuno,

i tuoi discepoli invece non lo fanno?". Gesù

rispose: "Vi pare possibile che gli invitati a

un banchetto di nozze se ne stiano senza

mangiare mentre lo sposo è con loro? No.

Per tutto il tempo che lo sposo è con loro,

non possono digiunare. Verranno però i gior-

ni in cui lo sposo sarà loro portato via, e allo-

ra faranno digiuno.

Nessuno rattoppa un vestito vecchio con un

pezzo di stoffa nuova, altrimenti la stoffa

nuova strappa via parte del tessuto vecchio e

fa un danno peggiore di prima. E nessuno

mette vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il

vino li fa scoppiare, e così si perdono e il vi-

no e gli otri. Invece, per vino nuovo ci vo-

gliono otri nuovi" (Mc 2,18-22).

Interpretiamo questo esempio. La domanda di quegli interlocutori nasce da un presupposto, o forse meglio da un pregiudizio: quello cioè che il meglio da farsi sia noto una volta per tutte, e sia noto a tutti. Noi digiuniamo, e questa ci sembra un'opera buona: perché i tuoi discepoli non fanno lo stesso? La risposta di Gesù fa immediato riferimento, non a una legge generale, ma alla qualità di tempo (kairós) che i discepoli stanno vivendo. E la qualità di quel tempo è fondamentalmente decisa dal rapporto con "lo sposo".

Ora "lo sposo è con loro", e dunque ora essi "non possono digiunare".

Non vi dico che non digiuneranno mai: ma il momento in cui dovranno digiunare non può essere deciso in base a una legge generale; neppure può essere deciso in qualsiasi modo stabilito a monte dell'incontro con il "vino nuovo" che è il vino versato da Gesù stesso. Essi, proprio perché sono discepoli, non hanno un interesse, uno scopo, un'identità personale precostituita rispetto all'incontro con il Maestro: ma appunto a partire da quell'incontro ricostituiscono, o meglio costituiscono per la prima volta, l'unità della loro vita.

È meglio digiunare o far festa? Dipende! È meglio la solitudine o la compagnia? È meglio una vita austera o una vita prodiga? È meglio ridere o piangere? In ogni caso occorre rispondere: dipende! Che non si possa decidere una volta per tutte, in base a una regola generale, quello che conviene, non vuol dire che non ci sia nulla che davvero convenga. Vuol dire invece che in ogni tempo conviene una cosa diversa: un'azione, un sentimento, uno stile, una disposizione d'animo, che va interpretata - o meglio va scoperta - riconoscendo quale sia la musica che lo Spirito suona esattamente in quel momento della nostra vita. Alludiamo a un altro testo evangelico, estremamente suggestivo per intendere il senso dei "segni del tempo".

Lo riportiamo:

Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora,

il regno dei cieli soffre violenza e i violenti

se ne impadroniscono. La legge e tutti i pro-

feti infatti hanno profetato fino a Giovanni.

E se lo volete accettare, egli è quell'Elia che

deve venire. Chi ha orecchi intenda.

Ma a chi paragonerò io questa generazio-

ne? Essa è simile a quei fanciulli seduti sulle

piazze che si rivolgono agli altri compagni e

dicono:

Vi abbiamo suonato il flauto

e non avete ballato,

abbiamo cantato un lamento

e non avete pianto.

È venuto Giovanni, che non mangia e non

beve, e hanno detto: "Ha un demonio". È

venuto il Figlio dell'uomo, che mangia e be-

ve, e dicono: "Ecco un mangione e un beo-

ne, amico dei pubblicani e dei peccatori". Ma

alla sapienza è stata resa giustizia dalle sue

opere (Mt 11, 12-19).

Il rimprovero dei fanciulli ai loro compagni capricciosi, che guastano ogni gioco, esprime efficacemente il senso del rimprovero che Gesù indirizza a "questa generazione". Essa trova sempre nuovi pretesti per schermirsi nei confronti della musica che lo Spirito di Dio suona, perché gli uomini imparino quale sia la danza che può e deve rendere "bella" la loro vita. Ma il difetto non è nella musica, è piuttosto nel loro "capriccio"; fuori di metafora, è nel loro rifiuto di credere alla sapienza di Dio. La sapienza di Dio è infatti così fatta da rivelarsi agli umili e da nascondersi invece ai sapienti. Dio non ha mezzi per convincere chi non vuole lasciarsi istruire; ha invece molte "opere" mediante le quali istruire chi vive nell'attesa di quell'istruzione.

Cerchiamo di tradurre in termini un poco più concreti e riferiti al nostro presente, il senso di quest'intuitiva e quasi magica sintonia con la musica dello Spirito di cui parla Gesù. Prendiamo in esame una parola qualunque di Gesù; per esempio, "amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori" (Mt 5, 44) .

Il fanciullo capriccioso è quello che subito dice: io non ho nemici, e neppure conosco nessuno che mi perseguiti; dunque, questa parola di Gesti non mi riguarda, tanto vale che la dimentichi. Il fanciullo invece che desidera lasciarsi istruire dalla sapienza di Dio, anzitutto cerca nella sua memoria quali siano le persone che gli paiono ostili; e cercandole, certo anche le trova. Poi si chiede come potrebbe amarle, e cioè in che modo potrebbe esprimere ad esse il suo desiderio di averle amiche. A questa domanda magari gli sembra di non riuscire a dare subito una risposta precisa e praticabile. E tuttavia non si arrende. Quello che può fare subito è esprimere una domanda a Dio a proposito dei suoi "nemici"; esprimere una domanda equivale a pregare per loro.

Il primo vantaggio della preghiera è quello di accendere un'attesa, plasmare un desiderio. Avere un desiderio, d'altra parte - lo abbiamo visto - è la condizione indispensabile per essere pronti a cogliere l'occasione di una stella cadente: di un tempo cioè opportuno per esprimere anche praticamente quello che si è deciso idealmente. Ciò che non si sapeva come realizzare, pensandoci tra sé e sé, appare all'improvviso realizzabile alla luce delle circostanze. Ma le circostanze non avrebbero tale capacità di istruirci, se noi subito cancellassimo dal nostro spirito tutti i desideri per i quali non vediamo immediate possibilità di realizzazione concreta. È questo un esempio di come accada che la parola di Gesù (e certo al di là della sua parola singola, il ricordo sintetico del suo esempio) ci apra all'intelligenza della voce dello Spirito: una voce questa che non si lascia mai fissare nei libri, ma ha bisogno delle occasioni della vita per risuonare concreta e convincente agli orecchi della nostra coscienza.

La condizione del discernimento propriamente cristiano è dunque la memoria di Gesù. Una memoria certo non semplicemente mnemonica, ma una memoria che plasmi un'attesa, e dunque orienti per la sua parte la qualità abituale delle nostre intenzioni. Le intenzioni che sembrano in un primo momento rimanere sospese a mezz'aria - come la preghiera, appunto - consentono poi invece di percepire il significato spirituale delle diverse occasioni della vita.

IL CASO SERIO: LA VOCAZIONE

Non c'è soltanto una voce dello Spirito che risuona all'interno d'ogni tempo singolare della nostra vita; ma c'è anche una voce più sintetica che di forma complessiva alla nostra vita nella sua interezza. Questa voce è quella che merita in particolare il nome di "vocazione". Occorre per altro subito sottolineare come non si dia uno stacco netto e sicuro tra le molte piccole "vocazioni" annunciate a noi dalle singole circostanze della vita, e la grande "vocazione" che imprime una direzione più definitiva e stabile alla vita tutta intera.

Serviamoci anche a questo proposito di qualche esempio. Anzitutto di un esempio evangelico. La donna samaritana ha incontrato un personaggio straniero e strano al pozzo; comprensibilmente, ella all'inizio ne diffida e se ne difende. E tuttavia, quando quell'uomo comincia a parlarle in maniera così penetrante e sorprendente della sua vita - pensiamo alla parola di Gesù circa i suoi cinque mariti - ella non prende a pretesto l'estraneità di quell'uomo, per impedirgli di proseguire il suo discorso. Al contrario, ella lo interroga a proposito delle massime questioni religiose che dividevano samaritani e giudei; certo, ella non immaginava ancora in quel momento dove l'avrebbe portata quel dialogo; addirittura, la sua domanda a Gesù era per molti aspetti generica ed evasiva, spostava infatti il discorso dal piano più concreto e scottante della sua vita personale al piano più generale e inoffensivo di una questione religiosa che riguardava tutti. E tuttavia, già in questo modo imperfetto e provvisorio, ella rispondeva in un certo senso alla piccola "vocazione" di momento. Alla fine la donna riconoscerà in Gesù il Messia, e nell'incontro con lui il punto di svolta della sua vita; ma tale grande "vocazione" non avrebbe potuto realizzarsi senza le piccole e provvisorie risposte che ella seppe dare ai segni preliminari che l'incontro con lo straniero le trasmetteva (cf. Gv 4,1-29).

Qualche cosa di analogo accade nella vita di tutti noi. Magari oggi non siamo ancora riusciti a scorgere in forma sufficientemente concreta e persuasiva quale meta il vangelo di Gesù intende assegnare alla nostra vita. E tuttavia già disponiamo di tante piccole "vocazioni", e cioè di tante singole occasioni di confronto con il suo vangelo che - senza trasmettere una "vocazione" unificante - pure ci chiamano a singole scelte parziali relativamente precise e moralmente impegnative. Qualora noi ci difendessimo dall'obbligo di operare tali scelte, adducendo la scusa ch'esse non bastano a vedere chiaro fino in fondo sul cammino verso il quale il cristianesimo ci porta, ci priveremmo per ciò stesso d'ogni mezzo di approssimarci alla nostra definitiva e sintetica vocazione. Forse domani, quando avremo alla fine operato le scelte più decisive della nostra vita, guardandoci indietro scopriremo come esse fossero già abbozzate nel nocciolo in piccole scelte precedenti, le quali pure, considerate una per una, nel momento esatto in cui erano prese ci sembravano così poco decisive.

Quello che saremo e dovremo essere nella vita si mostrerà al momento opportuno, e tuttavia quello che saremo è in qualche modo come anticipato, nello Spirito, da ciascuna delle piccole scelte che oggi già facciamo.