giovedì 27 settembre 2012

30.09.2012 V DOMENICA DOPO IL MARTIRIO DI SAN GIOVANNI IL PRECURSORE





 Il testo del Buon Samaritano è celebre, per questo motivo sono particolarmente importanti le tante differenti prospettive che si trovano nei testi della sezione “Per la nostra vita”. Offrono spunti non banali di riflessione.

LETTURA
Lettura del libro del Deuteronomio 6, 1-9


In quei giorni. Mosè disse: «Questi sono i comandi, le leggi e le norme che il Signore, vostro Dio, ha ordinato di insegnarvi, perché li mettiate in pratica nella terra in cui state per entrare per prenderne possesso; perché tu tema il Signore, tuo Dio, osservando per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo figlio e il figlio del tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti do e così si prolunghino i tuoi giorni. Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica, perché tu sia felice e diventiate molto numerosi nella terra dove scorrono latte e miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto.
Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte».


SALMO
Sal 118 (119)

      ®   Beato chi cammina nella legge del Signore.

Beato chi è integro nella sua via
e cammina nella legge del Signore.
Beato chi custodisce i suoi insegnamenti
e lo cerca con tutto il cuore. ®

Non commette certo ingiustizie
e cammina nelle sue vie.
Tu hai promulgato i tuoi precetti
perché siano osservati interamente.
Siano stabili le mie vie
nel custodire i tuoi decreti. ®

Non dovrò allora vergognarmi,
se avrò considerato tutti i tuoi comandi.
Ti loderò con cuore sincero,
quando avrò appreso i tuoi giusti giudizi.
Voglio osservare i tuoi decreti:
non abbandonarmi mai. ®

EPISTOLA
Lettera di san Paolo apostolo ai Romani 13, 8-14a

Fratelli, non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge. Infatti: «Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai», e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: «Amerai il tuo prossimo come te stesso». La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità.
E questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo.


VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Luca 10, 25-37


In quel tempo. Un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova il Signore Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai».
Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così»



«Ascolta, Israele!». Lo šemaʿ Jiśrāʾēl non è un banale invito o un’incidentale esortazione ad ascoltare. È l’appello, la chiamata originaria, l’espressione della coscienza di essere stati chiamati ad essere Israele: coloro che ascoltano si riconoscono in Israele e ad Israele è rivolto l’invito di mettersi in atteggiamento di ascolto e di obbedienza. È un modo profondo e suggestivo per parlare della chiamata originaria: come i grandi profeti, come Mosè (Es 3), come Abramo (Gn 12), l’appello di JHWH – in Dt pronunciato per bocca di Mosè – diviene il momento generatore del patto. In Dt 7,7-8, quando ci si chiederà il motivo della scelta di Israele, non sarà data altra risposta, se non l’amore preveniente di JHWH:
JHWH si è legato a voi e vi ha scelto, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli –, ma perché JHWH vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, JHWH vi ha fatto uscire con mano potente e vi ha riscattato liberandovi dalla condizione servile, dalla mano del faraone, re di Egitto.
L’elezione non è un privilegio, ma l’effettiva risposta alla chiamata divina.
La sezione di Dt 6 è uno dei discorsi di Mosè, che permettono di definire davvero il libro del Deuteronomio una “legge predicata”. Vi è un’alternanza di generi letterari: tre ripetizioni del primo comandamento, in diverse formulazioni (vv. 4-5; 10-15 e 20-25) e due attualizzazioni, in diversi contesti vitali (vv. 6-9 e 16-19). Se la pagina è collocata nel contesto del libro, si possono vedere a confronto due linguaggi teologici diversi per esprimere la teologia del patto: il primo (Dt 5) appartiene alla tradizione che conduce alla codificazione delle “dieci parole”; il secondo (Dt 6) risale al formulario dell’alleanza, che esprime l’esigenza fondamentale del patto nei termini sintetici di “amore”.
La sequenza della prima formulazione è il tracciato fondamentale della teologia deuteronomica e giustamente è diventata la chiave di volta della teologia giudaica. Dopo l’appello introduttivo, si noti la concatenazione tra l’indicativo e l’imperativo. L’indicativo sta nella formulazione sintetica che fa toccare alla lingua ebraica il massimo della sua sinteticità e potenzialità espressiva: «JHWH nostro Dio, JHWH uno». È chiaro che JHWH è un nome proprio e, come tale, è già uno e unico; ma il senso dell’affermazione sta nel dire che quel Dio JHWH è l’unico Dio. Tale paradossale definizione dell’unicità di Dio suscita l’imperativo seguente: tu dunque amerai JHWH, Dio tuo… In ebraico, la connessione è detta con un semplice “e”: «e amerai…», che unisce sia un imperativo a un altro imperativo precedente, sia un indicativo all’imperativo seguente. È la sintassi che si ritrova con il verbo ʾāhab «amare» solo in Lv 19,18: «e amerai il tuo prossimo come te stesso».
La singolare concordanza è stata messa in evidenza da Gesù, nel dialogo con lo scriba di Gerusalemme (Mc 12,28-34) o il dottore della Legge (Mt 22,34-40; Lc 10,25-37, Vangelo). L’esigenza dell’amore totalizzante per JHWH («con tutto il cuore, con tutta la vita, con tutta la forza») abbraccia infatti anche la relazione con il prossimo e non ne può fare a meno. La dimensione decisionale (il cuore), la vita in quanto tale e la dimensione operativa (forza) devono entrare in relazione totalizzante con l’unico Dio JHWH. Davvero, come insegna l’Apostolo nell’Epistola, «chi ama l’altro ha adempiuto la Legge» (Rm 13,8).  Si noti che nella pagina deuteronomica si insiste nell’alternare il «tu» al «voi». Non si deve giudicare questo gusto retorico con i nostri parametri estetici, né trovare in ciò un indizio per ipotizzare la provenienza del materiale da diverse fonti precedenti. Tale alternanza, al contrario, fa percepire un aspetto importante che non vale solo per l’appartenenza a Israele, ma è caratteristica anche del nostro cammino di fede, che è sempre personale e insieme comunitario: non si può dare infatti una relazione comunitaria che non sia frutto di decisioni personali, ma nemmeno una relazione individuale che non sia l’esito di un’appartenenza sociale.
Nessuno può credere da solo, come nessuno può vivere da solo. Nessuno si è dato la fede da se stesso, così come nessuno si è data l’esistenza. La fede è sempre dono del Signore che bussa alla porta di ciascuna persona e di ogni generazione con la voce, con il volto, con la storia di altre persone e di altre generazioni. Siamo generati alla fede dallo Spirito in quel grembo che è la comunità cristiana.
Vi è anche un’altra dialettica molto feconda tra comandamento e comandamenti, tra leggi, decreti, sentenze e comandi. L’enfasi cade sul “primo” comandamento, il quale si articola nelle “dieci parole” e, tramite queste poi, nella molteplicità delle altre leggi. Il primo comandamento è un trascendentale della vita etica. Le leggi, i decreti e le varie sentenze sono le norme che di volta in volta cercano di concretizzare quel trascendentale, mai esaurito in se stesso. La tradizione giudaica ha una bella immagine per esprimere questo concetto: le diverse norme assomigliano alla “siepe” che protegge il comandamento. È evidente che le molteplici norme non sono il comandamento, ma senza di esse rischieremmo ben presto di trasgredire anche lo stesso primo comandamento, cadendo nell’idolatria.

Il vangelo

Agli estremi del passo (vv. 25-28 e 37), stanno due spezzoni di dialogo tra il dottore della Legge e Gesù. La prima è concentrica: si apre con la domanda del dottore (v. 25) e si chiude con la risposta di Gesù (v. 28). Al centro, la duplice domanda di Gesù (v. 26) seguita dalla risposta del dottore della Legge, con la citazione del duplice comandamento (v. 27). L’ultima parte (37), più breve, è costruita invece in modo parallelo. I due verbi «fare» nel v. 37 riprendono quelli del v. 25b e 28b.
Vi sono poi due domande: al v. 29b (la domanda è preceduta da una frase narrativa) e al v. 36. Entrambe cominciano con «Chi» e riguardano l’identità del «prossimo». La prima domanda è posta dal dottore della Legge, la seconda da Gesù.
Nel mezzo sta la parabola (vv. 30-35), narrata anch’essa in modo concentrico intorno al v. 33: Σαμαρίτης δέ τις ὁδεύων ἦλθεν κατʼ αὐτὸν καὶ ἰδὼν ἐσπλαγχνίσθη «un Samaritano invece, che era in viaggio, passandogli accanto, vide, ne ebbe compassione».
Il primo versante è formato da due brani. Il primo descrive le azioni dei briganti (v. 30); il secondo quelle del sacerdote e del levita (vv. 31-32). Ciascuno di questi due ultimi ἀντιπαρῆλθεν «passò oltre dall’altra parte» (vv. 31b e 32b).
Il secondo versante comprende pure due brani: il primo (v. 34) racconta ciò che fa il Samaritano, il secondo (v. 35) ciò che, il giorno seguente, chiede all’albergatore di fare, ovvero di «prendersi cura di lui» (vv. 34-35). In totale, le azioni compiute dal Samaritano nei riguardi del malcapitato sono dieci: un nuovo “decalogo”!
Sacerdote e levita si trovano così dalla parte dei briganti, mentre il Samaritano e l’albergatore sono dall’altra parte. Si notino anche le opposizioni tra «spogliare» (v. 30) e «dare» (v. 35) e tra «percuotere» (v. 30b) e «fasciare le ferite» (v. 34a).
Al centro sta il v. 33. Il Samaritano che sopraggiunge dopo il sacerdote e il levita, non è sullo stesso piano: i vv. 31 e 32 sono perfettamente paralleli; il v. 33 se ne differenzia per forma e senso: non è la stessa cosa arrivare «verso quel luogo» (v. 32; preceduto da «per quella medesima strada» nel v. 31a) e venire «verso di lui» nel v. 33a; ma è soprattutto la finedelle frasi ad opporsi, perché, a causa dello stesso «vedendolo», le prime due volte sta ἀντιπαρῆλθεν «passò oltre dall’altra parte», mentre la terza volta il Samaritano ἐσπλαγχνίσθη καὶ προσελθὼν «ne ebbe compassione e gli si fece vicino».
Alle domande del dottore della legge (vv. 25 e 29), Gesù risponde con un’altra domanda (vv. 26 e 36). Alla prima risposta del dottore della Legge che cita un comandamento (v. 27), Gesù risponde con un imperativo (v. 28) che rinvia al comandamento. Nel v. 37, la risposta di Gesù rinvia pure alla risposta del dottore della Legge. Da notare il capovolgimento operato da Gesù a proposito del “prossimo”: nel v. 29 il dottore della Legge chiede chi sia il suo prossimo, nel v. 36 Gesù domanda chi sia stato il prossimo dell’uomo ferito; così il prossimo diviene soggetto dell’azione mentre prima era oggetto.

Chi è il mio prossimo?
Secondo una corretta esegesi rabbinica, con il principio ermeneutico della «concordanza» (remez), il dottore della Legge accosta alla citazione di Dt 6,5 la citazione di Lv 19,18: «E amerai il prossimo tuo come te stesso». La cosa singolare è che soltanto in questi due passi della Tôrâ si trova la forma verbale weʾāhabtā «e amerai».

Ma l’interpretazione umana della legge è sempre in agguato a smorzare la forza del dettato della legge divina: prossimo è soltanto il membro che appartiene alla cerchia ristretta della famiglia, della propria comunità religiosa (così era interpretato a Qumrān), del popolo cui si appartiene (cf però Lv 19,34 che recita: «Il forestiero che dimora fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Io sono JHWH vostro Dio»)…
L’interpretazione di Gesù capovolge i ruoli presupposti dalla domanda del dottore della Legge: se tu sei prossimo, non ha più senso domandarsi chi sia il tuo prossimo, ma va’ e diventa prossimo di chiunque incontri!

Problema teologico o esistenziale?
Chi si alza per fare la domanda a Gesù è un uomo versato nella conoscenza della Legge. Gesù lo rinvia alla sua competenza di dottore della Legge. La risposta alla prima domanda posta a Gesù non si trova già nella Legge che egli conosce a memoria? Le parole che cita riassumono mirabilmente le due tavole dell’unica Legge. Aveva una conoscenza più che sufficiente per rispondere alla propria domanda.
Quanto alla sua seconda domanda, si deve ritenere che non fosse ben posta, poiché Gesù, alla fine della parabola, la capovolge. Il dottore della legge chiede infatti a Gesù di precisare l’oggetto dell’amore che gli viene ordinato, mentre Gesù gli chiede di identificare tra i tre personaggi, del sacerdote, del levita e del Samaritano, il soggetto dell’amore. La domanda del dottore della Legge ha di mira l’altro, quella di Gesù mette in discussione proprio lui. Gesù avrebbe potuto rimandarlo di nuovo alla Scrittura. La risposta alla sua domanda vi si trova chiaramente enunciata: l’oggetto dell’amore deve comprendere l’estraneo come il fratello, il pagano come il giudeo, entrambi da trattare come se stessi. Gesù gli vuol far capire che il problema non è questo. Il problema non è un problema teologico, ma esisten-ziale. Tu, dottore della legge, diventerai prossimo dell’altro?

Giudeo o pagano?
L’identità del prossimo percosso è nascosta e manifesta insieme. La storia non dice se si tratta di un giudeo o di un pagano. Colui che è lasciato mezzo morto e ha bisogno di essere salvato è semplicemente un uomo. Neppure i briganti sono identificati. Sono degli uomini. Il problema non è sapere chi è stato ferito e chi lo ha svaligiato e riempito di botte. L’uno e gli altri possono essere sia giudei che pagani. C’è un uomo mezzo morto e ha bisogno di un altro uomo che lo salvi. Il problema è sapere chi lo salverà. E stavolta l’identità di quelli che possono farlo è assai precisa.
Non vi sono pagani tra i tre candidati salvatori, ma tre soggetti della Legge. Il sacerdote e il levita si allineano dalla parte dei briganti, facendosi loro complici: come loro, se ne vanno lasciandolo mezzo morto; sono allo stesso modo imputabili di non-assistenza a una persona in pericolo. Il Samaritano, eretico e scismatico, disprezzato e rifiutato dai giudei, ama il ferito come se stesso: paga in prima persona, con la propria cavalcatura e col suo danaro. Mentre sacerdote e levita si sono identificati con i briganti, egli fa tutto ciò che si deve perché un altro faccia come lui, per suscitare un altro salvatore, ma la storia non lo identifica più di quanto faccia con l’uomo di cui si prenderà cura. Basta che abbia i mezzi per farlo.

La condizione per la pienezza di vita
C’è solo un mezzo per ottenere in eredità la vita ed è di donarla. Gesù esplicita così il senso dell’amore comandato dalla Legge verso il prossimo. L’uomo che cade nelle mani dei 14

briganti è mezzo morto, è tra la vita e la morte. Il sacerdote e il levita scelgono di lasciarlo continuare a morire, il Samaritano gli salva la vita.
Amare il prossimo è aiutarlo a vivere e offrirgli i mezzi per vivere. Amare il prossimo come se stesso è trattarlo «come carne della propria carne» (cf Gn 2,23), considerarlo come proprio figlio. Solo a questa condizione uno potrà a sua volta essere trattato da Dio come un figlio, divenire suo erede e avere la vita eterna.
Definendo il nostro comportamento, Gesù descrive in anticipo ciò che farà per noi. I discepoli riconosceranno in lui il Figlio di Dio quando ci avrà ricondotti alla vita dando la sua per noi, quando lo avranno visto spogliato, percosso, condotto a morte, e il terzo giorno rivestito di vita eterna.


PER LA NOSTRA VITA

1. Il vero problema non è di “cercare Dio”, perché vi sono maniere di cercarlo che sono provocazioni; e ogni ricerca in cui l’uomo si attribuisce il primo piano non è già una provocazione?
Il vero problema sta nel mettersi in disposizioni tali che si possa sperare di trovarLo, senza dover, per così dire, neanche cercarLo. Bisogna giungere a comprendere che queste disposizioni stesse non possono venire che da Lui. Infatti è Lui che ci cerca e che, alla Sua ora, si manifesterà a noi.
A volte noi crediamo di cercare Dio. Invece è sempre Dio che ci cerca, e spesso Egli si fa trovare da chi non Lo cercava. Nessuna perspicacia critica prevarrà sulla chiaroveggenza di un cuore puro. Due volte felici i cuori puri: perché vedranno Dio, e Dio si farà vedere attraverso di loro. H. DE LUBAC, Sulle vie di Dio, Nuova edizione aggiornata, Introduzione di E. GUERRIERO (Già e Non Ancora 460. Opera Omnia di Henri De Lubac 1), Jaca Book, Milano 1959, 20082, p. 176.
2. Forse le pagine del Vangelo più urtanti per noi sono quelle che mettono spalle al muro. “Chi è il mio prossimo”, prende tempo nel chiedere il dottore della legge. Ma la parabola svela che non esiste una definizione astratta, un “modello”, un’idea di prossimo.F. CECCHETTO, Testi inediti.

3. Quando infatti qualcuno viene da te e ti chiede aiuto, non devi soccorrerlo un poco e poi, da uomo pio, dirgli: “Abbi fiducia e affida a Dio il tuo affanno”, bensì devi agire come se non ci fosse nessun altro capace di aiutarlo, solo tu. M. BUBER, Storie e leggende chassidiche, a cura e con un saggio introduttivo di A. LAVAGETTO, Cronologia a cura di M. DE VILLA (I Meridiani. Classici dello Spirito), Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2008, p. 243.

4. Carissimi fedeli, «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e s’imbatté in ladroni, i quali, spogliatolo e feritolo, se ne andarono lasciandolo mezzo morto».
Così il Vangelo. Ognuno di noi si può vedere raffigurato in quel poveretto; anche noi sul nostro cammino abbiamo incontrato dei ladroni: il mondo, il demonio, le passioni che ci hanno depredato e ferito. Chi può dire di non portare nella propria anima qualche ferita, più o meno profonda? Ma anche noi sui nostri passi abbiamo incontrato un buon samarita-no, anzi, il buon Samaritano per eccellenza, Gesù, il quale, mosso a compassione per il nostro stato, ci ha prestato soccorso.

Con amore infinito si è curvato sulle nostre piaghe sanguinanti medicandole con l’olio ed il vino della sua grazia: l’olio ne indica la soavità e il vino il vigore. Poi ci ha preso fra le braccia, ci ha portato in un rifugio sicuro, ossia ci ha affidato alle cure materne della Chiesa, alla quale ha consegnato il prezzo del nostro riscatto, frutto della sua morte di croce. La parabola del buon samaritano adombra così la storia della nostra redenzione, storia sempre in atto e che si rinnova ogni volta che ci avviciniamo a Gesù, mostrandogli con umiltà e pentimento le ferite dell’anima nostra. […]
Ecco come Gesù ci tratta. Ecco come Gesù ha trattato l’umanità che, per il peccato, gli era straniera, anzi nemica e che non aveva nulla a che fare con lui, il Santo, il Figlio di Dio! Gesù che mediante la sua opera redentrice ci ha dato per primo l’esempio di una carità piena di misericordia e di compassione, aveva tutto il diritto di concludere la parabola del buon samaritano dicendo: “Va’ e fa’ tu pure lo stesso!” e avrebbe potuto aggiungere, come dirà la sera dell’ultima Cena ai suoi Apostoli: “Vi ho dato l’esempio affinché anche voi facciate come io ho fatto a voi”.
Gli scribi e i farisei col nome del prossimo intendevano solo gli amici o, al massimo, i figli d’Israele, ma mai i pagani e neppure i samaritani. Ed ecco che il Salvatore, oltrepassando di colpo questa interpretazione tanto gretta, come esempio concreto della carità comandata dalla legge propone proprio un atto di carità verso un nemico: il buon samaritano, non tenendo conto di nulla, presta soccorso al povero abbandonato dal sacerdote e dal levita, suoi connazionali.
Questa carità universale sarà il distintivo della nuova religione instaurata da Cristo. «La religione pura agli occhi di Dio – scriverà san Giacomo – è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle loro tribolazioni». Ossia non vi è vera religione senza carità verso il prossimo e soprattutto verso il prossimo sofferente. Gli scribi, i farisei e i loro stessi sacerdoti, che avevano ridotto la religione a un puro formalismo esterno mentre trascuravano con tanta disinvoltura i doveri della carità, trovavano nella parabola del buon samaritano la loro condanna.
Ma anche fra i cristiani non mancano talvolta persone devote che non tralasciano la minima pratica di pietà, ma non hanno alcuna titubanza ad abbandonare a se stessi coloro che soffrono. Costoro non hanno ancora compreso l’anima della religione, ma si sono fermati alla scorza. La religione ci dà il senso profondo dei nostri rapporti con Dio. Lui nostro Padre e noi suoi figli. Ma se siamo figli di un unico Padre, come non sentirci fratelli? Ecco in che cosa consiste la pietà vera. Avere il senso della nostra figliolanza divina, avere il senso della nostra fraternità con tutti gli uomini, nessuno escluso. E chi si sente veramente fratello non tirerà mai dritto di fronte ai bisogni ed alle sofferenze altrui. Così sia! P. TARCISIO GEIJER (monaco certosino), Testi inediti, Vedana 1965.

5. Il contrario dell’umanità è la brutalità, l’incapacità di riconoscere l’umanità del prossimo, l’incapacità di esser sensibili ai suoi bisogni, alla sua situazione. La brutalità dipende spesso da una mancanza di immaginazione e dalla tendenza a trattare l’altro in modo generico, a considerare l’altro come un uomo medio. L’uomo raggiunge la pienezza dell’essere nel legame sociale, nell’interesse per gli altri. Amplifica la sua esistenza «portando il fardello del suo prossimo».A.J. HESCHEL, Chi è l’uomo?, Traduzione di L. MORTARA - E. MORTARA DI VEROLI, Con uno scritto di E. ZOLLA (Conoscenza Religiosa 36), SE, Milano 2005, p. 61.


6. Ciò che noi siamo capaci di concedere agli altri è generalmente di meno e raramente di più di una semplice decima.
Non esiste conflitto tra Dio e l’uomo, né ostilità tra lo spirito e il corpo, né cuneo tra sacro e profano. L’uomo non vive separato da Dio. L’umano è la linea di confine del divino. La vita scorre in prossimità del sacro, ed è questa vicinanza che conferisce all’esistenza il significato supremo. […] Spetta a noi giungere a percepire l’impossibile nel possibile, a per-cepire la vita eterna nelle azioni di tutti i giorni. Dio non sta nascosto in un tempio. La Torah è venuta a dire all’uomo distratto: “Tu non sei solo, tu vivi costantemente in una prossimità sacra; ricorda: «Ama il prossimo tuo – Dio – come te stesso». Non ci viene chiesto di abbandonare la vita e di congedarci da questo mondo, ma di mantenervi accesa la scintilla e di permettere che la sua luce si rifletta sul nostro volto. Che la nostra cupidigia non si erga come una barriera tra noi e questa vicinanza. Dio ci aspetta su ogni via che conduce dall’intenzione all’azione. A. J. HESCHEL, L’uomo non è solo. Una filosofia della religione, Traduzione di L. MORTARA - E. MORTARA DI VEROLI, Revisione di C. GALLI, Introduzione di C. CAMPO (Uomini e Religioni. Saggi), Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2001, pp. 171 e 228.

7. Il primo momento [della parabola] è come un’introduzione scenica. In alto sta Gerusalemme, con le sue mura sicure, le case accoglienti, il tempio di Dio che offre bellezza e protezione. Mille metri più in basso, Gerico, la città delle rose, si stende sulle rive del Mar Morto a trecento metri sotto il livello del mare. Tra le due città una zona aspra e desertica, con una strada piena di imprevisti e di pericoli. Un uomo, che scende da Gerusalemme a Gerico, incontra dei briganti, che gli portano via tutto, lo bastonano e fuggono, lasciandolo mezzo morto.
Nel nostro cammino pastorale, insieme con i discepoli di Emmaus abbiamo incontrato il Signore, che ci ha spiegato la sua Parola; abbiamo spezzato con lui il Pane dell'Eucaristia; siamo corsi a Gerusalemme, la città della Cena, della Pasqua, della Pentecoste per prepararci alla missione, che ci farà testimoni del Risorto in tutto il mondo. La missione e la testimonianza ci portano lontano da Gerusalemme, incontro a ogni uomo che ha bisogno di aiuto. In altre parole dobbiamo comprendere il rapporto che c'è tra la dimensione contemplativa della vita, la Parola, l’Eucaristia, la missione e la carità, nella quale ultima tutte le altre realtà della Chiesa trovano la loro pienezza.
Il secondo momento della parabola ci presenta il penoso spettacolo della durezza del cuore. Un sacerdote e un levita, che percorrono quella strada, passano oltre, senza prestare soccorso. La loro durezza è l'immagine della nostra. I bisogni dei fratelli ci mettono in difficoltà. Rimaniamo chiusi in noi stessi e scarichiamo sugli altri le responsabilità. I rapporti sociali che ci legano ai nostri simili, senza la scintilla della carità, restano inerti. Dobbiamo esaminare umilmente le difficoltà che le nostre comunità incontrano nell'esercizio della carità.
Il terzo momento è il cuore di tutta la narrazione. Consta di una sola parola greca, che significa: fu mosso a compassione. Essa designa l’intensa commozione e pietà da cui fu afferrato un samaritano, che passava per quella stessa strada. Non pensiamo soltanto a un risveglio di buoni sentimenti. Poche pagine prima (cf Lc 7,13), la stessa parola è usata per descrivere la compassione di Gesù dinanzi al funerale del figlio della vedova di Naim. In altri passi della Bibbia questa parola allude all'immensa tenerezza che Dio prova per ogni 17

uomo. Dobbiamo pensare che con questa parola il racconto evangelico voglia descrivere un evento misterioso che è accaduto nel cuore del samaritano e lo ha, per così dire, attratto nello stesso movimento di misericordia con cui Dio ama gli uomini. Cercheremo anche noi di scoprire le leggi misteriose, secondo le quali l'amore di Dio, mediante lo Spirito di Gesù, infonde la carità nei nostri cuori.
Il quarto momento è una conclusione movimentata, tutta premura e azione: il samaritano si avvicina allo sfortunato, si fa prossimo, versa vino e olio sulle ferite, le fascia; carica lo sconosciuto, fatto diventare prossimo, sul proprio asino e lo porta alla locanda; sborsa due monete d'argento per le cure che saranno necessarie. La cosa più bella è che non lo abbandona al suo destino. Sa che può aver bisogno di tante altre cose; allora dice al padrone della locanda: «Abbi cura di lui e, anche se spenderai di più, pagherò io quando ritorno». Anche noi ci chiederemo quali gesti concreti ci domanda la carità che Dio ha acceso nel nostro cuore.

Come possiamo testimoniare il tuo amore?
Tu un giorno ci hai raccontato di un uomo,
che scendeva da Gerusalemme a Gerico
e fu assalito dai briganti.
Signore, quell’uomo ci chiama.
Aiutaci a non restare tra le mura del cenacolo.
Gerusalemme è la città della Cena,
della Pasqua, della Pentecoste.
Per questo ci spinge fuori
per diventare il prossimo di ogni uomo
sulla strada di Gerico. C.M. MARTINI, Lettera pastorale: Farsi prossimo. Si suggerisce la rilettura di tutta la Lettera pastorale Farsi .

8. Gerusalemme è la città santa, il luogo in cui Dio dimora all’interno del tempio. Ma il viaggio ci ha portato via dal tempio, ci ha allontanato dal luogo più santo della Terra.
Anche il sacerdote sta andando a Gerico. In effetti, a Gerico vivevano molte famiglie di sacerdoti, e quando costoro avevano finito il loro turno al tempio rientravano a casa per la stessa strada. Quando il sacerdote vede il corpo dell’uomo ferito, passa oltre. Perché? Non necessariamente perché sia senza cuore. L’uomo ferito viene descritto come «mezzo morto». E generalmente riconosciuto che il sacerdote non avrebbe potuto toccare il corpo di quella persona mezza morta, perché ciò lo avrebbe reso impuro. Il Dio della vita non ha nulla a che fare con la morte, e dunque ai sacerdoti del tempio era assolutamente vietato toccare i cadaveri. Egli non vede un uomo che ha bisogno di aiuto, ma una minaccia alla sua santità. E il levita, che serviva anche lui nel tempio, sarà passato di fianco al moribondo senza fermarsi per la stessa ragione.
Il samaritano era totalmente distante dalla santità del tempio. Era un eretico e uno scismatico. I samaritani avevano costruito un altro Tempio. Erano l’impurità incarnata. Ma i suoi gesti di compassione rivelano il nuovo luogo in cui si rivela la santità di Dio. È addirittura possibile che il riferimento al vino e all’olio siano un richiamo a due elementi usati nei sacrifici all’interno del tempio. Qui troviamo il vero luogo del sacrificio in cui dimora Dio. Nell’intero testo risuona continuamente la frase di Osea 6,6: «Misericordia io

voglio e non sacrificio». E il samaritano trasporta l’uomo in una locanda. In greco l’evangelista usa una parola suggestiva che significa «accogliente verso tutti» [πανδοχεῖον]. I cadaveri non sono una minaccia alla santità vera. In realtà, il Dio della vita può abbracciare i morti e ridare loro la vita. La croce è il vero tempio in cui si manifesta la gloria di Dio.
Uno dei funerali più commoventi che io abbia mai celebrato fu quello per un uomo di nome Benedict, che morì di AIDS intorno al 1985. Gli diedi l’unzione degli infermi un’ora prima che morisse e gli chiesi se avesse qualche desiderio da esprimere. Mi rispose che avrebbe desiderato che le sue esequie fossero celebrate nella Cattedrale di Westminster. Quella era un’epoca in cui si sapeva ancora poco dell’AIDS e c’erano molte paure e pregiudizi. Ma le autorità della Cattedrale accolsero la sua richiesta, e la sua bara fu posta proprio al centro della cattedrale, al cuore del cattolicesimo inglese. È stato un bel segno di dove si trova Dio. Benedict era stato stroncato da una malattia tremenda, che porta con sé rifiuto, repulsione e paura. Ma adesso era al centro di quel luogo santo, circondato dai suoi amici, molti dei quali affetti a loro volta dall’AIDS. Il Dio della vita si manifesta quando quelli ai margini diventano il centro.
«Chi è il mio prossimo?», chiese il dottore della Legge. È una domanda che ritorna ossessivamente nell’Europa di oggi. Che obblighi abbiamo verso gli altri? Ci sono molte e difficili domande a cui dobbiamo cercare faticosamente una risposta. Gesù non ci offre una risposta facile, e noi non possiamo assolutamente fare a meno degli uomini di legge e dei politici. Ciò che la parabola fa, è cambiare il modo di porre queste domande. Come posso diventare prossimo dell’uomo ferito? Come posso scoprire me stesso con lui e per lui? Come faccio a scoprire Dio in questa situazione? Perché, in definitiva, è proprio Dio che giace sul ciglio della strada, lacero e stremato, e mi sta aspettando. T. RADCLIFFE O.P., Non passare oltre, in http://www.vicariatusurbis.org/SettoreOvest/caritasovest/samaritano.htm [26 settembre 2012].

9. Ascolta! perché non bastano il cuore, l’anima, le forze,
perché non bastiamo a noi stessi;
percepiamo il suono bello dell’invito
di chi ci “crea” e ci vuole felici.
Ascolta! Forse Lui non sa come viviamo.
Giorno dopo giorno, non sa la rissa che crea il dolore,
lo stridore e l’apparenza
per darci volto, parola, pace.
Ascolta! È la parola che amiamo:
consegna e accoglienza.
L’invito è già una promessa,
che chiama a raccolta tutte le forze.
Ascolta! Oltre le obiezioni, i dubbi e il disincanto.
Per sempre, dappertutto:
nei giorni, in ogni passo, nella vita dei figli,
nel sangue, custoditi …
dove la dimenticanza non fa radici
e mani non aggrediscono.
In questa non-terra si annida
la sua Benedizione. F. CECCHETTO, in Nuovo Testamento; Salmi; Testi dell’Antico Testamento. Leggere la Bibbia in famiglia, a cura di L. NASON, Presentazione di D. TETTAMANZI, introduzioni di G. BORGONOVO ET ALII, Centro Ambrosiano, Milano 2007, p. 1058.

venerdì 21 settembre 2012

23 settembre ’12 IV DOMENICA DOPO IL MARTIRIO DI SAN GIOVANNI IL PRECURSORE






 Avvisi:
1. mercoledì 26 Santa messa di benvenuto alle matricole in cappella LIUC ore 13.00; alla messa seguirà un buffet.
2. di seguito trovate i commenti alle letture e alcuni testi che stimolano la meditazione

LETTURA
Lettura del primo libro dei Re 19, 4-8


In quei giorni. Elia s’inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra. Desideroso di morire, disse: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri». Si coricò e si addormentò sotto la ginestra. Ma ecco che un angelo lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia!». Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio d’acqua. Mangiò e bevve, quindi di nuovo si coricò. Tornò per la seconda volta l’angelo del Signore, lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino». Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb.

SALMO
Sal 33 (34)

     ®   Il tuo pane, Signore, sostiene i poveri in cammino.

Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino. ®

Guardate a lui e sarete raggianti,
i vostri volti non dovranno arrossire.
Questo povero grida e il Signore lo ascolta,
lo salva da tutte le sue angosce. ®

L’angelo del Signore si accampa
attorno a quelli che lo temono, e li libera.
Gustate e vedete com’è buono il Signore;
beato l’uomo che in lui si rifugia. ®


EPISTOLA
Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 11, 23-26


Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.


VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Giovanni 6, 41-51

In quel tempo. I Giudei si misero a mormorare contro il Signore Gesù perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?».
Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: “E tutti saranno istruiti da Dio”. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna.
Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

1. Commenti alle letture
Lettura del primo libro dei Re. 19, 4-8

Elia si è opposto alla idolatria ed ha affrontato anche il "giudizio di Dio" con una sfida ai 450 sacerdoti di Baal, il Dio fenicio. Aveva vinto con il fuoco dal cielo che il Signore ha inviato ed ha incenerito con l'offerta anche tutto l'altare di pietra (1 Re. 18, 16b-40a). Ma la successiva vendetta di Elia, che riteneva di vendicare l'onore di Dio uccidendo i sacerdoti di Baal, e insieme la sofferenza e la sottomissione dei suoi gli allontanò ancora il popolo che, dopo un momento di esultanza e di alleanza con Elia, era ritornato ad essere soggetto al re e alla moglie Gezabel, figlia del re di Tiro (pagana) e ardente missionaria della sua religione pagana. Così Elia fuggì intraprendendo un pellegrinaggio al monte Sinai, alla ricerca del volto di Dio, come per Mosè, poiché non capiva più il comportamento di Dio verso di lui e il suo popolo. Egli voleva scoprire le strategie di Dio, ma ricevette una esperienza, assolutamente diversa da come se la sarebbe immaginata.

Il primo significato di questo brano è la ricerca di Dio e delle sue scelte. Elia era fedele e non comprendeva.

Ma non voleva scoraggiarsi perché lo alimentavano una fede profonda ed una fiducia che gli faceva superare la fatica del disorientamento.

Dio non è facile da accostare. Egli si nasconde e questo provoca scoraggiamento (v. 3), la tentazione classica del profeta (Gen 21,14-21; Giona 4,3-8; Num 11,15; Ger 15,10-11; Mt 26,36-46). Eppure Elia ha riportato una grande vittoria al Carmelo ( 1 Re 18). Ma la solitudine del dover reggere la fatica di un popolo infedele lo ridusse alla prospettiva di abbandonare, di fermarsi e di dormire, stremato dal buio che aveva davanti a sé. La regina Gezabel aveva ancora vinto, Elia si ritrovòa quindi solo, come più tardi Cristo; non gli rimase che rimettersi a Dio.

Ma Dio gli offrì una segno per trarlo dalla disperazione;. Non abbandonò il suo eletto, così come non abbandonerà il suo Cristo (Le 22,43). Un pane e un'acqua miracolosi (v. 6 ) ricordavano ad Elia la manna del deserto e l'acqua della roccia ( E s 16,1-35; 17,1-7). Così, il memoriale della Pasqua del popolo fu il mezzo più sicuro per curare lo scoraggiamento.

Il Signore suggerì di misurarsi a Mosé, il mediatore che spesso si sentiva solo. Ma nutriva un profondo amore al suo popolo, pur infedele, e una profonda fiducia in Dio con cui discuteva e si confrontava. Ma il cammino lo doveva fare tutto. Elia non venne sollevato su ali di aquila, né dispensato dalla fatica del camminare su un terreno inospitale. Ma scoperse che il Signore si fidava di lui e lo attendeva. Infatti camminerà quaranta giorni (v. 8): il tempo della prova, della conversione, della vita.

L'accostamento fra Elia e Mosé ci viene ricordato anche nel Vangelo nel momento in cui Gesù si: svela nella Trasfigurazione per incoraggiare i discepoli a non disorientarsi di fronte alla morte di croce di Gesù stesso. Essi indicano la gratuità nei confronti di Dio e del suo popolo. Così essi furono chiamati e tutto quello che facevano era a servizio di un popolo perché potesse crescere. Essi aiutavano il Signore a realizzare il sogno di un popolo santo. ( M t 17,3; Apoc 11,1-13).

Finché il cristiano ha la certezza di possedere la «virtù» ed è sicuro della sua «verità» in tasca, finché il sacerdote è sicuro di sé, del suo ruolo e della sua influenza, c'è ancora posto per Dio? Queste sicurezze e queste certezze sono troppo umane per essere segno di Dio. Quando invece tutto ciò crolla improvvisamente - e ogni vita conosce questo smarrimento -, quando le virtù che si credeva di possedere diventano, ad un tratto, peccati e viltà, quando le verità tranquillanti e i luoghi comuni e le regole di società e i diritti di casta sono ad un tratto messe in discussione, Dio può finalmente agire

Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi. 11, 23-26

Siamo attorno all'anno 56 d.C. e Paolo vuole impegnare l'assemblea a consolidarsi, partecipando al pasto sacro comune, con la prospettiva, non tanto di catturare Gesù e tenerselo vicino, quanto per alimentare sé e gli altri fratelli e sorelle nelle loro vocazione e nelle sue scelte.

Di Corinto, una comunità che Paolo conosce bene perché vi ha abitato molti mesi, si ricordano le divisioni e gli scandali presenti nella comunità. L'apostolo vuole mettere ordine, soprattutto vuole intervenire nelle assemblee comunitarie quando ci si ritrova, in particolare, per l'Eucaristia.

Nei capitoli che vanno dall'11 al 14, per inquadrare il testo di oggi, Paolo prende in considerazione alcune deviazioni presenti nella Comunità (11,2-14,40): il comportamento delle donne in assemblea (11,2-16), il modo di celebrare la Cena del Signore (11,17-34), il retto uso dei doni dello Spirito (carismi) nella Comunità (cc.12-14). Qui, dove si parla della "Cena del Signore", ci sono elementi importanti che hanno trasformato la cena Pasquale di condivisione in cena dove si celebrano la croce e il sacrificio di Gesù.

Si parla, in particolare, del fare memoria.. Fare memoria non è tanto un ricordare ma è rendere presente la realtà, l'evento che si vuole ricordare. Gesù stesso, celebrando la Pasqua ebraica, ha fatto memoria del dono della liberazione ed ha anticipato nel gesto, che compie nella cena, il dono di amore al Padre, mediante la croce.

La Comunità di Corinto è composta, nella quasi totalità, da gente povera, braccianti, scaricatori del porto, schiavi. I ricchi sono pochi, ma si fanno notare per la loro supponenza. Quando si trovano per lo spezzare del pane, già nel primo pomeriggio si abbandonano a gozzoviglie mentre i fratelli sono al lavoro. Quando, sfiniti dal lavoro, questi ultimi si presentano per la celebrazione, sono accolti con disprezzo. Paolo, allora, è preoccupato di chiarire il significato dello spezzare il pane. "Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere?" (che significa: "Se avete voglia di mangiare e bere, state a casa vostra" (11,22).

Il trovarsi allo spezzare il pane ci offre la possibilità di rendere presente e di celebrare il dono di Gesù al Padre che si esprime pienamente nella morte sul Calvario per una profonda comunione con i fratelli. Ma il celebrare ci invita non solo al gesto liturgico ma, attraverso quello, a ripetere ciò che il gesto significa e di cui Gesù è il modello. Proprio per questa comunione S. Paolo si preoccupa: i credenti di Corinto hanno trasformato la cena del Signore in un segno menzognero che non può essere accettato. Non sono sinceri perché prendono parte ad un corpo che viene donato e al sangue che viene sparso per gli altri senza donarsi, a loro volta, per i fratelli. Paolo vuol far capire che l'Eucaristia, mentre offre la presenza unificante di Gesù che ama e muore per amore, simboleggia e realizza l'unione di tutti i membri nell'unico corpo di Cristo che è la Chiesa. Spezzare il pane è un gesto di comunione e di disponibilità a donare se stessi come ha fatto Gesù.

Se ci sono altri criteri, questa Comunità "mangia e beve la propria condanna" (11,28-29) perché la celebrazione diventa menzogna.

Il bere allo stesso calice, poi, nella cultura semitica, significa essere disponibili a condividere lo stesso destino fino alla morte.

Quello che è difficile capire è che la liturgia corre sempre il rischio di diventare solo rito, pratica a cui si partecipa per dovere senza rendersi conto che, se si è in comunione con Gesù, ovviamente, si imposta seriamente una comunione con i fratelli. Altrimenti, senza questa coscienza e questa fede, resta solo un gesto formale che non alimenta e non salva nessuno.

La cena del Signore è così messa al centro, fonte e culmine dell'esistere della Chiesa, dono grande per una comunità che resta nell'attesa, dono che significa impegno di responsabilità nella storia, dono per ricordare a vivere l'amore totale di Gesù.

Lettura del Vangelo secondo Giovanni. 6, 41-51

Il brano che stiamo leggendo fa parte di un lungo discorso che Gesù sviluppa a Cafarnao e che Giovanni riprende, comunicandocelo con intelligenza e profondità. Ma è difficile capire quanto potessero accettare queste affermazioni di Gesù coloro che ascoltavano, poiché sono sconvolgenti. Probabilmente Giovanni ha elaborato nella sua fede, per la sua Comunità cristiana, un conflitto che è sorto tra coloro che lo avevano seguito: prima scettici, poi stupiti del pane spezzato per 5000 persone, poi deluse poiché all'esplosione di gioia e al tentativo di sequestrarlo perché finalmente diventasse re, Gesù se ne va e diventa irreperibile. (6,1- 15).

Il giorno dopo, coloro che lo avevano seguito, pedinato, cercato, si ritrovano Gesù dall'altra parte del lago e curiosi vogliono sapere come ci fosse arrivato, visto che alcuni avevano aspettato che dalla riva opposta si staccassero anche le ultime barche, compresa quella degli apostoli. Ma lì sopra Gesù non si era imbarcato.

Non sanno che Gesù, di notte, nella tempesta, aveva camminato sul mare. Così gli apostoli avevano visto e scoperto anche la sua potenza creatrice e ordinatrice di Dio (6,16-21),. Ma avevano capito anche che Egli rifiutava il potere sugli uomini come la folla pretendeva offrirgli.

Inizia così la ricerca del significato della sua persona (6, 22-51).

I Giudei erano coloro che si contrapponevano a Gesù, perciò Giovanni non li chiama così per un riferimento geografico:( abitanti della Giudea); questi sono di Cafarnao, del nord, Galilei. Per Giovanni i giudei sono tutti quelli che si oppongono a Gesù.

E' molto curiosa la polemica poiché iniziò con il riferimento al pane che avevano mangiato il giorno prima, ed avevano nella memoria il richiamo della manna, mandata da Dio attraverso Mosè, per vivere nel deserto.

Ma ora si parlava di un nuovo pane. Gesù lo identificò con la sua persona e affermò che discendeva dal cielo.

Gli abitanti di Cafarnao e di Nazareth si conoscevano tutti tra di loro e per ogni persona riconoscevano gli ascendenti, le origini ed il lavoro. Con facilità intravidero nel linguaggio di Gesù il pane come richiamo alla conoscenza, come comprensione di un mondo sconosciuto e benefico che alimenta intelligenza e cuore. Ma i Giudei avevano già un pane che sazia: la Torah (la Legge di Mosé) e il Siracide ricorda che Dio "nutrirà il giusto con il pane dell'intelligenza e lo disseterà con l'acqua della saggezza" (Sir 15,3). Dicendo di essere il pane, Gesù stava salendo nel mondo inimmaginabile di Dio. e della sua parola. Dichiarava, anzi, che Egli era il vero messaggero di Dio e credere in Lui era frutto di un regalo del Padre, non opera di buona volontà e di fiducia.

Si mescolavano, da parte di Gesù, comunicazioni impensabili che scandalizzavano sempre più. Egli diceva di conoscere il Padre, di aver imparato direttamente da Lui, ed era pronto, come hanno garantito i profeti che "Saranno ammaestrati da Dio". In questo ammaestramento viene donata la vita eterna e la vittoria sulla morte con la risurrezione Gesù si rendeva conto delle loro perplessità, ma continuava ad usare una immagine che per un ebreo era blasfema: Egli aveva una conoscenza intima con Dio, più grande di quella di Mosé e dei profeti. Gesù arrivava a garantire di aver veduto il Padre, di aver ascoltato la sua Parola. Così affermava di essere assolutamente unico, nonostante la sua fragilità, e si presentava, nella sua presenza tra loro, come il più grande dono che Dio offriva, come unica parola concreta e nuova, come vertice di tutta la rivelazione Chiaramente tutta questa discussione doveva aver fatto inorridire i suoi ascoltatori che avevano ormai dimenticato lo spezzare del pane del giorno prima. Ma Gesù riprese il filo della sua rivelazione. "Io sono il pane della vita" e quindi sono la conoscenza piena di Dio. Giovanni non era ancora nella parte più propriamente eucaristica. C'era il confronto con la manna, l'alimento della vita nel luogo della desolazione.

Perciò Gesù era il nuovo alimento che addirittura manteneva la vita e sconfiggeva la morte. Alla base di questa rivelazione resisteva l'affermazione iniziale di Giovanni che riassumeva tutto il mistero della creazione e della salvezza attraverso una presenza nuova, debole eppure eterna, discreta nella proposta, eppure indispensabile per una vita piena. "Il Verbo si fece carne ed abitò tra noi" ( Gv 1,14).

Questa rivelazione si propone alla nostra ricerca di senso, al significato dei valori che stentiamo a formulare.

La presenza di Gesù. tuttavia, ha bisogno di essere accolta, capita, maturata, interpretata. Noi credenti siamo
chiamati ad accettare che la nostra vita è nella fragilità di Gesù, non nella potenza e nella visibilità. E Gesù, nella contestazione che riceve fino alla morte di Croce, è il vero itinerario per la vita eterna, come il più grande segno dell'amore del Padre.
2. Testi per la meditazione

1. Pane e silenzio dona Dio per i suoi discepoli: li nutre e li “lima”, li protegge dal loro stesso desiderio di morte, toccandoli e avvertendoli quanto sarà lungo il cammino. Li sostiene perché non abbiano a venir meno. Si può passare una vita “credendo” di essere nel suo nome.
Nel deserto Elia farà l’esperienza che il tempo e il modo della presenza di Dio non è come li aveva comunicati.
17
Il Dio degli eserciti di Elia si ritrae; non forza, ma debolezza, mistero della fecondità non della carne e del potere. Non è fuoco, né violenza; è nutrimento, consolazione nella sconfitta, è invito a rialzarsi quando desidereremmo anche morire.
Ma mette mano nelle nostre vite: da quante dedizioni, identificazioni, da presunte sue espressioni di volontà dovrà spogliarci prima di addentrarci nel deserto, trascinati da Lui, come per fuga, da Lui stesso provocata.
Fuggiasco Elia, deluso.
Dio fa il deserto per poter darci di entrare nel deserto.
Egli ci dovrà fare fuggiaschi dalla nostra volontà per entrare nella sua.
Ci dovrà fiaccare e deludere e come per negazione
Portarci là “dove non vorremmo andare”.
Ognuno fa per se stesso questo itinerario.
Non nel vento il Signore.
Non nel fuoco il Signore.
Non nel terremoto il Signore.
Non nel sensazionale, nell’apparenza, il Signore.
Può accadere di essere battuti, come grano; pigiati come uva.
Il Signore tace, attende fino a quando mettiamo il nostro sguardo e il nostro passo verso il deserto.
Il Signore passa…
Voce di silenzio svuotato. Là ci attende.
Per bruciare ciò che non è essenziale, ciò che passa.
Per rubarci e portarci dalla parzialità al tutto.
Ci dà il pane dell’invocazione, il mantello del discepolato.
Ci nutre a pane e silenzio. Dentro la vita, non in spazi speciali. Non è Lui che manca, lui passa, nutre, custodisce… Ma quel sussurro, quel silenzio svuotato che è la sua voce come può essere inteso?
Non può sfuggire alla meditazione la forte fisicità e concretezza dell’invito di Gesù a mangiare il pane della vita, per avere la vita, per una identità e una relazione fondata sul riconoscimento richiesto da Gesù, come pane della vita eterna. È la fede di ognuno di noi.
L’individualità, la metamorfosi delle nostre identità culturali, l’assenza di “un centro” a favore di una frantumazione sempre mutante, le nostre ambiguità sono i caratteri dominanti che possono impedire l’invito a riconoscere il “centro della vita” offerto dal Pane disceso dal cielo. Questo contrasto è forte e merita da parte dei discepoli di Gesù la riflessione sulle derive silenziose del nostro affidamento.
Si può stare in ogni situazione, in ogni cambiamento ed invito, è vero. Ma ci si può perdere se non si sta concentrati sulla “vita quella vera”, se non ci si cura di alimentarla, “mangiando”, appunto. Senza distrazione e dispersione, confessando la differenza tra ciò che nutre per davvero e ciò che invece promette e non mantiene.
Il darsi di Gesù come “pane”, alimento essenziale, semplice e insostituibile nel tempo e per la vita di sempre è il paradigma più radicale della cura e della sollecitudine del Padre per i suoi figli. È per la vita, il pane, è per il vigore e il sostentamento nella fatica dei giorni, è per la gioia di chi insieme lo mangia, è per la speranza di stare al mondo generando a nostra volta la vita, la cura per tutti.
Il darsi di Gesù come “pane” è apertura a relazioni di vita, alla responsabilità. Uno schiaffo “inconciliabile” al narcisismo di massa, al corporativismo che lascia senza speranza i fratelli, fraternità sempre “connessa”, non distacco simultaneo e senza spiegazione come ci

insegna la virtualità. Certo i legami per la vita impegnano, urtano, sbarrano la strada, costringono al cambiamento (non alle metamorfosi virtuali, ai profili mimetizzabili). Insegnano a dire: «Ci sono, oggi, domani: puoi contare su di me».
Il pane della vita disceso dal cielo non è donato per il narcisismo; lo squarcia, invece, come fa il lievito nell’impasto, porta fuori e ci lascia nello stesso tempo nel cuore – casa di Colui che si offre. La vita: questo è il pane disceso dal cielo.
“Diventi per noi cibo di vita eterna”! Da dove verrà questo pane? Quanto ci è necessario sta nella mente e nel cuore senza parola. E non solo il pane – nutrimento dei nostri giorni. Tutto passa per noi. Costruiamo, camminiamo, produciamo. Eppur sempre ci manca qualcosa. Nel cibo che perisce c’è tutta la nostra umanità. È il pane terreno. Nulla sazia infinitamente la vita. Le nostre promesse sono fragili. “Sempre”: non lo possiamo pronunciare. Saremmo ingannevoli. Tutto passa per noi e abbiamo fame di vita che non muore. Il Suo pane ci nutre e ci affama … Ci conduce a desiderarlo. Nella vita ci dona la Vita. È la Presenza, il dono puro, la cura, la sollecitudine. Pane che ci sfama e ci affama. Di Lui. F. CECCHETTO, Testi inediti.


2. Una constatazione, spesso dimenticata, è che “siamo tutti ospiti della vita”. In genere si dà privilegio errato o per lo meno eccessivo alla coscienza rispetto alle funzioni spontanee sia del nostro corpo sia della nostra psiche. In fondo il nostro cuore batte, il sangue circola, i polmoni si gonfiano e si svuotano d’aria, le ghiandole secernono gli ormoni, milioni di globuli bianchi s’immolano ogni volta che abbiamo un minimo graffio e tutto questo senza l’intervento della nostra volontà. […] Noi dobbiamo recuperare la meraviglia della presenza di una spontaneità che è in noi, di una vita di cui noi siamo ospiti e di cui banchettiamo malamente, perché non festeggiamo questa vita e in fondo ce ne serviamo come fosse un servomeccanismo: il nostro corpo è dimenticato e questo non è un fatto soltanto edonistico.
Credo invece che una delle grandi intuizioni del Cristianesimo sia proprio la risurrezione della carne e quindi la dignità anche del corpo. Noi viviamo sostanzialmente con ingratitudine, siamo – direbbe Fortini – degli ospiti ingrati di questa nostra esistenza. Un modo per poter festeggiare questo incontro con noi stessi e con lo straniero che è in noi è proprio quello di sederci al banchetto della vita e di alzarci non dico sazi, però almeno riconoscenti (R. Bodei). SERVIZIO NAZIONALE PER IL PROGETTO CULTURALE (a cura del), Saper sperare. Racconti e riflessioni sulla speranza (Dimensioni dello Spirito), San Paolo, Milano 2006, pp. 69-70.


3. Ma la vita non può consumare tutto, né la società dei consumi può o potrà concedere tutto. Anzi, essa toglie mentre dà. Non può dare al tempo stesso la sicurezza e il rischio, cancella l’avventura nell’offrire le pantofole. Dissolve la carne per dare l’immagine. La cultura di massa procura in forme fittizie tutto ciò che non può essere consumato praticamente. Così, essa è l’avventura delle vite senza avventura, la miseria delle vite confortevoli, il conforto delle vite miserabili, il crimine del padre di famiglia onorato, la nobiltà degli esseri senza nobiltà, la crudeltà delle anime sensibili e la sensibilità di quelle insensibili. Per giunta rende fittizia una parte della vita dei suoi consumatori. Fa dello spettatore un fantasma, proietta il suo spirito nella pluralità degli universi immaginati o immaginari, disperde la sua anima negli innumerevoli doppi che vivono per lui. E. MORIN, Lo spirito del tempo, a cura di A. ABRUZZESE (Nautilus), Meltemi, Roma 2002, p. 225.

4. I-pod, i-phone, i-pad, i prodotti con la i, suonano come la prima persona singolare dell’individualismo di massa contemporaneo. Molto più che semplici strumenti del comunicare, questi oggetti sono estensioni del soggetto, delle appendici inseparabili dell’io. Più che cose, meno che persone, occupano lo spazio vuoto che separa e unisce l’organico e l’inorganico. Icone di una metamorfosi. […] Più che oggetti, quelli con la i sono delle non-persone, ma tanto attaccati a noi da diventare gli attributi indispensabili dell’identità, qualità secondarie e non semplici proprietà. In questo senso gli i-life sono i pronomi personali dell’io virtuali, i nuovi indicativi di un’umanità digitale.
L’i-life fa dell’evidenza palmare una logica, un’etica e un’estetica all’insegna dell’ augmented reality. Dove l’universo intero sembra ruotare intorno all’i, ovvero a un io infinitamente espanso dai suoi recettori elettronici e proiettato verso una gravitazione liquida senza un centro di gravità permanente. In un cosmorama che lanciamo come sonde nell’infinità potenziale della rete. Per navigare nel mare della vita con cento occhi tecnologici che diventano bussola e sestante, mappa e cartografia del presente mutante. […]
Ciascuno sempre connesso con il suo tutor virtuale e sconnesso dagli altri. Per imparare a stare da soli al mondo, o meglio per essere sempre il centro del proprio i-mondo. E così la rete diventa il vero tessuto connettivo di una socialità in frammenti.
[…] Mentre il vecchio cogito lascia il posto al digito ergo sum. M. NIOLA, “I-life” la nuova vita digitale del narcisismo di massa, «La Repubblica», 14 settembre 2010, p. 55.


5. Il pane che mastichiamo, deglutiamo, digeriamo, si “disfa” per “fare noi”; in altri termini lo assimiliamo.
Una parte s’incorpora nei nostri tessuti, un’altra parte viene bruciata e produce energia. Noi possiamo parlare di materia ed energia, quando consumiamo l’alimento. Mentre lo consumiamo, esso si consuma, e noi continuiamo a vivere e ad agire. Gesù si è disfatto prima, triturato nella passione e consumato nella morte. Ormai glorificato, egli non ha più bisogno di disfarsi per comunicarsi; semplicemente prende la figura di alimento, di pane. E non comunica un frammento di vita provvisoria, temporanea, votata a morire, ma instaura e promuove una vita che vincerà la morte biologica. «Diventi per noi cibo di vita eterna». L. ALONSO SCHÖKEL, L’Eucaristia. Meditazioni bibliche (Bibbia e Preghiera 29), Apostolato della Preghiera, Roma 32004, p. 56.

6. A coloro che riducono l’Eucaristia a un pasto fraterno bisogna dire che questo alimento, anche se condiviso amorosamente, non impedirà loro di morire. L’Eucaristia è anzitutto l’unione al Risorto che ci risuscita, il pane celeste che ci comunica, sin da quaggiù, la vita eterna. Proprio per questo è anche l’unico pasto totalmente fraterno, anzi più che fraterno, poiché il Cristo ci fa “membri gli uni degli altri”, ci identifica nella sua carne. […]
L’Eucaristia protegge il mondo e già, segretamente, lo illumina. L’uomo vi ritrova la sua filiazione perduta, attinge la propria vita in quella del Cristo, l’amico fedele che spartisce con lui il pane della necessità e il vino della festività. E il pane è il suo corpo e il vino è il suo sangue; e in questa unità più niente ci separa da niente e da nessuno.
Che cosa può esservi di più grande? È la gioia di Pasqua, la gioia della trasfigurazione dell’universo. O. CLÉMENT, Dialoghi con Atenagora, in Letture per ogni giorno, a cura di E. BIANCHI ET ALII, ElleDiCi, Torino-Leumann 1980.

7. L’esperienza autentica di Dio, o il rapporto autentico con Lui, si realizza a condizione di “sottomettergli il cuore”. Non dobbiamo cioè dimenticare che l’esperienza di Dio, vissuta nel cammino della fede, della speranza e delle carità […] avviene sempre attraverso di noi, che prendiamo la sua “forma”: il suo modo di giudicare, di pensare, di amare. […]
In questo modo si fa l’esperienza di Dio non semplicemente come chi è informato su di Lui, ma piuttosto come chi vive un rapporto determinante, capace di “cambiare il cuore.” Dio non è un “oggetto”, ma “Colui che mi sottomette il cuore”. Diventa la mia “forma”: ciò che dà forma al mio essere e al mio agire, magari faticosamente, perché certo di essere fedele, di non venir meno, anche se mi sembra che le motivazioni gratificanti siano scomparse tutte. Ma non posso pretendere un’esperienza di Dio che sia semplice. Vi saranno, allora, momenti facili e momenti difficili: tutti devono essere assunti nella prospettiva della fede e diventare elementi di formazione nel cammino stesso della fede, della speranza e della carità. Proprio questa consapevolezza ci dà il coraggio, la forza, la ragione per vivere la fatica di questi momenti e ci conduce a riconoscere che l’esperienza di Dio non avviene senza di me, che prendo la sua “forma”. G. MOIOLI, Temi cristiani maggiori, a cura di D. CASTENETTO (Contemplatio 5), Glossa, Milano 1992 (1ª edizione 1973), pp. 83-84.


8. C’era già
e noi la cercavamo chiamandola verità.
C’era
ed era
in veste sempre varia
la stessa
sempre rinascente
identità –
di che? di ciò che era
stato
ed era
e diveniva
se stesso continuamente
nell’anima
nella materia,
eterna primavera
appunto
dell’identità, rigoglio della presenza.
C’era e noi la ignoravamo
intenti a fabbricarla
con la nostra caducità,
oh non per solo spreco,
non per sola vanità.
 M. LUZI, L’opera poetica (I meridiani), Mondadori, Milano 1998, 42001, p. 931.