venerdì 21 settembre 2012

23 settembre ’12 IV DOMENICA DOPO IL MARTIRIO DI SAN GIOVANNI IL PRECURSORE






 Avvisi:
1. mercoledì 26 Santa messa di benvenuto alle matricole in cappella LIUC ore 13.00; alla messa seguirà un buffet.
2. di seguito trovate i commenti alle letture e alcuni testi che stimolano la meditazione

LETTURA
Lettura del primo libro dei Re 19, 4-8


In quei giorni. Elia s’inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra. Desideroso di morire, disse: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri». Si coricò e si addormentò sotto la ginestra. Ma ecco che un angelo lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia!». Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio d’acqua. Mangiò e bevve, quindi di nuovo si coricò. Tornò per la seconda volta l’angelo del Signore, lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino». Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb.

SALMO
Sal 33 (34)

     ®   Il tuo pane, Signore, sostiene i poveri in cammino.

Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino. ®

Guardate a lui e sarete raggianti,
i vostri volti non dovranno arrossire.
Questo povero grida e il Signore lo ascolta,
lo salva da tutte le sue angosce. ®

L’angelo del Signore si accampa
attorno a quelli che lo temono, e li libera.
Gustate e vedete com’è buono il Signore;
beato l’uomo che in lui si rifugia. ®


EPISTOLA
Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 11, 23-26


Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.


VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Giovanni 6, 41-51

In quel tempo. I Giudei si misero a mormorare contro il Signore Gesù perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?».
Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: “E tutti saranno istruiti da Dio”. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna.
Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

1. Commenti alle letture
Lettura del primo libro dei Re. 19, 4-8

Elia si è opposto alla idolatria ed ha affrontato anche il "giudizio di Dio" con una sfida ai 450 sacerdoti di Baal, il Dio fenicio. Aveva vinto con il fuoco dal cielo che il Signore ha inviato ed ha incenerito con l'offerta anche tutto l'altare di pietra (1 Re. 18, 16b-40a). Ma la successiva vendetta di Elia, che riteneva di vendicare l'onore di Dio uccidendo i sacerdoti di Baal, e insieme la sofferenza e la sottomissione dei suoi gli allontanò ancora il popolo che, dopo un momento di esultanza e di alleanza con Elia, era ritornato ad essere soggetto al re e alla moglie Gezabel, figlia del re di Tiro (pagana) e ardente missionaria della sua religione pagana. Così Elia fuggì intraprendendo un pellegrinaggio al monte Sinai, alla ricerca del volto di Dio, come per Mosè, poiché non capiva più il comportamento di Dio verso di lui e il suo popolo. Egli voleva scoprire le strategie di Dio, ma ricevette una esperienza, assolutamente diversa da come se la sarebbe immaginata.

Il primo significato di questo brano è la ricerca di Dio e delle sue scelte. Elia era fedele e non comprendeva.

Ma non voleva scoraggiarsi perché lo alimentavano una fede profonda ed una fiducia che gli faceva superare la fatica del disorientamento.

Dio non è facile da accostare. Egli si nasconde e questo provoca scoraggiamento (v. 3), la tentazione classica del profeta (Gen 21,14-21; Giona 4,3-8; Num 11,15; Ger 15,10-11; Mt 26,36-46). Eppure Elia ha riportato una grande vittoria al Carmelo ( 1 Re 18). Ma la solitudine del dover reggere la fatica di un popolo infedele lo ridusse alla prospettiva di abbandonare, di fermarsi e di dormire, stremato dal buio che aveva davanti a sé. La regina Gezabel aveva ancora vinto, Elia si ritrovòa quindi solo, come più tardi Cristo; non gli rimase che rimettersi a Dio.

Ma Dio gli offrì una segno per trarlo dalla disperazione;. Non abbandonò il suo eletto, così come non abbandonerà il suo Cristo (Le 22,43). Un pane e un'acqua miracolosi (v. 6 ) ricordavano ad Elia la manna del deserto e l'acqua della roccia ( E s 16,1-35; 17,1-7). Così, il memoriale della Pasqua del popolo fu il mezzo più sicuro per curare lo scoraggiamento.

Il Signore suggerì di misurarsi a Mosé, il mediatore che spesso si sentiva solo. Ma nutriva un profondo amore al suo popolo, pur infedele, e una profonda fiducia in Dio con cui discuteva e si confrontava. Ma il cammino lo doveva fare tutto. Elia non venne sollevato su ali di aquila, né dispensato dalla fatica del camminare su un terreno inospitale. Ma scoperse che il Signore si fidava di lui e lo attendeva. Infatti camminerà quaranta giorni (v. 8): il tempo della prova, della conversione, della vita.

L'accostamento fra Elia e Mosé ci viene ricordato anche nel Vangelo nel momento in cui Gesù si: svela nella Trasfigurazione per incoraggiare i discepoli a non disorientarsi di fronte alla morte di croce di Gesù stesso. Essi indicano la gratuità nei confronti di Dio e del suo popolo. Così essi furono chiamati e tutto quello che facevano era a servizio di un popolo perché potesse crescere. Essi aiutavano il Signore a realizzare il sogno di un popolo santo. ( M t 17,3; Apoc 11,1-13).

Finché il cristiano ha la certezza di possedere la «virtù» ed è sicuro della sua «verità» in tasca, finché il sacerdote è sicuro di sé, del suo ruolo e della sua influenza, c'è ancora posto per Dio? Queste sicurezze e queste certezze sono troppo umane per essere segno di Dio. Quando invece tutto ciò crolla improvvisamente - e ogni vita conosce questo smarrimento -, quando le virtù che si credeva di possedere diventano, ad un tratto, peccati e viltà, quando le verità tranquillanti e i luoghi comuni e le regole di società e i diritti di casta sono ad un tratto messe in discussione, Dio può finalmente agire

Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi. 11, 23-26

Siamo attorno all'anno 56 d.C. e Paolo vuole impegnare l'assemblea a consolidarsi, partecipando al pasto sacro comune, con la prospettiva, non tanto di catturare Gesù e tenerselo vicino, quanto per alimentare sé e gli altri fratelli e sorelle nelle loro vocazione e nelle sue scelte.

Di Corinto, una comunità che Paolo conosce bene perché vi ha abitato molti mesi, si ricordano le divisioni e gli scandali presenti nella comunità. L'apostolo vuole mettere ordine, soprattutto vuole intervenire nelle assemblee comunitarie quando ci si ritrova, in particolare, per l'Eucaristia.

Nei capitoli che vanno dall'11 al 14, per inquadrare il testo di oggi, Paolo prende in considerazione alcune deviazioni presenti nella Comunità (11,2-14,40): il comportamento delle donne in assemblea (11,2-16), il modo di celebrare la Cena del Signore (11,17-34), il retto uso dei doni dello Spirito (carismi) nella Comunità (cc.12-14). Qui, dove si parla della "Cena del Signore", ci sono elementi importanti che hanno trasformato la cena Pasquale di condivisione in cena dove si celebrano la croce e il sacrificio di Gesù.

Si parla, in particolare, del fare memoria.. Fare memoria non è tanto un ricordare ma è rendere presente la realtà, l'evento che si vuole ricordare. Gesù stesso, celebrando la Pasqua ebraica, ha fatto memoria del dono della liberazione ed ha anticipato nel gesto, che compie nella cena, il dono di amore al Padre, mediante la croce.

La Comunità di Corinto è composta, nella quasi totalità, da gente povera, braccianti, scaricatori del porto, schiavi. I ricchi sono pochi, ma si fanno notare per la loro supponenza. Quando si trovano per lo spezzare del pane, già nel primo pomeriggio si abbandonano a gozzoviglie mentre i fratelli sono al lavoro. Quando, sfiniti dal lavoro, questi ultimi si presentano per la celebrazione, sono accolti con disprezzo. Paolo, allora, è preoccupato di chiarire il significato dello spezzare il pane. "Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere?" (che significa: "Se avete voglia di mangiare e bere, state a casa vostra" (11,22).

Il trovarsi allo spezzare il pane ci offre la possibilità di rendere presente e di celebrare il dono di Gesù al Padre che si esprime pienamente nella morte sul Calvario per una profonda comunione con i fratelli. Ma il celebrare ci invita non solo al gesto liturgico ma, attraverso quello, a ripetere ciò che il gesto significa e di cui Gesù è il modello. Proprio per questa comunione S. Paolo si preoccupa: i credenti di Corinto hanno trasformato la cena del Signore in un segno menzognero che non può essere accettato. Non sono sinceri perché prendono parte ad un corpo che viene donato e al sangue che viene sparso per gli altri senza donarsi, a loro volta, per i fratelli. Paolo vuol far capire che l'Eucaristia, mentre offre la presenza unificante di Gesù che ama e muore per amore, simboleggia e realizza l'unione di tutti i membri nell'unico corpo di Cristo che è la Chiesa. Spezzare il pane è un gesto di comunione e di disponibilità a donare se stessi come ha fatto Gesù.

Se ci sono altri criteri, questa Comunità "mangia e beve la propria condanna" (11,28-29) perché la celebrazione diventa menzogna.

Il bere allo stesso calice, poi, nella cultura semitica, significa essere disponibili a condividere lo stesso destino fino alla morte.

Quello che è difficile capire è che la liturgia corre sempre il rischio di diventare solo rito, pratica a cui si partecipa per dovere senza rendersi conto che, se si è in comunione con Gesù, ovviamente, si imposta seriamente una comunione con i fratelli. Altrimenti, senza questa coscienza e questa fede, resta solo un gesto formale che non alimenta e non salva nessuno.

La cena del Signore è così messa al centro, fonte e culmine dell'esistere della Chiesa, dono grande per una comunità che resta nell'attesa, dono che significa impegno di responsabilità nella storia, dono per ricordare a vivere l'amore totale di Gesù.

Lettura del Vangelo secondo Giovanni. 6, 41-51

Il brano che stiamo leggendo fa parte di un lungo discorso che Gesù sviluppa a Cafarnao e che Giovanni riprende, comunicandocelo con intelligenza e profondità. Ma è difficile capire quanto potessero accettare queste affermazioni di Gesù coloro che ascoltavano, poiché sono sconvolgenti. Probabilmente Giovanni ha elaborato nella sua fede, per la sua Comunità cristiana, un conflitto che è sorto tra coloro che lo avevano seguito: prima scettici, poi stupiti del pane spezzato per 5000 persone, poi deluse poiché all'esplosione di gioia e al tentativo di sequestrarlo perché finalmente diventasse re, Gesù se ne va e diventa irreperibile. (6,1- 15).

Il giorno dopo, coloro che lo avevano seguito, pedinato, cercato, si ritrovano Gesù dall'altra parte del lago e curiosi vogliono sapere come ci fosse arrivato, visto che alcuni avevano aspettato che dalla riva opposta si staccassero anche le ultime barche, compresa quella degli apostoli. Ma lì sopra Gesù non si era imbarcato.

Non sanno che Gesù, di notte, nella tempesta, aveva camminato sul mare. Così gli apostoli avevano visto e scoperto anche la sua potenza creatrice e ordinatrice di Dio (6,16-21),. Ma avevano capito anche che Egli rifiutava il potere sugli uomini come la folla pretendeva offrirgli.

Inizia così la ricerca del significato della sua persona (6, 22-51).

I Giudei erano coloro che si contrapponevano a Gesù, perciò Giovanni non li chiama così per un riferimento geografico:( abitanti della Giudea); questi sono di Cafarnao, del nord, Galilei. Per Giovanni i giudei sono tutti quelli che si oppongono a Gesù.

E' molto curiosa la polemica poiché iniziò con il riferimento al pane che avevano mangiato il giorno prima, ed avevano nella memoria il richiamo della manna, mandata da Dio attraverso Mosè, per vivere nel deserto.

Ma ora si parlava di un nuovo pane. Gesù lo identificò con la sua persona e affermò che discendeva dal cielo.

Gli abitanti di Cafarnao e di Nazareth si conoscevano tutti tra di loro e per ogni persona riconoscevano gli ascendenti, le origini ed il lavoro. Con facilità intravidero nel linguaggio di Gesù il pane come richiamo alla conoscenza, come comprensione di un mondo sconosciuto e benefico che alimenta intelligenza e cuore. Ma i Giudei avevano già un pane che sazia: la Torah (la Legge di Mosé) e il Siracide ricorda che Dio "nutrirà il giusto con il pane dell'intelligenza e lo disseterà con l'acqua della saggezza" (Sir 15,3). Dicendo di essere il pane, Gesù stava salendo nel mondo inimmaginabile di Dio. e della sua parola. Dichiarava, anzi, che Egli era il vero messaggero di Dio e credere in Lui era frutto di un regalo del Padre, non opera di buona volontà e di fiducia.

Si mescolavano, da parte di Gesù, comunicazioni impensabili che scandalizzavano sempre più. Egli diceva di conoscere il Padre, di aver imparato direttamente da Lui, ed era pronto, come hanno garantito i profeti che "Saranno ammaestrati da Dio". In questo ammaestramento viene donata la vita eterna e la vittoria sulla morte con la risurrezione Gesù si rendeva conto delle loro perplessità, ma continuava ad usare una immagine che per un ebreo era blasfema: Egli aveva una conoscenza intima con Dio, più grande di quella di Mosé e dei profeti. Gesù arrivava a garantire di aver veduto il Padre, di aver ascoltato la sua Parola. Così affermava di essere assolutamente unico, nonostante la sua fragilità, e si presentava, nella sua presenza tra loro, come il più grande dono che Dio offriva, come unica parola concreta e nuova, come vertice di tutta la rivelazione Chiaramente tutta questa discussione doveva aver fatto inorridire i suoi ascoltatori che avevano ormai dimenticato lo spezzare del pane del giorno prima. Ma Gesù riprese il filo della sua rivelazione. "Io sono il pane della vita" e quindi sono la conoscenza piena di Dio. Giovanni non era ancora nella parte più propriamente eucaristica. C'era il confronto con la manna, l'alimento della vita nel luogo della desolazione.

Perciò Gesù era il nuovo alimento che addirittura manteneva la vita e sconfiggeva la morte. Alla base di questa rivelazione resisteva l'affermazione iniziale di Giovanni che riassumeva tutto il mistero della creazione e della salvezza attraverso una presenza nuova, debole eppure eterna, discreta nella proposta, eppure indispensabile per una vita piena. "Il Verbo si fece carne ed abitò tra noi" ( Gv 1,14).

Questa rivelazione si propone alla nostra ricerca di senso, al significato dei valori che stentiamo a formulare.

La presenza di Gesù. tuttavia, ha bisogno di essere accolta, capita, maturata, interpretata. Noi credenti siamo
chiamati ad accettare che la nostra vita è nella fragilità di Gesù, non nella potenza e nella visibilità. E Gesù, nella contestazione che riceve fino alla morte di Croce, è il vero itinerario per la vita eterna, come il più grande segno dell'amore del Padre.
2. Testi per la meditazione

1. Pane e silenzio dona Dio per i suoi discepoli: li nutre e li “lima”, li protegge dal loro stesso desiderio di morte, toccandoli e avvertendoli quanto sarà lungo il cammino. Li sostiene perché non abbiano a venir meno. Si può passare una vita “credendo” di essere nel suo nome.
Nel deserto Elia farà l’esperienza che il tempo e il modo della presenza di Dio non è come li aveva comunicati.
17
Il Dio degli eserciti di Elia si ritrae; non forza, ma debolezza, mistero della fecondità non della carne e del potere. Non è fuoco, né violenza; è nutrimento, consolazione nella sconfitta, è invito a rialzarsi quando desidereremmo anche morire.
Ma mette mano nelle nostre vite: da quante dedizioni, identificazioni, da presunte sue espressioni di volontà dovrà spogliarci prima di addentrarci nel deserto, trascinati da Lui, come per fuga, da Lui stesso provocata.
Fuggiasco Elia, deluso.
Dio fa il deserto per poter darci di entrare nel deserto.
Egli ci dovrà fare fuggiaschi dalla nostra volontà per entrare nella sua.
Ci dovrà fiaccare e deludere e come per negazione
Portarci là “dove non vorremmo andare”.
Ognuno fa per se stesso questo itinerario.
Non nel vento il Signore.
Non nel fuoco il Signore.
Non nel terremoto il Signore.
Non nel sensazionale, nell’apparenza, il Signore.
Può accadere di essere battuti, come grano; pigiati come uva.
Il Signore tace, attende fino a quando mettiamo il nostro sguardo e il nostro passo verso il deserto.
Il Signore passa…
Voce di silenzio svuotato. Là ci attende.
Per bruciare ciò che non è essenziale, ciò che passa.
Per rubarci e portarci dalla parzialità al tutto.
Ci dà il pane dell’invocazione, il mantello del discepolato.
Ci nutre a pane e silenzio. Dentro la vita, non in spazi speciali. Non è Lui che manca, lui passa, nutre, custodisce… Ma quel sussurro, quel silenzio svuotato che è la sua voce come può essere inteso?
Non può sfuggire alla meditazione la forte fisicità e concretezza dell’invito di Gesù a mangiare il pane della vita, per avere la vita, per una identità e una relazione fondata sul riconoscimento richiesto da Gesù, come pane della vita eterna. È la fede di ognuno di noi.
L’individualità, la metamorfosi delle nostre identità culturali, l’assenza di “un centro” a favore di una frantumazione sempre mutante, le nostre ambiguità sono i caratteri dominanti che possono impedire l’invito a riconoscere il “centro della vita” offerto dal Pane disceso dal cielo. Questo contrasto è forte e merita da parte dei discepoli di Gesù la riflessione sulle derive silenziose del nostro affidamento.
Si può stare in ogni situazione, in ogni cambiamento ed invito, è vero. Ma ci si può perdere se non si sta concentrati sulla “vita quella vera”, se non ci si cura di alimentarla, “mangiando”, appunto. Senza distrazione e dispersione, confessando la differenza tra ciò che nutre per davvero e ciò che invece promette e non mantiene.
Il darsi di Gesù come “pane”, alimento essenziale, semplice e insostituibile nel tempo e per la vita di sempre è il paradigma più radicale della cura e della sollecitudine del Padre per i suoi figli. È per la vita, il pane, è per il vigore e il sostentamento nella fatica dei giorni, è per la gioia di chi insieme lo mangia, è per la speranza di stare al mondo generando a nostra volta la vita, la cura per tutti.
Il darsi di Gesù come “pane” è apertura a relazioni di vita, alla responsabilità. Uno schiaffo “inconciliabile” al narcisismo di massa, al corporativismo che lascia senza speranza i fratelli, fraternità sempre “connessa”, non distacco simultaneo e senza spiegazione come ci

insegna la virtualità. Certo i legami per la vita impegnano, urtano, sbarrano la strada, costringono al cambiamento (non alle metamorfosi virtuali, ai profili mimetizzabili). Insegnano a dire: «Ci sono, oggi, domani: puoi contare su di me».
Il pane della vita disceso dal cielo non è donato per il narcisismo; lo squarcia, invece, come fa il lievito nell’impasto, porta fuori e ci lascia nello stesso tempo nel cuore – casa di Colui che si offre. La vita: questo è il pane disceso dal cielo.
“Diventi per noi cibo di vita eterna”! Da dove verrà questo pane? Quanto ci è necessario sta nella mente e nel cuore senza parola. E non solo il pane – nutrimento dei nostri giorni. Tutto passa per noi. Costruiamo, camminiamo, produciamo. Eppur sempre ci manca qualcosa. Nel cibo che perisce c’è tutta la nostra umanità. È il pane terreno. Nulla sazia infinitamente la vita. Le nostre promesse sono fragili. “Sempre”: non lo possiamo pronunciare. Saremmo ingannevoli. Tutto passa per noi e abbiamo fame di vita che non muore. Il Suo pane ci nutre e ci affama … Ci conduce a desiderarlo. Nella vita ci dona la Vita. È la Presenza, il dono puro, la cura, la sollecitudine. Pane che ci sfama e ci affama. Di Lui. F. CECCHETTO, Testi inediti.


2. Una constatazione, spesso dimenticata, è che “siamo tutti ospiti della vita”. In genere si dà privilegio errato o per lo meno eccessivo alla coscienza rispetto alle funzioni spontanee sia del nostro corpo sia della nostra psiche. In fondo il nostro cuore batte, il sangue circola, i polmoni si gonfiano e si svuotano d’aria, le ghiandole secernono gli ormoni, milioni di globuli bianchi s’immolano ogni volta che abbiamo un minimo graffio e tutto questo senza l’intervento della nostra volontà. […] Noi dobbiamo recuperare la meraviglia della presenza di una spontaneità che è in noi, di una vita di cui noi siamo ospiti e di cui banchettiamo malamente, perché non festeggiamo questa vita e in fondo ce ne serviamo come fosse un servomeccanismo: il nostro corpo è dimenticato e questo non è un fatto soltanto edonistico.
Credo invece che una delle grandi intuizioni del Cristianesimo sia proprio la risurrezione della carne e quindi la dignità anche del corpo. Noi viviamo sostanzialmente con ingratitudine, siamo – direbbe Fortini – degli ospiti ingrati di questa nostra esistenza. Un modo per poter festeggiare questo incontro con noi stessi e con lo straniero che è in noi è proprio quello di sederci al banchetto della vita e di alzarci non dico sazi, però almeno riconoscenti (R. Bodei). SERVIZIO NAZIONALE PER IL PROGETTO CULTURALE (a cura del), Saper sperare. Racconti e riflessioni sulla speranza (Dimensioni dello Spirito), San Paolo, Milano 2006, pp. 69-70.


3. Ma la vita non può consumare tutto, né la società dei consumi può o potrà concedere tutto. Anzi, essa toglie mentre dà. Non può dare al tempo stesso la sicurezza e il rischio, cancella l’avventura nell’offrire le pantofole. Dissolve la carne per dare l’immagine. La cultura di massa procura in forme fittizie tutto ciò che non può essere consumato praticamente. Così, essa è l’avventura delle vite senza avventura, la miseria delle vite confortevoli, il conforto delle vite miserabili, il crimine del padre di famiglia onorato, la nobiltà degli esseri senza nobiltà, la crudeltà delle anime sensibili e la sensibilità di quelle insensibili. Per giunta rende fittizia una parte della vita dei suoi consumatori. Fa dello spettatore un fantasma, proietta il suo spirito nella pluralità degli universi immaginati o immaginari, disperde la sua anima negli innumerevoli doppi che vivono per lui. E. MORIN, Lo spirito del tempo, a cura di A. ABRUZZESE (Nautilus), Meltemi, Roma 2002, p. 225.

4. I-pod, i-phone, i-pad, i prodotti con la i, suonano come la prima persona singolare dell’individualismo di massa contemporaneo. Molto più che semplici strumenti del comunicare, questi oggetti sono estensioni del soggetto, delle appendici inseparabili dell’io. Più che cose, meno che persone, occupano lo spazio vuoto che separa e unisce l’organico e l’inorganico. Icone di una metamorfosi. […] Più che oggetti, quelli con la i sono delle non-persone, ma tanto attaccati a noi da diventare gli attributi indispensabili dell’identità, qualità secondarie e non semplici proprietà. In questo senso gli i-life sono i pronomi personali dell’io virtuali, i nuovi indicativi di un’umanità digitale.
L’i-life fa dell’evidenza palmare una logica, un’etica e un’estetica all’insegna dell’ augmented reality. Dove l’universo intero sembra ruotare intorno all’i, ovvero a un io infinitamente espanso dai suoi recettori elettronici e proiettato verso una gravitazione liquida senza un centro di gravità permanente. In un cosmorama che lanciamo come sonde nell’infinità potenziale della rete. Per navigare nel mare della vita con cento occhi tecnologici che diventano bussola e sestante, mappa e cartografia del presente mutante. […]
Ciascuno sempre connesso con il suo tutor virtuale e sconnesso dagli altri. Per imparare a stare da soli al mondo, o meglio per essere sempre il centro del proprio i-mondo. E così la rete diventa il vero tessuto connettivo di una socialità in frammenti.
[…] Mentre il vecchio cogito lascia il posto al digito ergo sum. M. NIOLA, “I-life” la nuova vita digitale del narcisismo di massa, «La Repubblica», 14 settembre 2010, p. 55.


5. Il pane che mastichiamo, deglutiamo, digeriamo, si “disfa” per “fare noi”; in altri termini lo assimiliamo.
Una parte s’incorpora nei nostri tessuti, un’altra parte viene bruciata e produce energia. Noi possiamo parlare di materia ed energia, quando consumiamo l’alimento. Mentre lo consumiamo, esso si consuma, e noi continuiamo a vivere e ad agire. Gesù si è disfatto prima, triturato nella passione e consumato nella morte. Ormai glorificato, egli non ha più bisogno di disfarsi per comunicarsi; semplicemente prende la figura di alimento, di pane. E non comunica un frammento di vita provvisoria, temporanea, votata a morire, ma instaura e promuove una vita che vincerà la morte biologica. «Diventi per noi cibo di vita eterna». L. ALONSO SCHÖKEL, L’Eucaristia. Meditazioni bibliche (Bibbia e Preghiera 29), Apostolato della Preghiera, Roma 32004, p. 56.

6. A coloro che riducono l’Eucaristia a un pasto fraterno bisogna dire che questo alimento, anche se condiviso amorosamente, non impedirà loro di morire. L’Eucaristia è anzitutto l’unione al Risorto che ci risuscita, il pane celeste che ci comunica, sin da quaggiù, la vita eterna. Proprio per questo è anche l’unico pasto totalmente fraterno, anzi più che fraterno, poiché il Cristo ci fa “membri gli uni degli altri”, ci identifica nella sua carne. […]
L’Eucaristia protegge il mondo e già, segretamente, lo illumina. L’uomo vi ritrova la sua filiazione perduta, attinge la propria vita in quella del Cristo, l’amico fedele che spartisce con lui il pane della necessità e il vino della festività. E il pane è il suo corpo e il vino è il suo sangue; e in questa unità più niente ci separa da niente e da nessuno.
Che cosa può esservi di più grande? È la gioia di Pasqua, la gioia della trasfigurazione dell’universo. O. CLÉMENT, Dialoghi con Atenagora, in Letture per ogni giorno, a cura di E. BIANCHI ET ALII, ElleDiCi, Torino-Leumann 1980.

7. L’esperienza autentica di Dio, o il rapporto autentico con Lui, si realizza a condizione di “sottomettergli il cuore”. Non dobbiamo cioè dimenticare che l’esperienza di Dio, vissuta nel cammino della fede, della speranza e delle carità […] avviene sempre attraverso di noi, che prendiamo la sua “forma”: il suo modo di giudicare, di pensare, di amare. […]
In questo modo si fa l’esperienza di Dio non semplicemente come chi è informato su di Lui, ma piuttosto come chi vive un rapporto determinante, capace di “cambiare il cuore.” Dio non è un “oggetto”, ma “Colui che mi sottomette il cuore”. Diventa la mia “forma”: ciò che dà forma al mio essere e al mio agire, magari faticosamente, perché certo di essere fedele, di non venir meno, anche se mi sembra che le motivazioni gratificanti siano scomparse tutte. Ma non posso pretendere un’esperienza di Dio che sia semplice. Vi saranno, allora, momenti facili e momenti difficili: tutti devono essere assunti nella prospettiva della fede e diventare elementi di formazione nel cammino stesso della fede, della speranza e della carità. Proprio questa consapevolezza ci dà il coraggio, la forza, la ragione per vivere la fatica di questi momenti e ci conduce a riconoscere che l’esperienza di Dio non avviene senza di me, che prendo la sua “forma”. G. MOIOLI, Temi cristiani maggiori, a cura di D. CASTENETTO (Contemplatio 5), Glossa, Milano 1992 (1ª edizione 1973), pp. 83-84.


8. C’era già
e noi la cercavamo chiamandola verità.
C’era
ed era
in veste sempre varia
la stessa
sempre rinascente
identità –
di che? di ciò che era
stato
ed era
e diveniva
se stesso continuamente
nell’anima
nella materia,
eterna primavera
appunto
dell’identità, rigoglio della presenza.
C’era e noi la ignoravamo
intenti a fabbricarla
con la nostra caducità,
oh non per solo spreco,
non per sola vanità.
 M. LUZI, L’opera poetica (I meridiani), Mondadori, Milano 1998, 42001, p. 931.

Nessun commento:

Posta un commento