giovedì 27 febbraio 2014

”Suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro” domenica 2.3.14



Domenica 2 marzo 2014
”Suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro”
Lettura
Os 1, 9a; 2,7a.b-10.16-18.21-22

Il Signore disse a Osea:
«La loro madre, ha detto: “Seguirò i miei amanti,
che mi danno il mio pane e la mia acqua,
la mia lana, il mio lino,
il mio olio e le mie bevande”.
Perciò ecco, ti chiuderò la strada con spine,
la sbarrerò con barriere
e non ritroverà i suoi sentieri.
Inseguirà i suoi amanti,
ma non li raggiungerà,
li cercherà senza trovarli.
Allora dirà: “Ritornerò al mio marito di prima,
perché stavo meglio di adesso”.
Non capì che io le davo
grano, vino nuovo e olio,
e la coprivo d’argento e d’oro,
che hanno usato per Baal.
Perciò, ecco, io la sedurrò,
la condurrò nel deserto
e parlerò al suo cuore.
Le renderò le sue vigne
e trasformerò la valle di Acor
in porta di speranza.
Là mi risponderà
come nei giorni della sua giovinezza,
come quando uscì dal paese d’Egitto.
E avverrà, in quel giorno
– oracolo del Signore –
mi chiamerai: “Marito mio”,
e non mi chiamerai più: “Baal, mio padrone”.
Ti farò mia sposa per sempre,
ti farò mia sposa
nella giustizia e nel diritto,
nell’amore e nella benevolenza,
ti farò mia sposa nella fedeltà
e tu conoscerai il Signore».
Parola di Dio.

Salmo (Sal 102(103))
Il Signore è buono e grande nell’amore.
Benedici il Signore, anima mia,
quanto è in me benedica il suo santo nome.
Benedici il Signore, anima mia,
non dimenticare tutti i suoi benefici. R.

Egli perdona tutte le sue colpe,
guarisce tutte le tue infermità,
salva dalla fossa la tua vita,
ti circonda di bontà e misericordia. R.

Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Non ci tratta secondo i nostri peccati
e non ci ripaga secondo le nostre colpe. R.

Epistola
Rm 8,1-4

Fratelli, non c’è nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Perché la legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù, ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte. Infatti ciò che era impossibile alla Legge, resa impotente a causa della carne, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e a motivo del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, perché la giustizia della Legge fosse compiuta in noi, che camminiamo non secondo la carne ma secondo lo Spirito.
Parola di Dio.

Acclamazione al Vangelo
(Pr 3,12)

Alleluia.
Il Signore corregge chi ama,
come un padre il figlio prediletto.
Alleluia.

Vangelo: Lc 15,11-32
In quel tempo. Il Signore Gesù disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».
Parola del Signore.

Commenti
Osea. 1, 9a; 2, 7b-10. 16-18. 21-22

Osea è un uomo innamorato e insieme tradito dalla sposa che ha amato e continua ad amare. Osea abita nel regno d'Israele, che si è distaccato da Gerusalemme al tempo della morte di re Salomone. In questa zona si è diffusa l'idolatria e ci sono molti templi pagani, dedicati agli dei fenici. L'idolo conosciuto è Baal, "il Signore, il potente, il dominatore, il padrone". Esiste una classe sacerdotale che domina il paese e tiene nei templi le prostitute sacre, alimentando così i profitti e la superstizione delle popolazioni che si sono allontanate dal Dio della liberazione. Osea ha sposato una di queste prostitute da cui ha avuto tre figli. Ma poi, via via, la sua sposa si è stancata della vita matrimoniale e ha ricominciato a desiderare l'antica abitudine del rapporto con gli idoli, i devoti degli idoli che salgono ai templi e i loro sacerdoti.

Osea scopre che la sua vicenda assomiglia alla disavventure della religiosità del nord. Chi domina sfrutta, si arricchisce e abbandona i poveri che aumentano mentre l'immoralità dilaga. Dio è lontano ma nella sua solitudine Osea incomincia a pensare di essere stato abbandonato da Gomer come Dio è stato abbandonato da Israele. Eppure egli continua a sentire amore per questa sua moglie come Dio continua a sentire amore a questo suo popolo che si è allontanato.

Non valgono i castighi e non valgono i rifiuti. Il cuore di Osea è il cuore di un innamorato che sa essere fedele. E come Dio attraverso i suoi profeti, Osea ripensa ad una strategia di riavvicinamento e accetta di umiliarsi e di riaccogliere Gomer che, nel frattempo, sta dando segni di stanchezza e di delusione.

Perciò le parole di Osea diventano le parole del perdono di Dio.

Così quel Dio che è stato chiamato il Liberatore, il Pastore, l'Alleato, per la prima volta è chiamato Sposo. È un'immagine ardita, che obbliga a ripensare a rapporti nuovi, di profonda intimità e amore. Il profeta rilegge la storia di Israele: la solitudine dell'Egitto, l'innamoramento gratuito della sposa disprezzata e schiava, il fidanzamento nel deserto. Così si intrecciano storia e simboli mentre la sposa fiorisce in bellezza e riceve infiniti doni dalla terra su cui è stata collocata.

I versetti, dal 16 al 22, raccontano i progetti del nuovo fidanzamento sia di Osea sia di Dio. San Gerolamo, il grande traduttore della Bibbia in latino, nel secolo V, ricorda che il verbo usato per annunciare le nuove nozze con Israele (usato nella Bibbia 11 volte) è riferito alle ragazze vergini. Dio restituisce lo splendore della verginità alla prostituta perché la ama, la perdona e la rigenera nella sua bellezza. Il dono di Dio è uno splendido regalo di nozze, costituto da 5 offerte: la giustizia, il comportamento corretto, l'accoglienza che porta misericordia, l'amore e la fermezza nella fedeltà allo sposo. La venuta di Gesù realizza il matrimonio tra Gesù e il suo popolo e Gesù accoglie, perdona e muore pur di salvare e di garantire la sua Chiesa.

Romani 8, 1-4.

Il capitolo precedente conclude con il v 25: "Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! Io dunque, con la mia ragione, servo la legge di Dio, con la mia carne invece la legge del peccato". Infatti verifico che, da una parte, con la coscienza, mi sottometto alla legge di Dio, ma a questo atteggiamento se ne contrappone un altro: seguendo la sua debolezza, nella carne obbedisco alla legge del peccato. E se la legge di Mosé è, di per sé, giusta, santa, ed educa al bene, in noi scopriamo più forte la legge del peccato che ci conduce verso il male: "Vedo ciò che è giusto, lo voglio eppure faccio il male che detesto" (7,15). "Chi mi libererà da questo corpo di morte?" (7,24).

Ma noi siamo nella legge dello Spirito poiché aderiamo a Gesù e in noi non c'è più una radice di condanna. La nostra peccaminosità e la nostra debolezza, trasferite in Cristo, sono state distrutte con la sua morte fisica. Così Gesù, che libera, ci fa passare al dominio di Dio e lo Spirito offre la sua legge 8,2).

Da Gesù ereditiamo nuovi stili e valori che inglobano ancora, e insieme superano, la sapienza della Prima Alleanza, "la giustizia della legge" (8,4). Il superamento, per l'unione a Cristo, mediante la fede, si riassume nel comandamento dell'amore. "La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità" (13,10). Questa è la scelta di Gesù nella sua morte, questa è la vera giustizia della legge, portata da Gesù risorto. E' uno stile impegnativo, totalmente nuovo nella quotidianità e spesso improbabile. Ma, come cristiani, siamo richiamati a vivere la forza della presenza dello Spirito che abita ogni giorno in noi e che stabilisce alleanza e comunione con Dio e con Gesù.

Ma bisogna dire che lo Spirito ci incoraggia perché, nella quotidiana esperienza, sia possibile fare esperienza della sua diffusione che opera in noi e attorno a noi e, quanto meno lo immaginiamo, abbiamo piccoli e grandi esempi dello Spirito di Dio. Si tratta di intravedere i segni dei tempi, di scoprirli e di identificarli: e questo vale per noi e la nostra speranza, e vale per le nostre comunità e la loro fiducia nella storia spesso ambigua e oscura.

Luca. 15, 11-32

Il capitolo 15 di Luca è il capitolo della misericordia, che dimostra la premura e il volto di Dio, capace solo di amare. Ma proprio questo sconcerta coloro che ritengono di essere vicini a Dio poiché, tutto sommato, pretendono il Dio giustiziere. Tutto il capitolo è impostato su un'accusa a Gesù che li scandalizza: "Costui riceve i peccatori e mangia con loro"(15,2). L'osservazione manifesta stupore e indignazione, nello stesso tempo. Gesù risponde con tre parabole diverse nel loro sviluppo. E tuttavia presentano alcuni aspetti comuni.

La prima, per la ricerca di una pecora smarrita, è una sfida al loro comportamento: "Chi di voi, se ha 100 pecore e ne perde una, non lascia le 99 e va in cerca di quella perduta?" e finalmente la trova (15,4-7).

La seconda è un incidente facile in casa: " O quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa?". La casa è buia in Israele, senza finestre. Bisogna accendere la lampada e spazzare il pavimento di pietra. Finalmente trova la moneta e fa festa (15,8-10).

Il testo è comprensibile, si direbbe ovvio. Ma tre elementi interessanti li percorrono. Si cerca finché si trova ciò che si è perso. L'obiettivo è "trovare", verbo ripetuto nelle due parabole tre volte. La conclusione è la festa. Questi tre elementi paradossali, a questo punto, sono presenti nella parabola del figlio ritrovato, ma in modo assolutamente paradossale.

Disse ancora: «Un uomo aveva due figli.." (15,11-32).

Gesù, nel vangelo di Luca, racconta queste tre parabole, e, in particolare la terza, poiché sta svelando l'amore di Dio verso "i pubblicani e i peccatori" e sta rispondendo alle mormorazioni dei giusti: i farisei, i teologi, i cultori della legge che rifiutano l'accoglienza e la misericordia di Gesù, così sfacciata e così scandalosa. Perciò queste parabole non sono rivolte ai peccatori, ma ai perfetti, ai puri: sono coloro che pretendono di conoscere Dio e la sua giustizia. A loro Gesù parla e dice: "Ecco, con il loro rifiuto verso chi sbaglia, i giusti e i puri mettono addirittura a rischio il loro rapporto con Dio e ne deformano la conoscenza, come il fratello maggiore". Va ancora ricordato che la morale giudaica suppone il perdono di Dio solo per un peccatore pentito, come Luca riporta nell'episodio del ricco gabelliere di Gerico, Zaccheo (19,1-18).

Il racconto inizia dal figlio più giovane di un ricco possidente: questo giovane adulto pretende la sua parte di eredità. A lui, che è secondogenito, spetta un terzo dei beni mobili mentre il patrimonio immobiliare spetta integralmente al primogenito (Deut 21,17; Lev 25,23 e ss). Al padre, comunque, resta l'usufrutto di tutto ciò che ha, fino alla sua morte.

E il padre non fa nessuna resistenza. Eppure, nella saggezza ebraica suggerita dal Siracide (33,22. 24), si sottolinea: "E'meglio che i tuoi figli chiedano a te, piuttosto che tu debba volgere lo sguardo alle loro mani.... Quando finiranno i giorni della tua vita, al momento della morte, assegna la tua eredità". Il padre, invece, divide le sostanze tra i due figli senza dire una parola e senza imporsi. Il figlio più giovane va in un paese lontano, tra i pagani, visto che usano pascolare i porci. Vive senza una linea morale se non quella del capriccio, del gusto, dell'interesse, dell'emotività, dell'esibizionismo, dello sciupio. La ricerca dei piaceri, di falsi amici e di aberrazioni sessuali si conclude non solo per nausea ma anche per l'esaurimento di risorse economiche. Alla fine, per poter campare, deve adattarsi, al primo lavoro che capita e che risulta non solo degradante, ma addirittura insufficiente per poter vivere .

Finalmente "rientra in sé". Non si parla di pentimento ma di fame. E se vuole continuare a vivere, deve cambiare totalmente il suo comportamento. Si rende conto d'avere completamente sbagliato e incomincia a desiderare la vita ordinata, il benessere di casa, il rispetto di cui era egli stesso onorato. Per la sopravvivenza è disposto a pagare il suo sbaglio con il lavoro nella casa del padre, trattato come un servo, perché si rende conto d'aver perso il diritto di essere figlio. Ma tra le persone a cui si rivolge, in fondo capisce che l'unico che può ancora accoglierlo, e di cui si fida, non sa come, è il padre. E il padre lo accoglie. Il comportamento del padre è riassunto in cinque verbi: "Il padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e continuò a baciarlo" (v 20). E al figlio a cui anche i porci hanno negato le carrube, dona la veste lunga (quella per gli ospiti di riguardo), l'anello al dito (il sigillo dell'autorità sui servi e sui beni del padre), i sandali ai piedi (è uomo libero; gli schiavi camminano scalzi).

E dopo l'incontro la festa, senza aver avuto la possibilità di scusarsi e di ripetere la richiesta di un sostentamento dopo il lavoro del servo. Sono invitati tutti a mangiare, a cantare e danzare. Non si chiedono spiegazioni, non si cercano scuse, non ci si ripromette di fare i conti dopo. Qui c'è tutta l'espressione della gioia e dell'accoglienza.

Il grande problema di quel padre è il figlio maggiore: ubbidiente, lavoratore, rispettoso del padre, ma guardato come il padrone verso cui si considera servo. Ritorna, sfinito dal lavoro. Stordito e stupefatto, continua ad informarsi da un servo, della festa, organizzata a sua insaputa in casa sua e, comunque, assolutamente eccezionale. E non vuole assolutamente entrare il padre deve uscire anche per il figlio fedele che rifiuta di accettare, che sente di aver ragione: è assurda questa accoglienza ed è ingiusta. Non chiama mai col nome di padre colui che lo sta supplicando di entrare (mentre il figlio minore, ritornato, chiama il padre cinque volte quasi per riabituarsi). E se il figlio minore scopre il padre quando torna, il figlio maggiore non sa ancora scoprire il padre, che lo scongiura di fare festa ed accogliere il fratello tornato.

La parabola finisce qui: probabilmente il fratello maggiore è entrato perché è sempre stato ubbidiente al padre, ma assolutamente indifferente e scontroso con il fratello a cui gli farà pesare la mole del lavoro che lui ha fatto. Il fratello minore comincerà ad adattarsi ai ritmi nuovi, ma incomincerà ad avere nostalgia per il suo passato, pur restando in casa. I figli continuano a cambiare perché non capiscono fino in fondo, solo il padre resta uguale a se stesso, impegnato in un amore pieno, totale, garantito.

Questa parabola ci spiazza completamente: ma ci mostra anche qual è il vero volto di Dio: infinitamente amabile e infinitamente ricco di amore per ciascuno, sia o non sia meritevole. Il più grande affronto che si possa fare è avere paura di Lui, ma anche immaginare che Egli debba rifiutare qualcuno.

Rito romano
Prima lettura: Isaia 49,14-15


      Sion ha detto: «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato». Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai.


2  In Israele, prima di ripudiare la moglie, il marito doveva riflettere a lungo perché si trattava di una scelta irreversibile, non erano ammessi ripensamenti, non gli era più permesso di riprendersela.
      In esilio, a Babilonia, Israele si sente una sposa ripudiata. Sa di essere stata infedele, di aver tradito il suo Dio, ha abbandonato ogni speranza di ricostruire il rapporto d'amore infranto e, mestamente, va ripetendo: «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato» (v. 14). È il lamento con cui inizia la lettura di oggi ed è l'espressione della dolorosa esperienza di chiunque, caduto nell'abisso del peccato, si rende conto di aver fatto scelte di morte ed è convinto che anche il Signore lo rifiuti.
      Questi pensieri sorgono quando vengono proiettati in Dio i nostri criteri di giudizio e le nostre meschinità. Compare allora il Dio suscettibile, permaloso e persino vendicativo. Questa deformazione del suo volto è la più subdola delle astuzie diaboliche e il Signore si premura di cancellarla. Per bocca del profeta dichiara: «Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù? Io ti riprenderò con immenso amore» (Is 54,6-7).
      Il suo amore non è una risposta ai meriti o alle dimostrazioni di affetto dell'uomo, è una passione incontenibile che prescinde dalle nostre opere buone, è come l'amore di una madre - ecco la nuova, commovente metafora introdotta dalla lettura di oggi (v. 16) — un amore incondizionato e invincibile. Una madre ama il figlio non perché è riamata, ma perché è suo figlio e lo amerà sempre, qualunque cosa egli faccia.
      Quest'immagine ha già in sé una forte risonanza emotiva, tuttavia, per comprenderne tutta la ricchezza, vale la pena ricordare alcune celebri figure di madri bibliche: il sublime eroismo di Rispa che «dal principio della mietitura dell'orzo, fino a quando dal cielo non cadde su di loro la pioggia», vegliò i cadaveri dei figli consegnati alla morte da Davide (2Sam 21); il coraggio della madre di Mosè che sfida l'ordine del faraone pur di salvare il figlio (Es 2,2-9); il tormento della meretrice che accetta di essere privata del figlio purché non venga ucciso (1Re 3,16-17); la forza d'animo della madre che incoraggia i figli ad affrontare la morte per non rinnegare la fede (2Mac 7).
      Tutta questa carica di emozioni e di sentimenti è presente nell'immagine dell'amore di una madre e aiuta a comprendere con quale passione Dio ama e si interessa dell'uomo.

Seconda lettura: 1Corinzi 4,1-5


      Fratelli, ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, ciò che si richiede agli amministratori è che ognuno risulti fedele. A me però importa assai poco di venire giudicato da voi o da un tribunale umano; anzi, io non giudico neppure me stesso, perché, anche se non sono consapevole di alcuna colpa, non per questo sono giustificato. Il mio giudice è il Signore! Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, fino a quando il Signore verrà. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno riceverà da Dio la lode.
     

2  La parola del vangelo è il più grande dono che si possa ricevere, per questo è facile non solo provare profonda simpatia e riconoscenza per chi lo ha offerto, ma anche legarsi fin troppo al messaggero. Accade oggi ed è accaduto anche nella comunità di Corinto dove, a causa dell'attaccamento all'uno o all'altro degli apostoli, erano sorti dei partiti: alcuni si gloriavano di appartenere a Pietro, altri ad Apollo, altri ancora a Paolo (1Cor 1,12).
      Il brano di oggi conclude la lunga trattazione di questo argomento, iniziata con il severo monito: «Cristo è stato forse diviso? Forse Paolo è stato crocifisso per voi, o è nel nome di Paolo che siete stati battezzati?» (1Cor 1,13).
      Paolo impiega il plurale - «Ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio» (v. 1) - perché non parla solo di sé, si riferisce a tutti gli annunciatori del vangelo. Con due termini espressivi ne definisce il ruolo: sono servi (hypêrétai in greco) cioè inservienti che liberamente hanno accettato di svolgere un incarico; sono dei subordinati, dei dipendenti a servizio di un signore, Cristo; sono degli amministratori (oikónomoi in greco, economi) non dei padroni, hanno in mano beni che appartengono a Dio, a loro sono stati solo affidati affinché li facciano fruttare.
      Agli amministratori si richiede solo la fedeltà (v. 2). Chi annuncia il vangelo - intende dire Paolo - deve avere un'unica preoccupazione: trasmettere il messaggio del Maestro, senza nulla aggiungere e nulla togliere. Il padrone non gli chiederà se è riuscito a convincere molte persone, se si è accattivato la simpatia degli uomini, se ha ricevuto applausi e approvazioni; domanderà soltanto se ha annunciato il vangelo secondo verità, senza cedere agli opportunismi, senza scendere a compromessi, senza rispetti umani.
      Nella seconda parte del brano (vv. 3-5) Paolo risponde alle critiche che i corinzi gli muovono. Assicura che non è per niente preoccupato dei giudizi pronunciati su di lui, siano essi di approvazione o di condanna. Non è ai corinzi che deve rendere conto del proprio operato, ma a Dio. Non si fida nemmeno del giudizio della sua coscienza, anche se, onestamente, riconosce che non gli rimprovera nulla (v. 4). Tiene presente questo giudizio, ma non lo considera definitivo, attende quello del Signore che verrà pronunciato al termine della dura «giornata di lavoro». 
      Le parole dell'Apostolo non sono un invito a ignorare il giudizio che una comunità pronuncia su chi svolge un ministero. La comunità ha il diritto e il dovere di esprimere il proprio parere sull'operato dei ministri e amministratori e questi non possono arrogarsi il diritto di agire in modo arbitrario e di «comportarsi da padroni» (1Pt 5,3). Ma non va dimenticato che, solo alla fine, «ciascuno riceverà da Dio la lode».

Vangelo: Matteo 6,24-34


      In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza. Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito?  Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena».


Esegesi

      Il bambino che perde i genitori non può stare solo, ha bisogno di avere qualcuno in cui riporre la sua fiducia, qualcuno che gli dia sicurezza. Egli cerca spontaneamente un modello, un punto di riferimento nella vita.
      Capita anche con Dio: non se ne può fare a meno, non si può rimanerne orfani; chi lo rifiuta, lo rimpiazza subito con un sostituto. Il pericolo non è l'ateismo, ma la scelta del dio sbagliato.
      Molti credono che, nell'alto dei cieli, ci sia un Padre che si prende cura di loro; costoro sono convinti che egli prova per loro anche sentimenti materni: si interessa, con affetto e sollecitudine, dei loro bisogni. Se egli è padre di tutti, gli uomini non sono dei compagni di viaggio, dei vicini più o meno simpatici, più o meno meritevoli di attenzioni; non sono degli antagonisti con i quali competere o, peggio ancora, dei nemici da combattere, ma dei fratelli da amare e aiutare.
      Non tutti accettano questo Padre. A chi lo rifiuta si presenta subito, con tutto il suo incantevole fascino, il più seducente, il più subdolo degli idoli, il denaro. Il vangelo di oggi inizia con una denuncia della pericolosità di quest'idolo (v.24).
      Matteo ci ha conservato il termine aramaico - mamônâ - usato da Gesù. È significativo: deriva dalla radice 'aman che vuol dire offrire sicurezza, essere solido, affidabile. Il denaro, come Dio, garantisce ogni bene a chi gli presta culto: dona cibo, bevande, salute, piaceri, divertimenti; ma cosa chiede in cambio? Come ogni dio, esige tutto.
      Dio è il punto di riferimento dei pensieri, delle azioni, della vita dell'uomo e vuole essere amato «con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze» (Dt 6,5). Anche il denaro pretende il coinvolgimento totale dei suoi devoti. Per amor suo bisogna essere disposti a rinunciare alla propria dignità, a ingannare, a rubare, a rovinare gli altri, a perdere le amicizie, a trascurare persino moglie e figli (per loro non ci sarà più tempo!), bisogna essere pronti anche a uccidere. Coloro che adorano il denaro hanno tutto, ma non sono più uomini, divengono schiavi. «L'attaccamento al denaro - scrive l'autore della lettera a Timoteo - è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono, da se stessi, tormentati con molti dolori» (1Tm 6,10) ed è un'idolatria (Ef 5,5).
      La prima follia in cui trascina l'adorazione di mamônâ e l'accumulo. Chi accumula si illude di aver trovato un obiettivo concreto e gratificante che dia un senso alla vita, ma ha solo scoperto un vano ripiego per esorcizzare il pensiero della morte. «Lasciare in eredità» è un palliativo.
      Il Padre che sta nei cieli si colloca agli antipodi: invita alla rinuncia all'uso egoistico del denaro. Non chiede di «non rubare», di fare elemosine, ma di instaurare un rapporto com-pletamente nuovo con i beni; propone la condivisione, l'attenzione ai bisogni dei fratelli. Qualunque forma di accumulo egoistico è una violazione del primo comandamento: «Non avrai altro dio all'infuori di me» (Es 20,3).
      Nessuno può servire a due padroni; o odierà l'uno e amerà l'altro, o preferirà l'uno e disprezzerà l'altro. Non è possibile servire Dio e mamônâ.
      Noi vorremmo tenerceli buoni tutti e due, convinti che quello che non ci concede l'uno ce lo darà l'altro. Ma i due non sono soci in affari, sono antagonisti, non possono stare insieme nel cuore dell'uomo, danno ordini opposti. Il Padre che sta nei cieli ripete: «Ama, aiuta tuo fratello, dà cibo a chi ha fame, vesti chi è nudo, offri la tua casa a chi è privo di casa». Il denaro ordina invece: «Sfrutta il povero, non dare nulla gratuitamente, non preoccuparti di chi è nel bisogno, stima e apprezza le persone in proporzione di ciò che possiedono».
      Il distacco dai beni è uno dei temi ricorrenti nel vangelo ed è uno dei più difficili da assimilare. L'uomo infatti si affeziona ai tesori di questo mondo, è portato a idolatrarli fino a dimenticare l'eredità «che non si corrompe, non si macchia e non marcisce, quella che è conservata nei cieli» (1Pt 1,4).
      Fin dal suo primo discorso - quello della montagna dal quale è tratto il brano di oggi - Gesù mette in guardia i discepoli: «Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove i ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove i ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (Mt 6, 19-21). A chi lo vuole seguire chiede di dare anche il mantello e raccomanda di non volgere le spalle a chi chiede un prestito (Mt 6,40.42).
      Le richieste di Gesù sono paradossali e sconcertanti. Prima di decidersi ad accettarle, non si può non chiedersi: Che ne sarà della mia vita? Che cosa mangerò, che cosa berrò, come mi vestirò? Chi mi assicura che avrò poi il sufficiente per vivere? Non mi pentirò di aver rinunciato alla sicurezza che offre il denaro accumulato e goduto? Non sarà meglio limitarsi a elargire qualche elemosina?
      È a questi interrogativi che Gesù risponde nella seconda parte del vangelo di oggi (vv. 25-34) dove invita alla fiducia nel Padre che sta nei cieli, che si prende cura dei figli e che non lascerà mancare il necessario a chi ha creduto in lui.
      Le immagini con cui è presentata la premura di Dio nei confronti delle sue creature sono deliziose: «Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro» (vv. 26-29). Dà quasi l'impressione di essere un ingenuo sognatore, di proporre una vita spensierata, giuliva, ma completamente staccata dalla realtà.
      Non è così. Gesù non suggerisce il disimpegno, l'ozio, il disinteresse o la rassegnazione, propone un rapporto nuovo con i beni: non l'accaparramento, ma la condivisione fondata sulla fiducia nella provvidenza di Dio.
      Il richiamo è all'esperienza dell'esodo: Israele era un popolo in cammino, non poteva accumulare, piantava tende provvisorie, non costruiva magazzini solidi e inamovibili; la manna non poteva essere raccolta in quantità maggiore a quella necessaria per un giorno, altrimenti marciva e si riempiva di vermi (Es 16,17-20); la terra non era proprietà di nessuno, ciascuno possedeva solo, per un momento, quella piccola superficie che calpestava, poi, quando muoveva in avanti il suo piede, quella terra non gli apparteneva più, diveniva proprietà di chi lo seguiva. In questo modo Dio aveva educato il suo popolo al distacco dai beni che, pur necessari alla vita, sono corruttibili e passeggeri, ma seducono, incantano e fanno distogliere lo sguardo dalla meta.
      I rabbini notavano che gli israeliti avevano seguito Mosè nel deserto senza mai chiedergli: «Come potremo attraversare il deserto, senza portare con noi provvigioni per il viaggio?».
      Gesù non condanna la programmazione, la previdenza ma la preoccupazione per il domani, l'ansia che fa perdere la gioia di vivere e porta inevitabilmente ad accumulare e a trasformare in idoli disumanizzanti i beni di questo mondo.
      Non preoccupatevi: è un verbo che nel brano di oggi viene ripetuto per ben tre volte. Sono un'eco delle sagge riflessioni del Siracide: «Molti ne uccide la preoccupazione e non c'è utilità nell'affanno. La preoccupazione per il sostentamento fa perdere il sonno, lo allontana più di una malattia» (Sir 30,23-31,2).
      L'affanno è comune tanto al povero quanto al ricco; il denaro non solo non elimina le inquietudini e le preoccupazioni, ma le acutizza e le esaspera. Conosciamo le notti insonni dei padri di famiglia disoccupati, senza soldi, con moglie e figli da mantenere; tuttavia sappiamo che le ansie non servono a nulla, non aiutano a risolvere i problemi del cibo e del vestito, sono un inutile dispendio di energie.
      Gesù suggerisce il suo rimedio a questa malattia: sollevare lo sguardo verso l'alto, verso il Padre che sta nei cieli. Questo non significa rimanere con le mani in mano, ma affrontare la realtà con cuore nuovo. Alle parole di Gesù fa eco l'autore della Lettera agli ebrei: «La vostra condotta sia senza avarizia accontentatevi di quello che avete, perché Dio stesso ha detto: Non ti lascerò e non ti abbandonerò mai» (Eb 13,5).
      Anche di fronte alle difficoltà più gravi, Gesù invita a mantenere la pace interiore perché la vita dell'uomo è nelle mani di Dio che non abbandona i suoi figli, li accompagna in ogni istante, benedice i loro sforzi e il loro impegno.

Meditazione

      Nel proporci l'ascolto del Discorso della montagna, il lezionario domenicale omette alcuni brani. Dopo aver proclamato la conclusione del capitolo quinto nella scorsa domenica, oggi giungiamo al v. 24 del capitolo sesto, tralasciando così la sua prima parte. Il testo con cui si apre il capitolo sesto (e che ascoltiamo ogni anno all'inizio della Quaresima, nel 'mercoledì delle ceneri') ha una sua importanza e costituisce una chiave di interpretazione dell'intero discorso. Può essere utile richiamarlo brevemente, perché ci offre una prospettiva preziosa per comprendere l'invito che Gesù ci rivolge in questa domenica, incentrato in particolare sul nostro rapporto con la ricchezza e con gli altri beni creaturali.
      All'inizio del capitolo sesto Gesù parla di tre opere fondamentali della pietà ebraica, attraverso le quali siamo chiamati a vivere la nostra buona relazione con Dio (la 'giustizia', stando al termine usato da Matteo): l'elemosina, la preghiera, il digiuno. Al centro c'è la preghiera, parlando della quale Gesù consegna ai discepoli il Padre Nostro, che costituisce un po' il cuore dell'intero discorso. Tuttavia, la preghiera non sta senza l'elemosina, vale a dire senza la giusta relazione con gli altri uomini nella forma della condivisione e della solidarietà, non del possesso, del potere o del dominio; né sta senza il digiuno, vale a dire il rapporto con i beni della terra, da vivere non nella voracità o nella ricchezza, ma nell'accoglienza, nella gratitudine, nella povertà. Per Gesù la giusta relazione con Dio è autentica quando trasforma il nostro modo di relazionarci con gli altri uomini e con i beni della terra. D'altra parte, è proprio nel nostro modo di vivere il digiuno e l'elemosina, e tutto ciò a cui simbolicamente rimandano, a rivelare la verità del nostro rapporto con Dio. Di queste tre relazioni si intesse non solo il brano più specifico del capitolo sesto, ma l'intero discorso, nella sua architettura complessiva. Infatti, nella sua prima parte (nel cosiddetto discorso delle antitesi) è in gioco il nostro rapporto con gli altri; al centro - all'inizio del capitolo sesto - c'è il nostro rapporto con Dio, vissuto nella preghiera, nell'elemosina e nel digiuno; infine, nell'ultima parte, subito dopo che Gesù ha parlato del digiuno, emerge più nitidamente il tema della relazione con i beni. Appaiono allora in tutta la loro nitidezza l'importanza e il valore che Gesù assegna al rapporto con le ricchezze: da esso dipende, e non in modo accidentale o secondario, il nostro stesso rapporto con quel Dio che siamo invitati a chiamare 'Padre'. Detto in altri termini, la qualità filiale della nostra relazione con il Dio 'Padre nostro' dipende strettamente anche dal modo con cui ci rapportiamo con i beni della terra.
      Anche per questo motivo Gesù è così perentorio: «Non potete servire Dio e la ricchezza». Custodiamo probabilmente nella memoria la traduzione precedente, che conservava il termine aramaico: «non potete servire Dio e mammona». Termine interessante questo, poiché sembra derivare dalla stessa radice da cui proviene il termine 'amen'. Qual è l’amen, il fondamento stabile, solido, duraturo, della nostra vita: Dio o mammona? Dio oppure le ricchezze e i beni della terra? Gesù non sembra tollerare esitazioni o compromessi: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l'uno e amerà l'altro, oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro» (6,24).
      L'immagine metaforica del padrone evoca allusivamente un aspetto vero della ricchezza e del suo morso velenoso: essa ha un potere e una violenza di dominio sul cuore dell'uomo, e per questo si pone in modo radicale in alternativa a Dio, che è l'unico vero Signore della nostra vita, anche se, diversamente dalla ricchezza, la sua signoria è liberante. Non ci rende schiavi. Ci fa appunto rapportare con Dio non come con un 'padrone', ma come con un 'padre'. Torna a emergere un aspetto che abbiamo già avuto modo di sottolineare nelle domeniche precedenti: la 'giustizia superiore' di cui parla Gesù in questa ampia sezione del Vangelo di Matteo è la giustizia del 'figlio', non quella del 'servo' o dello 'schiavo'.
      La signoria di Dio è per la nostra libertà e ci libera dagli affanni e dalle preoccupazioni angosciate. L'affanno dal quale Gesù ci mette in guardia, o sul quale ci sollecita a vigilare, non deriva tanto da un modo sbagliato di cercare o di gestire i beni, il denaro, i propri desideri. La sua radice scende più in profondità: nell'autosufficienza di chi pensa di dover badare a se stesso senza altri riferimenti, e si illude di poterlo fare. Potremmo dire che è l'affanno di chi cerca se stesso nei propri possessi. Il problema vero rimane sempre lo stesso: pretendere di tenere la propria vita ben stretta in pugno, o di poterla progettare con l'opera delle proprie mani e l'estro del proprio ingegno.
      Comprendiamo allora meglio l'esortazione di Gesù a cercare prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia (v. 33). Relazionarsi da figli con un Dio che ci è padre, lasciare che sia lui a regnare sulla nostra vita, eliminando il potere che su di noi possono avere altri signori e altri idoli, purificare il nostro cuore dall'illusione di poter essere noi gli unici signori e artefici della nostra esistenza, tutto questo ci conduce ad avere un rapporto diverso con tutti i beni di cui pure la nostra vita ha bisogno. Non si tratta di non cercarli più, ma di non cercarli con affanno e con preoccupazione. Un cuore pre-occupato è appunto un cuore occupato prima e da altro, soprattutto da uno sguardo ricurvo su di sé, sui propri bisogni, sulle proprie mancanze, sulle proprie autonome possibilità...
      L'invito di Gesù è ad aprire il cuore, ad allargare lo sguardo, alzandolo da sé verso l'alto, per contemplare il modo stesso di essere e di agire di Dio. Questo è lo sguardo di Gesù che, anche nelle più piccole e insignificanti realtà (almeno all'apparenza), quali possono essere gli uccelli del cielo o i gigli del campo, sa discernere la presenza di Dio e la sua cura amorevole. Cercare il regno di Dio e la sua giustizia significa anche questo: riconoscere che la propria vita, come quella del cosmo intero, è custodita da Dio e dal suo volere che è la misericordia e la salvezza di tutti e di tutto, come il Discorso della montagna insistentemente ricorda. Il Padre è comunque colui che «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45).
      «Cercate anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (6,33). Chi cerca il regno di Dio torna ad accogliere in modo nuovo e diverso ogni altra persona e ogni altro bene o realtà, poiché tra se stesso e tutto ciò che incontra, o con cui si relaziona, riconosce la presenza stessa del Padre, che conferisce significato e consente di vivere in modo giusto i rapporti di cui la nostra esistenza quotidianamente si intesse. Come ci ha ricordato l'inizio del capitolo sesto, mettere al centro la relazione con Dio ci permette di vivere in modo diverso la relazione con gli altri (l'elemosina e non il potere) e con i beni della terra (il digiuno e non il possesso vorace). La giustizia superiore del discepolo del Regno è la giustizia del figlio, di colui che sa che la propria vita trova il suo stabile fondamento non nell'opera delle proprie mani, ma in ciò che riceve da Dio. Nel rimanere nella stabile relazione con il Padre, vero fondamento, amen non illusorio della propria vita.


mercoledì 19 febbraio 2014

Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei 23. 2. 14



Domenica 23 febbraio 2014


Chi di voi è senza peccato, getti per primo la
pietra contro di lei


Lettura del profeta Baruc. 2, 9-15a
In quei giorni.
Il Signore ha vegliato su questi mali e li ha
mandati sopra di noi, poiché egli è giusto in tutte
le opere che ci ha comandato, mentre noi non
abbiamo dato ascolto alla sua voce, camminando
secondo i decreti che aveva posto davanti al
nostro volto.
Ora, Signore, Dio d’Israele, che hai fatto uscire
il tuo popolo dall’Egitto con mano forte, con
segni e prodigi, con grande potenza e braccio
possente e ti sei fatto un nome, qual è oggi, noi
abbiamo peccato, siamo stati empi, siamo stati
ingiusti, Signore, nostro Dio, verso tutti i tuoi
comandamenti.
Allontana da noi la tua collera,
perché siamo rimasti pochi in mezzo alle nazioni
fra le quali tu ci hai dispersi.
Ascolta, Signore,
la nostra preghiera, la nostra supplica, liberaci per
il tuo amore e facci trovare grazia davanti a
coloro che ci hanno deportati, perché tutta la
terra sappia che tu sei il Signore, nostro Dio

Commento
Il regno di Giuda è crollato in mano ai babilonesi.
Il profeta Baruc scrive questo
testo a Babilonia, rivedendo le posizioni e le scelte che il popolo ha compiuto, affrontando una lunga complessa riflessione teologica che lo porta a sondare i valori
di Dio, le scelte che egli fa, la raccomandazione d
elle leggi che ha proposto, i risultati di fronte a un comportamento irresponsabile di rifiuto e di abbandono di Dio.
Il libro è attribuito a Baruc, noto come fedele segretario del profeta Geremia. Il libro contiene materiali diversi, sia per genere letterario che per epoca di composizione.
Si può pensare ad un'antologia e il brano di oggi fa parte di una Liturgia penitenziale (1,15b-3,8). Questo popolo disperso e disperso, probabilmente già da quattro
anni, sembra riunito nel 582 a.C.. Sta rendendosi conto del proprio destino e dei  rivolgimenti che sono avvenuti nella propria storia. A questo punto si è risvegliata in
ciascuno la consapevolezza della propria empietà e
della propria ingiustizia. Ritornano in mente i prodigi che Dio ha fatto in passato per questo popolo, liberandolo
dall’Egitto; ci si rende conto della pazzia della
propria ribellione che si è compiuta  con le proprie scelte e le proprie mani e che si sta pagando con la propria sofferenza.
La preghiera, a questo punto, prende coscienza della propria fragilità e della propria pochezza: “Siamo rimasti pochi in mezzo alle nazioni fra le quali tu ci hai dispersi”
(v 13). Sorprendentemente, le richieste sono due. Mentre si sta chiedendo al Signore, con la supplica, la propria liberazione, si chiede al Signore: “Facci trovare grazia
davanti a coloro che ci hanno deportati, perché tutta la terra sappia che tu sei il Signore, nostro Dio”(v 14-15).
Si chiedono, da una parte, le capacità e il coraggio di
essere sottomessi al popolo che li ha conquistati, perché solo così questo popolo può reggere la fatica e l’umiliazione del castigo che si è procurato. Ma, d’altra parte, proprio in questa vita di responsabilità e di cambiamento, il popolo diventa capace,  ancora una volta, di essere testimone della grandezza di Dio, del Dio che ha creato il mondo, che è il loro Signore, che li ha educati alla responsabilità e che essi hanno, per un certo tempo, abbandonato.
La cosa curiosa, che Baruc dice all’inizio del libro, è che questo testo è stato letto alla presenza del re di Giuda, dei figli del re e di tutto il popolo: tutti sono intervenuti alla lettura del testo di Baruc, alla presenza di tutti i deportati che abitano in Babilonia (1,3-4). Tale assemblea “presso il fiume Sud” (v 4 ) indica che sia l’ex re e sia
il popolo deportato godono di una certa libertà per
cui è possibile fare questi incontri senza suscitare sospetto o senza rifiuti preventivi.
Sia la parola del profeta sia la consapevolezza del
la propria condizione e lontananza
da Gerusalemme rendono possibile la comprensione del proprio male e il pentimento per le proprie colpe. Questo dice il significato e il valore degli incontri delle minoranze che fanno prendere coscienza della propria condizione e, se c’è volontà di pace, possono fare arrivare il proprio popolo ad una presenza costruttiva nel luogo dove stanno vivendo.


Romani  7, 1-6a

O forse ignorate, fratelli – parlo a gente che
conosce la legge – che la legge ha potere
sull’uomo solo per il tempo in cui egli vive?
La donna sposata, infatti, per legge è legata al marito
finché egli vive; ma se il marito muore, è liberata
dalla legge che la lega al marito.
Ella sarà dunque considerata adultera se passa a un altro
uomo mentre il marito vive; ma se il marito
muore ella è libera dalla legge, tanto che non è
più adultera se passa a un altro uomo.
Alla stessa maniera, fratelli miei, anche voi, mediante il
corpo di Cristo, siete stati messi a morte quanto
alla Legge per appartenere a un altro, cioè a colui
che fu risuscitato dai morti, affinché noi portiamo
frutti per Dio.
Quando, infatti, eravamo nella  debolezza della carne, le passioni peccaminose, stimolate dalla Legge, si scatenavano nelle nostre membra al fine di portare frutti per la morte.
Ora invece, morti a ciò che ci teneva prigionieri,
siamo stati liberati dalla Legge per servire
secondo lo Spirito, che è nuovo.

Commento
Paolo, da buon ebreo, si sente impegnato a far sempre riferimento alla legge per poter poi ricordare che con il battesimo siamo stati liberati non solo dal peccato
(cap 6), ma anche dalla legge stessa (cap 7). Per illustrare la liberazione dalla legge viene ripreso un esempio, molto evidente, della donna vedova, e quindi senza marito e della donna sposata con il marito vivente. La legge regola i rapporti solo tra i vivi. La morte li sospende come dimostra la legge matrimoniale (vv 2-3). Quando una donna sposa un altro uomo, è legata a lui dal dovere di fedeltà: ma se poi muore il marito, resta libera dalla legge del marito cioè
dalla legge che riguarda ciò che dice la legge ebraica. Così il credente è sottratto alla legge mediante il corpo di Cristo. Cristo, nel battesimo, libera dal dominio della legge poiché fa morire il credente con sé e quindi lo fa morire alla legge. Ora che siamo stati liberati dalla legge siamo chiamati a servire in novità di Spirito” (v 6). Siamo così liberati dalla legge, dalla lettura dei codici, dalla preoccupazione dei vecchi statuti, per l’ossessione di doverci misurare sulla lettera. Siamo chiamati a servire secondo lo Spirito. Servire secondo lo Spirito significa aprire orizzonti: un’obbedienza interiore attiva a cui segue la creatività e la freschezza del dono di Dio ogni giorno. Egli apre ad una vita fruttuosa, ad una conversione attenta di comunione alle persone e ci fa consapevoli dell’amore del dono di Dio, fiduciosi e ricchi di libertà. Così, noi entriamo nel "regime nuovo dello Spirito” che non si regola più sulla norma scritta, imposta a ciascuno dall'esterno, capace solo di richiedere fatica e sforzi infruttuosi di adesione.
Lo Spirito anima il credente dell'interno e lo muove verso una fecondità spontanea e gioiosa. Così servire nello Spirito è mettersi a disposizione, essere attenti al vivere di qualcuno, scoprire le esigenze e le possibilità e le potenzialità. E servire nello Spirito è ricerca di creatività, di bellezza, di novità e di valori nascosti.

Giovanni. 8, 1-11 L'adultera
In quel tempo.
Il Signore Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi.
Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio
e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si
mise a insegnare loro.
Allora gli scribi e i farisei  gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio.
Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare
donne come questa. Tu che ne dici?».
Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo
di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra.
Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro:  «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la
pietra contro di lei».
E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo.
Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?».
Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse:
«Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non
peccare più».

Commento

Ci troviamo di fronte ad un testo che ha tutte le caratteristiche del Vangelo di Luca,  che si gioca sulla misericordiosa credenza in Dio ma è un testo che ritroviamo in Giovanni, collocato in una particolare situazione nel suo Vangelo. Gesù è in polemica continua con i conoscitori della Scrittura e con i maestri d’Israele: “La mia dottrina non è mia ma di colui che mi ha mandato” (7,16). E la discussione si sviluppa nel capitolo 7 sulla legge di Mosé: “Chi è il vero e autentico rivelatore di Dio?”. E’ Mosé che detta la legge perché sia rispettata. Certamente verrà il Cristo, il nuovo Mosè, e Lui ci dirà. E invece: “Chi è quest’uomo? Sappiamo di dove viene mentre
del Cristo, quando verrà, nessuno saprà di dove sia”
(7,27). È un susseguirsi di provocazioni, di attenzioni, di risposte che Gesù propone sino a quella: “Se qualcu-
no ha sete venga a me e beva chi crede in me” (7,37-38). Irritati dalla forza della predicazione e convinti che Gesù non viene da Dio, scribi e farisei organizzano una
specie di tribunale pubblico all’aperto, una sfida che ritengono insuperabile. Gesù è arrivato nel tempio di mattina, presto. Egli siede e insegna. Gli portano una donna
sorpresa in adulterio. La pongono nel mezzo e sfida
no Gesù perché dia la sua sentenza, ricordando la legge di Mosé: “Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di
lapidare donne come questa. Tu che ne dici?” (8,5).
L’evangelista parla del mattino, il tempo nuovo, il tempo della luce. E come se si dovesse attendere il tempo nuovo
della creazione, il rinnovamento di un mondo malato
che sa solo porsi col giudizio e  con la condanna. E qui c’è ancora di più: si vuole strumentalizzare il male che dicono d’aver trovato per poter accusare anche Gesù.
Gesù si china e comincia a scrivere col dito per terra. Nella Scrittura, nel libro dell’Esodo, si ricorda che Mosé sul Sinai ha ricevuto le due tavole della testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio” (31,18) e lo stesso si dice nel Deuteronomio (9,10). Ma se sul Sinai, Dio scrive sulla pietra, a Gerusalemme Gesù scrive sulla terra, sul mondo in cui viviamo, perché tutti lo possano leggere, ripensare, reinterpretare, maturare nella coscienza la misericordia di Dio. In fondo Gesù non rifiuta la legge di Mosé, anzi non entra neppure nel merito, ma di fronte al peccato ricorda a coloro che accusano che lo possono denunciare e cancellare con la loro giustizia solo se accettano di misurarsi in coscienza con la stessa legge. Non basta rispettare alla lettera le parole di Mosé. Bisogna essere consapevoli del peccato di tutti e bisogna aprire gli occhi e il cuore ad ogni persona che sbaglia, concedendole un progetto nuovo per il futuro: questo è il senso del perdono e della misericordia.
A questo punto ognuno che ha in mano una pietra e vuole giudicare e condannare, è chiamato ad una verifica: «chi di
voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (8,7). Per procedere nella lapidazione, in caso di sentenza pronunciata dal giudice, è necessario che qualcuno, per primo, cominci a scagliare una prima pietra. E’il diritto-dovere che spetta al testimone sulla cui testimonianza si sono basati processo e condanna. Così Gesù, che fa appello a chi ritiene di avere diritto di iniziare l’esecuzione della sentenza di morte, richiama un'altra verità, ancora più importante, che è quella della coscienza di ciascuno e che nessuno conosce, tranne Dio. Poiché una testimonianza bugiarda, in coscienza, avrebbe reso omicida il testimone. Tutto è iniziato con la folla urlante, tutto finisce nella solitudine di un dialogo a due tra Gesù e la donna: gli altri sono spariti, forse anche la folla e i discepoli. A questo punto Gesù manifesta il significato della sua presenza nel mondo: è venuto a perdonare, consapevole del male che
esiste nel cuore di ciascuno, ma solo il perdono può aprire prospettive sul futuro.
Non si minimizza il male fatto, ma si ci si gioca sulla speranza. Si spezza il cerchio di morte che si stringe attorno alla donna. Sembra che di fronte al male non debbano
esserci se non il giudizio, la condanna e il rifiuto della persona. Gesù, invece, apre orizzonti nuovi per il mondo, in cui tutti sono chiamati a camminare per cambiare e
rendere migliore la terra.
Qui dovrebbe iniziare una seria riflessione del come noi
affrontiamo le persone che sbagliano e il male che incontriamo nel mondo. C’è troppa violenza che si giustifica con la giustizia e c’è poco perdono che si qualifica come debolezza. Per quanto Gesù, in 2000 anni, ci abbia richiamato al perdono, non abbiamo ancora capito e non abbiamo neppure iniziato un allenamento ed un apprendistato per maturarlo. Ma la storia degli ultimi 60 anni dovrebbe averci insegnato che si ricomincia la pace solo se si smette la vendetta, se si accetta il perdono, se
si ricomincia a lavorare insieme. E’ stato il nostro cammino con l’unità Europea, è stata l’esperienza di alcune guerre fratricide in Africa, è stato il cammino faticoso
del crollo dell’impero Sovietico, l’indipendenza indiana, la pacificazione in Sud Africa. Non si studia abbastanza il significato della riconciliazione nella nostra storia.


Rito Romano

Lectio - Anno A

Prima lettura: Levitico 19,1-2.17-18


     Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla a tutta la comunità degli Israeliti dicendo loro: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo. Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore”».


2  «Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo» (v. 2). Con questo invito rivolto da Dio al suo popolo inizia la lettura.
     Nel linguaggio corrente, per santo si intende chi ha condotto una vita esemplare, è andato in paradiso e, se invocato con fede, può concedere grazie e miracoli. Il vero significato di questo termine è però più ampio: indica ciò che è separato e consacrato a Dio. Erano santi i templi perché distinti, «ritagliati» dal mondo profano e riservati alla divinità. Varcare la soglia di un santuario era entrare nel mondo di Dio, per questo era necessario sottoporsi a numerosi e complicati riti purificatori.
     Santi erano gli oggetti sacri che non potevano essere adibiti ad altri usi, sante erano le persone che vivevano in modo originale, che assumevano comportamenti fuori del comune. Il più santo era Dio, assolutamente diverso da tutto ciò che esiste. Cosa pretendeva dunque il Signore quando ha ingiunto al suo popolo di essere «santo»? Voleva forse che vivesse separato dagli altri popoli?
     Israele ha inteso in questo modo il comando di Dio e ha pensato che fosse suo dovere evitare ogni contatto con coloro che avrebbero potuto portarlo all'idolatria. Per mantenere questa «santità», ha moltiplicato a dismisura i divieti: proibizione di entrare nelle case degli stranieri, di mangiare con loro o anche soltanto di stringere la mano a un pagano.
     Essendo questa la mentalità comune, si rimane sorpresi quando si constata che, nel libro del Levitico, c'è un testo - ed è quello che ci viene proposto oggi — in cui la «santità» è intesa in modo completamente diverso: niente separazioni materiali dagli altri uomini, niente osservanze di prescrizioni rituali.
     Per essere santi basta condurre una vita diversa, una vita che si concretizza nelle seguenti disposizioni: onorare il padre e la madre, osservare i sabati, non odiare il fratello, ri-nunciare al rancore e alla vendetta e amare «il tuo prossimo come te stesso» (vv. 3.17-18).
     Quest'ultima clausola, assieme alla famosa raccomandazione del libro dei Proverbi: «Se il tuo nemico ha fame, dagli pane da mangiare; se ha sete, dagli acqua da bere» (Prv 25,21), è il punto più alto cui è giunta la morale dell'Antico Testamento. Tuttavia, in essa è ancora presente un limite: l'amore richiesto non è universale; l'interpretazione rabbinica, infatti, lo restringeva ai membri del popolo d'Israele.

Seconda lettura: 1Corinzi 3,16-23

   
      Fratelli, non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi. Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente, perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. Sta scritto infatti: «Egli fa cadere i sapienti per mezzo della loro astuzia». E ancora: «Il Signore sa che i progetti dei sapienti sono vani». Quindi nessuno ponga il suo vanto negli uomini, perché tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio.
     

2  La comunità è come un santuario ritagliato dal mondo profano; chi la mantiene unita e salda è lo Spirito, le divisioni che disgregano e minacciano di far crollare tutta la costruzione introducono un principio opposto e devastante. Chi si rende responsabile di un simile disastro sarà trattato dal Signore con estrema severità: «Dio - assicura Paolo - distrug-gerà lui» (v. 17). È l'immagine tradizionale del giudizio finale che serviva, nel linguaggio rabbinico, non a descrivere ciò che accadrà alla fine, ma a mettere in risalto l'estrema gravita di un'azione.
     Nella seconda parte della lettura (vv. 18-23) viene ripreso il motivo della contrapposizione fra la «sapienza di Dio» e quella «degli uomini». Le discordie derivano dal fatto che i mèmbri della comunità seguono la «sapienza di questo mondo», opposta a quella di Dio.
     Nella sua lettera, Paolo ha già detto che «il vangelo è una pazzia agli occhi degli uomini» (1,18.21.23), oggi afferma che la saggezza degli uomini è una follia per Dio (v. 19).
     L'Apostolo non intende svalutare o disprezzare gli sforzi e le capacità della ragione umana; egli mette in guardia dai deliri di onnipotenza e dalle pretese insensate di chi è convinto che tutto possa essere ridotto al razionale e che si possa fare a meno della luce di Dio.
     Questo pensiero introduce nelle interpretazioni nuove e provocatorie che, nel vangelo di oggi, Gesù darà ad alcuni testi dell'Antico Testamento, interpretazioni che propongono scelte morali la cui validità è garantita da Dio, non dalla «sapienza di questo mondo».





Vangelo: Matteo 5,38-48


     In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle. Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste».


Esegesi

     Abbiamo ascoltato la scorsa domenica l'interpretazione di Gesù circa quattro testi della Toràh d'Israele. Oggi viene presentata quella relativa ad altri due.
     La prima riguarda il modo nuovo di ottenere giustizia. Tutti siamo d'accordo che il male va contenuto e contrastato. Ma come?
     Nelle società arcaiche dove non c'era un potere statale capace di mantenere l'ordine, si ricorreva facilmente alla vendetta, alla rappresaglia senza limiti. Il responsabile di una malefatta, una volta scoperto, veniva sottoposto a castighi esemplari, a punizioni pubbliche, tanto severe e crudeli, da dissuadere chiunque altro dal commettere simili errori. La ritorsione serviva come deterrente, ma era un modo barbaro di fare giustizia.
     Lamec, il discendente di Caino, si tutelava incutendo terrore: «Ho ucciso un uomo per un graffio e un ragazzo per un livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settanta sette volte» (Gn 4,23-24). È per porre un argine a simili eccessi che la Toràh aveva stabilito: «Occhio per occhio, dente per dente» (Es 21,23-25). Questa è forse la legge più travisata della storia del diritto.
     È citata ad esempio quando, ricevuto uno sgarbo, si ripaga con la stessa moneta. «Occhio per occhio e dente per dente» equivale, in questi casi, al rifiuto di avere compassione, di accordare clemenza al colpevole. In realtà la disposizione aveva tutt'altro significato: vietava i cosiddetti castighi esemplari e le rappresaglie. Ognuno doveva pagare per la colpa commessa, non per tutto il male presente nel mondo.
     Intesa correttamente rimane valida anche oggi e, se praticata, garantisce l'equità nelle sentenze. Gesù non la considera decaduta, propone di andare oltre questa giustizia rigorosa e invita ad affrontare il problema in altro modo (vv. 38-42).
     I rabbini del suo tempo insegnavano: «Sii ucciso, ma non uccidere», ma aggiungevano subito: se però qualcuno ti aggredisce e vuole toglierti la vita, tu non riflettere, non dire a te stesso: forse mi renderò colpevole del suo sangue; uccidilo prima che sia lui a ucciderti! Questa interpretazione dei rabbini non suscitava obiezioni. Era conforme alla logica umana e poteva trovare giustificazioni anche nella Toràh.
     Ora ecco la sorpresa, Gesù non l’accetta e dice ai suoi discepoli: «Ma io vi dico di non opporvi al malvagio»; piuttosto che fare violenza al fratello, dovete essere disposti a subire l'ingiustizia (Mt 5,39). Siamo di fronte a parole inequivocabili; comunque, a scanso di equivoci, aggiunge quattro esempi, presi dalla vita quotidiana del suo popolo.
     Il primo riguarda la violenza fisica: «se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra...» (v. 41).
     Quando si riceve uno schiaffo, se l'aggressore non è un mancino, si viene colpiti sulla sinistra. Gesù parla della destra perché la violenza subita è maggiore: si tratta del manrovescio, un'offesa gravissima, punita in Israele con un'ammenda pari a più di un mese di stipendio. Al discepolo, Gesù non raccomanda di essere più buono, più mite nelle pretese di risarcimento, esige un comportamento radicalmente nuovo: «tu pórgigli anche l’altra».
     «Buoni sì, ma non stupidi!», si suol dire. Certo, le parole di Gesù non devono essere prese alla lettera (questo sarebbe davvero sciocco). Anch'egli, quando ha ricevuto lo schiaffo, non ha presentato l'altra guancia, ma ha protestato (Gv 18,23). Ciò che esige dai discepoli è la disposizione interiore ad accettare l'ingiustizia, a sopportare l'umiliazione, piutto-sto che reagire facendo del male al fratello.
     L'unico modo per interrompere il ciclo diabolico offesa-violenza è il perdono. Se alla violenza si reagisce con un'altra violenza, non solo non viene eliminata la prima ingiustizia, ma se ne aggiunge un'altra. Questo circolo può essere spezzato solo con un gesto originale, assolutamente nuovo: il perdono. Tutto il resto è vecchio, è qualcosa di già visto, di ripetuto senza sosta fin dagli inizi dell'umanità.
     Il secondo esempio si riferisce all'ingiustizia economica (v. 40).
     In Israele, uomini e donne indossavano due capi di vestiario: una tunica a maniche lunghe o a mezze maniche, portata sul corpo nudo, e un'ampia cappa (il mantello). Nel mantello ci si avvolgeva quando faceva freddo e lo si toglieva quando si svolgeva un lavoro servile. Ai poveri serviva anche da coperta per la notte, per questo la Toràh stabiliva che non poteva essere pignorato (Es 22,25-26).
     Gesù propone un caso limite di ingiustizia: un discepolo viene portato in tribunale perché lo si vuole privare della tunica. Chiaramente tutti gli altri beni gli sono già stati tolti. Che deve fare? Null'altro che manifestare il suo totale e incondizionato rifiuto di entrare in liti e contese. Per questo cede anche il mantello, l'ultimo indumento che gli rimane, quello che non poteva essere requisito come pegno, ed è disposto a rimanere nudo, come il suo Maestro sulla croce.
     Il terzo esempio è l'abuso del potere (v. 41).
     Capitava spesso che i soldati romani o qualche signorotto locale angariassero dei poveri contadini e li costringessero a fare da guide o a portare carichi. Un esempio lo abbiamo nel racconto della passione: Simone di Cirene è obbligato a portare la croce di Gesù (Mt 27,31).
     Gli zeloti, cioè i rivoluzionari di quel tempo, suggerivano la ribellione e il ricorso alla violenza per opporsi a simili soperchierie. Epitteto esortava alla prudenza: «Se un soldato ti requisisce l'asino, non resistergli e non lamentarti, altrimenti verrai percosso e alla fine glielo dovrai consegnare lo stesso».
     Gesù non fa alcuna considerazione di questo tipo, non si richiama alla prudenza; ai discepoli dice semplicemente: «se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due». Non detta una norma di saggezza, non suggerisce una strategia atta a convenire l'aggressore, non assicura nemmeno che un simile comportamento arrendevole otterrà risultati positivi in tempi brevi. Chiede al discepolo che, senza fare calcoli, mantenga il cuore libero dai risentimenti e si astenga da qualunque reazione che non sia dettata dall'amore.
     Il quarto caso è quello della persona importuna che viene a chiedere un prestito (ma può anche essere un alloggio, un appartamento in affitto, un posto di lavoro, un prezzo di favore...) magari, come spesso accade, senza un minimo di discrezione.
     Gesù dice al discepolo: «Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle» (v. 42). Non fingere di non capire, non cercare scuse, non inventare difficoltà inesistenti, non cercare di scaricare su altri il problema. Se puoi fare qualcosa, fallo e basta.
     Nell'ultimo (il sesto) esempio Gesù si richiama a un duplice comandamento: «Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico» (vv. 43-48). Nell'Antico Testamento il primo lo si trova (Lv 19,18), ma il secondo no. Probabilmente Gesù non si riferisce a un testo specifico della Toràh, ma alla mentalità che si era creata in Israele a partire da alcuni testi biblici.
     Nelle sacre Scritture si parla, a volte, di guerre sante (Dt 7,2; 20,16), compaiono sentimenti di vendetta (Sal 137,7-9), si manifesta il proprio attaccamento al Signore, ma in un linguaggio molto arcaico: «Non odio, forse, i tuoi nemici, Signore? Li detesto con odio implacabile» (Sal 139,12-22).
     Espressione di questo odio è l'invito che i monaci esseni di Qumran rivolgevano ai loro adepti: «Amate tutti i figli della luce, ma odiate tutti i figli delle tenebre, ciascuno secondo la sua colpa, nella vendetta di Dio».
     Ci sono però nella Bibbia - è bene ricordarlo - altri testi in cui si ammonisce di non ricambiare il male (Prv 24,29) e si raccomanda l'amore al nemico: «Quando vedrai l'asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui ad aiutarlo» (Es 23,5). Appellandosi ad essi, alcuni rabbini sostenevano che il comandamento: «Ama il prossimo come te stesso» (Lv 19,18) doveva essere esteso anche al nemico, ma l'opinione comune lo restringeva agli appartenenti al popolo giudaico.
     In questo contesto religioso, il duplice comandamento di Gesù suona paradossale: «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori».
     È l'apice dell'etica cristiana, è la richiesta dell'amore gratuito e incondizionato che non si aspetta alcun contraccambio e che, come quello di Dio, raggiunge anche chi fa del male.
     Alcuni saggi dell'antichità hanno fatto proposte morali elevate: «Comportati in modo da trasformare i tuoi nemici in amici» (Diogene). «Proprio dell'uomo è amare anche coloro che lo percuotono» (Marco Aurelio); ma l'imperativo Ama i tuoi nemici è un'invenzione di Gesù.
     Il secondo comando - pregate - suggerisce il mezzo per riuscire a praticare l'amore per «chi ci perseguita», per chi ci rende la vita impossibile: la preghiera. Essa eleva verso il cie-lo, unisce al Signore, purifica la mente e il cuore dai pensieri e dai sentimenti dettati dalla logica di questo mondo e fa vedere il malvagio con gli occhi di Dio, che non ha nemici.
     Gesù invita a mostrarsi suoi figli, chiede ai discepoli di lasciar trasparire nei loro comportamenti l'indole del Padre celeste «egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti». La distinzione fra malvagi e buoni e la lotta contro gli uomini, portata avanti in nome di Dio, sono bestemmie!
     Due esempi (vv. 46-47) mettono a confronto il comportamento usuale degli uomini con la novità di vita di chi ha assimilato i pensieri, i sentimenti e le opere del Padre che sta nei cieli. La caratteristica dei «figli di Dio» è l'amore offerto a chi non lo merita e il saluto rivolto a chi si comporta da nemico. La formula di saluto era: Shalom, augurio di pace e di ogni bene. Con tutto il cuore, il discepolo desidera, anche per chi lo odia, il bene e, dimentico dei torti, si impegna perché questo avvenga.
     La conclusione addita la meta irraggiungibile: «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (v. 48).
     La perfezione del giudeo consisteva nell'esatta osservanza dei precetti della Toràh. Per il cristiano è l'amore senza limiti come quello del Padre. Perfetto è chi non manca di nulla, chi è integro, chi non ha il cuore diviso fra Dio e gli idoli. La disponibilità a donare tutto, a non conservare nulla per sé, a mettersi totalmente a servizio dell'uomo — compreso il nemico - colloca sulle orme di Cristo e conduce alla perfezione del Padre che si dona tutto e che non esclude nessuno dal suo amore.

Meditazione

     Quando ne sentiamo parlare o, peggio ancora, la sappiamo nuovamente riapplicata, abbiamo un sussulto alle viscere e ci assale un moto di disgusto. Eppure, per quanto possa apparirci difficile da credere, la legge del taglione venne introdotta quale efficace strumento per evitare il debordare della violenza incontrollata e porre un argine alla 'legge del più forte'. A una offesa si potrà (o si dovrà?) contrapporre analoga ferita: non di più! Se abbiamo però il coraggio di non censurare pensieri e sentimenti che irrompono dentro di noi quando qualcuno ci tocca sul vivo, magari mettendo a nudo qualche tratto vergognoso della nostra esistenza, forse la legge 'dell’occhio per occhio' non ci apparirebbe così arcaica e primitiva, scoprendo anzi di essere capaci di ben peggiori violenze: quante volte abbiamo maledetto, imprecato - se non abbiamo addirittura augurato una rapida dipartita da questa terra – a chi (ci) faceva del male 'gratuitamente', senza ragione alcuna? Se situazioni aberranti ridestano fortunatamente in noi la capacità di scandalizzarci e di intervenire, la nostra reazione non è forse sempre commisurata alla colpa commessa (contro di noi)...
     Comunque sia, le parole di Gesù riportate nel brano evangelico di questa settimana aprono la strada a un cammino infinito, stimolando le migliori energie positive che possono sprigionarsi anche da ognuno di noi. L'apparente contraddizione tra Primo e Nuovo Testamento, tra «avete inteso che fu detto» (5,38.43) e «ma io vi dico» (5,39.44), è solo la riproposizione religiosa della legge del taglione sopra citata: quelle norme, introdotte addirittura nel testo biblico, per cercare di evitare un male peggiore e l'insorgere dell'arbitrarietà, sono ora accostate allo splendore massimalista del desiderio del Signore: «Voi dunque siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (5,48). La speranza di un mondo riconciliato e unito nell'amore non è favola per bambini ma vigoroso ed esigente programma esistenziale del discepolo di Gesù.
     È estremamente facile entrare in rotta di collisione con altri ma quanto è difficile ricucire un tessuto relazionale! Concretamente, cosa si può fare nei confronti del malvagio? Un'arte laboriosa si richiede... Un primo passo, già estremamente impegnativo, è non replicare al male con il male (cfr. 5,39-41), bloccare in sé quella spontanea reazione di vendetta che ci illude falsamente di ristabilire una qualche forma di giustizia e legalità. Non chiudere i ponti, arrivare a prestare a chi domanda (cfr. 5,42) suppone la capacità di riuscire a vedere nella persona richiedente - 'il cattivo' - almeno una scintilla di quel bene che altri - e magari lui stesso - non riesce più a scorgere: sperare pertanto in un cambiamento della persona è dare credito, dare fiducia a quel desiderio di umanità e autenticità che abita le profondità di ognuno di noi.
     Gesù arriva addirittura a chiedere il superamento della reciprocità: un amore autentico non calcola ma si offre generosamente, perché «pieno compimento della Legge è l'amore» (Rm 13,9). E ci sferza con decisione, quasi irridendo quei nostri sforzi che ci appaiono impari: «se amate quelli che vi amano, cosa fate di straordinario?» (5,46.47). Va precisato che così dicendo Gesù non banalizza affatto l'amicizia o mette a un livello inferiore l'amore che può esistere tra coniugi: si sta parlando del caso del 'nemico', di cui mai si chiede di diventare amico. Sono situazioni differenti!
     Forse mai come in questa situazione ci appare debole la nostra carne: come si può amare chi ci è stato o ci è ancora nemico? Senza entrare nelle infinite e reali sfumature dei singoli casi personali, su cui peraltro ognuno di noi è chiamato a verificarsi, comprendiamo come solo grazie all'azione dello Spirito santo ci possa essere offerta la possibilità di incamminarci su questo erto ma liberante cammino di crescita. Quella preghiera che sale incessantemente al Padre dal Signore risorto e che ci viene domandata anche verso i nostri persecutori (5,44) è forse l'espressione più completa di quella perfezione d'amore che Gesù ha testimoniato durante tutta la sua esistenza.
            Vigiliamo sui nostri sentimenti e facciamone attenta verifica: stupiti dall'amore di Gesù, che ci ha amati mentre eravamo ancora nemici (cfr. Rm 5,10), saremo in grado di purificare il nostro cuore e camminare nella via dell'amore.