Domenica 23
febbraio 2014
Chi di voi è
senza peccato, getti per primo la
pietra
contro di lei
Lettura del profeta Baruc. 2, 9-15a
In quei giorni.
Il Signore ha vegliato su questi mali e li ha
mandati sopra di noi, poiché egli è giusto in tutte
le opere che ci ha comandato, mentre noi non
abbiamo dato ascolto alla sua voce, camminando
secondo i decreti che aveva posto davanti al
nostro volto.
Ora, Signore, Dio d’Israele, che hai fatto uscire
il tuo popolo dall’Egitto con mano forte, con
segni e prodigi, con grande potenza e braccio
possente e ti sei fatto un nome, qual è oggi, noi
abbiamo peccato, siamo stati empi, siamo stati
ingiusti, Signore, nostro Dio, verso tutti i tuoi
comandamenti.
Allontana da noi la tua collera,
perché siamo rimasti pochi in mezzo alle nazioni
fra le quali tu ci hai dispersi.
Ascolta, Signore,
la nostra preghiera, la nostra supplica, liberaci per
il tuo amore e facci trovare grazia davanti a
coloro che ci hanno deportati, perché tutta la
terra sappia che tu sei il Signore, nostro Dio
Commento
Il regno di
Giuda è crollato in mano ai babilonesi.
Il profeta
Baruc scrive questo
testo a
Babilonia, rivedendo le posizioni e le scelte che il popolo ha compiuto,
affrontando una lunga complessa riflessione teologica che lo porta a sondare i
valori
di Dio, le
scelte che egli fa, la raccomandazione d
elle leggi
che ha proposto, i risultati di fronte a un comportamento irresponsabile di rifiuto
e di abbandono di Dio.
Il libro è
attribuito a Baruc, noto come fedele segretario del profeta Geremia. Il libro
contiene materiali diversi, sia per genere letterario che per epoca di
composizione.
Si può
pensare ad un'antologia e il brano di oggi fa parte di una Liturgia
penitenziale (1,15b-3,8). Questo popolo disperso e disperso, probabilmente già
da quattro
anni, sembra
riunito nel 582 a.C.. Sta rendendosi conto del proprio destino e dei rivolgimenti che sono avvenuti nella propria
storia. A questo punto si è risvegliata in
ciascuno la
consapevolezza della propria empietà e
della
propria ingiustizia. Ritornano in mente i prodigi che Dio ha fatto in passato per
questo popolo, liberandolo
dall’Egitto;
ci si rende conto della pazzia della
propria
ribellione che si è compiuta con le
proprie scelte e le proprie mani e che si sta pagando con la propria
sofferenza.
La
preghiera, a questo punto, prende coscienza della propria fragilità e della
propria pochezza: “Siamo rimasti pochi in mezzo alle nazioni fra le quali tu ci
hai dispersi”
(v 13).
Sorprendentemente, le richieste sono due. Mentre si sta chiedendo al Signore,
con la supplica, la propria liberazione, si chiede al Signore: “Facci trovare
grazia
davanti a
coloro che ci hanno deportati, perché tutta la terra sappia che tu sei il
Signore, nostro Dio”(v 14-15).
Si chiedono,
da una parte, le capacità e il coraggio di
essere
sottomessi al popolo che li ha conquistati, perché solo così questo popolo può reggere
la fatica e l’umiliazione del castigo che si è procurato. Ma, d’altra parte,
proprio in questa vita di responsabilità e di cambiamento, il popolo diventa
capace, ancora una volta, di essere
testimone della grandezza di Dio, del Dio che ha creato il mondo, che è il loro
Signore, che li ha educati alla responsabilità e che essi hanno, per un certo
tempo, abbandonato.
La cosa
curiosa, che Baruc dice all’inizio del libro, è che questo testo è stato letto
alla presenza del re di Giuda, dei figli del re e di tutto il popolo: tutti
sono intervenuti alla lettura del testo di Baruc, alla presenza di tutti i
deportati che abitano in Babilonia (1,3-4). Tale assemblea “presso il fiume
Sud” (v 4 ) indica che sia l’ex re e sia
il popolo
deportato godono di una certa libertà per
cui è
possibile fare questi incontri senza suscitare sospetto o senza rifiuti
preventivi.
Sia la
parola del profeta sia la consapevolezza del
la propria
condizione e lontananza
da
Gerusalemme rendono possibile la comprensione del proprio male e il pentimento
per le proprie colpe. Questo dice il significato e il valore degli incontri
delle minoranze che fanno prendere coscienza della propria condizione e, se c’è
volontà di pace, possono fare arrivare il proprio popolo ad una presenza
costruttiva nel luogo dove stanno vivendo.
Romani 7, 1-6a
O forse ignorate, fratelli – parlo a gente che
conosce la legge – che la legge ha potere
sull’uomo solo per il tempo in cui egli vive?
La donna sposata, infatti, per legge è legata al
marito
finché egli vive; ma se il marito muore, è liberata
dalla legge che la lega al marito.
Ella sarà dunque considerata adultera se passa a un
altro
uomo mentre il marito vive; ma se il marito
muore ella è libera dalla legge, tanto che non è
più adultera se passa a un altro uomo.
Alla stessa maniera, fratelli miei, anche voi,
mediante il
corpo di Cristo, siete stati messi a morte quanto
alla Legge per appartenere a un altro, cioè a colui
che fu risuscitato dai morti, affinché noi portiamo
frutti per Dio.
Quando, infatti, eravamo nella debolezza della carne, le passioni
peccaminose, stimolate dalla Legge, si scatenavano nelle nostre membra al fine
di portare frutti per la morte.
Ora invece, morti a ciò che ci teneva prigionieri,
siamo stati liberati dalla Legge per servire
secondo lo Spirito, che è nuovo.
Commento
Paolo, da
buon ebreo, si sente impegnato a far sempre riferimento alla legge per poter
poi ricordare che con il battesimo siamo stati liberati non solo dal peccato
(cap 6), ma
anche dalla legge stessa (cap 7). Per illustrare la liberazione dalla legge viene
ripreso un esempio, molto evidente, della donna vedova, e quindi senza marito e
della donna sposata con il marito vivente. La legge regola i rapporti solo tra
i vivi. La morte li sospende come dimostra la legge matrimoniale (vv 2-3).
Quando una donna sposa un altro uomo, è legata a lui dal dovere di fedeltà: ma
se poi muore il marito, resta libera dalla legge del marito cioè
dalla legge
che riguarda ciò che dice la legge ebraica. Così il credente è sottratto alla
legge mediante il corpo di Cristo. Cristo, nel battesimo, libera dal dominio
della legge poiché fa morire il credente con sé e quindi lo fa morire alla legge.
Ora che siamo stati liberati dalla legge siamo chiamati a servire in novità di
Spirito” (v 6). Siamo così liberati dalla legge, dalla lettura dei codici,
dalla preoccupazione dei vecchi statuti, per l’ossessione di doverci misurare
sulla lettera. Siamo chiamati a servire secondo lo Spirito. Servire secondo lo
Spirito significa aprire orizzonti: un’obbedienza interiore attiva a cui segue
la creatività e la freschezza del dono di Dio ogni giorno. Egli apre ad una
vita fruttuosa, ad una conversione attenta di comunione alle persone e ci fa
consapevoli dell’amore del dono di Dio, fiduciosi e ricchi di libertà. Così,
noi entriamo nel "regime nuovo dello Spirito” che non si regola più sulla
norma scritta, imposta a ciascuno dall'esterno, capace solo di richiedere
fatica e sforzi infruttuosi di adesione.
Lo Spirito
anima il credente dell'interno e lo muove verso una fecondità spontanea e
gioiosa. Così servire nello Spirito è mettersi a disposizione, essere attenti
al vivere di qualcuno, scoprire le esigenze e le possibilità e le potenzialità.
E servire nello Spirito è ricerca di creatività, di bellezza, di novità e di
valori nascosti.
Giovanni. 8,
1-11 L'adultera
In quel
tempo.
Il Signore
Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi.
Ma al
mattino si recò di nuovo nel tempio
e tutto il
popolo andava da lui. Ed egli sedette e si
mise a
insegnare loro.
Allora gli
scribi e i farisei gli condussero una
donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa
donna è stata sorpresa in flagrante adulterio.
Ora Mosè,
nella Legge, ci ha comandato di lapidare
donne come
questa. Tu che ne dici?».
Dicevano
questo per metterlo alla prova e per avere motivo
di
accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra.
Tuttavia,
poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo
la
pietra
contro di lei».
E, chinatosi
di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno,
cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo.
Allora Gesù
si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?».
Ed ella rispose:
«Nessuno, Signore». E Gesù disse:
«Neanch’io
ti condanno; va’ e d’ora in poi non
peccare
più».
Commento
Ci troviamo
di fronte ad un testo che ha tutte le caratteristiche del Vangelo di Luca, che si gioca sulla misericordiosa credenza in
Dio ma è un testo che ritroviamo in Giovanni, collocato in una particolare
situazione nel suo Vangelo. Gesù è in polemica continua con i conoscitori della
Scrittura e con i maestri d’Israele: “La mia dottrina non è mia ma di colui che
mi ha mandato” (7,16). E la discussione si sviluppa nel capitolo 7 sulla legge
di Mosé: “Chi è il vero e autentico rivelatore di Dio?”. E’ Mosé che detta la
legge perché sia rispettata. Certamente verrà il Cristo, il nuovo Mosè, e Lui
ci dirà. E invece: “Chi è quest’uomo? Sappiamo di dove viene mentre
del Cristo,
quando verrà, nessuno saprà di dove sia”
(7,27). È un
susseguirsi di provocazioni, di attenzioni, di risposte che Gesù propone sino a
quella: “Se qualcu-
no ha sete
venga a me e beva chi crede in me” (7,37-38). Irritati dalla forza della
predicazione e convinti che Gesù non viene da Dio, scribi e farisei organizzano
una
specie di
tribunale pubblico all’aperto, una sfida che ritengono insuperabile. Gesù è
arrivato nel tempio di mattina, presto. Egli siede e insegna. Gli portano una
donna
sorpresa in
adulterio. La pongono nel mezzo e sfida
no Gesù
perché dia la sua sentenza, ricordando la legge di Mosé: “Ora Mosè, nella
Legge, ci ha comandato di
lapidare
donne come questa. Tu che ne dici?” (8,5).
L’evangelista
parla del mattino, il tempo nuovo, il tempo della luce. E come se si dovesse
attendere il tempo nuovo
della
creazione, il rinnovamento di un mondo malato
che sa solo
porsi col giudizio e con la condanna. E
qui c’è ancora di più: si vuole strumentalizzare il male che dicono d’aver
trovato per poter accusare anche Gesù.
Gesù si
china e comincia a scrivere col dito per terra. Nella Scrittura, nel libro
dell’Esodo, si ricorda che Mosé sul Sinai ha ricevuto le due tavole della
testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio” (31,18) e lo stesso
si dice nel Deuteronomio (9,10). Ma se sul Sinai, Dio scrive sulla pietra, a
Gerusalemme Gesù scrive sulla terra, sul mondo in cui viviamo, perché tutti lo
possano leggere, ripensare, reinterpretare, maturare nella coscienza la
misericordia di Dio. In fondo Gesù non rifiuta la legge di Mosé, anzi non entra
neppure nel merito, ma di fronte al peccato ricorda a coloro che accusano che
lo possono denunciare e cancellare con la loro giustizia solo se accettano di
misurarsi in coscienza con la stessa legge. Non basta rispettare alla lettera
le parole di Mosé. Bisogna essere consapevoli del peccato di tutti e bisogna
aprire gli occhi e il cuore ad ogni persona che sbaglia, concedendole un
progetto nuovo per il futuro: questo è il senso del perdono e della
misericordia.
A questo
punto ognuno che ha in mano una pietra e vuole giudicare e condannare, è
chiamato ad una verifica: «chi di
voi è senza
peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (8,7). Per procedere nella
lapidazione, in caso di sentenza pronunciata dal giudice, è necessario che
qualcuno, per primo, cominci a scagliare una prima pietra. E’il diritto-dovere
che spetta al testimone sulla cui testimonianza si sono basati processo e
condanna. Così Gesù, che fa appello a chi ritiene di avere diritto di iniziare
l’esecuzione della sentenza di morte, richiama un'altra verità, ancora più
importante, che è quella della coscienza di ciascuno e che nessuno conosce,
tranne Dio. Poiché una testimonianza bugiarda, in coscienza, avrebbe reso
omicida il testimone. Tutto è iniziato con la folla urlante, tutto finisce
nella solitudine di un dialogo a due tra Gesù e la donna: gli altri sono
spariti, forse anche la folla e i discepoli. A questo punto Gesù manifesta il
significato della sua presenza nel mondo: è venuto a perdonare, consapevole del
male che
esiste nel
cuore di ciascuno, ma solo il perdono può aprire prospettive sul futuro.
Non si
minimizza il male fatto, ma si ci si gioca sulla speranza. Si spezza il cerchio
di morte che si stringe attorno alla donna. Sembra che di fronte al male non
debbano
esserci se
non il giudizio, la condanna e il rifiuto della persona. Gesù, invece, apre
orizzonti nuovi per il mondo, in cui tutti sono chiamati a camminare per
cambiare e
rendere
migliore la terra.
Qui dovrebbe
iniziare una seria riflessione del come noi
affrontiamo
le persone che sbagliano e il male che incontriamo nel mondo. C’è troppa
violenza che si giustifica con la giustizia e c’è poco perdono che si qualifica
come debolezza. Per quanto Gesù, in 2000 anni, ci abbia richiamato al perdono,
non abbiamo ancora capito e non abbiamo neppure iniziato un allenamento ed un
apprendistato per maturarlo. Ma la storia degli ultimi 60 anni dovrebbe averci
insegnato che si ricomincia la pace solo se si smette la vendetta, se si
accetta il perdono, se
si
ricomincia a lavorare insieme. E’ stato il nostro cammino con l’unità Europea,
è stata l’esperienza di alcune guerre fratricide in Africa, è stato il cammino
faticoso
del crollo
dell’impero Sovietico, l’indipendenza indiana, la pacificazione in Sud Africa.
Non si studia abbastanza il significato della riconciliazione nella nostra
storia.
Rito Romano
Lectio - Anno A
Prima lettura: Levitico 19,1-2.17-18
Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla a tutta la
comunità degli Israeliti dicendo loro: “Siate santi, perché io, il Signore,
vostro Dio, sono santo. Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo
fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di
un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli
del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore”».
|
2 «Siate santi, perché io, il Signore, vostro
Dio, sono santo» (v. 2). Con questo invito rivolto da Dio al suo popolo
inizia la lettura.
Nel linguaggio corrente, per santo si
intende chi ha condotto una vita esemplare, è andato in paradiso e, se invocato
con fede, può concedere grazie e miracoli. Il vero significato di questo
termine è però più ampio: indica ciò che è separato e consacrato a Dio. Erano
santi i templi perché distinti, «ritagliati» dal mondo profano e riservati alla
divinità. Varcare la soglia di un santuario era entrare nel mondo di Dio, per
questo era necessario sottoporsi a numerosi e complicati riti purificatori.
Santi erano gli oggetti sacri che non potevano
essere adibiti ad altri usi, sante erano le persone che vivevano in modo
originale, che assumevano comportamenti fuori del comune. Il più santo era Dio,
assolutamente diverso da tutto ciò che esiste. Cosa pretendeva dunque il
Signore quando ha ingiunto al suo popolo di essere «santo»? Voleva forse che
vivesse separato dagli altri popoli?
Israele ha inteso in questo modo il comando
di Dio e ha pensato che fosse suo dovere evitare ogni contatto con coloro che
avrebbero potuto portarlo all'idolatria. Per mantenere questa «santità», ha
moltiplicato a dismisura i divieti: proibizione di entrare nelle case degli
stranieri, di mangiare con loro o anche soltanto di stringere la mano a un
pagano.
Essendo questa la mentalità comune, si
rimane sorpresi quando si constata che, nel libro del Levitico, c'è un testo -
ed è quello che ci viene proposto oggi — in cui la «santità» è intesa in modo
completamente diverso: niente separazioni materiali dagli altri uomini, niente
osservanze di prescrizioni rituali.
Per essere santi basta condurre una vita
diversa, una vita che si concretizza nelle seguenti disposizioni: onorare il
padre e la madre, osservare i sabati, non odiare il fratello, ri-nunciare al
rancore e alla vendetta e amare «il tuo
prossimo come te stesso» (vv. 3.17-18).
Quest'ultima clausola, assieme alla famosa
raccomandazione del libro dei Proverbi: «Se il tuo nemico ha fame, dagli pane
da mangiare; se ha sete, dagli acqua da bere» (Prv 25,21), è il punto più alto
cui è giunta la morale dell'Antico Testamento. Tuttavia, in essa è ancora
presente un limite: l'amore richiesto non è universale; l'interpretazione
rabbinica, infatti, lo restringeva ai membri del popolo d'Israele.
Seconda lettura: 1Corinzi 3,16-23
Fratelli,
non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se
uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio
di Dio, che siete voi. Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un
sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente, perché la
sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. Sta scritto infatti:
«Egli fa cadere i sapienti per mezzo della loro astuzia». E ancora: «Il
Signore sa che i progetti dei sapienti sono vani». Quindi nessuno ponga il
suo vanto negli uomini, perché tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo,
la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di
Cristo e Cristo è di Dio.
|
2 La comunità è
come un santuario ritagliato dal mondo profano; chi la mantiene unita e salda è
lo Spirito, le divisioni che disgregano e minacciano di far crollare tutta la
costruzione introducono un principio opposto e devastante. Chi si rende
responsabile di un simile disastro sarà trattato dal Signore con estrema
severità: «Dio - assicura Paolo - distrug-gerà lui» (v. 17). È l'immagine
tradizionale del giudizio finale che serviva, nel linguaggio rabbinico, non a
descrivere ciò che accadrà alla fine, ma a mettere in risalto l'estrema gravita
di un'azione.
Nella seconda parte della lettura (vv.
18-23) viene ripreso il motivo della contrapposizione fra la «sapienza di Dio»
e quella «degli uomini». Le discordie derivano dal fatto che i mèmbri della
comunità seguono la «sapienza di questo
mondo», opposta a quella di Dio.
Nella sua lettera, Paolo ha già detto che
«il vangelo è una pazzia agli occhi degli uomini» (1,18.21.23), oggi afferma
che la saggezza degli uomini è una follia per Dio (v. 19).
L'Apostolo non intende svalutare o
disprezzare gli sforzi e le capacità della ragione umana; egli mette in guardia
dai deliri di onnipotenza e dalle pretese insensate di chi è convinto che tutto
possa essere ridotto al razionale e che si possa fare a meno della luce di Dio.
Questo pensiero introduce nelle
interpretazioni nuove e provocatorie che, nel vangelo di oggi, Gesù darà ad
alcuni testi dell'Antico Testamento, interpretazioni che propongono scelte
morali la cui validità è garantita da Dio, non dalla «sapienza di questo mondo».
Vangelo: Matteo 5,38-48
In
quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Avete inteso che fu detto: “Occhio
per occhio e dente per dente”. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio;
anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche
l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia
anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu
con lui fanne due. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito
non voltare le spalle. Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e
odierai il tuo nemico”. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per
quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei
cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui
giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale
ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto
soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così
anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste».
|
Esegesi
Abbiamo ascoltato la scorsa domenica
l'interpretazione di Gesù circa quattro testi della Toràh d'Israele. Oggi viene presentata quella relativa ad altri
due.
La prima riguarda il modo nuovo di ottenere
giustizia. Tutti siamo d'accordo che il male va contenuto e contrastato. Ma
come?
Nelle società arcaiche dove non c'era un
potere statale capace di mantenere l'ordine, si ricorreva facilmente alla
vendetta, alla rappresaglia senza limiti. Il responsabile di una malefatta, una
volta scoperto, veniva sottoposto a castighi esemplari, a punizioni pubbliche,
tanto severe e crudeli, da dissuadere chiunque altro dal commettere simili
errori. La ritorsione serviva come deterrente, ma era un modo barbaro di fare
giustizia.
Lamec, il discendente di Caino, si tutelava
incutendo terrore: «Ho ucciso un uomo per un graffio e un ragazzo per un
livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settanta sette volte» (Gn
4,23-24). È per porre un argine a simili eccessi che la Toràh aveva stabilito: «Occhio per occhio, dente per dente» (Es
21,23-25). Questa è forse la legge più travisata della storia del diritto.
È citata ad esempio quando, ricevuto uno
sgarbo, si ripaga con la stessa moneta. «Occhio
per occhio e dente per dente» equivale, in questi casi, al rifiuto di avere
compassione, di accordare clemenza al colpevole. In realtà la disposizione
aveva tutt'altro significato: vietava i cosiddetti castighi esemplari e le
rappresaglie. Ognuno doveva pagare per la colpa commessa, non per tutto il male
presente nel mondo.
Intesa correttamente rimane valida anche
oggi e, se praticata, garantisce l'equità nelle sentenze. Gesù non la considera
decaduta, propone di andare oltre questa giustizia rigorosa e invita ad
affrontare il problema in altro modo (vv. 38-42).
I rabbini del suo tempo insegnavano: «Sii
ucciso, ma non uccidere», ma aggiungevano subito: se però qualcuno ti
aggredisce e vuole toglierti la vita, tu non riflettere, non dire a te stesso:
forse mi renderò colpevole del suo sangue; uccidilo prima che sia lui a
ucciderti! Questa interpretazione dei rabbini non suscitava obiezioni. Era
conforme alla logica umana e poteva trovare giustificazioni anche nella Toràh.
Ora ecco la sorpresa, Gesù non l’accetta e
dice ai suoi discepoli: «Ma io vi dico di
non opporvi al malvagio»; piuttosto che fare violenza al fratello, dovete
essere disposti a subire l'ingiustizia (Mt 5,39). Siamo di fronte a parole
inequivocabili; comunque, a scanso di equivoci, aggiunge quattro esempi, presi
dalla vita quotidiana del suo popolo.
Il
primo riguarda la violenza fisica: «se
uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra...» (v. 41).
Quando si riceve uno schiaffo, se
l'aggressore non è un mancino, si viene colpiti sulla sinistra. Gesù parla
della destra perché la violenza subita è maggiore: si tratta del manrovescio,
un'offesa gravissima, punita in Israele con un'ammenda pari a più di un mese di
stipendio. Al discepolo, Gesù non raccomanda di essere più buono, più mite
nelle pretese di risarcimento, esige un comportamento radicalmente nuovo: «tu pórgigli anche l’altra».
«Buoni sì, ma non stupidi!», si suol dire.
Certo, le parole di Gesù non devono essere prese alla lettera (questo sarebbe
davvero sciocco). Anch'egli, quando ha ricevuto lo schiaffo, non ha presentato
l'altra guancia, ma ha protestato (Gv 18,23). Ciò che esige dai discepoli è la
disposizione interiore ad accettare l'ingiustizia, a sopportare l'umiliazione,
piutto-sto che reagire facendo del male al fratello.
L'unico modo per interrompere il ciclo
diabolico offesa-violenza è il perdono. Se alla violenza si reagisce con
un'altra violenza, non solo non viene eliminata la prima ingiustizia, ma se ne
aggiunge un'altra. Questo circolo può essere spezzato solo con un gesto
originale, assolutamente nuovo: il perdono. Tutto il resto è vecchio, è
qualcosa di già visto, di ripetuto senza sosta fin dagli inizi dell'umanità.
Il
secondo esempio si riferisce all'ingiustizia economica (v. 40).
In Israele, uomini e donne indossavano due
capi di vestiario: una tunica a maniche lunghe o a mezze maniche, portata sul
corpo nudo, e un'ampia cappa (il mantello). Nel mantello ci si avvolgeva quando
faceva freddo e lo si toglieva quando si svolgeva un lavoro servile. Ai poveri
serviva anche da coperta per la notte, per questo la Toràh stabiliva che non poteva essere pignorato (Es 22,25-26).
Gesù propone un caso limite di ingiustizia:
un discepolo viene portato in tribunale perché lo si vuole privare della
tunica. Chiaramente tutti gli altri beni gli sono già stati tolti. Che deve fare?
Null'altro che manifestare il suo totale e incondizionato rifiuto di entrare in
liti e contese. Per questo cede anche il mantello, l'ultimo indumento che gli
rimane, quello che non poteva essere requisito come pegno, ed è disposto a
rimanere nudo, come il suo Maestro sulla croce.
Il
terzo esempio è l'abuso del potere
(v. 41).
Capitava spesso che i soldati romani o
qualche signorotto locale angariassero dei poveri contadini e li costringessero
a fare da guide o a portare carichi. Un esempio lo abbiamo nel racconto della
passione: Simone di Cirene è obbligato a portare la croce di Gesù (Mt 27,31).
Gli zeloti, cioè i rivoluzionari di quel
tempo, suggerivano la ribellione e il ricorso alla violenza per opporsi a
simili soperchierie. Epitteto esortava alla prudenza: «Se un soldato ti
requisisce l'asino, non resistergli e non lamentarti, altrimenti verrai
percosso e alla fine glielo dovrai consegnare lo stesso».
Gesù non fa alcuna considerazione di questo
tipo, non si richiama alla prudenza; ai discepoli dice semplicemente: «se uno ti costringerà ad accompagnarlo per
un miglio, tu con lui fanne due». Non detta una norma di saggezza, non
suggerisce una strategia atta a convenire l'aggressore, non assicura nemmeno
che un simile comportamento arrendevole otterrà risultati positivi in tempi
brevi. Chiede al discepolo che, senza fare calcoli, mantenga il cuore libero
dai risentimenti e si astenga da qualunque reazione che non sia dettata dall'amore.
Il
quarto caso è quello della persona importuna che viene a chiedere un
prestito (ma può anche essere un alloggio, un appartamento in affitto, un posto
di lavoro, un prezzo di favore...) magari, come spesso accade, senza un minimo
di discrezione.
Gesù dice al discepolo: «Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te
un prestito non voltare le spalle» (v. 42). Non fingere di non capire, non
cercare scuse, non inventare difficoltà inesistenti, non cercare di scaricare
su altri il problema. Se puoi fare qualcosa, fallo e basta.
Nell'ultimo
(il sesto) esempio Gesù si richiama a
un duplice comandamento: «Amerai il tuo
prossimo e odierai il tuo nemico» (vv. 43-48). Nell'Antico Testamento il
primo lo si trova (Lv 19,18), ma il secondo no. Probabilmente Gesù non si
riferisce a un testo specifico della Toràh,
ma alla mentalità che si era creata in Israele a partire da alcuni testi
biblici.
Nelle sacre Scritture si parla, a volte, di
guerre sante (Dt 7,2; 20,16), compaiono sentimenti di vendetta (Sal 137,7-9),
si manifesta il proprio attaccamento al Signore, ma in un linguaggio molto
arcaico: «Non odio, forse, i tuoi nemici, Signore? Li detesto con odio implacabile»
(Sal 139,12-22).
Espressione di questo odio è l'invito che i
monaci esseni di Qumran rivolgevano ai loro adepti: «Amate tutti i figli della
luce, ma odiate tutti i figli delle tenebre, ciascuno secondo la sua colpa,
nella vendetta di Dio».
Ci sono però nella Bibbia - è bene
ricordarlo - altri testi in cui si ammonisce di non ricambiare il male (Prv
24,29) e si raccomanda l'amore al nemico: «Quando vedrai l'asino del tuo nemico
accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui ad
aiutarlo» (Es 23,5). Appellandosi ad essi, alcuni rabbini sostenevano che il
comandamento: «Ama il prossimo come te stesso» (Lv 19,18) doveva essere esteso
anche al nemico, ma l'opinione comune lo restringeva agli appartenenti al
popolo giudaico.
In questo contesto religioso, il duplice
comandamento di Gesù suona paradossale: «Amate i vostri nemici e pregate per i
vostri persecutori».
È l'apice dell'etica cristiana, è la
richiesta dell'amore gratuito e incondizionato che non si aspetta alcun
contraccambio e che, come quello di Dio, raggiunge anche chi fa del male.
Alcuni saggi dell'antichità hanno fatto
proposte morali elevate: «Comportati in modo da trasformare i tuoi nemici in
amici» (Diogene). «Proprio dell'uomo è amare anche coloro che lo percuotono»
(Marco Aurelio); ma l'imperativo Ama i
tuoi nemici è un'invenzione di Gesù.
Il secondo comando - pregate - suggerisce il mezzo per riuscire a praticare l'amore per
«chi ci perseguita», per chi ci rende la vita impossibile: la preghiera. Essa
eleva verso il cie-lo, unisce al Signore, purifica la mente e il cuore dai
pensieri e dai sentimenti dettati dalla logica di questo mondo e fa vedere il
malvagio con gli occhi di Dio, che non ha nemici.
Gesù invita a mostrarsi suoi figli, chiede
ai discepoli di lasciar trasparire nei loro comportamenti l'indole del Padre
celeste «egli fa sorgere il suo sole sui
cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti». La
distinzione fra malvagi e buoni e la lotta contro gli uomini, portata avanti in
nome di Dio, sono bestemmie!
Due esempi (vv. 46-47) mettono a confronto
il comportamento usuale degli uomini con la novità di vita di chi ha assimilato
i pensieri, i sentimenti e le opere del Padre che sta nei cieli. La caratteristica
dei «figli di Dio» è l'amore offerto a chi non lo merita e il saluto rivolto a
chi si comporta da nemico. La formula di saluto era: Shalom, augurio di pace e di ogni bene. Con tutto il cuore, il discepolo
desidera, anche per chi lo odia, il bene e, dimentico dei torti, si impegna
perché questo avvenga.
La conclusione addita la meta irraggiungibile: «siate
perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (v. 48).
La perfezione del giudeo consisteva
nell'esatta osservanza dei precetti della Toràh.
Per il cristiano è l'amore senza limiti come quello del Padre. Perfetto è chi
non manca di nulla, chi è integro, chi non ha il cuore diviso fra Dio e gli
idoli. La disponibilità a donare tutto, a non conservare nulla per sé, a
mettersi totalmente a servizio dell'uomo — compreso il nemico - colloca sulle
orme di Cristo e conduce alla perfezione del Padre che si dona tutto e che non
esclude nessuno dal suo amore.
Meditazione
Quando ne sentiamo parlare o, peggio
ancora, la sappiamo nuovamente riapplicata, abbiamo un sussulto alle viscere e
ci assale un moto di disgusto. Eppure, per quanto possa apparirci difficile da
credere, la legge del taglione venne introdotta quale efficace strumento per
evitare il debordare della violenza incontrollata e porre un argine alla 'legge
del più forte'. A una offesa si potrà (o si dovrà?) contrapporre analoga
ferita: non di più! Se abbiamo però il coraggio di non censurare pensieri e
sentimenti che irrompono dentro di noi quando qualcuno ci tocca sul vivo, magari
mettendo a nudo qualche tratto vergognoso della nostra esistenza, forse la
legge 'dell’occhio per occhio' non ci apparirebbe così arcaica e primitiva,
scoprendo anzi di essere capaci di ben peggiori violenze: quante volte abbiamo
maledetto, imprecato - se non abbiamo addirittura augurato una rapida dipartita
da questa terra – a chi (ci) faceva del male 'gratuitamente', senza ragione
alcuna? Se situazioni aberranti ridestano fortunatamente in noi la capacità di
scandalizzarci e di intervenire, la nostra reazione non è forse sempre
commisurata alla colpa commessa (contro di noi)...
Comunque sia, le parole di Gesù riportate
nel brano evangelico di questa settimana aprono la strada a un cammino
infinito, stimolando le migliori energie positive che possono sprigionarsi
anche da ognuno di noi. L'apparente contraddizione tra Primo e Nuovo
Testamento, tra «avete inteso che fu detto» (5,38.43) e «ma io vi dico»
(5,39.44), è solo la riproposizione religiosa della legge del taglione sopra
citata: quelle norme, introdotte addirittura nel testo biblico, per cercare di
evitare un male peggiore e l'insorgere dell'arbitrarietà, sono ora accostate
allo splendore massimalista del desiderio del Signore: «Voi dunque siate
perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (5,48). La speranza di un
mondo riconciliato e unito nell'amore non è favola per bambini ma vigoroso ed
esigente programma esistenziale del discepolo di Gesù.
È estremamente facile entrare in rotta di
collisione con altri ma quanto è difficile ricucire un tessuto relazionale!
Concretamente, cosa si può fare nei confronti del malvagio? Un'arte laboriosa
si richiede... Un primo passo, già estremamente impegnativo, è non replicare al
male con il male (cfr. 5,39-41), bloccare in sé quella spontanea reazione di vendetta
che ci illude falsamente di ristabilire una qualche forma di giustizia e
legalità. Non chiudere i ponti, arrivare a prestare a chi domanda (cfr. 5,42)
suppone la capacità di riuscire a vedere nella persona richiedente - 'il
cattivo' - almeno una scintilla di quel bene che altri - e magari lui stesso -
non riesce più a scorgere: sperare pertanto in un cambiamento della persona è
dare credito, dare fiducia a quel desiderio di umanità e autenticità che abita
le profondità di ognuno di noi.
Gesù arriva addirittura a chiedere il
superamento della reciprocità: un amore autentico non calcola ma si offre
generosamente, perché «pieno compimento della Legge è l'amore» (Rm 13,9). E ci
sferza con decisione, quasi irridendo quei nostri sforzi che ci appaiono
impari: «se amate quelli che vi amano, cosa fate di straordinario?» (5,46.47).
Va precisato che così dicendo Gesù non banalizza affatto l'amicizia o mette a
un livello inferiore l'amore che può esistere tra coniugi: si sta parlando del
caso del 'nemico', di cui mai si chiede di diventare amico. Sono situazioni
differenti!
Forse mai come in questa situazione ci
appare debole la nostra carne: come si può amare chi ci è stato o ci è ancora
nemico? Senza entrare nelle infinite e reali sfumature dei singoli casi
personali, su cui peraltro ognuno di noi è chiamato a verificarsi, comprendiamo
come solo grazie all'azione dello Spirito santo ci possa essere offerta la possibilità
di incamminarci su questo erto ma liberante cammino di crescita. Quella
preghiera che sale incessantemente al Padre dal Signore risorto e che ci viene
domandata anche verso i nostri persecutori (5,44) è forse l'espressione più
completa di quella perfezione d'amore che Gesù ha testimoniato durante tutta la
sua esistenza.
Vigiliamo
sui nostri sentimenti e facciamone attenta verifica: stupiti dall'amore di
Gesù, che ci ha amati mentre eravamo ancora nemici (cfr. Rm 5,10), saremo in grado
di purificare il nostro cuore e camminare nella via dell'amore.
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