mercoledì 19 febbraio 2014

Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei 23. 2. 14



Domenica 23 febbraio 2014


Chi di voi è senza peccato, getti per primo la
pietra contro di lei


Lettura del profeta Baruc. 2, 9-15a
In quei giorni.
Il Signore ha vegliato su questi mali e li ha
mandati sopra di noi, poiché egli è giusto in tutte
le opere che ci ha comandato, mentre noi non
abbiamo dato ascolto alla sua voce, camminando
secondo i decreti che aveva posto davanti al
nostro volto.
Ora, Signore, Dio d’Israele, che hai fatto uscire
il tuo popolo dall’Egitto con mano forte, con
segni e prodigi, con grande potenza e braccio
possente e ti sei fatto un nome, qual è oggi, noi
abbiamo peccato, siamo stati empi, siamo stati
ingiusti, Signore, nostro Dio, verso tutti i tuoi
comandamenti.
Allontana da noi la tua collera,
perché siamo rimasti pochi in mezzo alle nazioni
fra le quali tu ci hai dispersi.
Ascolta, Signore,
la nostra preghiera, la nostra supplica, liberaci per
il tuo amore e facci trovare grazia davanti a
coloro che ci hanno deportati, perché tutta la
terra sappia che tu sei il Signore, nostro Dio

Commento
Il regno di Giuda è crollato in mano ai babilonesi.
Il profeta Baruc scrive questo
testo a Babilonia, rivedendo le posizioni e le scelte che il popolo ha compiuto, affrontando una lunga complessa riflessione teologica che lo porta a sondare i valori
di Dio, le scelte che egli fa, la raccomandazione d
elle leggi che ha proposto, i risultati di fronte a un comportamento irresponsabile di rifiuto e di abbandono di Dio.
Il libro è attribuito a Baruc, noto come fedele segretario del profeta Geremia. Il libro contiene materiali diversi, sia per genere letterario che per epoca di composizione.
Si può pensare ad un'antologia e il brano di oggi fa parte di una Liturgia penitenziale (1,15b-3,8). Questo popolo disperso e disperso, probabilmente già da quattro
anni, sembra riunito nel 582 a.C.. Sta rendendosi conto del proprio destino e dei  rivolgimenti che sono avvenuti nella propria storia. A questo punto si è risvegliata in
ciascuno la consapevolezza della propria empietà e
della propria ingiustizia. Ritornano in mente i prodigi che Dio ha fatto in passato per questo popolo, liberandolo
dall’Egitto; ci si rende conto della pazzia della
propria ribellione che si è compiuta  con le proprie scelte e le proprie mani e che si sta pagando con la propria sofferenza.
La preghiera, a questo punto, prende coscienza della propria fragilità e della propria pochezza: “Siamo rimasti pochi in mezzo alle nazioni fra le quali tu ci hai dispersi”
(v 13). Sorprendentemente, le richieste sono due. Mentre si sta chiedendo al Signore, con la supplica, la propria liberazione, si chiede al Signore: “Facci trovare grazia
davanti a coloro che ci hanno deportati, perché tutta la terra sappia che tu sei il Signore, nostro Dio”(v 14-15).
Si chiedono, da una parte, le capacità e il coraggio di
essere sottomessi al popolo che li ha conquistati, perché solo così questo popolo può reggere la fatica e l’umiliazione del castigo che si è procurato. Ma, d’altra parte, proprio in questa vita di responsabilità e di cambiamento, il popolo diventa capace,  ancora una volta, di essere testimone della grandezza di Dio, del Dio che ha creato il mondo, che è il loro Signore, che li ha educati alla responsabilità e che essi hanno, per un certo tempo, abbandonato.
La cosa curiosa, che Baruc dice all’inizio del libro, è che questo testo è stato letto alla presenza del re di Giuda, dei figli del re e di tutto il popolo: tutti sono intervenuti alla lettura del testo di Baruc, alla presenza di tutti i deportati che abitano in Babilonia (1,3-4). Tale assemblea “presso il fiume Sud” (v 4 ) indica che sia l’ex re e sia
il popolo deportato godono di una certa libertà per
cui è possibile fare questi incontri senza suscitare sospetto o senza rifiuti preventivi.
Sia la parola del profeta sia la consapevolezza del
la propria condizione e lontananza
da Gerusalemme rendono possibile la comprensione del proprio male e il pentimento per le proprie colpe. Questo dice il significato e il valore degli incontri delle minoranze che fanno prendere coscienza della propria condizione e, se c’è volontà di pace, possono fare arrivare il proprio popolo ad una presenza costruttiva nel luogo dove stanno vivendo.


Romani  7, 1-6a

O forse ignorate, fratelli – parlo a gente che
conosce la legge – che la legge ha potere
sull’uomo solo per il tempo in cui egli vive?
La donna sposata, infatti, per legge è legata al marito
finché egli vive; ma se il marito muore, è liberata
dalla legge che la lega al marito.
Ella sarà dunque considerata adultera se passa a un altro
uomo mentre il marito vive; ma se il marito
muore ella è libera dalla legge, tanto che non è
più adultera se passa a un altro uomo.
Alla stessa maniera, fratelli miei, anche voi, mediante il
corpo di Cristo, siete stati messi a morte quanto
alla Legge per appartenere a un altro, cioè a colui
che fu risuscitato dai morti, affinché noi portiamo
frutti per Dio.
Quando, infatti, eravamo nella  debolezza della carne, le passioni peccaminose, stimolate dalla Legge, si scatenavano nelle nostre membra al fine di portare frutti per la morte.
Ora invece, morti a ciò che ci teneva prigionieri,
siamo stati liberati dalla Legge per servire
secondo lo Spirito, che è nuovo.

Commento
Paolo, da buon ebreo, si sente impegnato a far sempre riferimento alla legge per poter poi ricordare che con il battesimo siamo stati liberati non solo dal peccato
(cap 6), ma anche dalla legge stessa (cap 7). Per illustrare la liberazione dalla legge viene ripreso un esempio, molto evidente, della donna vedova, e quindi senza marito e della donna sposata con il marito vivente. La legge regola i rapporti solo tra i vivi. La morte li sospende come dimostra la legge matrimoniale (vv 2-3). Quando una donna sposa un altro uomo, è legata a lui dal dovere di fedeltà: ma se poi muore il marito, resta libera dalla legge del marito cioè
dalla legge che riguarda ciò che dice la legge ebraica. Così il credente è sottratto alla legge mediante il corpo di Cristo. Cristo, nel battesimo, libera dal dominio della legge poiché fa morire il credente con sé e quindi lo fa morire alla legge. Ora che siamo stati liberati dalla legge siamo chiamati a servire in novità di Spirito” (v 6). Siamo così liberati dalla legge, dalla lettura dei codici, dalla preoccupazione dei vecchi statuti, per l’ossessione di doverci misurare sulla lettera. Siamo chiamati a servire secondo lo Spirito. Servire secondo lo Spirito significa aprire orizzonti: un’obbedienza interiore attiva a cui segue la creatività e la freschezza del dono di Dio ogni giorno. Egli apre ad una vita fruttuosa, ad una conversione attenta di comunione alle persone e ci fa consapevoli dell’amore del dono di Dio, fiduciosi e ricchi di libertà. Così, noi entriamo nel "regime nuovo dello Spirito” che non si regola più sulla norma scritta, imposta a ciascuno dall'esterno, capace solo di richiedere fatica e sforzi infruttuosi di adesione.
Lo Spirito anima il credente dell'interno e lo muove verso una fecondità spontanea e gioiosa. Così servire nello Spirito è mettersi a disposizione, essere attenti al vivere di qualcuno, scoprire le esigenze e le possibilità e le potenzialità. E servire nello Spirito è ricerca di creatività, di bellezza, di novità e di valori nascosti.

Giovanni. 8, 1-11 L'adultera
In quel tempo.
Il Signore Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi.
Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio
e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si
mise a insegnare loro.
Allora gli scribi e i farisei  gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio.
Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare
donne come questa. Tu che ne dici?».
Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo
di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra.
Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro:  «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la
pietra contro di lei».
E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo.
Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?».
Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse:
«Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non
peccare più».

Commento

Ci troviamo di fronte ad un testo che ha tutte le caratteristiche del Vangelo di Luca,  che si gioca sulla misericordiosa credenza in Dio ma è un testo che ritroviamo in Giovanni, collocato in una particolare situazione nel suo Vangelo. Gesù è in polemica continua con i conoscitori della Scrittura e con i maestri d’Israele: “La mia dottrina non è mia ma di colui che mi ha mandato” (7,16). E la discussione si sviluppa nel capitolo 7 sulla legge di Mosé: “Chi è il vero e autentico rivelatore di Dio?”. E’ Mosé che detta la legge perché sia rispettata. Certamente verrà il Cristo, il nuovo Mosè, e Lui ci dirà. E invece: “Chi è quest’uomo? Sappiamo di dove viene mentre
del Cristo, quando verrà, nessuno saprà di dove sia”
(7,27). È un susseguirsi di provocazioni, di attenzioni, di risposte che Gesù propone sino a quella: “Se qualcu-
no ha sete venga a me e beva chi crede in me” (7,37-38). Irritati dalla forza della predicazione e convinti che Gesù non viene da Dio, scribi e farisei organizzano una
specie di tribunale pubblico all’aperto, una sfida che ritengono insuperabile. Gesù è arrivato nel tempio di mattina, presto. Egli siede e insegna. Gli portano una donna
sorpresa in adulterio. La pongono nel mezzo e sfida
no Gesù perché dia la sua sentenza, ricordando la legge di Mosé: “Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di
lapidare donne come questa. Tu che ne dici?” (8,5).
L’evangelista parla del mattino, il tempo nuovo, il tempo della luce. E come se si dovesse attendere il tempo nuovo
della creazione, il rinnovamento di un mondo malato
che sa solo porsi col giudizio e  con la condanna. E qui c’è ancora di più: si vuole strumentalizzare il male che dicono d’aver trovato per poter accusare anche Gesù.
Gesù si china e comincia a scrivere col dito per terra. Nella Scrittura, nel libro dell’Esodo, si ricorda che Mosé sul Sinai ha ricevuto le due tavole della testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio” (31,18) e lo stesso si dice nel Deuteronomio (9,10). Ma se sul Sinai, Dio scrive sulla pietra, a Gerusalemme Gesù scrive sulla terra, sul mondo in cui viviamo, perché tutti lo possano leggere, ripensare, reinterpretare, maturare nella coscienza la misericordia di Dio. In fondo Gesù non rifiuta la legge di Mosé, anzi non entra neppure nel merito, ma di fronte al peccato ricorda a coloro che accusano che lo possono denunciare e cancellare con la loro giustizia solo se accettano di misurarsi in coscienza con la stessa legge. Non basta rispettare alla lettera le parole di Mosé. Bisogna essere consapevoli del peccato di tutti e bisogna aprire gli occhi e il cuore ad ogni persona che sbaglia, concedendole un progetto nuovo per il futuro: questo è il senso del perdono e della misericordia.
A questo punto ognuno che ha in mano una pietra e vuole giudicare e condannare, è chiamato ad una verifica: «chi di
voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (8,7). Per procedere nella lapidazione, in caso di sentenza pronunciata dal giudice, è necessario che qualcuno, per primo, cominci a scagliare una prima pietra. E’il diritto-dovere che spetta al testimone sulla cui testimonianza si sono basati processo e condanna. Così Gesù, che fa appello a chi ritiene di avere diritto di iniziare l’esecuzione della sentenza di morte, richiama un'altra verità, ancora più importante, che è quella della coscienza di ciascuno e che nessuno conosce, tranne Dio. Poiché una testimonianza bugiarda, in coscienza, avrebbe reso omicida il testimone. Tutto è iniziato con la folla urlante, tutto finisce nella solitudine di un dialogo a due tra Gesù e la donna: gli altri sono spariti, forse anche la folla e i discepoli. A questo punto Gesù manifesta il significato della sua presenza nel mondo: è venuto a perdonare, consapevole del male che
esiste nel cuore di ciascuno, ma solo il perdono può aprire prospettive sul futuro.
Non si minimizza il male fatto, ma si ci si gioca sulla speranza. Si spezza il cerchio di morte che si stringe attorno alla donna. Sembra che di fronte al male non debbano
esserci se non il giudizio, la condanna e il rifiuto della persona. Gesù, invece, apre orizzonti nuovi per il mondo, in cui tutti sono chiamati a camminare per cambiare e
rendere migliore la terra.
Qui dovrebbe iniziare una seria riflessione del come noi
affrontiamo le persone che sbagliano e il male che incontriamo nel mondo. C’è troppa violenza che si giustifica con la giustizia e c’è poco perdono che si qualifica come debolezza. Per quanto Gesù, in 2000 anni, ci abbia richiamato al perdono, non abbiamo ancora capito e non abbiamo neppure iniziato un allenamento ed un apprendistato per maturarlo. Ma la storia degli ultimi 60 anni dovrebbe averci insegnato che si ricomincia la pace solo se si smette la vendetta, se si accetta il perdono, se
si ricomincia a lavorare insieme. E’ stato il nostro cammino con l’unità Europea, è stata l’esperienza di alcune guerre fratricide in Africa, è stato il cammino faticoso
del crollo dell’impero Sovietico, l’indipendenza indiana, la pacificazione in Sud Africa. Non si studia abbastanza il significato della riconciliazione nella nostra storia.


Rito Romano

Lectio - Anno A

Prima lettura: Levitico 19,1-2.17-18


     Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla a tutta la comunità degli Israeliti dicendo loro: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo. Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore”».


2  «Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo» (v. 2). Con questo invito rivolto da Dio al suo popolo inizia la lettura.
     Nel linguaggio corrente, per santo si intende chi ha condotto una vita esemplare, è andato in paradiso e, se invocato con fede, può concedere grazie e miracoli. Il vero significato di questo termine è però più ampio: indica ciò che è separato e consacrato a Dio. Erano santi i templi perché distinti, «ritagliati» dal mondo profano e riservati alla divinità. Varcare la soglia di un santuario era entrare nel mondo di Dio, per questo era necessario sottoporsi a numerosi e complicati riti purificatori.
     Santi erano gli oggetti sacri che non potevano essere adibiti ad altri usi, sante erano le persone che vivevano in modo originale, che assumevano comportamenti fuori del comune. Il più santo era Dio, assolutamente diverso da tutto ciò che esiste. Cosa pretendeva dunque il Signore quando ha ingiunto al suo popolo di essere «santo»? Voleva forse che vivesse separato dagli altri popoli?
     Israele ha inteso in questo modo il comando di Dio e ha pensato che fosse suo dovere evitare ogni contatto con coloro che avrebbero potuto portarlo all'idolatria. Per mantenere questa «santità», ha moltiplicato a dismisura i divieti: proibizione di entrare nelle case degli stranieri, di mangiare con loro o anche soltanto di stringere la mano a un pagano.
     Essendo questa la mentalità comune, si rimane sorpresi quando si constata che, nel libro del Levitico, c'è un testo - ed è quello che ci viene proposto oggi — in cui la «santità» è intesa in modo completamente diverso: niente separazioni materiali dagli altri uomini, niente osservanze di prescrizioni rituali.
     Per essere santi basta condurre una vita diversa, una vita che si concretizza nelle seguenti disposizioni: onorare il padre e la madre, osservare i sabati, non odiare il fratello, ri-nunciare al rancore e alla vendetta e amare «il tuo prossimo come te stesso» (vv. 3.17-18).
     Quest'ultima clausola, assieme alla famosa raccomandazione del libro dei Proverbi: «Se il tuo nemico ha fame, dagli pane da mangiare; se ha sete, dagli acqua da bere» (Prv 25,21), è il punto più alto cui è giunta la morale dell'Antico Testamento. Tuttavia, in essa è ancora presente un limite: l'amore richiesto non è universale; l'interpretazione rabbinica, infatti, lo restringeva ai membri del popolo d'Israele.

Seconda lettura: 1Corinzi 3,16-23

   
      Fratelli, non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi. Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente, perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. Sta scritto infatti: «Egli fa cadere i sapienti per mezzo della loro astuzia». E ancora: «Il Signore sa che i progetti dei sapienti sono vani». Quindi nessuno ponga il suo vanto negli uomini, perché tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio.
     

2  La comunità è come un santuario ritagliato dal mondo profano; chi la mantiene unita e salda è lo Spirito, le divisioni che disgregano e minacciano di far crollare tutta la costruzione introducono un principio opposto e devastante. Chi si rende responsabile di un simile disastro sarà trattato dal Signore con estrema severità: «Dio - assicura Paolo - distrug-gerà lui» (v. 17). È l'immagine tradizionale del giudizio finale che serviva, nel linguaggio rabbinico, non a descrivere ciò che accadrà alla fine, ma a mettere in risalto l'estrema gravita di un'azione.
     Nella seconda parte della lettura (vv. 18-23) viene ripreso il motivo della contrapposizione fra la «sapienza di Dio» e quella «degli uomini». Le discordie derivano dal fatto che i mèmbri della comunità seguono la «sapienza di questo mondo», opposta a quella di Dio.
     Nella sua lettera, Paolo ha già detto che «il vangelo è una pazzia agli occhi degli uomini» (1,18.21.23), oggi afferma che la saggezza degli uomini è una follia per Dio (v. 19).
     L'Apostolo non intende svalutare o disprezzare gli sforzi e le capacità della ragione umana; egli mette in guardia dai deliri di onnipotenza e dalle pretese insensate di chi è convinto che tutto possa essere ridotto al razionale e che si possa fare a meno della luce di Dio.
     Questo pensiero introduce nelle interpretazioni nuove e provocatorie che, nel vangelo di oggi, Gesù darà ad alcuni testi dell'Antico Testamento, interpretazioni che propongono scelte morali la cui validità è garantita da Dio, non dalla «sapienza di questo mondo».





Vangelo: Matteo 5,38-48


     In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle. Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste».


Esegesi

     Abbiamo ascoltato la scorsa domenica l'interpretazione di Gesù circa quattro testi della Toràh d'Israele. Oggi viene presentata quella relativa ad altri due.
     La prima riguarda il modo nuovo di ottenere giustizia. Tutti siamo d'accordo che il male va contenuto e contrastato. Ma come?
     Nelle società arcaiche dove non c'era un potere statale capace di mantenere l'ordine, si ricorreva facilmente alla vendetta, alla rappresaglia senza limiti. Il responsabile di una malefatta, una volta scoperto, veniva sottoposto a castighi esemplari, a punizioni pubbliche, tanto severe e crudeli, da dissuadere chiunque altro dal commettere simili errori. La ritorsione serviva come deterrente, ma era un modo barbaro di fare giustizia.
     Lamec, il discendente di Caino, si tutelava incutendo terrore: «Ho ucciso un uomo per un graffio e un ragazzo per un livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settanta sette volte» (Gn 4,23-24). È per porre un argine a simili eccessi che la Toràh aveva stabilito: «Occhio per occhio, dente per dente» (Es 21,23-25). Questa è forse la legge più travisata della storia del diritto.
     È citata ad esempio quando, ricevuto uno sgarbo, si ripaga con la stessa moneta. «Occhio per occhio e dente per dente» equivale, in questi casi, al rifiuto di avere compassione, di accordare clemenza al colpevole. In realtà la disposizione aveva tutt'altro significato: vietava i cosiddetti castighi esemplari e le rappresaglie. Ognuno doveva pagare per la colpa commessa, non per tutto il male presente nel mondo.
     Intesa correttamente rimane valida anche oggi e, se praticata, garantisce l'equità nelle sentenze. Gesù non la considera decaduta, propone di andare oltre questa giustizia rigorosa e invita ad affrontare il problema in altro modo (vv. 38-42).
     I rabbini del suo tempo insegnavano: «Sii ucciso, ma non uccidere», ma aggiungevano subito: se però qualcuno ti aggredisce e vuole toglierti la vita, tu non riflettere, non dire a te stesso: forse mi renderò colpevole del suo sangue; uccidilo prima che sia lui a ucciderti! Questa interpretazione dei rabbini non suscitava obiezioni. Era conforme alla logica umana e poteva trovare giustificazioni anche nella Toràh.
     Ora ecco la sorpresa, Gesù non l’accetta e dice ai suoi discepoli: «Ma io vi dico di non opporvi al malvagio»; piuttosto che fare violenza al fratello, dovete essere disposti a subire l'ingiustizia (Mt 5,39). Siamo di fronte a parole inequivocabili; comunque, a scanso di equivoci, aggiunge quattro esempi, presi dalla vita quotidiana del suo popolo.
     Il primo riguarda la violenza fisica: «se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra...» (v. 41).
     Quando si riceve uno schiaffo, se l'aggressore non è un mancino, si viene colpiti sulla sinistra. Gesù parla della destra perché la violenza subita è maggiore: si tratta del manrovescio, un'offesa gravissima, punita in Israele con un'ammenda pari a più di un mese di stipendio. Al discepolo, Gesù non raccomanda di essere più buono, più mite nelle pretese di risarcimento, esige un comportamento radicalmente nuovo: «tu pórgigli anche l’altra».
     «Buoni sì, ma non stupidi!», si suol dire. Certo, le parole di Gesù non devono essere prese alla lettera (questo sarebbe davvero sciocco). Anch'egli, quando ha ricevuto lo schiaffo, non ha presentato l'altra guancia, ma ha protestato (Gv 18,23). Ciò che esige dai discepoli è la disposizione interiore ad accettare l'ingiustizia, a sopportare l'umiliazione, piutto-sto che reagire facendo del male al fratello.
     L'unico modo per interrompere il ciclo diabolico offesa-violenza è il perdono. Se alla violenza si reagisce con un'altra violenza, non solo non viene eliminata la prima ingiustizia, ma se ne aggiunge un'altra. Questo circolo può essere spezzato solo con un gesto originale, assolutamente nuovo: il perdono. Tutto il resto è vecchio, è qualcosa di già visto, di ripetuto senza sosta fin dagli inizi dell'umanità.
     Il secondo esempio si riferisce all'ingiustizia economica (v. 40).
     In Israele, uomini e donne indossavano due capi di vestiario: una tunica a maniche lunghe o a mezze maniche, portata sul corpo nudo, e un'ampia cappa (il mantello). Nel mantello ci si avvolgeva quando faceva freddo e lo si toglieva quando si svolgeva un lavoro servile. Ai poveri serviva anche da coperta per la notte, per questo la Toràh stabiliva che non poteva essere pignorato (Es 22,25-26).
     Gesù propone un caso limite di ingiustizia: un discepolo viene portato in tribunale perché lo si vuole privare della tunica. Chiaramente tutti gli altri beni gli sono già stati tolti. Che deve fare? Null'altro che manifestare il suo totale e incondizionato rifiuto di entrare in liti e contese. Per questo cede anche il mantello, l'ultimo indumento che gli rimane, quello che non poteva essere requisito come pegno, ed è disposto a rimanere nudo, come il suo Maestro sulla croce.
     Il terzo esempio è l'abuso del potere (v. 41).
     Capitava spesso che i soldati romani o qualche signorotto locale angariassero dei poveri contadini e li costringessero a fare da guide o a portare carichi. Un esempio lo abbiamo nel racconto della passione: Simone di Cirene è obbligato a portare la croce di Gesù (Mt 27,31).
     Gli zeloti, cioè i rivoluzionari di quel tempo, suggerivano la ribellione e il ricorso alla violenza per opporsi a simili soperchierie. Epitteto esortava alla prudenza: «Se un soldato ti requisisce l'asino, non resistergli e non lamentarti, altrimenti verrai percosso e alla fine glielo dovrai consegnare lo stesso».
     Gesù non fa alcuna considerazione di questo tipo, non si richiama alla prudenza; ai discepoli dice semplicemente: «se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due». Non detta una norma di saggezza, non suggerisce una strategia atta a convenire l'aggressore, non assicura nemmeno che un simile comportamento arrendevole otterrà risultati positivi in tempi brevi. Chiede al discepolo che, senza fare calcoli, mantenga il cuore libero dai risentimenti e si astenga da qualunque reazione che non sia dettata dall'amore.
     Il quarto caso è quello della persona importuna che viene a chiedere un prestito (ma può anche essere un alloggio, un appartamento in affitto, un posto di lavoro, un prezzo di favore...) magari, come spesso accade, senza un minimo di discrezione.
     Gesù dice al discepolo: «Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle» (v. 42). Non fingere di non capire, non cercare scuse, non inventare difficoltà inesistenti, non cercare di scaricare su altri il problema. Se puoi fare qualcosa, fallo e basta.
     Nell'ultimo (il sesto) esempio Gesù si richiama a un duplice comandamento: «Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico» (vv. 43-48). Nell'Antico Testamento il primo lo si trova (Lv 19,18), ma il secondo no. Probabilmente Gesù non si riferisce a un testo specifico della Toràh, ma alla mentalità che si era creata in Israele a partire da alcuni testi biblici.
     Nelle sacre Scritture si parla, a volte, di guerre sante (Dt 7,2; 20,16), compaiono sentimenti di vendetta (Sal 137,7-9), si manifesta il proprio attaccamento al Signore, ma in un linguaggio molto arcaico: «Non odio, forse, i tuoi nemici, Signore? Li detesto con odio implacabile» (Sal 139,12-22).
     Espressione di questo odio è l'invito che i monaci esseni di Qumran rivolgevano ai loro adepti: «Amate tutti i figli della luce, ma odiate tutti i figli delle tenebre, ciascuno secondo la sua colpa, nella vendetta di Dio».
     Ci sono però nella Bibbia - è bene ricordarlo - altri testi in cui si ammonisce di non ricambiare il male (Prv 24,29) e si raccomanda l'amore al nemico: «Quando vedrai l'asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui ad aiutarlo» (Es 23,5). Appellandosi ad essi, alcuni rabbini sostenevano che il comandamento: «Ama il prossimo come te stesso» (Lv 19,18) doveva essere esteso anche al nemico, ma l'opinione comune lo restringeva agli appartenenti al popolo giudaico.
     In questo contesto religioso, il duplice comandamento di Gesù suona paradossale: «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori».
     È l'apice dell'etica cristiana, è la richiesta dell'amore gratuito e incondizionato che non si aspetta alcun contraccambio e che, come quello di Dio, raggiunge anche chi fa del male.
     Alcuni saggi dell'antichità hanno fatto proposte morali elevate: «Comportati in modo da trasformare i tuoi nemici in amici» (Diogene). «Proprio dell'uomo è amare anche coloro che lo percuotono» (Marco Aurelio); ma l'imperativo Ama i tuoi nemici è un'invenzione di Gesù.
     Il secondo comando - pregate - suggerisce il mezzo per riuscire a praticare l'amore per «chi ci perseguita», per chi ci rende la vita impossibile: la preghiera. Essa eleva verso il cie-lo, unisce al Signore, purifica la mente e il cuore dai pensieri e dai sentimenti dettati dalla logica di questo mondo e fa vedere il malvagio con gli occhi di Dio, che non ha nemici.
     Gesù invita a mostrarsi suoi figli, chiede ai discepoli di lasciar trasparire nei loro comportamenti l'indole del Padre celeste «egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti». La distinzione fra malvagi e buoni e la lotta contro gli uomini, portata avanti in nome di Dio, sono bestemmie!
     Due esempi (vv. 46-47) mettono a confronto il comportamento usuale degli uomini con la novità di vita di chi ha assimilato i pensieri, i sentimenti e le opere del Padre che sta nei cieli. La caratteristica dei «figli di Dio» è l'amore offerto a chi non lo merita e il saluto rivolto a chi si comporta da nemico. La formula di saluto era: Shalom, augurio di pace e di ogni bene. Con tutto il cuore, il discepolo desidera, anche per chi lo odia, il bene e, dimentico dei torti, si impegna perché questo avvenga.
     La conclusione addita la meta irraggiungibile: «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (v. 48).
     La perfezione del giudeo consisteva nell'esatta osservanza dei precetti della Toràh. Per il cristiano è l'amore senza limiti come quello del Padre. Perfetto è chi non manca di nulla, chi è integro, chi non ha il cuore diviso fra Dio e gli idoli. La disponibilità a donare tutto, a non conservare nulla per sé, a mettersi totalmente a servizio dell'uomo — compreso il nemico - colloca sulle orme di Cristo e conduce alla perfezione del Padre che si dona tutto e che non esclude nessuno dal suo amore.

Meditazione

     Quando ne sentiamo parlare o, peggio ancora, la sappiamo nuovamente riapplicata, abbiamo un sussulto alle viscere e ci assale un moto di disgusto. Eppure, per quanto possa apparirci difficile da credere, la legge del taglione venne introdotta quale efficace strumento per evitare il debordare della violenza incontrollata e porre un argine alla 'legge del più forte'. A una offesa si potrà (o si dovrà?) contrapporre analoga ferita: non di più! Se abbiamo però il coraggio di non censurare pensieri e sentimenti che irrompono dentro di noi quando qualcuno ci tocca sul vivo, magari mettendo a nudo qualche tratto vergognoso della nostra esistenza, forse la legge 'dell’occhio per occhio' non ci apparirebbe così arcaica e primitiva, scoprendo anzi di essere capaci di ben peggiori violenze: quante volte abbiamo maledetto, imprecato - se non abbiamo addirittura augurato una rapida dipartita da questa terra – a chi (ci) faceva del male 'gratuitamente', senza ragione alcuna? Se situazioni aberranti ridestano fortunatamente in noi la capacità di scandalizzarci e di intervenire, la nostra reazione non è forse sempre commisurata alla colpa commessa (contro di noi)...
     Comunque sia, le parole di Gesù riportate nel brano evangelico di questa settimana aprono la strada a un cammino infinito, stimolando le migliori energie positive che possono sprigionarsi anche da ognuno di noi. L'apparente contraddizione tra Primo e Nuovo Testamento, tra «avete inteso che fu detto» (5,38.43) e «ma io vi dico» (5,39.44), è solo la riproposizione religiosa della legge del taglione sopra citata: quelle norme, introdotte addirittura nel testo biblico, per cercare di evitare un male peggiore e l'insorgere dell'arbitrarietà, sono ora accostate allo splendore massimalista del desiderio del Signore: «Voi dunque siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (5,48). La speranza di un mondo riconciliato e unito nell'amore non è favola per bambini ma vigoroso ed esigente programma esistenziale del discepolo di Gesù.
     È estremamente facile entrare in rotta di collisione con altri ma quanto è difficile ricucire un tessuto relazionale! Concretamente, cosa si può fare nei confronti del malvagio? Un'arte laboriosa si richiede... Un primo passo, già estremamente impegnativo, è non replicare al male con il male (cfr. 5,39-41), bloccare in sé quella spontanea reazione di vendetta che ci illude falsamente di ristabilire una qualche forma di giustizia e legalità. Non chiudere i ponti, arrivare a prestare a chi domanda (cfr. 5,42) suppone la capacità di riuscire a vedere nella persona richiedente - 'il cattivo' - almeno una scintilla di quel bene che altri - e magari lui stesso - non riesce più a scorgere: sperare pertanto in un cambiamento della persona è dare credito, dare fiducia a quel desiderio di umanità e autenticità che abita le profondità di ognuno di noi.
     Gesù arriva addirittura a chiedere il superamento della reciprocità: un amore autentico non calcola ma si offre generosamente, perché «pieno compimento della Legge è l'amore» (Rm 13,9). E ci sferza con decisione, quasi irridendo quei nostri sforzi che ci appaiono impari: «se amate quelli che vi amano, cosa fate di straordinario?» (5,46.47). Va precisato che così dicendo Gesù non banalizza affatto l'amicizia o mette a un livello inferiore l'amore che può esistere tra coniugi: si sta parlando del caso del 'nemico', di cui mai si chiede di diventare amico. Sono situazioni differenti!
     Forse mai come in questa situazione ci appare debole la nostra carne: come si può amare chi ci è stato o ci è ancora nemico? Senza entrare nelle infinite e reali sfumature dei singoli casi personali, su cui peraltro ognuno di noi è chiamato a verificarsi, comprendiamo come solo grazie all'azione dello Spirito santo ci possa essere offerta la possibilità di incamminarci su questo erto ma liberante cammino di crescita. Quella preghiera che sale incessantemente al Padre dal Signore risorto e che ci viene domandata anche verso i nostri persecutori (5,44) è forse l'espressione più completa di quella perfezione d'amore che Gesù ha testimoniato durante tutta la sua esistenza.
            Vigiliamo sui nostri sentimenti e facciamone attenta verifica: stupiti dall'amore di Gesù, che ci ha amati mentre eravamo ancora nemici (cfr. Rm 5,10), saremo in grado di purificare il nostro cuore e camminare nella via dell'amore.

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