giovedì 26 aprile 2012

IV DOMENICA DI PASQUA 29.04.2012



Giornata mondiale delle vocazioni sacerdotali
In fondo troverete una mia piccola riflessione sulla vocazione cristiana
LETTURA
Lettura degli Atti degli Apostoli 20, 7-12

Il primo giorno della settimana ci eravamo riuniti a spezzare il pane, e Paolo, che doveva partire il giorno dopo, conversava con loro e prolungò il discorso fino a mezzanotte. C’era un buon numero di lampade nella stanza al piano superiore, dove eravamo riuniti. Ora, un ragazzo di nome Èutico, seduto alla finestra, mentre Paolo continuava a conversare senza sosta, fu preso da un sonno profondo; sopraffatto dal sonno, cadde giù dal terzo piano e venne raccolto morto. Paolo allora scese, si gettò su di lui, lo abbracciò e disse: «Non vi turbate; è vivo!». Poi risalì, spezzò il pane, mangiò e, dopo aver parlato ancora molto fino all’alba, partì. Intanto avevano ricondotto il ragazzo vivo, e si sentirono molto consolati.                


SALMO
Sal 29 (30)

             ®  Ti esalto, Signore, perché mi hai liberato.
             oppure
             ®  Alleluia, alleluia, alleluia.

Signore, mio Dio,
a te ho gridato e mi hai guarito.
Signore, hai fatto risalire la mia vita dagli inferi,
mi hai fatto rivivere
perché non scendessi nella fossa. ®

Cantate inni al Signore, o suoi fedeli,
della sua santità celebrate il ricordo,
perché la sua collera dura un istante,
la sua bontà per tutta la vita.
Alla sera ospite è il pianto
e al mattino la gioia. ®

«Ascolta, Signore, abbi pietà di me,
Signore, vieni in mio aiuto!».
Hai mutato il mio lamento in danza,
Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre. ®


EPISTOLA
Prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo 4, 12-16

Carissimo, nessuno disprezzi la tua giovane età, ma sii di esempio ai fedeli nel parlare, nel comportamento, nella carità, nella fede, nella purezza. In attesa del mio arrivo, dèdicati alla lettura, all’esortazione e all’insegnamento. Non trascurare il dono che è in te e che ti è stato conferito, mediante una parola profetica, con l’imposizione delle mani da parte dei presbìteri. Abbi cura di queste cose, dèdicati ad esse interamente, perché tutti vedano il tuo progresso. Vigila su te stesso e sul tuo insegnamento e sii perseverante: così facendo, salverai te stesso e quelli che ti ascoltano.                                                  

VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Giovanni 10, 27-30

In quel tempo. Il Signore Gesù disse ai Giudei: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

Commento al vangelo

Il Vangelo di Giovanni ci ripropone, oggi, una parte della discussione che avviene nel tempio tra Gesù e i responsabili religiosi. Il tema fondamentale che viene posto con molta chiarezza è quello della messianicità. "Fino a quando non ci lascerai vivere? Se sei tu il Messia, diccelo apertamente"(Giovanni 10,24).

Siamo d'inverno e ci si ricollega alla festa della Dedicazione che si celebra il mese di dicembre, istituita da Giuda Maccabeo nel 164 a.C. per l'inaugurazione del tempio purificato, dopo la profanazione compiuta da Antioco Epifane IV nel 171 a.C.

La festa si svolge come quella delle Capanne (settembre-ottobre), a volte addirittura confuse tra loro. Detta "Dedicazione", in ebraico Hanukkah, è la "festa delle Luminarie" e per otto giorni si accendono dei candelabri che illuminano tutta la città. Sembra che, per le due ricorrenze, si leggessero le stesse letture bibliche e, in particolare, nel sabato più vicino alla Dedicazione, viene proclamato il testo di Ezechiele 34 con la celebre profezia del Messia, il vero pastore suscitato da Dio. Da qui il richiamo al Messia in questa festa, la grande attesa e quindi la domanda posta a Gesù (Gv 10,24) il quale risponde con il riferimento al gregge e al pastore.

I capi religiosi "circondano Gesù" (e già questa parola indica pericolo e assedio). E se chiedono a Gesù se è lui il Messia, non hanno intenzione di accettarlo o almeno di interrogarlo per capire. Hanno ormai fatto un giudizio e vogliono una prova pubblica per poterlo condannare. Gesù non si presta al gioco, inizialmente, dicendo che non possono comprendere perché non fanno parte delle sue pecore. Ma qualche versetto precedente, nella discussione su Abramo, Gesù aveva detto: "Chi è da Dio ascolta le parole di Dio. Per questo voi non ascoltate poiché non siete da Dio" (Gv 8,47). E' grave la denuncia che Gesù sta facendo: i capi religiosi, le persone incaricate di far conoscere al popolo la volontà di Dio, sono quelli che, quando Dio parla, non ascoltano la sua voce.

Gesù dice, "«Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco». Conoscere significa sviluppare un rapporto di grande confidenza e di grande intimità "«ed esse mi seguono»".

1. Ascoltare la voce di Gesù significa voler capire, prima di tutto, cogliere il significato e le prospettive che Gesù desidera offrire.
 
2. Ascoltare ha anche il significato di accettare di vivere e quindi orientare la propria vita su di Lui, ("seguirlo"), impegnandosi sulle stesse scelte e prospettive a cui Gesù stesso si dedica.


3. Accettare le sue scelte che si aprono su orizzonti impensabili poiché non si pongono nella soggezione del tempo, ma sono nella prospettiva della "vita eterna". E qui, per sé, non si parla della vita futura, ma di una vita già presente, indistruttibile, che pur passando attraverso esperienze di vita e anche di morte, questa vita non si interrompe ma fiorisce in una dimensione sempre nuova, completa e definitiva.

4. Seguirlo è fare le stesse scelte di Gesù ma è anche condividere il suo destino e il suo progetto.
 
5. Rileggere i tempi in cui viviamo per scoprire i ladri ed i briganti prima di Gesù (Gv 10,8) e il lupo che "rapisce e disperde il gregge"(10,12). È questo l'impegno che Gesù si assume fino alla morte perché il gregge resti nella fedeltà con il Padre, non si disorienti e non si scoraggi.
 
6. Gesù è attorniato dai capi del tempio e parla di "altre pecore "che non provengono da questo recinto" (10,16). Così il suo gregge supera il perimetro del Tempio di Gerusalemme e si allarga in una prospettiva universale, dove la parola delle scelte di Gesù diventano fondamentali per un nuovo popolo.
 
7. Certamente tutto questo provocherà disagio, rischi e paura; tuttavia Gesù garantisce la sua presenza, la sua forza, la sua fedeltà. L'immagine, molto bella, "che nessuno le strapperà dalle mie mani" ci dimostra un lottatore che si gioca tutto con fedeltà gratuita e continuamente piena. Nella memoria ebraica c'è la lotta di Sansone (Gdc14,6), la forza di Davide e dei grandi combattenti-eroi d'Israele. Gesù stesso, a sua volta, garantisce la forza di Dio che è Padre: "Nessuno le strapperà dalle mani del Padre".
 
8. Il progetto di questo popolo nuovo, fondato sulla fedeltà a Gesù, è il nuovo progetto e il Padre apre nel cammino del suo popolo. Qui non si parla più di Mosé né della Prima Alleanza, ma di una nuova presenza ed una nuova parola che fondano un patto nuovo che si allarga su un popolo nuovo. Il richiamo al Padre è anche indicazione della pienezza di creazione, l'opera iniziale di Dio che si schiude sempre più sul mondo. Come garanzia non vengono promessi tanto l'efficienza, la ricchezza, o il benessere. A garanzia c'è il volto di Gesù che offre la sua vita. Il campo resta comunque sempre aperto. Non ci sono esclusioni, non ci sono selezioni. La Porta (Gv 10,9) che è Gesù, resta sempre aperta. Egli continua nel tempo a parlare e ad essere ascoltato da chi lo desidera e lo cerca.
 
9. Il cammino nel tempo non fa dimenticare difficoltà e rischi di una dispersione che moltiplica le sofferenze e lacera spesso la speranza. Ma il volto di Gesù è il volto del crocifisso e del risorto.
 
10. Giovanni scrive questi testi per una comunità che incontra grandi difficoltà ad inserirsi nella dimensione quotidiana dell'impero romano, già fatta segno di alcune persecuzioni parziali, spesso guardata con diffidenza e con disagio, spesso rifiutata. Giovanni però sta dicendo, in un momento in cui la comunità cristiana ha visto crollare il Tempio di Gerusalemme, che Gesù è il nuovo santuario del nuovo popolo. Il Padre continua ad operare ed è presente come lo stesso Gesù (Gv5,17). Il popolo, che crede in Gesù, sa di poterci contare.
 
11. Alla fine Gesù si decide per la sua rivelazione piena che suona come bestemmia. Siamo nel tempio di Gerusalemme, nel luogo più santo e Gesù proclama. "«Io e il Padre siamo uno»". E' molto complesso cogliere il significato di questa affermazione che sarà utilizzata, insieme ad altre, nella riflessione teologica sulla Trinità. Ma i suoi interlocutori hanno nelle orecchie il testo di Zaccaria (14,9): "Il Signore sarà re di tutta la terra. In quel giorno il Signore sarà unico e unico il suo nome".
 
12. Il futuro della Chiesa, dice Giovanni, è garantito a chi segue la sua voce. Il Padre si gioca tutto con il Figlio e il Figlio si gioca tutto come pastore.

Sono parole dette alla vigilia della morte e della dispersione, all'inizio della contestazione contro l'azione degli apostoli, alla vigilia delle persecuzioni, nella diffidenza di chi porta un messaggio totalmente nuovo e, tutto sommato, pericoloso.

Sarebbe interessante, però oggi, che la comunità cristiana si facesse carico di riflettere su quali messaggi pericolosi Gesù si è giocato e, nella sua storia, la Chiesa e noi nella storia.

Lungo i secoli non siamo stati continuamente fedeli, coinvolti, dalle tentazioni di prestigio, e di potere, di associazioni potenti. La Chiesa è sempre stata, come ogni persona, tentata di non ascoltare la voce del Signore Gesù e tuttavia, per fortuna, essa ha mantenuto intatto il coraggio di continuare a leggere la Scrittura e il Vangelo, in particolare, ed ha accettato perciò il giudizio che nasce dall'ascoltare la Parola di Gesù. Troviamo tutti le stesse difficoltà e le stesse fragilità e, tuttavia, dovremmo ripensare seriamente a quali sono le scelte, pericolose anche in questa nostra cultura, di Gesù. Quale ricchezza, quale attenzione, quali fragilità accettiamo di guarire, quale rispetto per ogni persona, superando gli orgogli di nazioni o di civiltà, quale criterio di pace, quali responsabilità sul mondo, quale novità?

Il popolo di Dio è più credente quando frequenta il culto o è più vicino a Dio quando accetta, credente o meno, di tradurre la voce di Gesù nella storia?

Non si tratta qui, a scanso di equivoci, di parlare di contrapposizioni come spesso facciamo: "o… o…" ma si tratta di rileggere le priorità e di intravedere le concatenazioni e le precedenze. E aprendo gli occhi, scopriamo che il gregge di Gesù, spesso, o anche solo a volte, a secondo della nostra profondità di sguardo, sa aprirsi dove non ci saremmo mai aspettati.

Ancora avvengono miracoli o, nel linguaggio di Giovanni, "i segni". E, quando ci rendiamo conto, dovremmo ringraziare il Signore e costruire via via insieme, senza smettere di interrogarci sulle scelte pericolose di Gesù.



* * * * 

Ecco la riflessione sulla vocazione cristiana

1. Vocazione

Un amore che ci precede
E Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò” Gen. (1,27).
L’uomo non è frutto del caso,  ma trova la sua origine nel sorprendente progetto d’amore di Dio.
Ciascuno di noi può avere una pallida immagine della bellezza della creazione di Dio, se pone mente alle persone che ama e si domanda se è un bene che esse esistano. La risposta è assolutamente positiva: ognuno di noi sa che è bene che le persone che amiamo esistano e pensiamo come assurda o tremendamente dolorosa l’idea che esse non ci siano. Così comprendiamo come tutti noi nasciamo dal grande cuore di Dio.

La vocazione all’amore sostanza della vita
Se l’amore è la nostra origine, l’amore diventa il nostro presente e il nostro futuro. Detto in altre parole, l’amore è il senso permanente della nostra vita.
Gesù precisa la vocazione di ciascuno di noi con il suo comandamento nuovo: “amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15, 12 ). Con ciò diventa chiaro che l’amore non va inventato secondo il proprio gusto o capriccio, ma lo si apprende guardando alla persona di Cristo. È lui il criterio secondo il quale impostare l’esistenza.
Perciò l’amore è la sostanza di ogni persona e non c’è altra via per la realizzazione della persona. L’idea odierna che ciascuno si debba realizzare indipendentemente dall’amore o addirittura contro l’amore, sta originando un mondo di relazioni labili e consumistiche, dove non siamo prossimi come il Buon Samaritano, ma solo soci che curano il proprio tornaconto e sempre pronti a lavarci le mani di fronte ai bisogni degli altri.

Le vocazioni specifiche
Se l’amore è la vocazione di tutti il progetto di Dio prevede che lo stesso amore si possa vivere in modi diversi. La prima grande distinzione è quella tra cammino della verginità (e anche del celibato) e cammino del matrimonio. Riferendoci al matrimonio notiamo che l’immagine di Dio non è costituita solo dall’uomo o dalla donna, ma da entrambi: l’uomo e la donna.
Non si realizza l’immagine di Dio se non in due. Questo significa che insieme alla vita e alla libertà ogni uomo e ogni donna ricevono in dono la chiamata all’amore. Un amore che comporta il prendersi cura dell’altro e la costruzione di una comunione permanente.

Una differenza che invita alla comunione
Quando Adamo vede Eva per la prima volta, resta stupito ed esclama: “Questo è osso delle mie ossa e carne della mia carne” (Gen. 2, 23). L’espressione  non dice solo il fatto che, secondo il racconto biblico, il Signore ha preso una costola dal suo costato, ma più profondamente che Adamo riconosce in Eva una persona pari a  lui, l’unica creatura che può veramente rallegrare e dare bellezza alla sua vita. La differenza sessuale che Adamo scopre, è essa stessa una vocazione all’incontro, all’unione profonda. Ma ancora di più, essa è vocazione alla generazione, a comunicare la vita, ad essere immagine di Dio anche per questo aspetto: essere apostoli della vita.
Tutta la vita, in ogni sua fase, è perciò vocazione.

venerdì 20 aprile 2012

III DOMENICA DI PASQUA 22.04.2012

«Via» è anzitutto l’esistenza stessa. L’essere strutturata come cammino è una delle sue caratteristiche di fondo: su cui si basa la possibilità che in essa si realizzi un corrispondente movimento, che venga intrapresa e perseguita l’una o l’altra direzione, che l’esistenza medesima giunga ad attuarsi. Gesù, però, non parla di tale realtà — già di per sé fonte di me-raviglia e d’inquietudine: la via che Egli intende, piuttosto, fa tutt’uno con una particolare mèta, un particolare punto di partenza e un particolare movimento. La mèta è il Padre — lo stesso che, nella discussione intorno alla verità, era apparso come il punto d’avvio del pro-cesso del suo dischiudersi. Al Padre non conduce nessuna delle strade immediatamente accessibili, rappresentate dalle cose e dalla loro configurazione essenziale; né da lui si diparte una via o un canale di rivelazione che si possano considerare universalmente percorribili, dal momento che Egli trascende il mondo intero e tutte le sue potenzialità, ed è per essenza l’Ignoto e il Nascosto — mentre il mondo è sottoposto al peccato e alla confusione che ne deriva. Così Egli ha dovuto essere rivelato, ha dovuto farsi visibile, e ciò è accaduto nel Figlio. Allo stesso modo qui. Niente di creato è in grado di raggiungere il Padre con il solo movimento della propria esistenza: c’è bisogno di una guida, e soltanto il Figlio è all’altezza di tale compito. Compito che non consiste nell’aver Egli, finalmente, additato una prospettiva e un orientamento di per sé già inscritti nella stoffa dell’essere, e che prima di allora sarebbero semplicemente rimasti nell’ombra: la questione rimane per principio senza soluzione, se la si affronta a partire dal mondo e dalla realtà creata. Quell’itinerario dev’essere tracciato per la prima volta, «creato» — allo stesso modo in cui il diventare manifesto del Padre ha dovuto essere concesso e attuato. Ora, questa strada è lo stesso Gesù Cristo. Come l’essere dell’Uomo-Dio è la verità medesima, e costituisce il rendersi manifesto del Padre nel mondo — così Gesù, la sua personalità, la sua disposizione d’animo, il suo parlare e agire, e anche il suo destino sono e rappresentano esattamente la via. Come chi «vede lui, vede il Padre», così chi entra in relazione con Cristo è introdotto nella comunione di pen-sieri e di sentimenti e nella forma d’esistenza che uniscono Gesù al Padre. Egli riceve occhi per vedere il Padre, e il Padre si gli fa manifesto. Si istituisce quel rapporto personale nel quale il Creatore e Signore del mondo diviene per questo uomo «il Padre»; e a questi «è dato il potere di diventare figlio di Dio» (Gv 1,12). Ne nasce una vicinanza, uno stare-presso-di-lui, una comunione nella quale il credente partecipa della vita stessa di Dio; si veda il punto, nel discorso di commiato, dove Gesù afferma: «[...] lo Spirito di verità [...] prenderà del mio e ve l’annunzierà. Tutto quello che il Padre possiede, [infatti,] è [anche] mio [...]» (Gv 16,13-15).

LETTURA

Lettura degli Atti degli Apostoli 16, 22-34

In quei giorni. La folla insorse contro Paolo e Sila e i magistrati, fatti strappare loro i vestiti, ordinarono di bastonarli e, dopo averli caricati di colpi, li gettarono in carcere e ordinarono al carceriere di fare buona guardia. Egli, ricevuto quest’ordine, li gettò nella parte più interna del carcere e assicurò i loro piedi ai ceppi.

Verso mezzanotte Paolo e Sila, in preghiera, cantavano inni a Dio, mentre i prigionieri stavano ad ascoltarli. D’improvviso venne un terremoto così forte che furono scosse le fondamenta della prigione; subito si aprirono tutte le porte e caddero le catene di tutti. Il carceriere si svegliò e, vedendo aperte le porte del carcere, tirò fuori la spada e stava per uccidersi, pensando che i prigionieri fossero fuggiti. Ma Paolo gridò forte: «Non farti del male, siamo tutti qui». Quello allora chiese un lume, si precipitò dentro e tremando cadde ai piedi di Paolo e Sila; poi li condusse fuori e disse: «Signori, che cosa devo fare per essere salvato?». Risposero: «Credi nel Signore Gesù e sarai salvato tu e la tua famiglia». E proclamarono la parola del Signore a lui e a tutti quelli della sua casa. Egli li prese con sé, a quell’ora della notte, ne lavò le piaghe e subito fu battezzato lui con tutti i suoi; poi li fece salire in casa, apparecchiò la tavola e fu pieno di gioia insieme a tutti i suoi per avere creduto in Dio.

SALMO

Sal 97 (98)

® Il Signore ha rivelato ai popoli la sua giustizia.

oppure

® Alleluia, alleluia, alleluia.

Cantate al Signore un canto nuovo,

perché ha compiuto meraviglie.

Gli ha dato vittoria la sua destra

e il suo braccio santo. ®

Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza,

agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.

Egli si è ricordato del suo amore,

della sua fedeltà alla casa d’Israele. ®

Tutti i confini della terra hanno veduto

la vittoria del nostro Dio.

Acclami il Signore tutta la terra,

gridate, esultate, cantate inni! ®

EPISTOLA

Lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi 1, 24-29

Fratelli, io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa. Di essa sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio verso di voi di portare a compimento la parola di Dio, il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi. A loro Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo alle genti: Cristo in voi, speranza della gloria. È lui infatti che noi annunciamo, ammonendo ogni uomo e istruendo ciascuno con ogni sapienza, per rendere ogni uomo perfetto in Cristo. Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza.

VANGELO

Lettura del Vangelo secondo Giovanni 14, 1-11a

In quel tempo. Il Signore Gesù disse ai discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via».

Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto».

Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me».

VANGELO: Gv 14,1-11a

La sezione di Gv 13-17 è una “contemplazione teologica” della Pasqua di Gesù alla luce della Pasqua ebraica. Di notte, Israele celebra la Pasqua come memoria del pas-saggio di liberazione dalla casa degli schiavi alla terra della ʿăbōdâ ad JHWH, in un cammino nel deserto guidato dallo Spirito. Di notte, Gesù vive la sua Pasqua come passaggio di liberazione dalla tenebra della morte all’irradiazione della gloria del Padre, in un cammino condotto dallo Spirito. Il discepolo dovrà custodire la memoria della Pasqua del maestro e vivere la sua esistenza sorretto dallo stesso Spirito che ha guidato Gesù ad amare εἰς τέλος «sino all’estremo» (Gv 13,1).

La pericope incomincia con la rassicurazione ai discepoli di essere ammessi nella dimora del Padre. Prosegue poi con l’indicazione del cammino che i discepoli devono seguire se vogliono raggiungere il Padre: il cammino è Gesù stesso, la memoria dei suoi gesti e delle sue parole. La mèta del cammino è ben nota, perché la vita di Gesù è stata una continua manifestazione del Padre e le sue opere danno testimonianza del suo legame con il Padre. Di certo, non mancherà il suo aiuto in questo cammino.

Ecco dunque in sintesi lo sviluppo di questa prima parte del discorso di Gesù:

a. Il punto di partenza è di essere stati ammessi nella dimora del Padre (vv. 1-3)

b. Il cammino verso il Padre è Gesù stesso (vv. 4-6)

c. La mèta è il Padre con il quale Gesù è una cosa sola (vv. 7-11)

PER LA NOSTRA VITA

1. Gv 14,1-6 ricorda: «Io sono la via del ritorno al Padre».

In essa ognuno ritrova la verità e la vita.

Ognuno ritrova se stesso.

Riceviamo questa via, accogliamo questo dono di relazione che si prende cura di noi,

che viene a prenderci.

Lui, la “Via” ci definisce come pellegrini verso una direzione sensata dell’esistenza,

e ci indica una meta esistenziale che non corre verso il nulla.

Lui, la “Via” è la consolazione nel pellegrinaggio:

«Non si turbi il vostro cuore, vado a prepararvi un posto,

poi vengo di nuovo e vi prenderò con me,

affinché dove sono io siate anche voi» (Gv 14,1-6).

Vado ma ritorno a prendervi …

Non vi è abbandono nella radicale condivisione della nostra umanità.

Percepiamo la tensione di custodirci, di farci ritornare, di colmare le distanze.

Lui, la “Via” si dona come Verità –

Rivelazione dell’uomo vero, che ci donerà la vita del Padre. F. CECCHETTO, Testo inedito.

2. Il divino non si trova nell’aldilà, non è più una figura sconosciuta; è la pretesa di farla finita con il Dio sconosciuto, con l’aspetto sconosciuto di Dio, poiché tutto, la storia, il centro di questo tutto, è esattamente rivelazione. Ma accettare davvero il divi-no significa accettare il mistero ultimo, inaccessibile di Dio, il Deus absconditus che sus-siste nel seno del Dio rivelato. L’uomo si rifiuta di patire Dio e il divino che reca den-tro di sé.

L’amore trascende sempre, è l’agente di ogni trascendenza nell’uomo. E per questo apre il futuro; non l’avvenire, che è il domani che si presume certo, ripetizione con va-riazioni dell’oggi e replica del passato: il futuro, l’eternità, quell’apertura senza limiti a un altro spazio e a un altro tempo, a un’altra vita che ci appare davvero come la vita. Il futuro che attrae anche la storia.

Ma l’amore ci proietta verso il futuro obbligandoci a trascendere tutto quello che promette. La sua promessa indecifrabile squalifica ogni raggiungimento, ogni realizza-zione. L’amore è l’agente più poderoso della distruzione, perché scoprendo l’inade-guatezza e a volte l’inutilità del suo oggetto, lascia aperto un vuoto, un nulla che atter-risce nel momento in cui viene percepito. È l’abisso in cui sprofonda non solo l’amato, ma la vita, la realtà stessa di colui che ama. È l’amore che scopre la realtà e l’inutilità delle cose, che scopre il non-essere e anche il nulla. […]

È il futuro inimmaginabile, l’irraggiungibile futuro di quella promessa di vita vera che l’amore insinua in chi lo sente. Il futuro che ispira, che consola del presente facen-do perdere la fiducia in esso; che raccoglierà tutti i sogni e le speranze, da cui scaturi-sce la creazione, il non previsto. È libertà senza alcuna arbitrarietà. Ciò che attrae il di-venire della storia, che corre alla sua ricerca. Quello che non conosciamo e ci invita a conoscere. Quel fuoco senza fine che soffia nel segreto di ogni vita. Ciò che unifica con il volo che trascende vita e morte, semplici momenti di un amore che rinasce sempre da se stesso. Quanto dell’abisso del divino è più nascosto; l’inaccessibile che discende in ogni istante. M. ZAMBRANO, L’uomo e il divino (Classici e Contemporanei), Edizioni Lavoro, Roma 2002, pp. 236. 249-252.

3. Nel nostro tempo si è in cerca delle cose divine, si procede a tentoni e ci si in-terroga impauriti su di esse. Sul nostro tempo è scesa quella grande solitudine che è presente soltanto dove domina l’abbandono di Dio. In mezzo alle grandi città, nell’e-norme furibondo andirivieni di infinite masse di uomini ha fatto irruzione la grande tribolazione della solitudine e della mancanza di radici. Cresce però la nostalgia del ri-torno di un tempo in cui Dio abita tra gli uomini, dove Dio si lascia trovare. Una sete di contatto con le cose divine è scesa sugli uomini, una sete bruciante che vuole essere acquietata. […]

Non avete affatto bisogno così tanto di cercare, di domandare, di evocare spiriti mi-steriosi, io sono qui; il che significa che Gesù non promette soltanto la sua venuta, non prescrive soltanto la via sulla quale lo si può raggiungere, ma dice assai semplicemente: io sono qui; che lo vediamo o meno, che lo sentiamo o meno, che lo vogliamo o meno,

questo è del tutto indifferente di fronte al fatto che Gesù è qui da noi, che egli è dap-pertutto dove noi siamo e che a questo riguardo non possiamo farci niente. D. BONHOEFFER, Voglio vivere questi giorni con voi, a cura di M. WEBER, Traduzione dal tedesco di A. AGUTI - G. FERRARI (Books), Editrice Queriniana, Brescia 2007, p. 155.

4. Colui che si è rivelato a noi tiene ferma la sua opera. Tiene il mondo nell’essere. Ogni momento esso consiste e sussiste in virtù della sua fedeltà. Questa era […] quella “prova” della fedeltà di Dio verso il mondo che sta nella finitezza delle cose create, la quale non sarà mai eliminata.

La fedeltà viene nel mondo da Dio. Noi possiamo essere fedeli perché egli lo e per-ché Egli ci ha destinati, noi sue immagini, ad essa. R. GUARDINI, Virtù: temi e prospettive della vita morale (Opere di Romano Guardini 11), Editrice Morcelliana, Brescia 1972, pp. 86-87.

5. L’intimità di Dio, cioè la sua comunione perfetta, diviene una comunione offer-ta. Dio non è geloso della sua intimità. L’intimità, che in lui è la comunione tra il Pa-dre e il Figlio, diventa una comunione offerta, un’intimità condivisa con gli uomini: «Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità, e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me» (Gv 17,23). Sono parole che esprimono bene il mistero della comunione perfetta del Padre con il Figlio; una comunione offer-ta, una comunione che si offre senza dissolversi. […]

Vorrei sottolineare soprattutto questo comunicarsi della intimità di Dio a noi, che a me fa una grande impressione. Dio si avvicina a noi fino all’Incarnazione. Opera in questa maniera, rendendosi vulnerabile, senza difesa, fino ad apparire apparentemente sconfitto, anche se in realtà giudica e vince il mondo che lo sconfigge. Il suo è un amo-re senza difesa, un’offerta senza difesa: abbatte il “muro divisorio” nella sua stessa car-ne che non è un velo, ma un dono di Dio a noi. Guardando al Crocifisso potremmo benissimo interpretarlo in termini di vulnerabilità della carità di Dio. La missione del Figlio di Dio è l’intimità di Dio che viene offerta. G. MOIOLI, “È giunta l’ora” (Gv 17,1), a cura di D. CASTENETTO (Contemplatio 10), Glossa, Milano 1994, pp. 38-39.

6. Il Padre di Gesù non si fa direttamente visibile, non ci dà garanzie attraverso l’esibizione del suo volto. La comunità di quanti desiderano seguire la via di Gesù deve accettare questa specie di vuoto e di distanza. Da tale condizione di povertà nella rela-zione con l’Altro scaturisce però non un’insufficienza, bensì un’apertura in cui la co-munità dei credenti può respirare e agire in spirito di servizio verso tutti. È tipico della debolezza del credere il dato per cui siamo nell’assenza. Vivere con fede significa saper sostenere questa assenza sentendo in essa la Presenza più importante. Se infatti si dà una presenza, ciò non accade come fine della condizione di assenza, bensì come espe-rienza di dialogo e di corrispondenza nell’invisibilità. Credente è chi impara a sostene-re questa paradossale solitudine nel cuore della relazione. […]

La promessa di restare uniti è il dono di chi parte, o fatto a chi parte, proprio per smentire la paura dell’abbandono.

Il tratto distintivo della fede biblica, da questo punto di vista, sta nella differenza per cui, mentre chi affida alla propria riflessione la costruzione del senso delle cose compie

la sua ricerca elaborando una teoria, chi nella ricerca del senso a un certo momento inizia a credere lo fa realmente se e quando incontra una promessa. Nell’orizzonte dei vangeli ciò a cui il credente si riferisce non è una qualsiasi entità invisibile e sacra, è il soggetto di una promessa, anzi in Gesù è la promessa vivente, incarnata in un uomo. […] Promessa di salvezza, di felicità intera e irreversibile, di comunione universale. Saper vivere seguendo come filo conduttore del proprio cammino il senso della pro-messa di Dio è credere in forma eminente. È credere assumente la relazione con la sua Presenza come chiave per scoprire e amare la presenza viva e preziosa degli altri, imparando a mantenere questo amore anche nella distanza, nella persecuzione, nel lutto. R. MANCINI, Il senso della fede: una lettura del cristianesimo (Giornale di Teologia 346), Editrice Queriniana, Brescia 2010, pp. 45 e 48.

7. C’è chi grida. Se nell’Essere c’è un Maestro al quale stiano veramente a cuore i nostri destini spirituali, intenderà il nostro grido, si muoverà, verrà. […] Tanti uomini dicono: “se avessi la fede, non soffrirei tanto”. E ostentando la realtà della loro soffe-renza chiedono e chiamano chi può intendere, invocano chi ignorano mentre diventa-no un peso a se stessi. Ma io non credo che il Maestro venga per pietà del nulla, del vuoto che si ostenta come tale. Bisogna piuttosto che lo spirito dell’uomo umilmente accetti di cercare nel mondo le voci che possono giungere dal Maestro. Pretendere di-versamente sarebbe come pretendere da Dio i miracoli in sostituzione delle vie ordina-rie nella risoluzione delle difficoltà: sarebbe come pretendere che Dio ci consenta di far tornare i morti, o di battere tutte le malattie, mentre tutti continuiamo a lasciare che si muoia per la mancanza della più elementare solidarietà. Gli uomini hanno bisogno del Maestro perché possano scegliere ciò in cui possono costruire il volto del loro spirito; ma per questo devono dimostrare di voler veramente il Maestro piuttosto che il giudice che sanziona l’accaduto e lo consegna alla irreversibilità. È presto per giudicare; è tempo di cercare ancora. M. MALAGUTI, Liberi per la verità, Cappelli, Bologna 1980, p. 161.