giovedì 28 aprile 2011

Domenica, 1 Maggio 2011


Domenica II di Pasqua - in albis depositis

LETTURA
Lettura degli Atti degli Apostoli 4, 8-24a

In quei giorni. Pietro, colmato di Spirito Santo, disse loro: «Capi del popolo e anziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo, e cioè per mezzo di chi egli sia stato salvato, sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi risanato. Questo Gesù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati». Vedendo la franchezza di Pietro e di Giovanni e rendendosi conto che erano persone semplici e senza istruzione, rimanevano stupiti e li riconoscevano come quelli che erano stati con Gesù. Vedendo poi in piedi, vicino a loro, l’uomo che era stato guarito, non sapevano che cosa replicare. Li fecero uscire dal sinedrio e si misero a consultarsi fra loro dicendo: «Che cosa dobbiamo fare a questi uomini? Un segno evidente è avvenuto per opera loro; esso è diventato talmente noto a tutti gli abitanti di Gerusalemme che non possiamo negarlo. Ma perché non si divulghi maggiormente tra il popolo, proibiamo loro con minacce di parlare ancora ad alcuno in quel nome». Li richiamarono e ordinarono loro di non parlare in alcun modo né di insegnare nel nome di Gesù. Ma Pietro e Giovanni replicarono: «Se sia giusto dinanzi a Dio obbedire a voi invece che a Dio, giudicatelo voi. Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato». Quelli allora, dopo averli ulteriormente minacciati, non trovando in che modo poterli punire, li lasciarono andare a causa del popolo, perché tutti glorificavano Dio per l’accaduto. L’uomo infatti nel quale era avvenuto questo miracolo della guarigione aveva più di quarant’anni. Rimessi in libertà, Pietro e Giovanni andarono dai loro fratelli e riferirono quanto avevano detto loro i capi dei sacerdoti e gli anziani. Quando udirono questo, tutti insieme innalzarono la loro voce a Dio.

SALMO
Sal 117 (118)

® La pietra scartata dai costruttori ora è pietra angolare. oppure ® Alleluia, alleluia, alleluia.

Rendete grazie al Signore perché è buono,
perché il suo amore è per sempre.
Dica Israele: «Il suo amore è per sempre».
Dica la casa di Aronne: «Il suo amore è per sempre». ®

La pietra scartata dai costruttori
èdivenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore:
una meraviglia ai nostri occhi. ®

Sei tu il mio Dio e ti rendo grazie,
sei il mio Dio e ti esalto.
Rendete grazie al Signore, perché è buono,
perché il suo amore è per sempre. ®

EPISTOLA
Lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi 2, 8-15

Fratelli, fate attenzione che nessuno faccia di voi sua preda con la filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo. È in lui che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi partecipate della pienezza di lui, che è il capo di ogni Principato e di ogni Potenza. In lui voi siete stati anche circoncisi non mediante una circoncisione fatta da mano d’uomo con la spogliazione del corpo di carne, ma con la circoncisione di Cristo: con lui sepolti nel battesimo, con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti. Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce. Avendo privato della loro forza i Principati e le Potenze, ne ha fatto pubblico spettacolo, trionfando su di loro in Cristo.

VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Giovanni 20, 19-31

In quel tempo. La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

Commento

Giovanni racconta nel cap. 20 vari episodi che si concatenano tra loro:

A. i discepoli alla tomba (vv 1-10), B: Gesù e Maria Maddalena (11-18), C: Gesù e i discepoli

(19-23), B': Gesù e Tommaso (24-29), A': i futuri credenti (30-31).

Centrale è l'apparizione ai discepoli (19-23) in cui Gesù si fa riconoscere come il crocifisso

risorto da tutta la comunità dei discepoli, richiamando così l'identità tra il crocifisso e il risorto.

Il testo che leggiamo oggi ci riporta alla seconda parte del capitolo (20,19-31) dove vengono

raccontate due apparizioni nel cenacolo a distanza di 8 giorni l'una dall'altra, nella realtà di morte

che si è costituita per paura, in una stanza senza aperture e senza passaggi. Questa comunità sta

vivendo, essa stessa, l’esperienza della paura e della tomba. Gesù porta finalmente la vita e la

gioia.

· vv. 19-23: la prima apparizione al gruppo degli apostoli esprime il progetto della

missione nel mondo. Come Gesù, essi saranno portatori di pace (qui la pace non è data come

augurio ma come dono) e portatori di perdono perché ricchi dello Spirito di Gesù, che è capace

di perdono e di rigenerazione. Nella gioia e nella fede viene espressa la missione in rapporto al

Padre e viene riproposta la nuova creazione con il soffio di Dio: creazione e perdono rigenerano

il mondo: il tempo nuovo che si profila attraverso il dono dello Spirito.

· vv. 24-29: nonostante la protesta e la perplessità di Tommaso la comunità inizia a

testimoniare la risurrezione. Tommaso non si fida e sceglie come misura della propria

consapevolezza un nesso concreto tra 'vedere e credere". Già altri hanno preteso tale

connessione: Nicodemo, la Samaritana, lo stesso Giovanni (20,8), gli apostoli. Tommaso, in

particolare, è disposto a credere ma non attraverso la mediazione di testimoni qualificati. Gesù

aveva richiamato questo tipo di persone: "Se non vedete segni e prodigi, voi proprio non credete"

(Gv 4,48). Tommaso non è cieco ma neppure ha una fede umile. Egli ha una fede superba e

pretenziosa rispetto a Gesù. Eppure Gesù lo accontenta ma con Tommaso richiama la condizione

normale della chiesa: "Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto" (29).

Qui va precisato che la fede è la condizione ordinaria dell'uomo; solo chi è sciocco pretende di vivere di sole evidenze.

In realtà non possediamo mai evidenze assolute, ma sempre parziali e per vivere dobbiamo fidarci gli uni degli altri e

affidarci.

Anche per chi ha visto Gesù risorto, come Pietro, è rimasta la necessità di credere in Lui, di credere

che dedicargli la propria vita

sarebbe stato il modo migliore di vivere, che affrontare la Croce a testa in giù sarebbe stato meglio che fuggire e

rinnegare il Signore.

In questo testo,

tuttavia, l’esclamazione di Tommaso: "Signore mio e Dio mio" è la professione di fede più alta

di tutto il Vangelo e corrisponde alla solenne proclamazione del primo versetto del Vangelo: il

prologo (Gv1,1). Viene applicata a Gesù la parola di fede che nell'Antico Testamento viene

rivolta a Dio: vedi Salmo 35,23 :”Déstati, svégliati per il mio giudizio, per la mia causa,

mio Dio e Signore!”

· vv. 30-31: prima conclusione del Vangelo. Gesù ha operato molti "segni": sono i

miracoli che fanno da indicatori per orientare alla sua persona Nel suo Vangelo Giovanni ne

riportata solo 7: ma il 7 indica la completezza. E viene indicato lo scopo del Vangelo: la

partecipazione alla vita divina a cui si accede mediante la fede in Cristo.

Il Vangelo ha una finale che esprime il motivo della scrittura del Vangelo: esso è per la salvezza

che viene donata solo attraverso Cristo ("nel suo nome").

Il vangelo del rito romano è uguale

Leggi anche questo commento

Giovanni 20,19-31

Siamo alla sera della domenica, il primo giorno della settimana. I

discepoli hanno paura dei Giudei che hanno messo a morte Gesù e

temono anche loro di subire la stessa sorte. Inoltre pensano al

tradimento di Giuda, uno che li lasciati, al rinnegamento di Pietro,

presente, e al fatto che in ogni caso tutti si sono defilati di fronte al

processo e alla morte di Gesù.

I discepoli sono in questa condizione esistenziale. Non credono alle

parole di Gesù che aveva annunciato la sua morte, ma anche la sua

resurrezione. Anche il posto, chiuso, dice della loro chiusura

mentale.

Gesù si fa presente in mezzo a loro e dice: Pace a voi. Non li

rimprovera, non li giudica, non li conforta, ma dice Pace a voi. La

pace è abbondanza di vita. Gesù offre abbondanza di vita a chi di

vita se ne aspetta poca. E questa abbondanza di vita si concretizza nel

mandato di annunciare l’evangelo di Dio: Come il Padre ha mandato

me, anche io mando voi. Lo Spirito che ha accompagnato tutta la vita

di Gesù, dalla nascita al battesimo al Giordano, fino alla morte in

croce, ora Gesù lo soffia sui discepoli, dando loro il potere di

rimettere i peccati, potere che è proprio di Dio. Da questo momento

in poi, questi uomini paurosi e peccatori, potranno annunciare la pace

di Dio agli uomini, perdonando il peccato e facendoli rinascere così a

una vita nuova.

Tommaso era assente quando Gesù si rende presente in mezzo ai

suoi. Giovanni non ci dice il motivo di questa assenza, che diventa

per Tommaso fonte di invidia che sfocia nell’incredulità verso le

parole degli altri discepoli. Il toccare il corpo di Gesù diventa

segno necessario per la fede. Gesù non si sottrae a questa richiesta,

invitando Tommaso a fare quello che ritiene più opportuno per la sua

fede, ma contemporaneamente lo invita a lasciar cadere la sua

incredulità, che nasce più dall’essersi sentito escluso che da una vera

e propria mancanza di fede, e a credere con fiducia nella parola dei

suoi compagni. Tommaso, abbandonando la sua posizione un po’

infantile, professa la sua fede: Mio Signore e mio Dio, in una forma

molto alta, riconoscendo in Gesù il Dio che si è manifestato agli

uomini.

A Tommaso è bastato dunque vedere Gesù per credere in lui. A noi

invece Gesù annuncia la beatitudine di coloro che crederanno sulla

parola dei discepoli che annunciano al mondo la pace di Dio.

I due ultimi versetti sono una prima chiusura del vangelo di

Giovanni, che ci invita a ritenere sufficiente per la nostra fede in

Gesù quale Cristo e Figlio di Dio le parole evangeliche lette fin qui.

Ritenerle sufficienti significa non andare in cerca di altre parole o

esperienze che possano aiutarci a credere di più o meglio di quanto

l’evangelo ci aiuti a fare. C’è una economia evangelica, che è

necessaria e sufficiente, per credere in Gesù e accedere alla vita in

Cristo. Altro non serve se non avere fiducia che chi scrive è degno di

fede, perché ha conosciuto per primo l’amore di Gesù, trovando in

lui la vita vera.

La vita vince la morte e chi crede in Gesù avrà la vita eterna «Dio

infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché

chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv

3,16).

mercoledì 20 aprile 2011

I miei auguri di Pasqua 2011

I miei auguri di Pasqua 2011

"Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma

di una cosa sola c'è bisogno.

Maria ha scelto la parte migliore,

che non le sarà tolta" (Lc 10,42).

La Settimana Santa ci mostra Gesù

mentre realizza l’unica cosa di cui c’è bisogno:

il dono di se stessi

secondo la volontà del Padre.

Auguriamoci a vicenda che tra le mille cose utili da fare

e tra le diecimila cose inutili che ci stressano,

troviamo la Luce e la Grazia per esprimere ciò che veramente conta.

È l’inizio della Risurrezione.

Buona Pasqua

Don Michele

mercoledì 13 aprile 2011

Domenica 17 Aprile 2011 DOMENICA DELLE PALME



Settimana Autentica
DOMENICA DELLE PALME NELLA PASSIONE DEL SIGNORE

Messa nel giorno

LETTURA
Lettura del profeta Isaia 52, 13 - 53, 12

Così dice il Signore Dio: / «Ecco, il mio servo avrà successo, / sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente. / Come molti si stupirono di lui / – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto / e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo –, / così si meraviglieranno di lui molte nazioni; / i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, / poiché vedranno un fatto mai a essi raccontato / e comprenderanno ciò che mai avevano udito. / Chi avrebbe creduto al nostro annuncio? / A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore? / È cresciuto come un virgulto davanti a lui / e come una radice in terra arida. / Non ha apparenza né bellezza / per attirare i nostri sguardi, / non splendore per poterci piacere. / Disprezzato e reietto dagli uomini, / uomo dei dolori che ben conosce il patire, / come uno davanti al quale ci si copre la faccia; / era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. / Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, / si è addossato i nostri dolori; / e noi lo giudicavamo castigato, / percosso da Dio e umiliato. / Egli è stato trafitto per le nostre colpe, / schiacciato per le nostre iniquità. / Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; / per le sue piaghe noi siamo stati guariti. / Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, / ognuno di noi seguiva la sua strada; / il Signore fece ricadere su di lui / l’iniquità di noi tutti. / Maltrattato, si lasciò umiliare / e non aprì la sua bocca; / era come agnello condotto al macello, / come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, / e non aprì la sua bocca. / Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; / chi si affligge per la sua posterità? / Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, / per la colpa del mio popolo fu percosso a morte. / Gli si diede sepoltura con gli empi, / con il ricco fu il suo tumulo, / sebbene non avesse commesso violenza / né vi fosse inganno nella sua bocca. / Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. / Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, / vedrà una discendenza, vivrà a lungo, / si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. / Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce / e si sazierà della sua conoscenza; / il giusto mio servo giustificherà molti, / egli si addosserà le loro iniquità. / Perciò io gli darò in premio le moltitudini, / dei potenti egli farà bottino, / perché ha spogliato se stesso fino alla morte / ed è stato annoverato fra gli empi, / mentre egli portava il peccato di molti / e intercedeva per i colpevoli».

Commento a un testo speciale della Scrittura

Nella seconda parte del libro di Isaia (capp 40-55), ricorre una figura misteriosa, detta del

"servo di Javhè”, almeno quattro volte. Qui l'autore raggiunge uno dei vertici più alti della

poesia e della rivelazione.

Il Signore garantisce un risultato eccezionale per il proprio servo che può contare sull'aiuto

e sulla potenza di Dio. Ma il quadro è terribile, desolante. Il servo è sfigurato e talmente

inguardabile che sarà riscoperto dai popoli con orrore e raccapriccio e si meraviglieranno

di questa impotenza e desolazione. Egli è l'uomo dei dolori, nato e cresciuto nel rifiuto e

nel disprezzo. Eppure egli si è addossato il nostro male e il nostro dolore.

Avevamo sbagliato tutto nel valutarlo, tanto da pensare che lo stesso nostro disprezzo

fosse, prima di tutto, condiviso da Dio, essendo, questo servo, "castigato, percosso da Dio

e umiliato".

Il servo sofferente, invece, mite e disprezzato, perseguitato e messo a morte, offre le

proprie sofferenze per espiare i peccati degli uomini e diventa capo di tutti i giustificati

davanti a Dio.

Dio stesso, all’inizio, prende la parola: “Ecco, il mio servo avrà successo”: (52,13); poi il

profeta o un gruppo anonimo continuano la narrazione della tragedia e della sofferenza e

infine Dio riprende la parola per garantire la gloria al suo Cristo (53,11b- 12).

Così la rivelazione ci apre gli occhi: "Il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti"

(v6).

Il Signore prende sul serio l'amore e la pietà dei suoi fedeli.

La figura del servo che rappresenta il popolo in esilio ricapitola in sé tutte le caratteristiche

degli eroi e dei profeti del Vecchio Testamento: Mosè, Geremia, Giobbe. Però le sorpassa

tutte e diventa una figura che si proietta sul futuro con impressionante somiglianza con

Gesù, colui che espia i peccati degli uomini. Gesù stesso, e lo si rileva dagli scritti del

Nuovo Testamento, interpreta la sua opera e la sua morte alla luce di questo testo.

- Nei vv. 1-9 viene dettagliata la descrizione della umiliazione e delle profonde sofferenze

del Servo che, innocente, prende sopra di sé i peccati degli altri e li espia. Questa

“espiazione vicaria” fa intravedere il mistero e l’oscurità degli avvenimenti che toccano il

servo di Dio a cui è legata la potenza di Dio che salva Israele (il braccio).

Manca la bellezza, che pure era considerata benedizione di Dio. Questo misterioso servo

nasce come “radice in terra arida, come virgulto”, facendo riferimento alla dinastia di

Davide ormai detronizzata (Is, 11,1.10). Egli rivive l’esperienza di Geremia (15,17) e di

Giobbe (19,13-19), ripudiati e scherniti dai parenti e coetanei.

Egli è un innocente che espia i peccati, le pene e le sofferenze a cui dovrebbero essere

sottoposti i peccatori. Con questa sostituzione noi otteniamo la pace. Per le sue cicatrici

guariamo.

- vv. 10-12: Alla morte segue la riabilitazione e la vita sia del servo che della comunità dei

giusti. Qui Dio interviene ancora direttamente.

Una riflessione che ci lascia perplessi nasce dalla meditazione di questa terribile esperienza

di Gesù: tutta la sofferenza dei poveri, tutta l'angoscia dei giusti, tutta la pressione sui non

violenti, nelle mani di Dio, ottengono il miracolo della pace, del cambiamento, della

novità. Nessuna sofferenza va persa, ma ognuna diventa lievito di progetto e di vita nuova.

E questo è perché Dio mette le mani nella storia

Su questa linea desidero ricordare due testimonianze e due testamenti che, anche a noi,

aprono gli occhi.

Shahbaz Bhatti, ministro pakistano per le minoranze religiose, è stato ucciso il 2 marzo da

fondamentalisti islamici che lo hanno punito perché cercava di modificare la legge sulla

blasfemia che, in 25 anni di applicazione, è costata la vita a centinaia di cristiani. Il suo

testamento, splendido e generoso, dice: "Non provo alcuna paura in questo paese. Molte

volte gli estremisti hanno desiderato uccidermi, minacciato, perseguitato. Finché avrò vita,

fino all'ultimo mio respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera gente, sofferente

umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri... Credo che i bisognosi, i poveri, gli orfani,

qualunque sia la loro religione, vadano considerati innanzitutto come esseri umani... Se noi

portiamo a termine questa missione, allora ci saremmo guadagnati un posto ai piedi di

Gesù e io potrò guardarlo senza provare vergogna".

Il Signore ha accettato l'umiliazione, il silenzio, la non violenza allora come oggi, dei

monaci di Tibhirine in Algeria, morti martiri circa 15 anni fa e particolarmente conosciuti,

in questi giorni, attraverso un film (“Uomini di Dio”), che racconta il loro itinerario

spirituale e la loro scelta. Ci è rimasto uno splendido testamento dell’abate che spiega la

propria fedeltà al Signore, alla propria vocazione di monaci in un popolo straniero ma

sofferente, alla scelta di voler restare con i confratelli a condividere, con i poveri, la fatica

e l’angoscia comuni.

SALMO
Sal 87(88)

®Signore, in te mi rifugio.


Signore, Dio della mia salvezza,
davanti a te grido giorno e notte.
Giunga fino a te la mia preghiera,
tendi l’orecchio alla mia supplica. ®

Io sono sazio di sventure,
la mia vita è sull’orlo degli inferi.
Sono annoverato fra quelli che scendono nella fossa,
sono come un uomo ormai senza forze.
Sono libero, ma tra i morti. ®

Hai allontanato da me i miei compagni,
mi hai reso per loro un orrore.
Sono prigioniero senza scampo,
si consumano i miei occhi nel patire.
Tutto il giorno ti chiamo, Signore,
verso di te protendo le mie mani. ®

EPISTOLA
Lettera agli Ebrei 12, 1b-3

Fratelli, avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento. Egli, di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di Dio. Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo.

VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Giovanni 11, 55 - 12, 11

In quel tempo. Era vicina la Pasqua dei Giudei e molti dalla regione salirono a Gerusalemme prima della Pasqua per purificarsi. Essi cercavano Gesù e, stando nel tempio, dicevano tra loro: «Che ve ne pare? Non verrà alla festa?». Intanto i capi dei sacerdoti e i farisei avevano dato ordine che chiunque sapesse dove si trovava lo denunciasse, perché potessero arrestarlo. Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betània, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. E qui fecero per lui una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali. Maria allora prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo. Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che stava per tradirlo, disse: «Perché non si è venduto questo profumo per trecento denari e non si sono dati ai poveri?». Disse questo non perché gli importasse dei poveri, ma perché era un ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. Gesù allora disse: «Lasciala fare, perché ella lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me». Intanto una grande folla di Giudei venne a sapere che egli si trovava là e accorse, non solo per Gesù, ma anche per vedere Lazzaro che egli aveva risuscitato dai morti. I capi dei sacerdoti allora decisero di uccidere anche Lazzaro, perché molti Giudei se ne andavano a causa di lui e credevano in Gesù.

commento

Nel suo Vangelo Giovanni, a questo punto, comincia a raccontare gli ultimi fatti di Gesù e

il profilo dell’orizzonte che si presenta.

All’esterno, nei luoghi di potere, si pensa di bloccarlo con ordini precisi e perentori: si

costruisce una trama di tradimento attorno a lui, si mobilitano la classe sacerdotale e

l'autorità religiosa, mentre si infittisce la domanda sulla prossima venuta a Gerusalemme

formulata da curiosi, credenti, pellegrini. La casa di Dio (il tempio) é vuota della sua

presenza e tutti si pongono la domanda della fedeltà al pellegrinaggio dal centro della fede

ebraica: "Stando nel tempio dicevano tra loro:'Non verrà alla festa?'"

Anche tra i suoi Gesù sente l'aria di diffidenza e di paura e cerca di riportare al centro la

scelta di amore. Si passa, di fatto, dall'odio delle autorità religiose che cercano di ucciderlo

all'ipocrisia di un discepolo che mostra attenzione ai poveri, formalmente, ma poi si scopre

che è un ladro che cerca di intascare il danaro che era di Gesù e del gruppo di discepoli.

E’ fondamentale il gesto di Maria: ella vuole onorare Gesù che nella casa aveva riportato il

fratello ,Lazzaro, sottraendolo all'Oltretomba.

Qui l’avarizia, il riserbo, l'inganno vengono smascherati poiché insidiano il giusto che ha

aperto Lazzaro alla vita e all’amore dei suoi. E Lazzaro stimola la curiosità poiché colui

che é risorto diventa attrazione almeno alla pari di Gesù. Eppure c’è un acre sapore di

morte e di paura, anche se attorno a Gesù si sta costituendo un popolo nuovo che crede alla

vita, avendo veduto Lazzaro.

Ma il messaggio che Gesù lancia sulla sua sepoltura, difendendo Maria, è offerto a tutti ed

è da questa raccolto: essa si sta preparando, con il suo gesto gratuito, sia alla tenerezza e

all’amore attorno alla morte di Gesù e sia alla resurrezione stessa, poiché non arriverà con

le altre donne a completare i riti della sepoltura. Ma tutto questo lo capirà più avanti, come

ciascuno di noi, il senso della vita.

Iniziamo cosi i riti della Settimana Santa con il suggerimento del dono gratuito di Maria

che offre tutto quello che ha di prezioso a Gesù anche con il rischio di essere equivocata.

Ma essa esprime l'amore, la speranza e il ringraziamento in Lui, fonte della vita.

*****

Approfondimento ampio, che serve per tutta la settimana santa.

La carità sia senza finzione - di p. Raniero Cantalamessa, predicatore della casa pontificia

1. Amerai il prossimo tuo come te stesso

È stato notato un fenomeno curioso. Il fiume Giordano, nel suo corso, forma due mari: il mare di Galilea e il mar Morto, ma mentre il mare di Galilea è un mare brulicante di vita e tra le acque più pescose della terra, il mar Morto è, appunto un mare “morto”, non c’è traccia di vita in esso e intorno ad esso, solo salsedine. Eppure si tratta della stessa acqua del Giordano. La spiegazione, almeno in parte, è questa: il mare di Galilea riceve le acque del Giordano, ma non le trattiene per se, le fa defluire in modo che esse possano irrigare tutta la valle del Giordano. Il mar Morto riceve le acque del Giordano e le trattiene per se, non ha emissari, da esso non esce una goccia d’acqua. È un simbolo. Non possiamo limitarci a ricevere amore, dobbiamo anche donarlo. È su questo che vogliamo riflettere in questa meditazione. L’acqua che Gesù ci da, deve diventare in noi “fontana che zampilla” (Gv 4, 14).

Dopo aver riflettuto nelle prime due meditazioni sull’amore di Dio come dono, è venuto il momento di meditare anche sul dovere di amare, e in particolare sul dovere di amare il prossimo. Il legame tra i due amori è espresso in maniera programmatica dalla parola di Dio: “Se Dio ci ha tanto amati, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (1 Gv 4,11).

“Amerai il prossimo tuo come te stesso” era un comandamento antico, scritto nella legge di Mosè (Lev 19,18) e Gesù stesso lo cita come tale (Lc 10, 27). Come mai dunque Gesù lo chiama il “suo” comandamento e il comandamento “nuovo”? La risposta è che con lui sono cambiati l’oggetto, il soggetto e il motivo dell’amore del prossimo.

È cambiato anzitutto l’oggetto, cioè chi è il prossimo da amare. Esso non è più solo il connazionale, o al massimo l’ospite che abita con il popolo, ma ogni uomo, anche lo straniero (il Samaritano!), anche il nemico. È vero che la seconda parte della frase “Amerai il prossimo tuo e odierai il tuo nemico” non si trova alla lettera nell’Antico Testamento, ma essa ne riassume l’orientamento generale, espresso nella legge del taglione “occhio per occhio, dente per dente” (Lev 24,20), soprattutto se messo in confronto con ciò che Gesù esige dai suoi:

“Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; poiché egli fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Se infatti amate quelli che vi amano, che premio ne avete? Non fanno lo stesso anche i pubblicani? E se salutate soltanto i vostri fratelli, che fate di straordinario? Non fanno anche i pagani altrettanto?” (Mt 5, 44-47).

È cambiato anche il soggetto dell’amore del prossimo, cioè il significato della parola prossimo. Esso non è l’altro; sono io; non è colui che sta vicino, ma colui che si fa vicino. Con la parabola del buon samaritano Gesù dimostra che non bisogna attendere passivamente che il prossimo spunti sulla mia strada, con tanto di segnalazione luminosa, a sirene spiegate. Il prossimo sei tu, cioè colui che tu puoi diventare. Il prossimo non esiste in partenza, si avrà un prossimo solo se si diventa prossimo di qualcuno.

È cambiato soprattutto il criterio o la misura dell’amore del prossimo. Fino a Gesù il modello era l’amore di se stessi: “come te stesso”. È stato detto che Dio non poteva assicurare l’amore del prossimo a un “piolo” meglio confitto di questo; non avrebbe ottenuto lo stesso scopo neppure se avesse detto: “Amerai il prossimo tuo come il tuo Dio!”, perché sull’amore di Dio – cioè, su cos’è amare Dio – l’uomo può ancora barare, ma sull’amore di sé, no. L’uomo sa benissimo cosa significa, in ogni circostanza, amare se stesso; è uno specchio che ha sempre davanti a sé, non lascia scappatoie[1].

E invece una scappatoia la lascia ed è per questo che Gesù sostituisce ad esso un altro modello e un’altra misura: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi” (Gv 15,12). L’uomo può amare se stesso in modo sbagliato, cioè desiderare il male, non il bene, amare il vizio, non la virtù. Se un simile uomo ama gli altri “come se stesso” e vuole per gli altri le cose che vuole per se stesso, poveretta la persona che è amata così! Sappiamo invece dove ci porta l’amore di Gesù: alla verità, al bene, al Padre. Chi segue lui “non cammina nelle tenebre”. Egli ci ha amato dando la vita per noi, quando eravamo peccatori, cioè nemici (Rom 5, 6 ss).

Si capisce in questo modo cosa vuol dire l’evangelista Giovanni con la sua affermazione apparentemente contraddittoria: “Carissimi, non vi scrivo un comandamento nuovo, ma un comandamento vecchio che avevate fin da principio: il comandamento vecchio è la parola che avete udita. E tuttavia è un comandamento nuovo che io vi scrivo” (1 Gv 2, 7-8). Il comandamento dell’amore del prossimo è “antico” nella lettera, ma “nuovo” della novità stessa del vangelo. Nuovo - spiega il papa in un capitolo del suo nuovo libro su Gesù - perché non è più solo “legge”, ma anche, e prima ancora, “grazia”. Si fonda sulla comunione con Cristo, resa possibile dal dono dello Spirito.[2]

Con Gesù si passa dal rapporto a due: “Quello che l’altro fa a te, tu fallo a lui”, al rapporto a tre: “Quello che Dio ha fatto a te, tu fallo all’altro”, o, partendo dalla direzione opposta: “Quello che tu avrai fatto con l’altro, è quello che Dio farà con te”. Non si contano le parole di Gesù e degli apostoli che ripetono questo concetto: “Come Dio ha perdonato voi, così perdonatevi gli uni gli altri”: “Se non perdonerete di cuore ai vostri nemici, neppure il padre vostro perdonerà a voi”. È tagliata alla radice la scusa: “Ma lui non mi ama, mi offende…”. Questo riguarda lui, non te. A te deve interessare solo quello che fai all’altro e come ti comporti di fronte a quello che l’altro fa a te.

Resta però da rispondere alla domanda principale: perché questo singolare dirottamento dell’amore da Dio al prossimo? Non sarebbe più logico aspettarsi: “Come io ho amato voi, così voi amate me”?, anziché: “Come io ho amato voi, così voi amatevi gli uni gli altri”? Qui sta la differenza tra l’amore puramente di eros e l’amore di eros e agape insieme. L’amore puramente erotico è a circuito chiuso: “Amami, Alfredo, amami quant’io t’amo”: così canta Violetta nella Traviata di Verdi: io amo te, tu ami me. L’amore di agape è a circuito aperto: viene da Dio e torna a lui, ma passando per il prossimo. Gesù ha inaugurato lui stesso questo nuovo genere di amore: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi” (Gv 15, 9).

Santa Caterina da Siena ha dato, del motivo di ciò, la spiegazione più semplice e convincente. Ella fa dire a Dio:

“Io vi chiedo di amarmi con lo stesso amore con cui io amo voi. Questo non lo potete fare a me, perché io vi amai senza essere amato. Tutto l'amore che avete per me è un amore di debito, non di grazia, in quanto siete tenuti a farlo, mentre io vi amo con amore di grazia, non di debito. Voi non potete dunque rendere a me l'amore che io richiedo. Per questo vi ho messo accanto il vostro prossimo: affinché facciate ad esso quello che non potete fare a me, cioè di amarlo senza considerazione di merito e senza aspettarvi alcuna utilità. E io reputo che facciate a me quello che fate ad esso”[3].


2. Amatevi di vero cuore

Dopo queste riflessioni generali sul comandamento dell’amore del prossimo, è venuto il momento di parlare delle qualità che deve rivestire questo amore. Esse sono fondamentalmente due: deve essere un amore sincero e un amore fattivo, un amore del cuore e un amore, per così dire, delle mani. Questa volta ci soffermiamo sulla prima qualità e lo facciamo lasciandoci guidare dal grande cantore della carità che è Paolo.

La seconda parte della Lettera ai Romani è tutto un susseguirsi di raccomandazioni circa l’amore vicendevole all’interno della comunità cristiana: “La carità non abbia finzioni [...]; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda...” (Rm 12, 9 ss). “Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole, perché chi ama il suo simile ha adempiuto alla legge” (Rm 13, 8).

Per cogliere l’anima che unifica tutte queste raccomandazioni, l’idea di fondo, o, meglio, il “sentimento” che Paolo ha della carità bisogna partire da quella parola iniziale: “La carità non abbia finzioni!” Essa non è una delle tante esortazioni, ma la matrice da cui derivano tutte le altre. Contiene il segreto della carità. Cerchiamo di cogliere, con l’aiuto dello Spirito, tale segreto.

Il termine originale usato da san Paolo e che viene tradotto “senza finzioni”, è anhypòkritos, cioè senza ipocrisia. Questo vocabolo è una specie di luce-spia; è, infatti, un termine raro che troviamo impiegato, nel Nuovo Testamento, quasi esclusivamente per definire l’amore cristiano. L’espressione “amore sincero” (anhypòkritos) ritorna ancora in 2 Corinzi 6, 6 e in 1 Pietro 1, 22. Quest’ultimo testo permette di cogliere, con tutta certezza, il significato del termine in questione, perché lo spiega con una perifrasi; l’amore sincero – dice – consiste nell’amarsi intensamente “di vero cuore”.

San Paolo, dunque, con quella semplice affermazione: “la carità sia senza finzioni!”, porta il discorso alla radice stessa della carità, al cuore. Quello che si richiede dall’amore è che sia vero, autentico, non finto. Come il vino, per essere “sincero”, deve essere spremuto dall’uva, così l’amore dal cuore. Anche in ciò l’Apostolo è l’eco fedele del pensiero di Gesù; egli, infatti, aveva indicato, ripetutamente e con forza, il cuore, come il “luogo” in cui si decide il valore di ciò che l’uomo fa, ciò che è puro, o impuro, nella vita di una persona (Mt 15, 19).

Possiamo parlare di un’intuizione paolina, a riguardo della carità; essa consiste nel rivelare, dietro l’universo visibile ed esteriore della carità, fatto di opere e di parole, un altro universo tutto interiore, che è, nei confronti del primo, ciò che è l’anima per il corpo. Ritroviamo questa intuizione nell’altro grande testo sulla carità, che è 1 Corinzi 13. Ciò che san Paolo dice lì, a osservare bene, si riferisce tutto a questa carità interiore, alle disposizioni e ai sentimenti di carità: la carità è paziente, è benigna, non è invidiosa, non si adira, tutto copre, tutto crede, tutto spera... Nulla che riguardi, per sé e direttamente, il fare del bene, o le opere di carità, ma tutto è ricondotto alla radice del volere bene. La benevolenza viene prima della beneficenza.

È l’Apostolo stesso che esplicita la differenza tra le due sfere della carità, dicendo che il più grande atto di carità esteriore - il distribuire ai poveri tutte le proprie sostanze - non gioverebbe a nulla, senza la carità interiore (cf. 1 Cor 13, 3). Sarebbe l’opposto della carità “sincera”. La carità ipocrita, infatti, è proprio quella che fa del bene, senza voler bene, che mostra all’esterno qualcosa che non ha un corrispettivo nel cuore. In questo caso, si ha una parvenza di carità, che può, al limite, nascondere egoismo, ricerca di sé, strumentalizzazione del fratello, o anche semplice rimorso di coscienza.

Sarebbe un errore fatale contrapporre tra di loro carità del cuore e carità dei fatti, o rifugiarsi nella carità interiore, per trovare in essa una specie di alibi alla mancanza di carità fattiva. Del resto, dire che, senza la carità, “a niente mi giova” anche il dare tutto ai poveri, non significa dire che ciò non serve a nessuno e che è inutile; significa piuttosto dire che non giova “a me”, mentre può giovare al povero che la riceve. Non si tratta, dunque, di attenuare l’importanza delle opere di carità (lo vedremo, dicevo, la prossima volta), quanto di assicurare a esse un fondamento sicuro contro l’egoismo e le sue infinite astuzie. San Paolo vuole che i cristiani siano “radicati e fondati nella carità” (Ef 3, 17), cioè che l’amore sia la radice e il fondamento di tutto.

Amare sinceramente significa amare a questa profondità, là dove non puoi più mentire, perché sei solo davanti a te stesso, solo davanti allo specchio della tua coscienza, sotto lo sguardo di Dio. “Ama il fratello –scrive Agostino – colui che, davanti a Dio, là dove egli solo vede, rassicura il suo cuore e si chiede nell’intimo se veramente agisce così per amore del fratello; e quell’occhio che penetra nel cuore, là dove l’uomo non può giungere, gli rende testimonianza”[4]. Era amore sincero perciò quello di Paolo per gli ebrei se poteva dire: “Dico la verità in Cristo, non mento; poiché la mia coscienza me lo conferma per mezzo dello Spirito Santo ho una grande tristezza e una sofferenza continua nel mio cuore; io stesso vorrei essere anatema, separato da Cristo, per amore dei miei fratelli, miei parenti secondo la carne” (Rom 9,1-3).

Per essere genuina, la carità cristiana deve, dunque, partire dall’interiore, dal cuore; le opere di misericordia dalle “viscere di misericordia” (Col 3, 12). Tuttavia, dobbiamo subito precisare che qui si tratta di qualcosa di molto più radicale della semplice “interiorizzazione”, cioè di uno spostare l’accento dalla pratica esteriore della carità alla pratica interiore. Questo è solo il primo passo. L’interiorizzazione approda alla divinizzazione! Il cristiano – diceva san Pietro – è colui che ama “di vero cuore”: ma con quale cuore? Con “il cuore nuovo e lo Spirito nuovo” ricevuto nel battesimo!

Quando un cristiano ama così, è Dio che ama attraverso di lui; egli diventa un canale dell’amore di Dio. Avviene come per la consolazione che altro non è se non una modalità dell’amore: “Dio ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio” (2 Cor 1, 4). Noi consoliamo con la consolazione con cui siamo consolati da Dio, amiamo con l’amore con cui siamo amati da Dio. Non con uno diverso. Questo spiega la risonanza, apparentemente sproporzionata, che ha talvolta un semplicissimo atto di amore, spesso perfino nascosto, la speranza e la luce che crea all’intorno.


3. La carità edifica

Quando si parla della carità negli scritti apostolici, non se ne parla mai in astratto, in modo generico. Lo sfondo è sempre l’edificazione della comunità cristiana. In altre parole, il primo ambito di esercizio della carità deve essere la Chiesa e più concretamente ancora la comunità in cui si vive, le persone con cui si hanno relazioni quotidiane. Così deve avvenire anche oggi, in particolare nel cuore della Chiesa, tra coloro che lavorano a stretto contatto con il Sommo Pontefice.

Per un certo tempo, nell'antichità, si usò designare con il termine carità, agape, non solo il pasto fraterno che i cristiani prendevano insieme, ma anche l'intera Chiesa[5]. Il martire sant'Ignazio di Antiochia saluta la Chiesa di Roma come quella che “che presiede alla carità (agape)”, cioè alla “fraternità cristiana”, all’insieme di tutte le chiese[6]. Questa frase non afferma solo il fatto del primato di Roma, ma anche la sua natura, o il modo di esercitarlo: cioè nella carità. La frase si può tradurre in due modi: la chiesa romana “presiede alla carità”, o “presiede nella carità”, con carità.

La Chiesa ha urgente bisogno di una vampata di carità che risani le sue fratture. In un suo discorso Paolo VI diceva: “La Chiesa ha bisogno di sentire rifluire per tutte le sue umane facoltà l’onda dell’amore, di quell’amore che si chiama carità, e che appunto è diffusa nei nostri cuori proprio dallo Spirito Santo che a noi è stato dato” [7]. Solo l'amore guarisce. È l'olio del samaritano. Olio anche perché deve galleggiare al di sopra di tutto come fa l'olio rispetto ai liquidi. “Al di sopra di tutto vi sia la carità che è il vincolo della perfezione” (Col 3, 14). Al di sopra di tutto, super omnia! Dunque anche della fede e della speranza, della disciplina, dell'autorità, anche se, evidentemente, la stessa disciplina e autorità può essere un'espressione della carità.

Un ambito importante su cui lavorare è quello dei giudizi reciproci. Paolo scriveva ai Romani: “Perché giudichi il tuo fratello? Perché disprezzi il tuo fratello?... Cessiamo dunque dal giudicarci gli uni gli altri” (Rm 14, 10.13). Prima di lui Gesù aveva detto: “Non giudicate, per non essere giudicati. [...] Perché osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio?” (Mt 7, 1-3). Paragona il peccato del prossimo (il peccato giudicato), qualunque esso sia, a una pagliuzza, in confronto al peccato di colui che giudica (il peccato di giudicare) che è una trave. La trave è il fatto stesso di giudicare, tanto esso è grave agli occhi di Dio.

Il discorso sui giudizi è certamente delicato e complesso e non si può lasciare a metà, senza che appaia subito poco realistico. Come si fa, infatti, a vivere del tutto senza giudicare? Il giudizio è implicito in noi perfino in uno sguardo. Non possiamo osservare, ascoltare, vivere, senza dare delle valutazioni, cioè senza giudicare. Un genitore, un superiore, un confessore, un giudice, chiunque ha una qualche responsabilità su altri, deve giudicare. Talvolta, anzi, come è il caso di molti qui in Curia, il giudicare è, appunto, il tipo di servizio che uno è chiamato a prestare alla società o alla Chiesa.

Difatti, non è tanto il giudizio che si deve togliere dal nostro cuore, quanto il veleno dal nostro giudizio! Cioè l’astio, la condanna. Nella redazione di Luca, il comando di Gesù: “Non giudicate e non sarete giudicati” è seguito immediatamente, come per esplicitare il senso di queste parole, dal comando: “Non condannate e non sarete condannati” (Lc 6, 37). Per sé, il giudicare è un’azione neutrale, il giudizio può terminare sia in condanna che in assoluzione e in giustificazione. Sono i giudizi negativi che vengono ripresi e banditi dalla parola di Dio, quelli che insieme con il peccato condannano anche il peccatore, quelli che mirano più alla punizione che alla correzione del fratello.

Un altro punto qualificante della carità sincera è la stima: “Gareggiate nello stimarvi a vicenda” (Rm 12, 10). Per stimare il fratello, bisogna non stimare troppo se stessi, non essere sempre sicuri di sé; bisogna – dice l’Apostolo – “non farsi un’idea troppo alta di se stessi” (Rm 12, 3). Chi ha un’idea troppo alta di se stesso è come un uomo che, di notte, tiene davanti agli occhi una fonte di luce intensa: non riesce a vedere nient’altro al di là di essa; non riesce a vedere le luci dei fratelli, i loro pregi e i loro valori.

“Minimizzare” deve diventare il nostro verbo preferito, nei rapporti con gli altri: minimizzare i nostri pregi e i difetti altrui. Non minimizzare i nostri difetti e i pregi altrui, come, invece, siamo portati a fare spesso, che è la cosa diametralmente opposta! C’è una favola di Esopo al riguardo; nella rielaborazione che ne fa La Fontaine suona così:

“Quando viene in questa valle
porta ognuno sulle spalle
una duplice bisaccia.
Dentro a quella che sta innanzi
volentieri ognun di noi
i difetti altrui vi caccia,
e nell’altra mette i suoi”[8].

Dovremmo semplicemente rovesciare le cose: mettere i nostri difetti sulla bisaccia che abbiamo davanti e i difetti degli altri su quella di dietro. San Giacomo ammonisce: “Non sparlate gli uni degli altri” (Gc 4,11). Il pettegolezzo oggi ha cambiato nome, si chiama gossip. Sembra diventato una cosa innocente, invece è una delle cose che più inquinano il vivere insieme. Non basta non sparlare degli altri; bisogna anche impedire che altri lo facciano in nostra presenza, far loro capire, magari silenziosamente, che non si è d’accordo. Che aria diversa si respira in un ambiente quando si prende sul serio l’ammonizione di san Giacomo! In molti locali pubblici una volta c’era la scritta: “Qui non si fuma”, o anche “Qui non si bestemmia”. Non sarebbe male sostituirle in alcuni casi con la scritta: “Qui non si fa pettegolezzo!”

Terminiamo ascoltando come rivolta a noi l’esortazione dell’Apostolo alla comunità di Filippi: “Rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento. Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso, cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2, 2-5).


NOTE

[1] Cf. S. Kierkegaard, Gli atti dell’amore, Milano, Rusconi, 1983, p. 163.
[2] J. Ratzinger - Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, II Parte, Libreria Editrice Vaticana 2011, pp. 76 s.
[3] S. Caterina da Siena, Dialogo 64.
[4] S. Agostino, Commento alla Prima Lettera di Giovanni, 6,2 (PL 35, 2020).
[5] Lampe, A Patristic Greek Lexicon, Oxford 1961, p. 8
[6] S. Ignazio d'Antiochia, Lettera ai Romani, saluto iniziale.
[7] Discorso all’udienza generale del 29 Novembre 1972 (Insegnamenti di Paolo VI, Tipografia Poliglotta Vaticana, X, pp. 1210s.).
[8] J. de La Fontaine, Favole, I, 7

venerdì 8 aprile 2011

Domenica, 10 Aprile 2011 V DI QUARESIMA - "di Lazzaro"


LETTURA

Lettura del libro dell’Esodo 14, 15-31

In quei giorni. Il Signore disse a Mosè: «Perché gridi verso di me? Ordina agli Israeliti di riprendere il cammino. Tu intanto alza il bastone, stendi la mano sul mare e dividilo, perché gli Israeliti entrino nel mare all’asciutto. Ecco, io rendo ostinato il cuore degli Egiziani, così che entrino dietro di loro e io dimostri la mia gloria sul faraone e tutto il suo esercito, sui suoi carri e sui suoi cavalieri. Gli Egiziani sapranno che io sono il Signore, quando dimostrerò la mia gloria contro il faraone, i suoi carri e i suoi cavalieri». L’angelo di Dio, che precedeva l’accampamento d’Israele, cambiò posto e passò indietro. Anche la colonna di nube si mosse e dal davanti passò dietro. Andò a porsi tra l’accampamento degli Egiziani e quello d’Israele. La nube era tenebrosa per gli uni, mentre per gli altri illuminava la notte; così gli uni non poterono avvicinarsi agli altri durante tutta la notte. Allora Mosè stese la mano sul mare. E il Signore durante tutta la notte risospinse il mare con un forte vento d’oriente, rendendolo asciutto; le acque si divisero. Gli Israeliti entrarono nel mare sull’asciutto, mentre le acque erano per loro un muro a destra e a sinistra. Gli Egiziani li inseguirono, e tutti i cavalli del faraone, i suoi carri e i suoi cavalieri entrarono dietro di loro in mezzo al mare. Ma alla veglia del mattino il Signore, dalla colonna di fuoco e di nube, gettò uno sguardo sul campo degli Egiziani e lo mise in rotta. Frenò le ruote dei loro carri, così che a stento riuscivano a spingerle. Allora gli Egiziani dissero: «Fuggiamo di fronte a Israele, perché il Signore combatte per loro contro gli Egiziani!». Il Signore disse a Mosè: «Stendi la mano sul mare: le acque si riversino sugli Egiziani, sui loro carri e i loro cavalieri». Mosè stese la mano sul mare e il mare, sul far del mattino, tornò al suo livello consueto, mentre gli Egiziani, fuggendo, gli si dirigevano contro. Il Signore li travolse così in mezzo al mare. Le acque ritornarono e sommersero i carri e i cavalieri di tutto l’esercito del faraone, che erano entrati nel mare dietro a Israele: non ne scampò neppure uno. Invece gli Israeliti avevano camminato sull’asciutto in mezzo al mare, mentre le acque erano per loro un muro a destra e a sinistra. In quel giorno il Signore salvò Israele dalla mano degli Egiziani, e Israele vide gli Egiziani morti sulla riva del mare; Israele vide la mano potente con la quale il Signore aveva agito contro l’Egitto, e il popolo temette il Signore e credette in lui e in Mosè suo servo.

SALMO
Sal 105 (106)

®Mia forza e mio canto è il Signore.
Rendete grazie al Signore, perché è buono,
perché il suo amore è per sempre.
Chi può narrare le prodezze del Signore,
far risuonare tutta la sua lode?
Ricòrdati di me, Signore, per amore del tuo popolo,
visitami con la tua salvezza. ®

Minacciò il mar Rosso e fu prosciugato,
li fece camminare negli abissi come nel deserto.
Li salvò dalla mano di chi li odiava,
li riscattò dalla mano del nemico.
Allora credettero alle sue parole
e cantarono la sua lode. ®

Salvaci, Signore Dio nostro,
radunaci dalle genti,
perché ringraziamo il tuo nome santo:
lodarti sarà la nostra gloria.
Benedetto il Signore, Dio d’Israele,
da sempre e per sempre. ®

EPISTOLA
Lettera di san Paolo apostolo agli Efesini 2, 4-10

Fratelli, Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati. Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù. Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo.

VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Giovanni 11, 1-53

In quel tempo. Un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dirgli: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato». All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?». Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui». Disse queste cose e poi soggiunse loro: «Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato; ma io vado a svegliarlo». Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se si è addormentato, si salverà». Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!». Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse agli altri discepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!». Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo». Dette queste parole, andò a chiamare Maria, sua sorella, e di nascosto le disse: «Il Maestro è qui e ti chiama». Udito questo, ella si alzò subito e andò da lui. Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. Allora i Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro. Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?». Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberàtelo e lasciàtelo andare». Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui. Ma alcuni di loro andarono dai farisei e riferirono loro quello che Gesù aveva fatto. Allora i capi dei sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dissero: «Che cosa facciamo? Quest’uomo compie molti segni. Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui, verranno i Romani e distruggeranno il nostro tempio e la nostra nazione». Ma uno di loro, Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno, disse loro: «Voi non capite nulla! Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!». Questo però non lo disse da se stesso, ma, essendo sommo sacerdote quell’anno, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo.

COMMENTO

II Vangelo di Giovanni racconta la risurrezione di Lazzaro. Egli è il segno concreto

della gloria di Dio e l'avvenimento in cui si manifesta in modo profondo la

partecipazione alla sofferenza umana di Cristo di fronte alla morte, ma anche l’unico

personaggio che finalmente lotta contro la morte nel mondo. Egli ha una scelta sola:

quella della vita. E di fronte alla morte Gesù pronuncia la parola della risurrezione.

Il dialogo iniziale di Gesù con i discepoli, fermo anche se sconcertante, mostra

irremovibilità per un amico malato e richiama solo la gloria di Dio. Ma non si

affretta. Egli permette che la morte faccia il suo corso, perché, alla fine, si capisca

che sono la forza di Dio e la sua figliolanza con il Padre, di cui ha immensa fiducia,

che compiranno il prodigio. Finalmente Gesù torna a Betania e Marta gli va

incontro: ella porta nel cuore la morte, anche se gli amici la consolano. In fondo,

rimprovera il silenzio, la lontananza di Gesù e la sua insensibilità. Marta tuttavia sa

che Dio concede tutto ciò che Gesù chiede e sa che suo fratello risorgerà alla fine del

mondo.

Gesù invece riporta la vita piena nel presente. E' Lui la vita e la risurrezione e ripete

così "lo sono" che Giovanni riprende continuamente come richiamo alla divinità di

Gesù, nella piena comunione con Dio Padre (Jahvè: IO SONO). Se Marta risponde

con una professione di fede propria della comunità in attesa, Maria, che arriva subito

dopo, rappresenta il dolore senza speranza e senza prospettive. Al contrario, Gesù

vive questo momento in modo sereno anche se accorato.

Gesù freme dentro di sé e condivide con il pianto la tragedia della sofferenza umana

e della morte stessa; e tuttavia egli mostra di essere venuto a vincerla, offrendo la

pienezza della vita. Se ne accorgono del pianto di Gesù e lo interpretano come

amore, ma Gesù è ugualmente sotto accusa! “Perché non ha usato prima la sua

forza?” E tuttavia Gesù, in mezzo a diffidenze e perplessità, si avvia a manifestare la

gloria di Dio e chiede di fidarsi di lui. “Togliete la pietra".

Gesù affronta la lotta più grande per un amico e anticipa così, attraverso una

risurrezione temporanea (Lazzaro sarebbe ancora morto, un giorno, come tutti noi),

il dono della vita eterna che acquisterà per sé e che offrirà poi, come garanzia, ai suoi

amici.

La preghiera al Padre, finalmente, esprime il mondo di gioia, di ringraziamento e di

novità nel cuore di Cristo. Poi viene la liberazione di Lazzaro dalla morte e dalla

paura della morte. Cosi ogni uomo, finalmente, può offrire tutto il suo cuore senza

timore, libero per una dedizione generosa e totale.

II miracolo è avvenuto per la mediazione della fede di Maria e di Marta, sorelle di

Lazzaro. Queste hanno mostrato fiducia in Gesù. Pur lontanissime dall'idea di una

restituzione, nel dialogo si sentono fiduciose in Gesù e riconoscono la sua autorità e

la sua amicizia.

Il credo delle sorelle è ancora fragile poiché non è filtrato attraverso la morte e la

risurrezione di Gesù, ma è l'inizio di un cammino di speranza. "Io credo che tu sei il

Cristo, il figlio di Dio che deve venire nel mondo" (v 27). In fondo anche la nostra

fede mantiene lo stesso spessore: sappiamo di Gesù risorto ma non sperimentiamo la

sua potenza. Forse riusciamo di più a capire le sue lacrime e meno il coraggio di

urlare; “Togliete la pietra”.

La nostra fede ha bisogno di camminare con fiducia e di crescere, poiché

continuiamo a sentire le stesse domande di Marta e Maria e degli amici che

nascondiamo nel cuore: “Dov’eri? Perché non sei intervenuto?”.

APPROFONDIMENTO

“Gv 11: la risurrezione di Lazzaro”

don Silvio Barbaglia

1 Introduzione

Pensavo questa volta di trattare un testo che sarà funzionale alla riflessione prossima sul

discepolo amato che è quella sulla resurrezione di Lazzaro, che troviamo al capitolo 11. Vorrei

quindi riflettere sul personaggio di Lazzaro e su questo episodio fondamentale della sua vita. La

finalità che vogliamo raggiungere è quello di entrare in un testo che è sconosciuto alla tradizione

sinottica. Un testo particolare, su cui l’evangelista sta tantissimo, è di grande rilevanza ed è

collocato in apertura degli eventi finali della vita di Gesù (capitolo 13 è dedicato all’ultima cena).

Un testo di fondamentale importanza, in cui compare l’ultimo dei segni presentati dal Vangelo, il

segno per eccellenza, quello del passaggio dalla morte alla vita, che prelude al segno più grande che

è quello della morte e resurrezione di Cristo. Il libro dei segni è distinto dagli studiosi con il libro

della Passione, con crinale all’interno del capitolo 12. Senza tagliare con l’accetta il testo,

certamente questo segno serve a preparare il racconto della passione di Gesù. Altro aspetto

interessante è il vedere questa famiglia cara a Gesù. Entriamo nel merito di una famiglia, un

ambiente domestico, frequentati abitualmente da Gesù quando passava da gerusalemme, cosa

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interessante anche dal punto di vista storico. Il Vangelo di Giovanni tratta sempre di fatti concreti,

che hanno anche sempre un significato a livello superiore. Qui dal livello di un amicizia e di

frequentazione di una casa emergerà un significato ulteriore più profondo e recondito.

2 Lettura del testo

Era malato un certo Lazzaro di Betania… Vediamo che c’era “uno malato, un certo Lazzaro di

Betania”. Detto così sembra che ci fosse un tizio di Betania malato, altra cosa è dire che c’era un

malato, e che era Lazzaro di Betania: cioè, Lazzaro era conosciuto, ed era malato. Nei Vangeli

sinottici conosciamo solo un altro Lazzaro. In Lc 16 troviamo l’episodio del ricco epulone e del

povero Lazzaro, un testo utile ad illustrare la relazione tra l’aldiquà e l’aldilà: chi di qua sta male là

starà bene e viceversa; chi accumula tesori sulla terra e non li condivide con il povero, con il quale

qui può comunicare, là sarà separato da lui in un abisso… Il ricco non ha un nome, il povero sì, il

che significa che ha un futuro, una vocazione, e il suo nome (Dio mi soccorre) significa che è

soccorso da Dio. Dio guarda ai poveri, che sono privilegiati e godono nella sua amicizia. Nella

morte Lazzaro e riscattato nella sua povertà, fa una grande figura, mentre il ricco fa la figura del

meschino. Anche qui il testo è giocato fra la vita e la morte. Il ricco alla fine si rivolge ad Abramo:

se qualcuno dei morti andrà dai miei fratelli per ammonirli…, ma Abramo dice: neanche se uno

risuscitasse dai morti sarebbero persuasi, dal momento che non credono a Mosè e ai profeti, una

polemica esplicita contro il giudaismo che ha rifiutato di credere alla resurrezione dei morti di Gesù

e che si è rifiutato di leggere con profondità le scritture. Il Lazzaro di Gv ha a che fare con quello di

Lc? Qui una figura storica, là una parabola. Ma ci sono elementi di continuità: oltre al nome, la

possibilità che uno possa risorgere dai morti. Nel I secolo, quando circolavano i Vangeli, il

personaggio di nome Lazzaro poteva essere noto anche per altri episodi, come quello narrato da Lc.

Si parla di Maria di Betania, raccontando il suo gesto del profumare i piedi di Gesù, come se

fosse un avvenimento già avvenuto, mentre è una prolessi relativo a elemento futuro. Colui che tu

ami è malato. E Gesù dice: questa malattia non è per la morte ma per la gloria di Dio… È una

modalità tipica di Giovanni, che mette in bocca a Gesù, tavolta in maniera spietata, i programmi

della sua azione, che, a discapito anche dei sentimenti umani, ha una funzione teologica profonda.

Infatti pensate alla reazione antropologica: una ti viene ad avvisare da lontano della malattia di

Lazzaro…, e Gesù risponde non “che cosa di può fare, arrivo subito…”, ma questa frase relativa

alla gloria di Dio che avverrà grazie a questa morte. E uno dice: ma perché ci deve rimettere

Lazzaro, poverino?! Ci rimetta lui, invece, Gesù. Sul significato della parola “amico” rifletteremo in

seguito. Gli voleva così bene che invece di partire subito, Gesù sta lì due giorni ad aspettare,

tranquillo! In realtà si sta creando la logica dei tre giorni, come una micro-rappresentazione del

passaggio dalla morte alla vita di Gesù. Poi Gesù propone di tornare in Giudea, dove rischia la vita,

nella tana del leone, come i discepoli lo avvertono. Gesù risponde con paragone tra giorno e notte, il

gioco tra luce e tenebra, simboli di vita e morte, che sottolineano la posta in gioca decisiva di vita,

morte e risurrezione di Gesù. Lazzaro si è addormentato, e lui va a svegliarlo. Gesù parla della

morte, loro pensano a sonno, e il relatore ci avverte che sono un po’ “ciordi”: ironia giovannea che

si ritrova anche nell’episodio della Samaritana. Stiamo affrontando una questione pratica: malattia e

morte di una persona. Una scena tragica, che coinvolge Lazzaro, amico di Gesù e del gruppo, quindi

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con sentimenti forti in gioco. Il lettore dovrebbe sentirsi sintonizzato con questi sentimenti. E

appare un Gesù “duro”, che non sembra lasciarsi permeare da questi sentimenti umani. Questo

volere molto bene, noi lo pensiamo in termini sentimentalisti e antropologico, mentre il testo, con i

due verbi fileo e apagao ci rimanda ad altro, anche se poi Gesù piange, ma piange su aspetti forse di

altra natura. Si sta preparando la grande sfida tra i verbi agapao e fileo, che si traduce nel “dare la

vita per”, che significa amare i propria amici, donare tutto sé stesso, e corrisponde a una questione

di morte, a cui si va incontro. Si sta costruendo la simbolizzazione di una morte legata a una

malattia, una forza superiore della natura, che comunque richiama ad elemento di amicizia tra il

malato e Gesù e il suo gruppo, che mette in campo una riflessione seria su morte e malattia che va a

risignificare il tema di affetti, carità e amicizia, che devono passare attraverso morte e risurrezione

per uscire trasformato e purificato rispetto a quello percepito da tutti degli affetti normali. Sono

portati a credere questo sulla base della distanza che la narrazione mantiene rispetto a questi

sentimenti, abituali nella Bibbia. Allora Gesù dice, senza peli sulla lingua: Lazzaro è morto, e sono

nella gioia, gioisco per voi di non essere stato là, perché voi crediate. Ma andiamo da lui. Crediate

che cosa? Non è la gioia come sentimento antropologico, ma teologicamente connotata: è la gioia

del mattino di Pasqua, della Maddalena che lo incontra nel sepolcro, e di quando appare nello stesso

giorno e otto giorni dopo, e sul lago di Tiberiade, con le tre domande a Pietro sull’amore in senso

teologico. Gesù qui si comporta da “cafone”, sennò: prima è poco attento, ora dice che è

contento…! Occorre stare attento ai significati messi in campo dal testo. Era un testo letto a una

comunità credente, che aveva una situazione diversa dalla nostra, tranquilla ed agevole, connotata

dalla persecuzione, grandi difficoltà. Questo testo di Giovanni tira bordate incredibili alle attese

sentimentali dell’uomo e della donna, oggi molto alte, una volta meno. Qui si evidenzia una

modalità un po’ strana di Gesù rispetto a questi sentimenti, salvo il pianto successivo che lo riscatta

e che assume un significato più importante rispetto alla consueta partecipazione affettiva, che lo

farebbe interpretare in senso normale, ma con questa costruzione il pianto finale avrà un significato

diverso, teologico. È un’interpretazione psicologica che mi pare dia una chiave di lettura importante

al testo.

Tommaso dice: andiamo anche noi a morire con lui. Al versetto 8 i discepoli avevano ricordato

che i Giudei poco prima cercavano di lapidarlo… Disposti tutti ad andare incontro alla morte di

Gesù. Tutto il testo punta a un discorso di morte: chi è già là, Lazzaro, è già morto, Gesù sta per

morire, e gli altri sono disposti a morire con lui. Si preparano quindi i discorsi di addio, con Pietro

che si dice disposto a morire per Gesù, ma Gesù gli dirà che lo rinnegherà.

Venne dunque Gesù e trova Lazzaro che è da quattro giorni nel sepolcro, un modo per dire che è

veramente morto. Nelle tradizioni rabbiniche, lo spirito di un morto era ritenuto circolare nei pressi

del cadavere nei primi tre giorni dalla morte, il quarto giorno non più, e quindi Lazzaro era

assolutamente morto.

Marta esce di casa e va incontro a Gesù, e gli dice: se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe

morto… Ma ogni cosa che chiederai a Dio te la concederà. Una professione di fede forte, una

grande certezza. Gesù risponde: tuo fratello risusciterà. Gesù aveva detto prima che la malattia non

era per la morte, e aveva detto ai discepoli che era nella gioia per loro. Lazzaro tornerà alla vita.

Marta sa, come da tradizione rabbinica e altri, che i morti torneranno alla vita collettivamente. Gesù

risponde: io sono la risurrezione e la vita. Questa sembra la tesi centrale, che il brano cerca di

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argomentare narrativamente. Io sono colui che può vincere la morte e affermare la vittoria della vita

sulla morte. Chi crede in me vivrà. È nella logica del discepolato di Gv il credere in Gesù. Nel

prologo abbiamo letto che si è rigenerati come figli nel Figlio, che è cosa tipica del discepolato, un

nuovo dono della vita. Il discepolo è chiamato a credere in Lui, e così pur andando incontro alla

morte, avrà la vita. Prima diceva Gesù ai discepoli che era nella gioia…: se voi credete, vuol dire

che avrete la resurrezione e la vita, e quindi vivrete sempre. Se Lazzaro è un discepolo vivrà. Questo

brano quindi ci mostra che Lazzaro effettivamente apparteneva al gruppo dei discepoli. Lazzaro

credeva in Gesù? Se risusciterà, sì. È un modo per dire che la vita “per sempre” ti viene già data in

questa vita. Marta risponde che crede che lui è l’atteso di Israele. Quando verrà il Messia, il

mediatore celeste, sarà il giorno del Signore. Un personaggio che poteva essere Elia o un altro

personaggio di mediazione. Che Marta risponda così significa che pensa che si verificherà ora ciò

che è promesso per la fine dei tempi: non occorre più attendere la fine dei tempi, genericamente, ma

Gesù è il compimento della “fine dei tempi”.

Marta allora va di nascosto da Maria, dicendole che Gesù la chiama. Maria esce, tutto porta fuori

da questa casa. Quando vedono che Maria esce, tutti la seguono, pensando che voglia andare a

piangere al sepolcro, perché non hanno sentito che Marta l’ha chiamata, e non sanno che fuori c’è

Gesù. La loro deduzione è logica, ed essendo loro venuti per consolarla, la seguono. Maria ripete a

Gesù le stesse cose che ha detto Marta, si sono messe d’accordo. Ma Marta dice una cosa in più:

“ma so che anche ora qualunque cosa chiedi Dio te la concederà”. Questa affermazione è una cosa

che dal punto di vista umano fa nascere dei sensi di colpa…: se si spicciava un po’ di più a venire,

chissà mai…? Qui leggiamo la sua capacità di salvare dalla malattia, ma porta alla preparazione del

seguito: non essendo Marta e Maria tra i lettori del testo, non sanno come noi perché Gesù ha fatto

questo.

Gesù si commosse profondamente, si turbò e disse: dove l’avete posto? Una visione di distanza

nei confronti del morto, al luogo del quale ci stiano avvicinando, dopo che è stata costruita tutta

l’impalcatura teologica. Anche Gesù entra in sintonia con questo pianto umano, ma entra in sintonia

abbracciando il dramma del dolore umano, ma dopo aver lasciato intuire che lui è la risurrezione e

la vita, è il Risorto, è la garanzia che la morte è stata vinta. Da un certo punto di vista siamo un po’

come nella situazione in cui sono nati i Vangeli: annunciando il Risorto crocifisso, non il Crocifisso

risorto. Parto dal dopo e risalgo al prima. Noi di solito pensiamo alla logica del Crocifisso risorto,

ma il Vangelo di Giovanni pensa più al contrario, come anche l’Apocalisse al capitolo 5: l’agnello è

ritto come immolato. Certo, prima è morto e poi è risorto, ma metti l’accento sulla centralità della

risurrezione, la morte è stata vinta, ma colui che ha vinto la morte è stato crocifisso. Distinguere tra

sostantivo e aggettivo cambia la percezione dell’importanza degli aspetti della teologia. I sinottici

danno la priorità al Crocifisso come sostantivo, Giovanni al Risorto. Il brano che leggiamo va in

questa direzione: prima ti parla del Risorto, e ora del dramma della morte. Ma il dramma della

morte, così istruito, è diverso da come sarebbe se finora trattato solo sul piano antropologico. Il

dramma della morte rimane tutto, ma con sullo sfondo la speranza della risurrezione, la speranza di

chi è risorto nella storia, con lo sconvolgimento più radicale della forza stessa della morte. Una cosa

che deve essere metabolizzata nel nostro modo di pensare. Ora non dobbiamo lasciarci trarre in

inganno da questo: il suo essere la risurrezione e la vita non è una cosa glaciale e distaccata. Lui ha

vinto la morte, e devi pensare allo stupore, alla difficoltà di riconoscerlo, dopo la risurrezione, da

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parte dei discepoli. Se potessimo percepire anche minimamente la forza della risurrezione, la nostra

testimonianza cristiana sarebbe molto più forte, se riuscissimo a metabolizzarla… Noi spesso siamo

più simili a Marta e Maria (“… se tu fossi stato qui…”) piuttosto che capaci di guardare al Risorto.

Questo brano ci invita ad aprirci a lui, potrebbe scaturirne una nuova prospettiva. La liturgia spesso

si riduce a formalismo, e tra vita e liturgia ce ne passa molto. Pensavo nella notte di Pasqua, dove ho

celebrato quest’anno. Ero abituato a passare con l’acqua lustrale, irrorando tutti e dicendo “Cristo è

risorto!”, e gli altri rispondono “È veramente risorto!”. Non sapevo che era un rito orientale… L’ho

capito, andando a celebrare in un'altra parrocchia, quando l’assemblea non mi rispondeva… È una

barzelletta, per dire che nella nostra liturgia ci sono affermazioni di una posta in gioco micidiale. In

questi tempi in cui la nostra fede in Gesù Cristo è profondamente denigrata, il Papa è trattato a pesci

in faccia da tantissima gente… Quello che mi fa arrabbiare di più è che questa cosa non ci fa

arrabbiare, la Chiesa si turba poco, mentre se ci toccano la mamma o la sorella…! Qui invece

sembra dire: la cosa più importante è un’altra, la risurrezione. E alla luce di questa, la cosa che ti

turba tanto la leggerai meglio, la rimacinerai meglio dentro di te, sennò è un vicolo cieco. Purificato,

dopo questa grande purificazione a cui sei invitato, affronterai il dolore in modo diverso, lo vivrai in

altro modo.

Gesù scoppia in pianto. Le lacrime sono una cosa straordinaria all’interno dell’esperienza

antropologica. Si può piangere per sé stesso e per gli altri. Il pianto per sé stesso, tienitelo! Il pianto

per un altro, specialmente malato e morto, è il pianto di Dio. Spesso piangiamo per le nostre cose,

ma è importante imparare a piangere per gli altri, che è un tratto di generosità. I Giudei lo vedono

piangere e restano sulla lunghezza d’onda di Marta e Maria.

Una grotta con la pietra sopra, come quella che rotola via dal sepolcro di Gesù. Si riafferma che è

morto da quattro giorni, al punto che emana cattivo odore, come a dire: “ma cosa stiamo

facendo?!”. Marta aveva fatto prima la sua professione di fede, ma ora resiste, ricade al piano

antropologico, con affermazione che sottolinea l’assurdità di aprire il sepolcro. E infatti Gesù

richiama: non ti ho detto che se credi vedrai la gloria di Dio? La potenza di Dio si manifesta

attraverso il superamento della morte. E si rimanda al versetto 4, dove ci sono i discepoli, e sono

loro ad ascoltare l’affermazione che la malattia di Lazzaro è per la gloria di Dio. Anche se là il

verbo usato è una via di mezzo tra il mandare degli ambasciatori e l’essere andate esse stesse a

riportare la notizia a Gesù.

Gesù dice: Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. E uno si chiede, ma cosa ha detto? Forse c’è

già una domanda implicita, implicita in tutto il contesto. Il patto che c’è tra Padre e Figlio, cioè che

deve essere manifestata la gloria di Dio. Lo sarà nella morte del Figlio, mentre nella risurrezione

sarà glorificato il Figlio, nella eteroglorificazione tra Padre e Figlio. Qui si parla di gloria di Dio, e

quindi si ha qui una risignificazione della morte e risurrezione di Gesù Cristo stesso. Io so che

sempre mi dai ascolto… Ai discepoli si diceva che Lazzaro è morto e che lui è nella gioia, perché

loro credano. Anche prima, nel dialogo con Marta, si capisce che l’obiettivo è portare tutti gli astanti

alla fede, perché la fede è la vita.

Lazzaro, vieni fuori! È una vocazione, una chiamata rivolta ad un morto, proprio un esempio di

cosa da cui non si può avere risposta, usato nel nostro parlare comune: “è come parlare a un morto”.

E il morto esce, legato dalle bende e con il sudario che gli copre il volto. Segni che richiamano

fortemente quelli della risurrezione di Cristo. E lui riesce ad uscire anche se ha le mani e i piedi

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legati e ha un sudario in volto. Come a dire una persona senza relazioni, senza la capacità di operare

secondo la Legge: le mani dicono la capacità di operare e i piedi di camminare secondo la volontà

del Signore, e il volto è il luogo della manifestazione dell’identità della persona. Che quindi è un

po’ come le ossa aride del racconto di Ezechiele: le ossa sono rivestite di nervi e carne, ma perché

rivivano occorre lo Spirito. Lazzaro esce come un morto che attende di risorgere. E quindi Gesù

dice: scioglietelo e lasciatelo andare, e Lazzaro può tornare in rapporto con Dio, con Gesù, con i

fratelli.

Lazzaro è l’unico dei discepoli che conosce l’esperienza di entrare nella morte e tornare alla vita,

di essere legato come morto, di conoscere i panni che sono messi addosso ad un cadavere, l’esperto

della fasce, che gli sono state messe addosso. Lasciamo stare il discorso degli apostoli, che a Gv

interessa poco, più attento alla dimensione del discepolato. Lazzaro è l’unico dei discepoli che fa

questa esperienza straordinaria.

Molti dei discepoli credettero in lui, ma alcuni andarono dai Farisei e riferirono loro ciò che

aveva fatto. E allora i capi si riunirono molto preoccupati, perché tutti lo stanno seguendo, e ci si

preoccupa di una sollevazione. Caifa prende la parola, sommo sacerdote in quell’anno, dice: meglio

che perisca uno solo che non la nazione intera. E si commenta: lo dice ispirato dallo Spirito. Gesù

doveva morire per la nazione… Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo, e perciò Gesù si ritirò

nel deserto, in una località chiamata Efraim. Quindi si ritorna al pericolo incombente della morte di

Gesù. Si innalza moltissimo l’attesa del potere incastrarlo.

Nel capitolo 12 abbiamo cena in casa di Marta, con Lazzaro tra i commensali, con la penultima

cena di Gesù. Maria è ai piedi di Gesù e gli fa la cosiddetta unzione di Betania. A Gerusalemme la

folla accoglie Gesù con rami di palme. Un’entrata gloriosa, con l’Hosanna del salmo 18, riservato al

Messia, montando un puledro d’asina, altro elemento messianico. E intanto la gente che era stata

con lui quando faceva risuscitare Lazzaro dai morti gli dava testimonianza, e il motivo dell’entrata

in Gerusalemme festosa non è semplicemente l’entrata sul puledro d’asina, ma a motivo della

resurrezione di Lazzaro: è giunto il tempo della risurrezione dei morti: è arrivato il Messia. Per

questo i capi sono preoccupatissimi. I Giudei erano venuti alla cena di Betania, e vedendo Lazzaro,

decisero di uccidere anche lui, perché è un segno che produce fede. Sta scattando il meccanismo che

ti dona la vita, preannunciata dalla risurrezione di Lazzaro. Tra tutti i personaggio del Vangelo, se

ce n’è uno che produce delle conseguenze è proprio Lazzaro, perché il segno che lo riguarda porta la

gente alla fede, infatti nessun altro rischia di essere ucciso per questo. Pensiamo ai personaggi già

incontrati: Nicodemo crede, ma non si sa a chi andrà eventualmente a riferirle, la Samaritana

annuncia, ma non rischia la vita… Per Lazzaro c’è un po’ il paradosso: è appena risuscitato e rischia

la vita. Quindi ci chiediamo: questa figura è destinata a “morire” lì? La prossima volta ci

dedicheremo ad aprire importanti prospettive sulla figura del discepolo che Gesù amava.

RITO ROMANO

IL VANGELO è IDENTICO.