giovedì 18 aprile 2013

Voi siete miei amici domenica 21 aprile



IV domenica T. Pasqua (Anno C)
Lettura
At 21,8b-14
In quei giorni. Entrati nella casa di Filippo l’evangelista, che era uno dei Sette, restammo presso di lui. Egli aveva quattro figlie nubili, che avevano il dono della profezia. Eravamo qui da alcuni giorni, quando scese dalla Giudea un profeta di nome Àgabo. Egli venne da noi e, presa la cintura di Paolo, si legò i piedi e le mani e disse: «Questo dice lo Spirito Santo: l’uomo al quale appartiene questa cintura, i Giudei a Gerusalemme lo legheranno così e lo consegneranno nelle mani dei pagani». All’udire queste cose, noi e quelli del luogo pregavamo Paolo di non salire a Gerusalemme. Allora Paolo rispose: «Perché fate così, continuando a piangere e a spezzarmi il cuore? Io sono pronto non soltanto a essere legato, ma anche a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù». E poiché non si lasciava persuadere, smettemmo di insistere dicendo: «Sia fatta la volontà del Signore!».
Parola di Dio. 

Paolo sta ritornando dal suo viaggio di missione e rivisita le comunità che aveva fondato o che
riconosceva cristiane perché evangelizzate da altri (es. quelle della Fenicia e la stessa Tiro fondate
dagli  ellenisti: At 11,19). Proprio a Tiro, dove si ferma con i discepoli sette giorni, Paolo si sente dire
dai cristiani del posto, “nello Spirito”, di non salire a Gerusalemme.
Paolo si ferma nella casa di Filippo, uno dei sette eletti nella prima Comunità cristiana per il sevizi
o alle  mense, insieme con Stefano. Filippo ha “quattro figlie nubili, con il dono della profezia”.
Questa notizia fa intravedere un grande lavorio di evangelizzazione della comunità, da poco costituita, ricca di doni dello Spirito di Dio, capace di illuminare e aperta alla partecipazione. Probabilmente hanno un grande ruolo nel costituire richiami, documentazione e approfondimento del pensiero di Gesù.
Si parla anche di Àgabo un profeta, che imita i gesti simbolici dei profeti antichi per predire il futuro con segni particolari. Egli ripete la profezia sull’arresto di Paolo a Gerusalemme, utilizzando la cintura
di Paolo come un legame di carcere.
Paolo dimostra una consapevolezza determinata a non lasciarsi sviare dal suo cammino che ha per meta
Gerusalemme: “Sono pronto ad essere legato e a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù”.
Queste parole ci ricordano la stessa determinazione di Gesù che cammina verso Gerusalemme e il Padre.
Paolo vive la sua vita e la sua vocazione di apostolo. Egli sente di evangelizzare sia con le parole,
raccontando, e sia con la vita affrontando i disagi della persecuzione, come fece Gesù, per aiutare la
fede  dei fratelli e sorelle. Ritorna così un richiamo quotidiano: “Fare la volontà di Dio”, quasi ossessivo
e Gesù lo ripeteva spesso poiché i discepoli non sapevano rendersi conto di molti perché e di molte scelte
che Gesù faceva. Qui, nel linguaggio di Paolo, c’è una differenza. Gesù parla della volontà del Padre,
Paolo parla della volontà del Signore Gesù. Così Paolo ritiene che la vera evangelizzazione si debba sviluppare nella conoscenza della Parola di Gesù che ci apre il mondo di Dio e, a somiglianza di Gesù, nella coerenza di vita, per essere esempio  e  sostegno per fratelli e sorelle.
Nel nostro tempo si sente una grande sfiducia verso la coerenza delle proprie responsabilità poiché
sembra proprio scontato che con il danaro si possa comperare ognuno e quindi si ritiene di avere il
permesso di poter fare qualunque cosa. Nel mondo del lavoro come nel mondo politico il coraggio della
correttezza, della chiarezza senza pretendere di fare il maestro di nessuno ma la trasparenza delle scelte,
la partecipazione allargata alle valutazioni comuni ed alle decisioni, il coraggio di ricercare in ogn
i cosa il motivo delle decisioni aiutano a trovare forza e sostengono la coerenza degli altri.
Già, finalmente, la scelta di pagare i debiti, contratti dallo Stato, è un atto di responsabilità e di
giustizia.
Bisogna ricordare che non pagare i propri debiti è un furto, e se fatto dal potere dello Stato, una rapina.
In questo caso i responsabili della realtà pubblica dovrebbero sentirsi, ciascuno debitore, in occasione del proprio stipendio e si dovrebbe spontaneamente prendere l’iniziativa del ridimensionamento, delle
proprie entrate poiché ci si deve sentire responsabili delle proprie autorizzazioni.
Certo, insieme, c’è la responsabilità del pagare le tasse poiché anche l’evasione fiscale è un furto delle risorse della Comunità in cui si vive. Bisogna pretendere l’onestà del contribuente e, nello stesso tempo,
la comprensione verso i salari bassi.


Salmo (Sal 15(16))
Nelle tue mani, Signore, è tutta la mia vita. oppure: Alleluia, alleluia, alleluia.
Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita.
Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi:
la mia eredità è stupenda. R.

Benedico il Signore che mi ha dato consiglio;
anche di notte il mio animo mi istruisce.
Io pongo sempre davanti a me il Signore,
sta alla mia destra, non potrò vacillare. R.

Per questo gioisce il mio cuore
ed esulta la mia anima;
anche il mio corpo riposa al sicuro. R.

Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena alla tua presenza,
dolcezza senza fine alla tua destra. R. 

Epistola
Fil 1,8-14
Fratelli, Dio mi è testimone del vivo desiderio che nutro per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù. E perciò prego che la vostra carità cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento, perché possiate distinguere ciò che è meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo, ricolmi di quel frutto di giustizia che si ottiene per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio.
Desidero che sappiate, fratelli, come le mie vicende si siano volte piuttosto per il progresso del Vangelo, al punto che, in tutto il palazzo del pretorio e dovunque, si sa che io sono prigioniero per Cristo. In tal modo la maggior parte dei fratelli nel Signore, incoraggiati dalle mie catene, ancor più ardiscono annunciare senza timore la Parola.
Parola di Dio. 


Ci troviamo di fronte ad una particolare testimonianza, riportata in questa lettera scritta, probabilmente,
nel periodo 61-63 d.C. durante la prigionia di Paolo a Roma. Egli, per circostanze particolari, ha visitato
a suo tempo Filippi che è stata la prima città europea, da lui evangelizzata, probabilmente, attorno
agli anni 50, durante il suo secondo viaggio missionario.
L’affetto di Paolo si manifesta, prima di tutto, nel ricordo e nella preghiera. L’atteggiamento
dell’apostolo è di riconoscenza e di ringraziamento. Ciò che chiede al Signore, e lo manifesta nella
lettera, è la maturazione della carità che già i Filippesi vivono, ma che hanno, comunque, bisogno,
sempre, di crescere in conoscenza e pieno discernimento. Egli stesso manifesta il suo amore per la
comunità che conosce e sa di essere ricambiato. E se parla come un grande maestro, si sente anche
amico e fratello, incoraggiando la comunità nella linea della saggezza. Nella serie di raccomandazioni
vengono inseriti anche elementi della filosofia greca che sa proporre la figura del saggio. Paolo
suggerisce l’importanza della conoscenza, l’atteggiamento di attenzione all’altro con sentimenti di
discrezione, l’apprezzare le cose migliori. Nella riflessione sulla saggezza, la filosofia greca incoraggia
ad una presa di responsabilità sulla realtà per cogliere ciò che è opportuno fare o non fare, il giudaismo
fa riferimento alla Legge per conoscere la volontà di Dio per una scelta preferenziale, i cristiani
sviluppano il progetto di essere trovati “puri e senza macchia”.
Paolo sta formulando una preghiera che conclude: “ I cristiani siano ricolmi di quel frutto di giustizia che
si ottiene per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio”.
Paolo, verificando il cammino della fede nel suo contesto, pur se in carcere, si sente gioioso perché
ovunque c’è consapevolezza, “in tutto il palazzo del pretorio e dovunque”, che la sua detenzione non
abbia il marchio della ingiustizia o del male, ma il significato di una Parola nuova, pronunciata da
Gesù, e capace di salvezza. Mentre è in carcere e quindi ha un raggio di azione molto limitato, sa che “la
maggior parte dei fratelli nel Signore, incoraggiati dalle mie catene, ancor più ardiscono annunciare
senza timore la Parola”.
Paolo racconta con riconoscenza, poiché nel suo vissuto vede una traccia segnata dalla Provvidenza per
aprire i cuori all’annuncio di Gesù. E, in tal modo, sa che sta educando la Comunità di Filippi a saper
vedere la storia come occasione di sapienza e progetti nuovi.
E’ certamente difficile interpretare la fatica quotidiana o addirittura l’ingiustizia subita come
un’occasione di testimonianza. Eppure, nella luce del Signore, Paolo invita ciascuno a saper intravedere la presenza del Signore e trasformare ogni tempo come un tempo per la speranza di chi ci sta vicino.
Probabilmente questo è il miglior modo di sostenere ed aiutare la comunità in cui viviamo, religiosa o
laica che sia.

Acclamazione al Vangelo
(Cfr Gv 10,14)
Alleluia.
Io sono il buon pastore, dice il Signore;
conosco le mie pecore
e le mie pecore conoscono me.
Alleluia. 

Vangelo: Gv 15,9-17
In quel tempo. Il Signore Gesù disse ai discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».
Parola del Signore.


Giovanni, mentre scrive il suo Vangelo, sa e ce lo comunica, che nell’ultima cena si svolgono grandi rivelazioni mentre si sente commovente il tempo degli addii. Cosi quest’oggi leggiamo una parte delle intuizioni più preziose e le raccomandazioni essenziali che si intrecciano, in quella cena piena di presagi
e di interrogativi, costituendo il tessuto di sentimenti profondi ed essenziali che sono via via maturati,  con Gesù, in quell’ultimo tempo di cammino comune.
Precede questo testo l’immagine di “Gesù, vera vite” che illustra la necessità di una unione profonda e fondamentale dei discepoli con Gesù stesso.
Vi si ripete continuamente il “rimanere in “ per 10 volte(15,1-8).
In tutto il testo, il verbo ricorrente è ”amare”: in particolare “ come amore fraterno”. Esso ha come modello l’amore del Padre per Gesù e l’amore di Gesù per i discepoli. Il punto di riferimento è l’amore
del Padre che essi non conoscono ma di cui Gesù si fa rivelatore. Essi comprenderanno, in particolare, lo spessore enorme di questo amore nello svolgimento della passione di Gesù, nell’accoglienza ed il perdono che il maestro darà loro anche dopo la risurrezione, nella scelta di elezione che continuerà amantenere nonostante la loro fragilità, la loro fuga ed il loro tradimento. Ma il rapporto di Gesù sarà sempre di tenerezza, come pieno e totale è l’amore
del Padre che ha dato ogni cosa al Figlio (3,35; 5,20; 17,24). La parola greca che viene qui usata, rara nel linguaggio classico, è ”agapao: amore di comunione, amore gratuito, disinteressato come quello del Padre”. Gesù ha obbedito all’amore del Padre, pienamente. I discepoli sono chiamati ad obbedire ai comandi di Gesù per restare nel suo amore.
A cascata l’amore del Padre si trasfonde nel Figlio, e quindi dal Figlio ai discepoli perché, a loro volta, lo
comunichino agli altri.
Al centro di questa circolazione di scelte e di amore, Giovanni, al v.11, colloca la gioia: “Vi ho detto
queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”.
Nel linguaggio di Giovanni si riprendono i temi dell’amore reciproco caricandolo di richiami e di
significati:
La reciprocità, che resta gratuita, non è legata al riconoscimento, alla giustizia dell’altro, al merito
poiché la misura è svincolata, ma si collega al “come io vi ho amato” (anche 13,34), unito all’affermazione: " Amore grande è dare la vita".
- Gesù distingue tra “i vari precetti” ed “il comandamento” (v 12) che chiama “comandamento nuovo” (13,34): “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi”..
- Questo rapporto nuovo nasce dall’essere stati scelti come amici per ricevere le confidenze del
mondo di Dio. I discepoli si sentono, in tal modo, capaci di sostenere questa dignità perché Gesù la
renderà possibile, garantendo loro la sua presenza.
- I discepoli però debbono attrezzarsi di una preghiera al Padre che Gesù stesso sosterrà allo scopo di far fruttificare il seme e renderlo duraturo: “perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda”.
- Questa scelta offre e chiede, allo stesso tempo, di essere continuatori dell’opera che Gesù ha
iniziato e che i discepoli accettano: scelte e rivelazioni di Gesù che si sviluppano nel tempo e nello  spazio. “Vi ho costituiti perché andiate”. “Essere  costituiti”: è il verbo che si usava per l’istituzione dei rabbini e per l’ordinazione dei leviti (Num8,10).
- Andare per “portare frutto” (e qui si sente il riferimento precedente alla vite e ai tralci: 15,1-8).
Nel mondo la prospettiva della missione è un “frutto che rimanga” e che abbia la consistenza dell’amore
reciproco, gratuito, la vitalità della gioia, la fiducia del far crescere le opere di Dio che trasformino il
mondo. Perciò il segno della presenza dell’amore di Gesù passa nella preghiera fiduciosa, nell’impegno
e nella consapevolezza di riprendere il comando di  Gesù: “Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli
altri”.
- Questo amore va tradotto e va capito. E’, fondamentalmente, un amore di intercessione per un
mondo che soffre e davanti al quale non riusciamo a far molto. Ma lo possiamo sempre accogliere nel
cuore e posso pregare per la sofferenza che ascolto, per le immagini di guerra che vedo, per le notizi
e di fame o per mancanza di lavoro che sento. E possiamo diffondere questa attenzione, questa attesa e
questa partecipazione che mi renderanno sempre più  attento, flessibile, disponibile a capire e a mette
re sulle spalle la fatica degli altri.


giovedì 11 aprile 2013

TOGLI LE LENTI DA SOLE DAVANTI ALLA LUCE DI CRISTO Domenica 14 aprile III domenica T. Pasqua (Anno C)



Domenica 14 aprile III domenica T. Pasqua (Anno C)

At 28,16-28
In quei giorni. Arrivati a Roma, fu concesso a Paolo di abitare per conto suo con un soldato di guardia.
Dopo tre giorni, egli fece chiamare i notabili dei Giudei e, quando giunsero, disse loro: «Fratelli, senza aver fatto nulla contro il mio popolo o contro le usanze dei padri, sono stato arrestato a Gerusalemme e consegnato nelle mani dei Romani. Questi, dopo avermi interrogato, volevano rimettermi in libertà, non avendo trovato in me alcuna colpa degna di morte. Ma poiché i Giudei si opponevano, sono stato costretto ad appellarmi a Cesare, senza intendere, con questo, muovere accuse contro la mia gente. Ecco perché vi ho chiamati: per vedervi e parlarvi, poiché è a causa della speranza d’Israele che io sono legato da questa catena». Essi gli risposero: «Noi non abbiamo ricevuto alcuna lettera sul tuo conto dalla Giudea né alcuno dei fratelli è venuto a riferire o a parlar male di te. Ci sembra bene tuttavia ascoltare da te quello che pensi: di questa setta infatti sappiamo che ovunque essa trova opposizione».
E, avendo fissato con lui un giorno, molti vennero da lui, nel suo alloggio. Dal mattino alla sera egli esponeva loro il regno di Dio, dando testimonianza, e cercava di convincerli riguardo a Gesù, partendo dalla legge di Mosè e dai Profeti. Alcuni erano persuasi delle cose che venivano dette, altri invece non credevano. Essendo in disaccordo fra di loro, se ne andavano via, mentre Paolo diceva quest’unica parola: «Ha detto bene lo Spirito Santo, per mezzo del profeta Isaia, ai vostri padri:
Va’ da questo popolo e di’:
Udrete, sì, ma non comprenderete;
guarderete, sì, ma non vedrete.
Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile,
sono diventati duri di orecchi
e hanno chiuso gli occhi,
perché non vedano con gli occhi,
non ascoltino con gli orecchi
e non comprendano con il cuore
e non si convertano, e io li guarisca!
Sia dunque noto a voi che questa salvezza di Dio fu inviata alle nazioni, ed esse ascolteranno!».
Parola di Dio.
Luca fa finire il racconto missionario della
prima Comunità cristiana (Gli Atti degli
Apostoli) a Roma, con la venuta e la detenzione di Paolo. Paolo mantiene l'impegno
dell’evangelizzazione, iniziando dai fratelli Ebrei. E, di fatto, essi accettano di parlare con
lui poiché sa offrire credenziali di valori, garantendo che avrebbe parlato della “speranza
di Israele".
Non ci sono preconcetti, né sono state inviate spie o staffette per scoraggiare e mettere in
cattiva luce Paolo. Così, nello stile di una fiduciosa amicizia, l'appuntamento con Paolo si
profila come una spiegazione della vita di Gesù che pure trova "ovunque opposizione”.
Comunque Paolo deve entrare nel merito del messaggio e lo fa utilizzando tutta la sua
conoscenza e preparazione biblica "cercava di
convincerli riguardo a Gesù partendo dalla
legge di Mosè e dai profeti" (28,23).
L'esperienza del dialogo con i fratelli Ebrei e i loro Notabili si dimostrò povera perché,
non ci fu accordo e anche coloro che erano disposti ad accogliere le parole di Paolo, per la
confusione e la discussione accesa, "se ne andarono a casa". E questo significò un
ennesimo smacco per il compito di evangelizzazione assunto.
Paolo non rinuncia a priori, non trova scuse poiché i suoi fratelli nella fede hanno diritto di
essere i primogeniti della salvezza. Poi ritorna sul
lamento di Isaia
(28,26-27) che in
seguito fu fatto proprio dal racconto dei 4 Evangelisti per giustificare il rifiuto di Israele di
fronte alla predicazione di Gesù.
La conclusione è l'universalismo: "questa salvezza di Dio fu inviata alle nazioni, ed esse
ascolteranno" (28,28). Paolo non si scoraggia, ma opera "con franchezza e senza
impedimenti" (28,30) con tutti quelli che venivano a lui.
Si fanno spesso programmazioni e progetti, ma poi il Signore ti conduce per altre strade
che vanno riconosciute e seguite.

Salmo (Sal 96(97))
Donaci occhi, Signore, per vedere la tua gloria. oppure: Alleluia, alleluia, alleluia.
Il Signore regna: esulti la terra,
gioiscano le isole tutte.
Giustizia e diritto sostengono il suo trono. R.

Annunciano i cieli e la sua giustizia,
e tutti i popoli vedono la sua gloria.
A lui si prostrino tutti gli dèi. R.

Tu, Signore,
sei l’Altissimo su tutta la terra,
eccelso su tutti gli dèi. R.
Epistola
Rm 1,1-16b
Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio – che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti, Gesù Cristo nostro Signore; per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia di essere apostoli, per suscitare l’obbedienza della fede in tutte le genti, a gloria del suo nome, e tra queste siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo –, a tutti quelli che sono a Roma, amati da Dio e santi per chiamata, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo!
Anzitutto rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché della vostra fede si parla nel mondo intero. Mi è testimone Dio, al quale rendo culto nel mio spirito annunciando il vangelo del Figlio suo, come io continuamente faccia memoria di voi, chiedendo sempre nelle mie preghiere che, in qualche modo, un giorno, per volontà di Dio, io abbia l’opportunità di venire da voi. Desidero infatti ardentemente vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale, perché ne siate fortificati, o meglio, per essere in mezzo a voi confortato mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io. Non voglio che ignoriate, fratelli, che più volte mi sono proposto di venire fino a voi – ma finora ne sono stato impedito – per raccogliere qualche frutto anche tra voi, come tra le altre nazioni. Sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i sapienti come verso gli ignoranti: sono quindi pronto, per quanto sta in me, ad annunciare il Vangelo anche a voi che siete a Roma.
Io infatti non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede.
Parola di Dio.
La Lettera ai Romani, di cui leggiamo l'inizio, si pone a criterio e a risposta della base
dell’esistenza umana: qual è la posizione giusta per l'uomo di fronte a Dio?
Paolo suggerisce che la risposta giusta è la fede, grazie alla quale l'uomo crede, si
consegna a Dio e si fida della sua Parola.
Da questa consapevolezza nasce il senso dell
a propria vocazione, dice Paolo. "Sono stato
chiamato e scelto per annunciare il Vangelo di Dio (1,1). Questo Vangelo è Gesù, che nella
sua esistenza fu discendente di Davide secondo la carne, e Figlio di Dio, risuscitato dai
morti, secondo lo Spirito" (1,2-4). In Gesù si attuano insieme la presenza del finito e
dell’infinito, della carne e dello Spirito.
Paolo continua a pensarsi strumento di Di
o, schiavo e proprietà del Signore, poiché
interpreta i fatti personali come indicazioni di Dio. L'aver ricevuto la grazia (a Damasco -
Atti 9) lo rende apostolo per suscitare
l'obbedienza della fede in tutte le genti".
E coloro che incontrano la fede e l'accettano risultano santi per chiamata di Dio e
meritevoli del saluto “Grazia e pace”, che indica, per chi è cristiano, la benevolenza di Dio
(Grazia) e la pace tra i fratelli (1,7) La riflessione che stiamo compiendo in questo "anno sacerdotale" ci ricorda che elemento fondamentale, per tutti i credenti, è il culto. Lo stesso Paolo ci ricorda il vertice del suo culto che consiste nell'evangelizzare: il sacrificio di Gesù in Lui si attua nell'impegno di manifestarlo come Signore e Salvatore. "Mi è testimone Dio, al quale rendo culto nel mio spirito annunciando il Vangelo del Figlio suo" (1,9).
Paolo insegna, qui ed in altri testi (es. Rom 12,1 ss), che il culto si vive nella vita: è il
culto spirituale che ognuno propone mentre opera con responsabilità ed amore azioni ed
impegni che sono misurati nella fede. E’ la quotidianità sviluppata secondo la propria
vocazione di sacerdote, lavoratore, imprenditore, politico, sindacalista, professionista ecc.
La consapevolezza per cui agiamo nella fede e sulla quale ci misuriamo nasce da: “Non mi
vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede (1,16).


Acclamazione al Vangelo
(Cfr Gv 14,23)
Alleluia.
Se uno mi ama, osserverà la mia parola, dice il Signore,
e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui.
Alleluia.
Vangelo: Gv 8,12-19
In quel tempo. Il Signore Gesù parlò agli scribi e ai farisei e disse: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita». Gli dissero allora i farisei: «Tu dai testimonianza di te stesso; la tua testimonianza non è vera». Gesù rispose loro: «Anche se io do testimonianza di me stesso, la mia testimonianza è vera, perché so da dove sono venuto e dove vado. Voi invece non sapete da dove vengo o dove vado. Voi giudicate secondo la carne; io non giudico nessuno. E anche se io giudico, il mio giudizio è vero, perché non sono solo, ma io e il Padre che mi ha mandato. E nella vostra Legge sta scritto che la testimonianza di due persone è vera. Sono io che do testimonianza di me stesso, e anche il Padre, che mi ha mandato, dà testimonianza di me». Gli dissero allora: «Dov’è tuo padre?». Rispose Gesù: «Voi non conoscete né me né il Padre mio; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio».
Parola del Signore.
Il clima intorno a Gesù è infuocato. Nei capitoli precedenti c’è un gran parlare, in sordina,
tra persone che si pongono il problema della sua identità. Ma se ciascuno si dibatte su
interrogativi, ipotesi, speranze, congiunture, i
capi dei giudei, i capi dei sacerdoti e i farisei
fanno di tutto per fermare Gesù che predica.
E se hanno cominciato con le guardie che tornano disorientate dalla parola di Gesù,
continuano con il compromettere Gesù, mettendolo a confronto con la legge di Mosè.
Così provocano la fedeltà di Gesù alla legge, portandogli una donna “sorpresa in fragrante
adulterio” (8,4). La soluzione del giudizio non entra nel merito della legge, ma sulla
responsabilità di chi vuole giudicare. Il problema della legge, anche per Mosè, non è
l’ossequio formale, ma una pulizia interiore che l’uomo non sa raggiungere.
Perciò nelle mani di Gesù, la legge è una verifica di una coerenza interiore, non uno
strumento di potere che interviene con durezza e senza nessuna possibilità di misericordia.
La vita di questa donna, per loro, è anche tranello per la vita di Gesù. Gesù risponde
invitando le persone alla verifica di una propria coerenza interiore. Solo dopo possono
permettersi di diventare giustizieri per la legge, se si riconoscono in coscienza santi. “Chi
di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei” (8,7).
In queste contraddizioni e confusioni, Gesù, finalmente, si proclama luce: “Io sono la luce
del mondo”. L’affermazione si rifà a quella serie di risposte che accompagnano la vita e i
fatti (“segni”) di Gesù. “Io sono” suscita l’eco della rivelazione di Dio sul Sinai e,
insieme, esplicita la bellezza del dono che la pienezza di Dio offre.
“Io sono la luce”, ma anche: “Io sono il pane, il pastore, la porta, la vita”. In queste
manifestazioni c’è lo svelarsi strano di Gesù e la polemica successiva. Gesù sapeva che
non potevano capirlo, ma continua a parlare di rivelazione e testimonianza. La rivelazione
di Gesù è completa poiché egli dà un volto nuovo a Colui in cui ciascuno crede.
Garantisce, secondo la legge, che i testimoni sono
2 (Deut. 19,15): Lui e il Padre; ed invita
a ripensare in modo nuovo la fede.
E’ Gesù che illumina, che manifesta stili e contenuti. E’ Lui che si fa Guida e che
arricchisce della luce di vita. Ognuno tenti, nonos
tante le difficoltà, di farsi discepolo per
entrare nella comunione e nella luce del Padre e di Cristo.

PER LA NOSTRA VITA

1.
Tocca addormentarsi in alto nella luce.
Tocca restare svegli in basso nell’oscurità intraterrestre. [...]
Laggiù nelle “profondità”,
negli inferi il cuore veglia, non si concede
riposo, si riaccende in se stesso. In alto, nella luce
il cuore si abbandona, si concede. Si raccoglie
[...]
Si addormenta infine senza più pena.
Nella luce che accoglie dove non si patisce violenza alcuna”.

2.
Partecipiamo a una luce che viene molto dall’alto; la nostra intelligenza non afferra
l’Assoluto
con una presa sempre astratta
senza essere stata afferrata da Lui. E’ ciò che si
esprimerà dicendo con una tradizione che risale a S. Paolo, che se vi è una conoscenza di
Dio, anche naturale, in fin
dei conto è per “rivelazione” di Dio. “Per e
s
sere illuminato
bisogna essere guardato”. “Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto.

3.
La giustizia di Dio si rivela nel vangelo per il fatto che nessuno è escluso dalla
salvezza, sia che venga come
giudeo, sia che venga come greco o come barbaro. Infatti a
tutti ugualmente il Salvatore dice:
Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi
(Mt 11,28).
Circa l’espressione
da fede in fede
poi, abbiamo già detto sopra che anche il primo popolo si
trovava nella fede poiché aveva creduto a Dio e al suo servo Mosè e ora da quella fede è
passato alla fede del vangelo.
Ciò che poi dice, tratto dalla testimonianza del profeta Abacuc:
Il giusto vivrà della fede
(Ab 2,4), è inteso sia di colui che è nella
legge, affinché creda pure ai vangeli, sia di chi è nei
vangeli, affinché creda pure alla legge e ai profeti. Infatti l’una cosa senza l’altra non arreca
la pienezza della vita.

4.
L’Evangelo non ha bisogno di cercare né di fuggire il conflitto delle rel
igioni e delle
visioni del mondo. Come annunzio della limitazione del mondo conosciuto per opera di un
altro, sconosciuto, esso è fuori concorso nei confronti di tutti i tentativi di scoprire e rendere
accessibili, nell’interno del mondo conosciuto, zone
di esistenza più elevate, relativamente
sconosciute. Esso non è una verità accanto ad altre verità, esso pone in questione tutte le
verità. Esso è il cardine, non la porta. Chi lo comprende in quanto impegnato nella lotta per
il tutto, per l’esistenza, è
liberato da ogni lotta. Non vi è apologetica, non vi è
preoccupazione per la vittoria dell’Evangelo. In quanto è la negazione e la fondazione di
ogni dato, esso è la vittoria che piega il mondo. Esso non ha bisogno di essere patrocinato e
sostenuto, anzi,
difende e sostiene coloro che lo  ascoltano e lo annunziano. Per la causa
dell’Evangelo non è necessaria la venuta di Paolo in Roma, agitata da tutti gli spiriti, come è
certo che in virtù dell’Evangelo egli può venire e verrà fiducioso e senza vergogna.
Noi
saremmo inutili a
Dio,
Dio dovrebbe vergognarsi di
noi,
se non fosse Dio
in ogni caso non
il contrario.
L’Evangelo della risurrezione è
“potenza di Dio.”
Esso è la sua “virtus” (Vulgata), la
rivelazione e la conoscenza della sua importanza, la dimostrazione della sua eccellenza sopra
tutti gli dèi. Esso è l’azione, il miracolo dei miracoli, in cui Dio si dà a conoscere come
quello che è, cioè come il Dio sconosciuto che abita
 in una luce inaccessibile, il Santo, il
Creatore, il Redentore.
«Quello che voi avete adorato senza conoscerlo, io ve l’annunzio!»
(Atti 17:23).
Tutte
divinità
che rimangono al di qua della linea segnata dalla risurrezione,
che abitano in templi fatti d’opera di mano, e che sono serviti da
mani d’uomini, tutte le
divinità che hanno “bisogno di qualcuno” cioè dell’uomo che pensa di conoscerle (Atti 17:24-25), non sono Dio. Dio è il Dio sconosciuto

5.
La potenza di Dio è potenza
“per la salvezza.”
L’uomo si trova in questo mondo in
prigione. Una riflessione alquanto profonda non
può concedersi nessuna incertezza sulla
limitazione delle possibilità che sono qui e ora a nostra disposizione. Ma noi siamo più lontani da Dio, il nostro inganno verso lui è più
grande (1: 18; 5: 12) e le sue conseguenze sono sempre ancora più vaste (1:24; 5:12)
di quanto ci permettiamo di pensare. L’uomo è signore di se stesso. La sua unità con Dio è lacerata in un modo tale che non siamo nemmeno piú in grado di rappresentarci la sua restaurazione. La sua creaturalità è la sua catena.
Il suo peccato è la sua colpa. La sua morte è il suo destino. Il suo mondo è un informe
ondeggiante caos di forze naturali, psichiche e altre. La sua vita è un’apparenza. Questa è la nostra situazione.
 “Vi è un Dio?” Domanda veramente legittima! Concepire questo mondo
nellasua unità con Dio, è colpevole arroganza religiosa, se non è la conoscenza ultima di ciò
che è vero al di là della nascita e della morte, conoscenza che viene da Dio. La presunzione
religiosa deve sparire, se deve subentrare ad essa la conoscenza che vien
e da Dio. Quando  circolano monete false, anche le buone sono sospette. L’Evangelo offre la possibilità di
questa conoscenza ultima. Ma perché divenga realtà, essa deve mettere fuori corso tutte le
concezioni penultime. L’Evangelo parla di Dio come è, esso
intende Lui stesso, Lui solo.
Esso parla del Creatore che diventa , il nostro Salvatore e del Salvatore che è il nostro
Creatore. Esso tende a rinnovarci in tutto e per tutto. Esso ci annunzia la trasformazione
della nostra creaturalità in libertà, la remissione dei nostri peccati, la vittoria della vita sulla
morte, il rinvenimento di tutto ciò che è perduto. Esso è il grido di allarme, il segnale
d’incendio di un mondo nuovo che viene.