martedì 30 novembre 2010

DOMENICA 5 DICEMBRE 2010 IV DI AVVENTO

Vangelo secondo Matteo 21, 1-9

In quel tempo. Quando furono vicini a Gerusalemme e giunsero presso Bètfage, verso il monte degli Ulivi, il Signore Gesù mandò due discepoli, dicendo loro: «Andate nel villaggio di fronte a voi e subito troverete un’asina, legata, e con essa un puledro. Slegateli e conduceteli da me. E se qualcuno vi dirà qualcosa, rispondete: “Il Signore ne ha bisogno, ma li rimanderà indietro subito”». Ora questo avvenne perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: «Dite alla figlia di Sion: / Ecco, a te viene il tuo re, / mite, seduto su un’asina / e su un puledro, figlio di una bestia da soma». I discepoli andarono e fecero quello che aveva ordinato loro Gesù: condussero l’asina e il puledro, misero su di essi i mantelli ed egli vi si pose a sedere. La folla, numerosissima, stese i propri mantelli sulla strada, mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla strada. La folla che lo precedeva e quella che lo seguiva, gridava: «Osanna al figlio di Davide! / Benedetto colui che viene nel nome del Signore! / Osanna nel più alto dei cieli!».

COMMENTO

Una modesta acclamazione popolare acquista, nel Vangelo di Matteo, il fascino di una
scena trionfale di Gesù nella città santa, con tutta quella dignità regale e messianica che
dall'evangelista viene ripresa, ripensando il testo del profeta Zaccaria.

Tuttavia il trionfo si lega però alla passione.

La citazione di Zaccaria ricorda, in particolare, la mitezza e l'umiltà. Infatti, dal testo citato di Zaccaria vengono tolti due aggettivi:
"Egli è giusto e vittorioso" (Zac 9,9) così come vengono sostituite le parole,
"Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme" con
"Dite alla figlia di Sìon" di Isaia (62,11).

Matteo concentra l'attenzione su Gesù "mite" (umile). Questi, infatti, non entra vittorioso
su un focoso destriero, ma su un umile asinello, come annunciatore di pace (Zac 9,10).
Gesù, sale al tempio, coinvolto in un trionfo improvvisato, che, a dire la verità, anche Lui
ha provocato, prenderà poi possesso della città santa e ne scaccerà i profanatori (21,12-
17).

La folla distende le vesti e agita rami di alberi mentre scandisce acclamazioni. Queste
però risultano pericolose poiché fanno riferimento alla dignità regale, acclamata in modo
semplice e ingenuo.

Nel Salmo 118,19 si fa riferimento alla folla che nella "festa delle capanne"e "della
dedicazione" facevano un corteo gioioso: "Ordinate il corteo con rami frondosi fino ai
lati dell'altare". I pellegrini, che probabilmente accompagnano Gesù o i suoi compatrioti
galilei, accampati fuori Gerusalemme, si ricordano di questa consuetudine e organizzano
una festa in modo rozzo e modesto. L'acclamazione "Osanna" significa, inizialmente,
"Deh! Salvaci", ma poi è diventato un grido gioioso, a cui fanno seguito le acclamazioni
messianiche, tratte dal Salmo 118,25-26.

Il Signore non viene come ce lo aspetteremmo. Non traspaiono i nostri progetti né le
nostre rivincite. Egli annulla le vittorie. Quando viene, porta una proposta di pace e di
novità a cui solo le persone semplici, i credenti in Lui, rispondono fiduciosi.
Egli non garantisce niente di ciò che ci aspettiamo. Per il suo trionfo chiede in prestito a
noi le piccole cose che abbiamo: gli asini, la festa, i mantelli, i rami degli alberi, le grida
di acclamazione, la fiducia. Egli non manifesta esigenze di potere, né forze combattenti,
né desideri di trionfo.

Egli non vuole vincere nessuno, e questo dovrebbe essere ben chiaro nella sensibilità del
nostro mondo credente.

A noi piace pensare che Cristo "impera, vince, regna". Cristo viene per servire, per amare
fino alla morte, per offrire chiarezza e lucidità su quello che veramente conta. E queste
parole vanno lette nel sangue dei martiri messicani agli inizi del secolo XX. Ma poi la
voglia di dimostrare e di vincere ci rende facilmente fondamentalisti quando vogliamo e
pretendiamo di dimostrare e di difendere la potenza di Dio. Ma Egli ci offre un cammino
in libertà verso di Lui, il Signore che ci accompagna discreto e invisibile e che ci accoglie
con un abbraccio di comunione. Ci accoglie come umili testimoni della volontà del Padre
che ama e non vuol vincere.

Approfondimento Il Cristianesimo in dialogo con la cultura europea

Cristiani tutti di un pezzo del Card. Kurt Koch

Secolarizzazione o secolarismo?
Le democrazie dell’Europa occidentale sono spesso qualificate come materialiste ed edoniste. Ma è la nozione di secolarizzazione quella che torna più spesso nei discorsi del magistero della Chiesa cattolica. A uno sguardo un po’ attento questo termine si rivela troppo vago per descrivere le nostre società occidentali. Questo soprattutto per tre motivi, che esamineremo uno dopo l’altro.
Nel discorso ecclesiastico il termine 'secolarizzazione' è spesso utilizzato in senso negativo, e questo giustifica una resistenza della Chiesa a un mondo moderno che si distacca da essa. Un motivo di questa posizione difensiva è da cercare in una certa confusione fra la secolarizzazione come fatto culturale e la secolarizzazione come processo politico ed economico. Vista in questo modo, la secolarizzazione è necessariamente compresa come un rifiuto della Chiesa e una progressiva scristianizzazione. Invece la Chiesa dovrebbe gioire che il cristianesimo in Europa esista anche in forma secolarizzata, prova che essa ha trasmesso all’intera società i frutti dell’evangelo: rispetto della libertà di coscienza, dignità inviolabile di ogni persona, dovere di ingerenza per l’altrui protezione (compresa e soprattutto la vita di persone handicappate o ferite), scuola obbligatoria, per citare solo qualche esempio particolarmente significativo. Sono questi altrettanti tesori evangelici secolarizzati. Alcuni di essi sono stati anzi pienamente riconosciuti come tali solo una volta secolarizzati!
Una mobilitazione cristiana contro questo tipo di secolarizzazione sarebbe dunque il risultato di un grave errore di giudizio. Se infatti la secolarizzazione culturale implica certamente la rottura di un legame con la Chiesa, non per questo equivale a una scristianizzazione.
Questa convinzione è stata condensata dal teologo protestante Trutz Rendtorff in una formula lapidaria: «La secolarizzazione, vista sul piano culturale, non è un concetto che si opponga al cristianesimo». Per contro è possibile respingere un’altra tesi di Rendtorff sul fatto che «la secolarizzazione, in quanto movimento che si oppone al cristianesimo, si produce solo per effetto di pressioni politiche deliberate». Se infatti la situazione nell’Europa ex comunista conferma questa tesi, quel 'solo' è di troppo: non sempre avviene così. A est come a ovest la secolarizzazione ha preso talvolta la forma di un processo anticristiano per divenire così un pericoloso secolarismo, ma non ha assunto sempre necessariamente questa forma. Si fa allora apparire l’ombra oscura della recente situazione dell’Europa occidentale, ma questa è percepita adeguatamente solo se la secolarizzazione è stata prima considerata alla luce positiva della fede cristiana.
Questa luce è a sua volta accompagnata da un’altra ombra, più inquietante, prodotta dal cristianesimo stesso. La divisione confessionale dell’Europa, con le sue atroci conseguenze di guerre, la tragica incapacità delle chiese a mantenere la pace religiosa, tutto questo, visto storicamente, ha condotto alla necessità di sottrarre la vita civile, in ambiti importanti, alle contraddizioni confessionali, situandola in un contesto secolarizzato. Deplorare il secolarismo dell’Europa o la sua dimenticanza di Dio, che Martin Buber chiamava 'eclisse di Dio', equivale per le Chiese a fare innanzitutto autocritica. Per le Chiese dell’Europa ex comunista una tale autocritica deve portare a riconoscere da un lato che il crollo del sistema totalitario costituisce un’immensa opportunità per la comunicazione della fede, ma che d’altro lato esso non garantisce per nulla la riuscita di tale comunicazione. Ciò non significa che la Chiesa debba ora prendere il posto dello Stato e dettare alla società civile le sue linee di condotta. Il cristianesimo ha la vocazione di ricordare al legislatore le esigenze evangeliche, non di sostituirsi a esso.

Secolarizzazione o postmodernità vagamente religiosa?
La comunicazione della fede non è dunque una soluzione di ricambio contro la secolarizzazione. È però una via per sormontare il secolarismo, che ha provocato una tremenda assenza di Dio nella cultura europea. Ma le società moderne sono davvero tanto empie quanto si vorrebbe farci credere? Questa domanda ci conduce a considerare un secondo motivo per cui la nozione di secolarizzazione sembra poco adatta a caratterizzare le società occidentali. In effetti questa idea di secolarizzazione è spesso legata, soprattutto entro la Chiesa, al seguente pregiudizio: nelle nostre società moderne la religione e il cristianesimo non hanno più avvenire. Una simile analisi ha a quanto pare dalla sua i pronostici dei sociologi della religione. Max Weber, ad esempio, ha caratterizzato la secolarizzazione come un processo di 'disincanto' del mondo. In essa egli vedeva l’inevitabile destino delle società industrializzate. Al suo seguito i sociologi della religione sono stati unanimi nell’affermare che il processo di secolarizzazione era irreversibile.
Questo 'dogma' peraltro è oggi largamente abbandonato, soppiantato da quello della persistenza (o del ritorno) della religione.
Secondo quest’analisi non ci si deve attendere uno sviluppo illimitato della secolarizzazione.
Le società moderne dell’Europa occidentale creano da se stesse un bisogno di senso, attraverso il vuoto che la cultura secolare non riesce a colmare. Di fatto, la religione è nuovamente molto presente nelle nostre società occidentali, che sia attraverso l’esoterismo o la new age. Si sviluppano forme di religione totalmente nuove, nel momento stesso in cui le Chiese si svuotano. Secondo Walter Kasper si tratta di un «miscuglio quasi impossibile da definire, fatto di una cosiddetta mistica e di meditazione orientale. Spesso raggiunge i movimenti ecologisti e femministi, ove i miti sono di grande attualità». La redenzione, come sottolinea non senza umorismo il teologo cattolico Tiemo Rainer Peters con una strizzatina d’occhio a Eugen Drewermann, non è ormai altro che «la liberazione dell’anima angosciata, strappata al complesso turbine della società e tuffata nella consolazione di una religione privata».
Le attese di Feuerbach, di Marx, di Nietzsche e di Freud si sono rivelate fallaci, come altrettante superstizioni. Ma d’altro lato, sarebbe illusorio concludere che la fede cristiana potrebbe sostituire queste illusioni!
Nelle nostre società infatti la superstizione antireligiosa è stata sostituita da una superstizione religiosa. A questo punto in Europa occidentale il problema esplosivo per le Chiese cristiane non è il conflitto tra credenza e miscredenza, ma quello tra fede e superstizione, tra venerazione e idolatria. La confusione tra fede cristiana e religione patriottica o 'religione civile' è una tenace variante dell’idolatria. La si ritiene capace di garantire l’ordine sociale, ma come fa notare il teologo cattolico Francis Fiorenza, nella religione civile «l’universalismo della religione è minato dal particolarismo nazionalista». La grande tentazione è allora l’idolatria nazionalista. Le Chiese cristiane soccomberebbero a questa tentazione se, come nota Eberhard Jüngel, consentissero a «proporre i loro servizi, in quanto religione civile, a un’Europa in via di unificazione, invece di richiamare il diritto di tutti i credenti a situarsi in maniera costruttiva e critica di fronte alla città».
Secolarizzazione culturale o differenziazione politica?
Vi è un terzo motivo per cui il concetto di secolarizzazione è poco adatto a fondare una nuova comunicazione della fede nella società attuale. Certamente le Chiese hanno perduto la posizione privilegiata di un tempo, ma adempiono ancora a un ruolo importante, in particolare ai margini della società, là dove si manifestano dei bisogni sociali in attesa di risposta. A questo titolo la società moderna assegna due missioni alle Chiese. In primo luogo le Chiese hanno sempre la facoltà di influenzare la condotta delle singole persone.
Ma questa missione è considerata per lo più come una funzione di compensazione. Le Chiese condividono la sorte delle istituzioni di tempo libero in generale. Secondo l’analisi di Jürgen Habermas, il tempo libero è legato al suo contrario, al tempo lavorativo. Serve a ricostituire la capacità di lavorare, a compensare l’attività faticosa fisicamente e psichicamente sfibrante. Si attende dunque dalle Chiese questo sollievo, soprattutto la domenica, attraverso un po’ di sfavillio festivo che compensi la monotonia della settimana.
Finché le Chiese rispondono a quest’attesa ricevono una certa considerazione. Ma non appena si sforzano di forgiare e di umanizzare il mondo quotidiano, quello della settimana, vengono percepite come se esercitassero un’ingerenza intollerabile negli ambiti della politica e dell’economia, e rimandate allo spazio religioso loro assegnato.
In secondo luogo la società affida alle Chiese la gestione della precarietà della vita. Si presume che le Chiese si assumano ciò che fa parte della finitezza umana, soprattutto le situazioni limite di colpevolezza, di sofferenza, di malattia e di morte. Si presume che portino consolazione (o anestesia?) con la promessa di una vita migliore nell’aldilà. Le Chiese ottengono così lo statuto di «pompieri spirituali» o di «farmacie del senso». Finché rispondono a quest’attesa ricevono anche in questo caso una certa considerazione. Ma non appena vogliono andare oltre l’aiuto dato alle persone stritolate dagli ingranaggi della società, e tentano di bloccare questi ingranaggi, si sentono nuovamente accusare di ingerenza proibita in un ambito che non è il loro.
Questa doppia destinazione della Chiesa in un ambito religioso ben delimitato è ciò che viene chiamato privatizzazione della religione.
Un simile processo di frantumazione sociale e di retrocessione delle Chiese nella sfera privata pone una domanda cruciale alle Chiese. Come situarsi in questa società frantumata e come annunciarvi l’evangelo in modo credibile?
Secondo il sociologo Franz-Xaver Kaufmann, si presentano soltanto tre opzioni per rispondere a tale domanda.
In primo luogo, quelli che si usa chiamare tradizionalisti colgono bene la posta in gioco, ma non propongono alcuna terapia utile.
Sognano di ristabilire la situazione del Medioevo. Dato che ciò è impossibile, si sforzano di mantenere, all’interno del loro spazio confessionale, i segni delle antiche società cristiane. Questa opinione regressiva tende a costituire delle 'riserve' di religioso.
Anche se ne esistono ancora dei residui, una tale scelta è superata e non offre alcuna prospettiva di avvenire per una nuova evangelizzazione.
In secondo luogo esiste una concezione liberale, largamente diffusa, che consiste per la Chiesa nel rispondere alle domande rivoltele, nell’ambito della compensazione o della gestione della precarietà. Il problema non è che la Chiesa risponda a tali attese, le quali fanno certo parte della sua missione, ma che risponda unicamente a esse. In tale caso non solo rischia di diventare una semplice fornitrice di servizi che smercia i suoi prodotti sul mercato del senso della vita, ma sarebbe anche tentata, a questo punto, di lasciarsi dettare i suoi compiti e la sua missione dalle attese della società piuttosto di definirli a partire dall’evangelo.
In terzo luogo, di fronte a queste due derive poco promettenti, si presenta l’opzione missionaria. Essa mira a superare le frontiere del senso e del religioso, quali sono determinate dalla società. Non accetta assolutamente, come sottolineano i fratelli Gerhard e Norbert Lohfink, di «lasciare una società borghese e individualista relegare la Chiesa nel settore del religioso e del trascendente». Vuole anche esercitare una funzione critica nei confronti della società e delle correnti dominanti di oggi. Per essa la comunicazione della fede consiste nel diffondere l’evangelo, come il sale, in tutti i settori della vita sociale. Pare evidente che solo questa opzione permette davvero una comunicazione della fede nel contesto europeo. La Chiesa deve imparare ad accettare senza complessi il pluralismo circostante, che relativizza la sua propria esistenza. Tale sfida non dispensa in alcun modo la Chiesa dall’annunciare a tutti la verità e l’assoluto dell’evangelo, ma deve renderla cosciente che questo annuncio universale dell’evangelo, che per essa è una verità indubitabile, nella società moderna non è che un’affermazione in mezzo ad altre. Ciò le apparirà tanto più facile quanto più, da un lato, sarà convinta di derivare la sua autorità solo dall’«autorità di Cristo supplice» e, d’altro lato, si ricorderà che è appunto grazie alla sola forza dell’evangelo e della pratica della carità, senza ricorso al braccio secolare, che essa stessa ha preparato storicamente il pluralismo delle società moderne, garanzia sufficiente perché la secolarizzazione non si degradi in un secolarismo totalitario.


RITO ROMANO



COMMENTO

Matteo 3,1-12

1 In quei giorni, venne Giovanni il Battista e
predicava nel deserto della Giudea 2 dicendo:
«Convertitevi, perché il regno dei cieli è
vicino!». 3 Egli infatti è colui del quale aveva
parlato il profeta Isaia quando disse: «Voce di
uno che grida nel deserto: Preparate la via del
Signore, raddrizzate i suoi sentieri!».
4 E lui, Giovanni, portava un vestito di peli di
cammello e una cintura di pelle attorno ai
fianchi; il suo cibo erano cavallette e miele
selvatico. 5 Allora Gerusalemme, tutta la
Giudea e tutta la zona lungo il Giordano
accorrevano a lui 6 e si facevano battezzare da
lui nel fiume Giordano, confessando i loro
peccati.
7 Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo
battesimo, disse loro: «Razza di vipere! Chi vi
ha fatto credere di poter sfuggire all’ira
imminente? 8 Fate dunque un frutto degno della
conversione, 9 e non crediate di poter dire
dentro di voi: “Abbiamo Abramo per padre!”.
Perché io vi dico che da queste pietre Dio può
suscitare figli ad Abramo. 10 Già la scure è
posta alla radice degli alberi; perciò ogni
albero che non dà buon frutto viene tagliato e
gettato nel fuoco. 11 Io vi battezzo nell’acqua
per la conversione; ma colui che viene dopo di
me è più forte di me e io non sono degno di
portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito
Santo e fuoco. 12 Tiene in mano la pala e pulirà
la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel
granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco
inestinguibile».


Giovanni Battista è il precursore del Messia. Egli è consapevole che i
tempi della salvezza si stanno compiendo e invita alla conversione il
popolo d’Israele. Il regno di Dio si avvicina e occorre prepararsi
convertendosi dal peccato per vivere nella giustizia.
Già Isaia aveva annunciato il suo presentarsi sulla scena del mondo con
questa missione: preparare il cuore degli uomini per la venuta del
messia.
Giovanni sta nel deserto, lontano dai luoghi della vita comune, deserto
come luogo in cui si riscoprono le cose essenziali che permettono di
vivere: cavallette e miele selvatico, che indicano l’affidamento al
Signore. Il deserto è il luogo in cui il Signore riconduce il suo popolo
per fargli rivivere i legami di amore con cui lo unisce a sé (Os 2,16; Os
11,1-6), per fargli sperimentare la giustizia di Dio nei suoi confronti,
così che possa anche lui viverla pienamente.
L’essenzialità della vita di Giovanni era un segno ben compreso dai suoi
contemporanei, che vedevano in lui un uomo degno di fede, uno che non
ha altro interesse che quello di annunciare ciò che ha udito. Per questo
andavano a confessare a lui i loro peccati.
A chi viene da lui forte della propria fede e tradizione, Giovanni rivolge
una parola sferzante: non fatevi scudo della vostra tradizione, ma anche
voi, come tutti gli altri, convertitevi.
Il tempo del giudizio è vicino e tutto ciò che in ciascuno non porta un
frutto di bontà e di giustizia, verrà tagliato e gettato nel fuoco (cfr. Mc
9,42ss).
Giovanni è consapevole che se lui battezza solo con l’acqua, cioè
attraverso un mezzo esterno, simbolo della realtà interiore, il Messia
invece immergerà gli uomini nello Spirito d’amore del Padre, che
brucerà tutti i peccati e lascerà vivere il buon grano, nutrimento d’amore
per tutti.
Accogliamo con gioia questa purificazione dei nostri peccati che si
realizza tramite il fuoco d’amore che viene da Dio.

martedì 23 novembre 2010

Domenica 28 novembre 2010 III di Avvento


Avviso:

coloro, tra gli studenti LIUC, che desiderano prepararsi alla S. Cresima si rivolgano a me entro i primi di dicembre.

Lettura del Vangelo secondo Matteo 11, 2-15

In quel tempo. Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!». Mentre quelli se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”. In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui. Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono. Tutti i Profeti e la Legge infatti hanno profetato fino a Giovanni. E, se volete comprendere, è lui quell’Elia che deve venire. Chi ha orecchi, ascolti!».

Commento

Giovanni è un po’ in crisi: è stato arrestato e mentre si trova in prigione gli vengono in mente pensieri cupi. E poi c’è Gesù che ritarda a portare il fuoco purificatore, come Giovanni aveva predetto.

Gesù gli risponde mostrandogli i segni del regno di Dio: segni veri, ma miti, segni efficaci ma non eclatanti. Il più grande sarà che il re di questo regno , Gesù, avrà per trono la Croce. E questo neanche Giovanni poteva concepirlo.

Ma la domanda di Giovanni dà l’occasione a Gesù di parlare proprio di Lui.

Si tratta di una vera canonizzazione sul campo.

Giovanni non è una canna sbattuta dal vento.

Pensiamo a quanto vale la nostra parola.

Pensiamo con quanto impegno cerchiamo la verità.

Pensiamo con quanto impegno difendiamo la verità e i valori in cui diciamo di credere.

Impallidiamo.

Poi Gesù dice che Giovanni non veste abiti di lusso.

Pensiamo a quanto le comodità rendono fragili i nostri propositi

Pensiamo ai compromessi che facciamo per avere.

Pensiamo a quanto siamo disinteressati nel nostro servizio agli altri.

Arrossiamo.

Infine Gesù dice che è un profeta.

Annuncia una parola non sua alla quale ubbidisce con tutto se stesso.

Pensiamo al nostro debole o nullo ascolto della Parola di Dio.

Pensiamo alla svogliatezza del nostro impegno di annunciare il Cristo.

Pensiamo che preferiamo stare nel nostro privato (una volta si chiamava brodo!), piuttosto che testimoniare la fede.

Preghiamo per avere il dono di somigliare al Battista

L’approfondimento di questa settimana lo dedichiamo al Cardinale J. H. Newman, una personalità straordinaria recentemente beatificata dal Papa.

Sembra essere lontano da Giovanni Battista, in realtà è stato un Battista dei tempi moderni.

Vi allego il discorso fatto da papa Benedetto XVI durante la veglia di preghiera che ha preceduto la betatificazione.

Cari Fratelli e Sorelle in Cristo,

questa è una serata di gioia, di immensa gioia spirituale per tutti noi. Siamo qui riuniti in questa veglia di preghiera per prepararci alla Messa di domani, durante la quale un grande figlio di questa Nazione, il Cardinale John Henry Newman, sarà dichiarato Beato. Quante persone, in Inghilterra e in tutto il mondo, hanno atteso questo momento! Anche per me personalmente è una grande gioia condividere questa esperienza con voi. Come sapete, Newman ha avuto da tanto tempo un influsso importante nella mia vita e nel mio pensiero, come lo è stato per moltissime persone al di là di queste isole. Il dramma della vita di Newman ci invita ad esaminare le nostre vite, a vederle nel contesto del vasto orizzonte del piano di Dio, e a crescere in comunione con la Chiesa di ogni tempo e di ogni luogo: la Chiesa degli Apostoli, la Chiesa dei martiri, la Chiesa dei santi, la Chiesa che Newman amò ed alla cui missione consacrò la propria intera esistenza.

Ringrazio l’Arcivescovo Peter Smith per le gentili parole di benvenuto pronunciate a vostro nome, e sono particolarmente lieto di vedere molti giovani presenti a questa veglia. Questa sera, nel contesto della preghiera comune, desidero riflettere con voi su alcuni aspetti della vita di Newman, che considero importanti per le nostre vite di credenti e per la vita della Chiesa oggi.

Permettetemi di cominciare ricordando che Newman, secondo il suo stesso racconto, ha ripercorso il cammino della sua intera vita alla luce di una potente esperienza di conversione, che ebbe quando era giovane. Fu un’esperienza immediata della verità della Parola di Dio, dell’oggettiva realtà della rivelazione cristiana quale era stata trasmessa nella Chiesa. Tale esperienza, al contempo religiosa e intellettuale, avrebbe ispirato la sua vocazione ad essere ministro del Vangelo, il suo discernimento della sorgente di insegnamento autorevole nella Chiesa di Dio ed il suo zelo per il rinnovamento della vita ecclesiale nella fedeltà alla tradizione apostolica. Alla fine della vita, Newman avrebbe descritto il proprio lavoro come una lotta contro la tendenza crescente a considerare la religione come un fatto puramente privato e soggettivo, una questione di opinione personale. Qui vi è la prima lezione che possiamo apprendere dalla sua vita: ai nostri giorni, quando un relativismo intellettuale e morale minaccia di fiaccare i fondamenti stessi della nostra società, Newman ci rammenta che, quali uomini e donne creati ad immagine e somiglianza di Dio, siamo stati creati per conoscere la verità, per trovare in essa la nostra definitiva libertà e l’adempimento delle più profonde aspirazioni umane. In una parola, siamo stati pensati per conoscere Cristo, che è Lui stesso “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6).

L’esistenza di Newman, inoltre, ci insegna che la passione per la verità, per l’onestà intellettuale e per la conversione genuina comportano un grande prezzo da pagare. La verità che ci rende liberi non può essere trattenuta per noi stessi; esige la testimonianza, ha bisogno di essere udita, ed in fondo la sua potenza di convincere viene da essa stessa e non dall’umana eloquenza o dai ragionamenti nei quali può essere adagiata. Non lontano da qui, a Tyburn, un gran numero di nostri fratelli e sorelle morirono per la fede; la testimonianza della loro fedeltà sino alla fine fu ben più potente delle parole ispirate che molti di loro dissero prima di abbandonare ogni cosa al Signore. Nella nostra epoca, il prezzo da pagare per la fedeltà al Vangelo non è tanto quello di essere impiccati, affogati e squartati, ma spesso implica l’essere additati come irrilevanti, ridicolizzati o fatti segno di parodia. E tuttavia la Chiesa non si può esimere dal dovere di proclamare Cristo e il suo Vangelo quale verità salvifica, la sorgente della nostra felicità ultima come individui, e quale fondamento di una società giusta e umana.

Infine, Newman ci insegna che se abbiamo accolto la verità di Cristo e abbiamo impegnato la nostra vita per lui, non vi può essere separazione tra ciò che crediamo ed il modo in cui viviamo la nostra esistenza. Ogni nostro pensiero, parola e azione devono essere rivolti alla gloria di Dio e alla diffusione del suo Regno. Newman comprese questo e fu il grande campione dell’ufficio profetico del laicato cristiano. Vide chiaramente che non dobbiamo tanto accettare la verità come un atto puramente intellettuale, quanto piuttosto accoglierla mediante una dinamica spirituale che penetra sino alle più intime fibre del nostro essere. La verità non viene trasmessa semplicemente mediante un insegnamento formale, pur importante che sia, ma anche mediante la testimonianza di vite vissute integralmente, fedelmente e santamente; coloro che vivono della e nella verità riconoscono istintivamente ciò che è falso e, proprio perché falso, è nemico della bellezza e della bontà che accompagna lo splendore della verità, veritatis splendor.

La prima lettura di stasera è la magnifica preghiera con la quale san Paolo chiede che ci sia dato di conoscere “l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza” (cfr Ef 3,14-21). L’Apostolo prega affinché Cristo dimori nei nostri cuori mediante la fede (cfr Ef 3,17) e perché possiamo giungere a “comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità” di quell’amore. Mediante la fede giungiamo a vedere la parola di Dio come una lampada per i nostri passi e luce del nostro cammino (cfr Sal 119, 105). Come innumerevoli santi che lo precedettero sulla via del discepolato cristiano, Newman insegnò che la “luce gentile” della fede ci conduce a renderci conto della verità su noi stessi, sulla nostra dignità di figli di Dio, e sul sublime destino che ci attende in cielo. Permettendo a questa luce della fede di risplendere nei nostri cuori e abbandonandoci ad essa mediante la quotidiana unione al Signore nella preghiera e nella partecipazione ai sacramenti della Chiesa, datori di vita, diventiamo noi stessi luce per quanti ci stanno attorno; esercitiamo il nostro “ufficio profetico”; spesso, senza saperlo, attiriamo le persone più vicino al Signore ed alla sua verità. Senza la vita di preghiera, senza l’interiore trasformazione che avviene mediante la grazia dei sacramenti, non possiamo – con le parole di Newman – “irradiare Cristo”; diveniamo semplicemente un altro “cembalo squillante” (1Cor 13,1) in un mondo già pieno di crescente rumore e confusione, pieno di false vie che conducono solo a profondo dolore del cuore e ad illusione.

Una delle più amate meditazioni del Cardinale contiene queste parole: “Dio mi ha creato per offrire a lui un certo specifico servizio. Mi ha affidato un certo lavoro che non ha affidato ad altri” (Meditations on Christian Doctrine). Vediamo qui il preciso realismo cristiano di Newman, il punto nel quale la fede e la vita inevitabilmente si incrociano. La fede è destinata a portare frutto nella trasformazione del nostro mondo mediante la potenza dello Spirito Santo che opera nella vita e nell’attività dei credenti. Nessuno che guardi realisticamente al nostro mondo d’oggi può pensare che i cristiani possano continuare a far le cose di ogni giorno, ignorando la profonda crisi di fede che è sopraggiunta nella società, o semplicemente confidando che il patrimonio di valori trasmesso lungo i secoli cristiani possa continuare ad ispirare e plasmare il futuro della nostra società. Sappiamo che in tempi di crisi e di ribellioni Dio ha fatto sorgere grandi santi e profeti per il rinnovamento della Chiesa e della società cristiana; noi abbiamo fiducia nella sua provvidenza e preghiamo per la sua continua guida. Ma ciascuno di noi, secondo il proprio stato di vita, è chiamato ad operare per la diffusione del Regno di Dio impregnando la vita temporale dei valori del Vangelo. Ciascuno di noi ha una missione, ciascuno è chiamato a cambiare il mondo, ad operare per una cultura della vita, una cultura forgiata dall’amore e dal rispetto per la dignità di ogni persona umana. Come il Signore ci insegna nel Vangelo appena ascoltato, la nostra luce deve risplendere al cospetto di tutti, così che, vedendo le nostre opere buone, possano dar gloria al nostro Padre celeste (cfr Mt 5,16).

Qui desidero dire una parola speciale ai molti giovani presenti. Cari giovani amici: solo Gesù conosce quale “specifico servizio” ha in mente per voi. Siate aperti alla sua voce che risuona nel profondo del vostro cuore: anche ora il suo cuore parla al vostro cuore. Cristo ha bisogno di famiglie che ricordano al mondo la dignità dell’amore umano e la bellezza della vita familiare. Egli ha bisogno di uomini e donne che dedichino la loro vita al nobile compito dell’educazione, prendendosi cura dei giovani e formandoli secondo le vie del Vangelo. Ha bisogno di quanti consacreranno la propria vita al perseguimento della carità perfetta, seguendolo in castità, povertà e obbedienza, e servendoLo nel più piccolo dei nostri fratelli e sorelle. Ha bisogno dell’amore potente dei religiosi contemplativi che sorreggono la testimonianza e l’attività della Chiesa mediante la loro continua orazione. Ed ha bisogno di sacerdoti, buoni e santi sacerdoti, uomini disposti a perdere la propria vita per il proprio gregge. Chiedete a Dio cosa ha in mente per voi! Chiedetegli la generosità di dirgli di sì! Non abbiate paura di donarvi interamente a Gesù. Vi darà la grazia necessaria per adempiere alla vostra vocazione. Permettetemi di concludere queste poche parole invitandovi ad unirvi a me il prossimo anno a Madrid per la Giornata Mondiale della Gioventù. Si tratta sempre di una splendida occasione per crescere nell’amore per Cristo ed essere incoraggiati nella vostra gioiosa vita di fede assieme a migliaia di altri giovani. Spero di vedere là molti di voi!

Ed ora, cari amici, continuiamo questa veglia di preghiera preparandoci ad incontrare Cristo, presente fra noi nel Santissimo Sacramento dell’Altare. Insieme, nel silenzio della nostra comune adorazione, apriamo le menti ed i cuori alla sua presenza, al suo amore, alla potenza convincente della sua verità. In modo speciale, ringraziamolo per la continua testimonianza a quella verità, offerta dal Cardinale John Henry Newman. Confidando nelle sue preghiere, chiediamo a Dio di illuminare i nostri passi e quelli della società britannica, con la luce gentile della sua verità, del suo amore, della sua pace. Amen.

RITO ROMANO

PRIMA DOMENICA DI AVVENTO

Vangelo: Mt 24,37-44

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell'arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell'uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l'altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l'altra lasciata.
Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo».

È che Dio arriva quando meno te lo aspetti.
Magari lo cerchi tutta la vita, o credi di cercarlo, o sei convinto di averlo trovato e quindi dormi sugli allori e, intanto, la vita ti passa addosso.
Oppure proprio non ci pensi, travolto come sei dalle cose da fare, dal mutuo da pagare, disperatamente galleggiando in questo sfilacciato tramonto di civiltà che stiamo vivendo.
È che Dio è evidente e misterioso, accessibile e nascosto, già e non ancora.
E la nostra vita passa, con i suoi desideri e le sue delusioni, le sue scoperte e le sue pause, le sue paure e le sue ironie, i suoi entusiasmi e i suoi fallimenti. Passa e fatichiamo a tenerla ferma in un punto, un punto qualsiasi, attorno a cui far girare tutto il resto.
È che intorno tutti gufano, ma tanto. E anche ad essere ottimisti e a voler sempre vedere il mezzo bicchiere pieno c'è da vivere in ansia perenne: l'instabilità politica è alle stelle, forse l'Europa fallisce dopo tutti i bei sogni di unità, alcuni di voi (anch'io!) si ritrovano senza un lavoro, tutti, intorno, sembrano cani rabbiosi che scattano appena li sfiori.
Insomma: per tutte queste ragioni abbiamo assoluto bisogno di fermarci, almeno qualche minuto, di guardare dove stiamo andando, di trovare un filo a cui appendere, come dei panni, tutte le nostre vicende.
Oggi inizia l'avvento, finalmente.

Pubblica confessione
Sono quattro settimane che ci preparano al Natale, un'arca si salvezza che ci viene data per ritagliarci uno spazio di consapevolezza. Un mese per preparare una culla per Dio, fosse anche in una stalla. Non siamo qui a far finta che poi Gesù nasce: è già nato nella storia, tornerà nella gloria. Ma ora chiede di nascere in me.
Io voglio prepararmi, ho bisogno di capire come posso trovare il Dio diventato accessibile, fatto volto, divenuto incontrabile. Voglio poterlo vedere questo Dio consegnato, arreso, palese, nascosto in mezzo agli sguardi e ai volti di tanti neonati.
Sono poche quattro settimane, lo so. Ma voglio provarci ancora.
Perché possiamo celebrare cento natali senza che mai una volta Dio nasca nei nostri cuori.
Come dice splendidamente Bonhoeffer: «Nessuno possiede Dio in modo tale da non doverlo più attendere. Eppure non può attendere Dio chi non sapesse che Dio ha già atteso lungamente lui.»

Uno preso, uno lasciato
Iniziamo a leggere Matteo, da oggi. Il pubblicano divenuto discepolo, colui che si è fatto bene i conti in tasca, ci accompagna e ci incoraggia sull'impervia strada della conversione.
Il brano del Vangelo è faticoso e ostico e rischia di essere letto in chiave grottesca.
Gesù, al solito, è straordinario: cita gli eventi simbolici di Noè, dice che intorno a lui c'era un sacco di brava gente che venne travolta dal diluvio senza neppure accorgersene. Perciò ci invita a vegliare, a stare desti, proprio come fa Paolo scrivendo ai Romani.
E Gesù avverte: uno è preso, l'altro lasciato.
Uno incontra Dio, l'altro no.
Uno è riempito, l'altro non si fa trovare.
Dio è discreto, modesto, quasi timido, non impone la sua presenza, come la brezza della sera è la sua venuta. A noi è chiesto di spalancare il cuore, di aprire gli occhi, di lasciar emergere il desiderio.
Come? Non lo so, amici. Io cerco di farlo ritagliandomi uno spazio quotidiano alla preghiera, per meditare la Parola. Alcuni tra voi riescono a prendersi una domenica pomeriggio per fare un paio d'ore di silenzio e di preghiera, altri fanno una piccola deviazione andando al lavoro per entrare in una chiesa. Se vissuti bene, aiutano anche i simboli del Natale cristiano: preparare un presepe, addobbare un albero, partecipare alla novena. Facciamo qualcosa, una piccola cosa, per chiederci se Cristo è nato in noi, per non lasciarci travolgere dal diluvio di parole e cose che ognuno vive.
Ma, ad aggravare la nostra situazione, non dobbiamo solo combattere contro la dimenticanza.
Ci tocca pure combattere contro il finto natale.

Vendesi
Non capisco perché una festa splendida, la festa che celebra la notizia dell'inaudito di Dio che irrompe nel mondo, sia stata travolta dalla melassa del buonismo natalizio.
È un dramma, il Natale, è la storia di un Dio presente e di un uomo assente.
Non c'è proprio nulla da festeggiare, non abbiamo fatto una gran bella figura, la prima volta.
Natale è un pugno nello stomaco, una provocazione, un evento che obbliga a schierarsi.
Natale è l'arrendevolezza di Dio che ci obbliga a conversione.
Quindi: viva i regali, viva la festa. Ma che sia autentico ciò che facciamo, che sia presente il festeggiato, Dio, alle nostre ipercaloriche cene, che i bimbi capiscano che è il suo compleanno, e a noi fanno i regali.

Svendesi
In questi anni ho visto con sgomento che il Natale, per i poveri veri, per chi ha subito un abbandono, un trauma, un lutto, è diventato una festa odiosa e insostenibile.
Di fronte alle immagini stereotipate della famiglia felice intorno all'albero e armonia e canti di angeli che ci propinano i media, chi, invece, vive affettività fragili e solitudini, è travolto da un insostenibile dolore.
E questo mi fa impazzire di rabbia.
Il Dio dei poveri, il Dio che viene per i pastori, emarginati del tempo, il Dio che non nasce nel Tempio di Gerusalemme, ma nella grotta di Betlemme, viene sostituto dal Dio piccino del nostro ipocrita buonismo. Se i nonni soli, se le persone abbandonate, se i feriti dalla vita non hanno un sussulto di speranza nella notte di Natale, significa che il nostro annuncio è ambiguo, travolto e sostituito da un inutile messaggio di generica pace.
Esagero? Voglia Dio che sia così.
Tra quattro settimane celebreremo il Natale.
Non giochiamo a far finta che poi Gesù nasce, Gesù è già nato, morto e risorto, vive accanto a me.
Il problema è, semmai, se io sono nato.

martedì 16 novembre 2010

21 novembre 2010 II Domenica di Avvento

Domenica 21 novembre II di Avvento ambrosiano


Rito ambrosiano
Lettura del Vangelo secondo Luca 3, 1-18

Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturea e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilene, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto. Egli percorse tutta la regione del
Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaia: «Voce di uno che grida nel deserto: / Preparate la via del Signore, / raddrizzate i suoi sentieri! / Ogni burrone sarà riempito, / ogni monte e ogni colle sarà abbassato; / le vie tortuose diverranno diritte / e quelle impervie, spianate. / Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!». Alle folle che andavano a farsi battezzare da lui, Giovanni diceva: «Razza di vipere, chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque frutti degni della conversione e non cominciate a dire fra voi: “Abbiamo Abramo per padre!”. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo. Anzi, già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco». Le folle lo interrogavano: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto». Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe». Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile». Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.

Commento

Il Vangelo di Luca, nei primi capitoli, presenta Giovanni Battista, figura dominante con Maria, quali
precursori di Gesù. Giovanni Battista dedica la sua vita alla preparazione di un cambiamento aperto a tutti e
poi offrirà tutto se stesso per essere testimone di una presenza che intravede come grande, ma che non
comprende appieno.

Secondo la preoccupazione dell'evangelista che ha premesso, al suo Vangelo: fare "ricerche accurate ... e
scriverne un resoconto ordinato", Luca inizia col ricordare la predicazione di Giovanni Battista. Essa si rifà,
inizialmente, al giorno del Signore, relativo alla fine del mondo, (3,7-9), giorno d'ira e di giudizio per offrire
la motivazione di una trasformazione morale e quindi l’impegno per i "frutti degni di conversione". Così
sorge immediata la predicazione etica-sociale (3,10-14) e quella messianica (3, 15-18). Egli, iniziando,
precede il cammino di Gesù e della Chiesa, per poi cedere loro il passo.

Da Luca, con solennità, la vocazione del precursore viene inserita nella storia del tempo: siamo nell’anno 28
d.C. (quindicesimo di Tiberio). I riferimenti al territorio e al potere rispecchiano una realtà ebraica e pagana:
il Vangelo ha una vocazione universale.

La Parola di Dio non solo si inserisce nella storia, ma domina e regge la storia stessa. Tutto é posto sotto il
segno della Parola di Dio. Questa, tuttavia, non sceglie la reggia, ma un luogo marginale: il deserto, e uno di
stirpe sacerdotale che è Giovanni, uno che non ha potere, ma che ha il compito della mediazione tra Dio e il
suo popolo. Con tutta probabilità é restato a contatto con la comunità di Qumran, presso il Mar Morto, e là si
è preparato alla venuta del Signore con una vita di studio, di preghiera e di coerenza alla legge.

Giovanni é un missionario itinerante e proclama il battesimo di conversione: abbassamento dalle
assolutizzazioni delle passioni, dell’orgoglio o dell’alterigia. Le colline e gli alti monti devono essere
abbassati perché simbolo di superbia. Giovanni battezza: e il suo é battesimo per un cambiamento di
mentalità. E’ il ritorno ad una vita morale senza male, orientata alla venuta del Messia.
“Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio”. Anticamente significava la liberazione dall’esilio con l'intervento di
Ciro il Grande (attorno al 540 a.C). Ma qui viene richiamato Gesù come forza e speranza per tutti i popoli.
Gesù proclamerà insieme l'anno di misericordia del Signore, inaugurandolo nella sua persona.

A. Il messaggio morale è tratteggiato in poche righe (3,10-18).
Alla predicazione la gente risponde con una domanda: "Che cosa dobbiamo fare?". È importante
l'interrogativo poiché significa che il messaggio è stato percepito come essenziale per la propria vita e quindi
capace di capovolgerla. Fu fatta anche a Pietro la stessa domanda, il giorno di Pentecoste, in cui prese la
parola per parlare di Gesù morto e risorto e della nuova speranza per il popolo d'Israele. Egli rispose:
"Conversione e battesimo nel nome di Gesù per la remissione dei peccati” (Atti 2,37-38).
Giovanni pone le premesse alla conversione: “Fate dunque frutti degni della conversione"(3,8). Non esclude
nessuno come d'altra parte fa Gesù, e accetta anche, oltre alle persone comuni, i pubblici peccatori (3,12):
pubblicani esattori di tasse, esosi e venduti, i pagani (3,14) e i soldati. Giovanni risponde portando
l'attenzione al concreto sociale e quotidiano, in modo che la realtà risenta di rapporti di accoglienza e di
comunione. Sono da esercitare:

la condivisione: “Chi ha due tuniche/chi ha da mangiare, dia...”. Il primo frutto di conversione è
la carità: una condivisione vera delle proprie sostanze, non una blanda elemosina;

la giustizia: “Non esigete di più del giusto dovuto” Il secondo frutto è la giustizia: suggerimento
valido soprattutto per i pubblicani che, approfittando del proprio ruolo di esattori di tasse, diventano avari e
strozzini;

la non-violenza: “Non estorcete, non fate violenza, accontentatevi delle vostre paghe”. II terzo
frutto è il rispetto del prossimo per cui i soldati debbono rinunciare ad usare le armi per non abusare della
loro posizione attraverso la violenza e l'estorsione.
Queste due ultime categorie non godono certo della simpatia della gente; anzi vengono identificate come la
personificazione del tradimento e del peccato. Eppure la conversione non consiste nel cambiare mestiere, ma
nel cambiare il cuore. Questo è possibile a tutti, non solo alle classi privilegiate.

B. L'identità di Giovanni. La predicazione di Giovanni non é fine a se stessa ma é orientata ad accogliere il
Signore che viene. Giovanni porta a Cristo e Cristo spesso richiama Giovanni. La gente lo contende. Ma
Giovanni é e si proclama solo precursore. Viene prima per preparare, ma non é degno neppure del gesto
dello schiavo di sciogliere i legacci dei sandali.

“Non sono il Cristo” ripete per disilludere chi favoleggia sul Messia e confronta tra il suo battesimo
purificatore e quello di Cristo rigeneratore. Ci sarà una potenza talmente alta nel Messia che finalmente
verrà il tempo in cui sarà possibile giudicare ciò che è buono e ciò che è cattivo.
Il contenuto è forte ed esigente e tuttavia l'annuncio è di purificazione e di novità: è un annuncio di gioiosa
sorpresa, una “buona novella”, è l’evangelizzazione di Giovanni (v 18).

Giovanni é colui che diminuisce perché Gesù cresca (Gv.3,30), é colui che non dirà "Seguimi" poiché solo
Gesù può farsi Maestro e Signore. E' solo amico dello sposo e non lo sposo. Come Giovanni, anche la
Chiesa deve lasciare il passo a Gesù con libertà e spontaneità “nella gioia perché Lui solo cresca” (Gv.3,29).

Il tema di approfondimento di questa settimana è:

Conoscere intimamente Gesù per seguirlo

La meditazione che sviluppo si compone di due parti, indicate nel titolo: Conoscere intimamente Gesù per seguirlo. Ci proponiamo di riflettere dapprima sulla sequela, partendo dalla parola «ascoltatelo!». E’ una parola chiave nel racconto della Trasfigurazione e riportata identicamente dai sinottici.
Noi abbiamo già ascoltato Gesù in altre parti del vangelo. L’abbiamo ascoltato per esempio nel Discorso della montagna, là dove ci ha parlato della trasformazione etica del cristiano, che tende alla trasformazione mistica (identificarsi con lui, essere come lui) e a quella escatologica (vederlo in eterno come egli è). Serbiamo inoltre nel cuore la parola particolarmente forte e intensa dell'istituzione dell'Eucaristia.
Questo però non esaurisce il parlare di Gesù, che non è solo, diciamo cosi, generale - nel Discorso della montagna mette sul tavolo precetti, consigli che tutti sono chiamati a seguire (beati i poveri, amate i vostri nemici, non preoccupatevi del domani). Oltre a queste parole, importantissime perché danno il quadro della vita battesimale, ne pronuncia di personali, per interpellare e scuotere ciascuno di noi, parole dette a me e a nessun altro. Ogni persona, infatti, ha una chiamata, una vocazione, una missione, un compito preciso.
«Seguimi!»
Possiamo allora richiamare alcune parole, che si riassumono nell'invito «seguimi!», e segnano l'esistenza, cambiano la vita delle persone a cui sono rivolte.
* Anzitutto il testo di Mc 1, 16-20: «Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: "Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini". E subito, lasciate le reti, lo seguirono. Andando un poco oltre, vide sulla barca anche Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello, mentre Rassettavano le reti. Li chiamò. Ed essi, lasciato il loro padre Zebedèo sulla barca con i garzoni, lo seguirono».
* Notiamo che in Mc 2, 13-14 Gesù dà degli insegnamenti generali: «Uscì di nuovo lungo il mare; tutta la folla veniva a lui ed egli li ammaestrava». Ma subito dopo ascoltiamo una parola specifica: «Nel passare, vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: "Seguimi". Egli, alzatosi, lo seguì».
* Le chiamate personali di Gesù non sono tuttavia sempre accolte immediatamente. Possono incontrare resistenza - come del resto incontra resistenza il Discorso della montagna -, ed è normale. Per esempio in Mt 8, 21-22 uno dei discepoli dice a Gesù: «Signore, permettimi di andar prima a seppellire mio padre» e si sente rispondere: «Seguimi e lascia i morti seppellire i loro morti». E’ una frase molto forte e il discepolo capisce che il suo buon proposito si scontra con le esigenze della sequela.
Ancora, in Lc 9, 61-62: «Un altro disse: "Ti seguirò, Signore, ma prima lascia che io mi congedi da quelli di casa". Ma Gesù gli rispose: "Nessuno che ha messo mano all'aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio"».
Dunque ci sono delle resistenze, e talora occorrono anni per decidersi ad accogliere la chiamata del Signore.

Il giovane ricco

Il «seguimi» può addirittura incontrare un rifiuto, come accade nel racconto del giovane ricco (Mc 10, 17-22 e paralleli).
Egli pone al Maestro, mettendosi in ginocchio pieno di rispetto, una prima domanda sincera che nasce da una retta visione di fede: «Maestro buono, che devo fare per avere la vita eterna?». C'è in lui una disponibilità, un'apertura molto grande. Non è una persona qualunque, ha una grande rettitudine, sente l'esigenza del cuore umano di relazionarsi in maniera profonda con la verità di Dio.
Gesù gli risponde di osservare i comandamenti (cf v. 19). E il giovane replica: «Tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza» (v. 20). Gesù, allora, «fissatolo, lo amò»: lo amava anche prima, ma qui esprime quell'amore personale che riflette l'infinito amore di Dio per ciascuno di noi. Per questo gli chiede una missione nuova: «Una cosa sola ti manca: va, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi» (v. 2 1).
Il giovane comprende benissimo che gli viene affidato un compito, che gli è chiesto non soltanto di dare quello che ha ai poveri, ma di condividere la sorte del Maestro, la sua vita di predicatore itinerante, contestato e respinto. L’invito di Gesù lo sconvolge e «se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni» (v. 22). Avrebbe potuto dire: «Ci penserò, rifletterò»; oppure: «Dammi la forza di seguire questa tua parola». Invece si chiude in se stesso perché ha molti beni. Quindi la tristezza ha invaso il suo cuore; ha intuito che, nonostante l'amore con cui Gesù l'ha fissato, egli non riesce a giocarsi per paura, per viltà, per pigrizia.
E’ un episodio drammatico che ci fa pensare. Ciascuno di noi ha molti beni, anche se non ha un conto in banca: sono i talenti che vorremmo esprimere, i progetti che facciamo, le amicizie, e, al fondo, la nostra autonomia, il voler disporre liberamente di noi stessi. Quando Gesù ci chiede di obbedire alla sua parola, tutto è messo in gioco, non per essere buttato a mare, ma per venire valorizzato nell'obbedienza alla parola dei Signore.
Domandiamo a Gesù la grazia di comprendere fino in fondo la serietà della parola con cui ci interpella.

Il paradosso del non-evento

Nella seconda parte di questa meditazione cerchiamo di scoprire qual è il segreto che permette di mettersi in gioco nella sequela di Gesù.
Scrive sant'Ignazio nella seconda Settimana degli Esercizi, prima di iniziare le meditazioni sui diversi misteri della vita del Signore: «Chiedere di conoscere intimamente il Signore, perché lo ami e lo segua di più» (n. 104).
E’ la «conoscenza intima» di Gesù che ci abilita a seguirlo, e tale conoscenza nasce dalla contemplazione prolungata e amorosa della sua esistenza fra noi. Purtroppo non possiamo ripercorrerla lungo tutto l'arco del suo svolgersi. Ho scelto allora di fermarmi con voi su un tempo che mi sembra parlare in modo particolare alla nostra quotidianità: i trent'anni della vita di Gesù a Nazaret.
Collocheremo ancora una volta la nostra contemplazione nella sfera di quella luce del Tabor che è il centro irradiante dei nostri esercizi - in relazione ad essa abbiamo già letto episodi evangelici fondamentali, come il battesimo di Gesù e il Discorso della montagna -, cosi come faremo nelle successive meditazioni, guardando Gesù nella sua passione (la terza Settimana degli Esercizi) e nella sua gloria di Risorto.
Due sono gli eventi legati a Nazaret. Il primo è l'incarnazione del Verbo, l'evento nel quale l'Essere si fa storia e che dà senso a tutta la storia umana. Il secondo evento di Nazaret è il non-evento, ossia il fatto che per trent'anni non succede nulla. Se il primo è certamente straordinario, il secondo ci interpella in maniera molto forte, perché tocca da vicino la nostra vita quotidiana.
Spesso, almeno finché abbiamo buona salute e lavoriamo, ci sentiamo incalzati da occupazioni e urgenze che a nostro parere sono importanti. Il tempo non basta mai. Se però guardiamo la vita di Gesù a Nazaret cercandovi fatti o azioni di qualche rilievo, essa ci può apparire insignificante, una vita in cui non si sa come arrivare a sera, in cui il tempo non passa mai. Nasce dunque la domanda: come armonizzare il tempo nella sua duplice valenza: il «tempo che non basta mai» e quello «che non passa mai»? E soprattutto: quale senso dare al tempo «che non passa mai», un'esperienza che anche a noi può capitare di vivere?
Vi propongo allora di contemplare lo scorrere dei giorni a Nazaret, guardando, ascoltando, mescolandosi alla vita, sentendo i rumori, i suoni, gli odori, le luci e i colori, come insegna sant'Ignazio.
Tre i momenti di riflessione: i personaggi, i testi biblici (pochi ma significativi), i nostri atteggiamenti.
I personaggi. Contempliamo anzitutto Maria e domandiamole in preghiera: «Tu, o Maria, che hai vissuto l'oscurità senza eventi di Nazaret, aiutaci a comprendere come l'hai vissuta giorno dopo giorno, ora dopo ora».
La vediamo mentre guarda con riverenza amorosa il Figlio; è il suo segreto, non conosciuto da molti, e vi si immerge senza aspettarsi nulla. Come una madre gioisce per il bambino che cresce, ella guarda il suo Figlio, che è portatore del mistero divino.
Quindi Maria contempla serenamente, tranquillamente, senza nervosismo, senza fretta, e attende, perché sa che qualcosa accadrà. Certamente prega molto, sia nei momenti dedicati alla preghiera sia mentre lavora; prega che venga il regno di Dio, prega ripetendo le parole del Magnificat e, pur se non le vede avverarsi, le ripete perché vive di fede.
Utilizzando un'espressione psicologica, possiamo dire che è presente al presente: vive il presente con semplicità, abbandono, senza pretese e senza lamenti. Non chiede nemmeno al Signore: fino a quando? Aspetta con attesa amorevole, godendo di quel piccolo e grande presente che ha: Gesù, il suo sposo, le sue occupazioni quotidiane. Il suo vivere così è già regno di Dio, salvezza in atto.
Contempliamo inoltre Maria evocando due testi del Vangelo. Dopo i racconti della natività a Betlemme, Luca annota: «Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore» (2, 19). Continua a osservare, conservare, meditare. E in 2,51 Luca ripete che, dopo il ritorno a Nazaret dal pellegrinaggio a Gerusalemme, la madre di Gesù «serbava tutte queste cose nel suo cuore». Non capisce del tutto gli eventi, ma li accetta.
Il secondo personaggio da contemplare è Giuseppe,uomo giusto, per il quale la volontà di Dio era sempre la norma, e uomo pio. Prega diverse volte al giorno secondo l'uso di ogni buon ebreo; lavora a Nazaret e probabilmente anche fuori. Ci sembra di vederlo mentre va avanti e indietro per costruire la cittadina di Sefforis, distante da Nazaret sei chilometri.
Compie insomma azioni semplicissime: prega, insegna il lavoro a Gesù, si affatica come tutti i carpentieri.
Anche Gesù vive così: prega nelle ore previste dalla tradizione ebraica, nella sinagoga al sabato e nelle festività; lavora, e il suo tempo non gli sembra sprecato in un'attività priva di significato pastorale ed evangelizzatore; obbedisce e, sicuramente, attende un segno. Noi siamo sconcertati al pensiero che non gli sia dato alcun segno nell'età in cui di solito si prendono decisioni importanti. Di fatto ci vorranno anni prima che giunga il segno della predicazione del Battista. Finché non viene, sta in pace.
Naturalmente non è del tutto monotona la vita del villaggio di Nazaret. Gesù vive le diverse esperienze della quotidianità: quella dei giorno e della notte, con la varietà delle luci, delle occupazioni, degli incontri; quella delle stagioni, con le differenze di vita che comportano; quella degli eventi locali - nascite, matrimoni, amicizie, malattie, funerali -; quella dei tempi sacri con i pellegrinaggi a Gerusalemme.
Vive dentro l'esistenza quotidiana nei suoi tempi e nei suoi spazi e la accetta.
I testi. Ricordo due testi del vangelo di Luca: «Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui» (2, 40); «Tornò a Nazaret e stava loro sottomesso [... ]. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (2, 51-52).
Interessante questo crescendo molto semplice, molto naturale e spontaneo.
Cresceva in sapienza presso gli uomini. E’ ragionevole immaginare che a Nazaret fosse stimato sempre più come un saggio, a cui si poteva ricorrere per consiglio, dal momento che sapeva dire le parole giuste. Soprattutto cresceva in sapienza di Dio, nel senso che imparava a cogliere la presenza di Dio in tutti gli eventi, e ciò anche grazie alla lettura regolare delle Scritture.
Cresceva in età. Strana questa annotazione, perché è abbastanza ovvia. A mio giudizio, l'evangelista vuole indicare che la giornata di Gesù aveva un senso. Cresceva davanti agli uomini, che vedevano il valore della sua vita, la sua bellezza. la sua umiltà e semplicità. Cresceva davanti a Dio, in quanto camminava verso il tempo stabilito, verso la pienezza del tempo, attendendolo con pazienza.
Cresceva in grazia. Davanti agli uomini, agli occhi dei quali diventava via via più amabile per le opere buone che compiva. Davanti a Dio, perché faceva sempre il suo beneplacito; cresceva quindi in grazia e in amore.
I testi aggiungono: «Era sottomesso», a dire che riconosceva le istituzioni umane, le rispettava, le onorava senza pretendere nessun privilegio.
Sarebbe bello interrogare Gesù, stando con lui in preghiera sul Tabor: come leggi ora quei trent’anni di esperienza così monotona e solitaria? Forse risponderebbe: sono lieto di avere vissuto quei trent'anni nei quali ho meditato a lungo sulla religiosità e sulla vita.
Di fatto molti discorsi pronunciati da lui più tardi sono probabilmente da riferirsi alle sue riflessioni ed esperienze giovanili, quando contemplava la natura, osservava gli eventi familiari e quelli sociali. penetrandoli con occhio amoroso e sagace.
Erano dunque anni di preparazione, non tempi morti. Pur se non aveva fretta di esprimersi, valutava tutto in silenzio: eccessivo peso delle osservanze esteriori, formalità nell'osservanza della Legge, fatica della gente, distanza dei farisei dal popolo, il valore della misericordia, della fedeltà, del perdono rispetto alle pratiche religiose esterne.
I nostri atteggiamenti. Infine sottolineo quattro atteggiamenti che, a partire dalla sua esperienza a Nazaret, Gesù sembra raccomandarci.
- Il primo è quello della presenza al presente. Noi siamo sovente protesi al futuro, a quanto verrà. Talora è necessario, e tuttavia l'ansietà per il domani non deve mai distoglierci dal presente, che allora può anche essere luogo di serena programmazione. C'è un imperativo molto saggio e ricco di contenuto nell'Imitazione di Cristo: «Age quod agis!». Scrivi, canta, leggi, mangia, gemi, prega, ma fa’ ciò che fai. E’ una ricetta di salute psichica, e sappiamo che gran parte delle nevrosi hanno origine dal non sapersi concentrare sul presente, rimuginando continuamente su ciò che è stato e su ciò che sarà.
Gesù stesso esorta a non affannarci per il domani perché a ogni giorno basta il suo affanno (cf Mt 7, 34). A Nazaret egli ha vissuto tale atteggiamento nell'abbandono totale all'ora dopo ora, al minuto dopo minuto, spogliandosi di ogni preoccupazione. Era infatti libero da tutto, anche se le ansietà sul futuro avrebbero potuto, almeno esteriormente, tentarlo: che cosa mai aspetti? Buttati, fatti valere.
Gesù vive nel silenzio la presenza al presente con pienezza e non con rimpianto.
- Il secondo atteggiamento è l'attesa serena. Siamo sempre in attesa di qualche cosa, dal momento che il nostro presente è aperto sull'avvenire, non chiuso in se stesso. Si tratterà di eventi o cambiamenti che desideriamo per la nostra vita o che dovremo affrontare; l'importante è saper attendere con pace. San Paolo ci esorta ad aspettare con amore la venuta di Gesù ed è questa l'attesa vera della nostra vita, che permea di serenità ogni nostra attesa.
- Il terzo atteggiamento raccomandato da Gesù è la pazienza, la capacità di sopportare i tempi lunghi senza esserne snervati. E’ una virtù poco esaltata, ma davvero preziosa e va domandata come grazia allo Spirito Santo.
- Da ultimo, dobbiamo avere la coscienza del dono di Dio che è l’oggi, del dono dei fratelli con cui camminiamo seguendo il Signore. Da tale coscienza sgorgano la gratitudine, la lode, la riconoscenza tutti atteggiamenti che sovente dimentichiamo, riservandoli per avvenimenti eclatanti o inattesi. La gratitudine per il presente che viviamo va invece coltivata in ogni momento.
Conclusione: il miracolo del presente
A modo di conclusione leggiamo alcuni brani di lettere scritte da una giovane ebrea Olandese, Etty Hillesum, morta a ventinove anni nelle camere a gas di Auschwitz il. 30 novembre 1943. Questa ebrea, non praticante, incontra gradualmente il mistero di Dio e tanto più lo adora quanto più entra nelle sofferenze del suo popolo.
Le lettere sono degli anni 1942-1943, quando Etty si trovava nel campo di Westerbork prima del trasferimento in Polonia. Scritte con un distacco, un umorismo, una serenità tali da stupire, mostrano come questa giovane donna ha vissuto il suo presente in una pace, una pazienza, un'umiltà incomparabili.
Scrive per esempio a un'amica: «Marietke, scriverai presto a Etty come stai? Sei allegra, sei triste, corri di qua e di là, stai tranquillamente a casa? E che dice Ernst, che dice Amsterdam, e papà Han che fa, e Kàte va a letto presto? Io cammino nel fango tra le baracche di legno, e allo stesso tempo cammino per i corridoi di quella che da sei anni è la mia casa; ora sono seduta a un tavolino disordinato in un piccolo ambiente rumoroso, ma sono anche seduta alla mia cara, disordinata scrivania. Molte persone mi dicono: "Non vogliamo ricordare niente della vita di prima, altrimenti non saremmo in grado di vivere qui". Mentre io posso vivere così bene qui proprio perché ricordo perfettamente ogni cosa di "prima' (per me non è neppure un "prima"), e intanto la mia vita continua».
Interrompe la lettera e la riprende nel pomeriggio: «La mia anima è in pace, Maria, oggi mi sono state assegnate quattro baracche di malati, una grande e tre piccole; lì devo controllare se qualcuno ha bisogno che gli siano spediti viveri o bagagli da fuori. La cosa più bella è che ora ho libero accesso a quasi tutto il complesso dell'ospedale, e a quasi tutte le ore del giorno.
«Prendi queste poche parole come vengono, mia piccola Maria, qui non si riesce a scriver molto, le lettere che ti mando nei miei pensieri sono ben più lunghe di questa. Io sto bene e sono contenta, in fondo vivo qui proprio come ad Amsterdam, a volte non mi accorgo neppure di essere in un campo. E voi tutti mi siete tanto vicini che non mi mancate neppure. Jopie è un caro compagno. Di sera assistiamo al tramonto del sole, che si tuffa nei lupini violetti dietro il filo spinato. E probabilmente ritornerò ancora per la prossima licenza. Scrivi presto. Ciao!» (Etty Hillesum, Lettere 1942-1943, Adelphi, Milano 2001, pp. 65-66).
Le sue lettere sono davvero intrise di serenità del presente. Un presente di per sé terribile, drammatico, eppure da lei vissuto con pace e coraggio che traspaiono da ogni riga.
«Christine, sono indescrivibilmente coraggiosi in questo assoluto inferno. Stamattina presto, la fila dei vagoni merci ha fatto il suo ingresso nel campo fangoso. Io stavo da una parte, e per una stretta apertura in alto, in un vagone, ho scoperto il cappello sgualcito e gli occhiali di mio padre, il cappello di mia madre e il magro viso di Mischa. E ora li accompagnerò nella loro via crucis, sono riconoscente di essere qui e di poter alleviare la loro vita in tante piccole cose sebbene in questo momento non ci sia proprio nulla da alleviare. Qui è una totale catastrofe. Nelle ultime ventiquattr'ore il campo è stato inghiottito da grandi ondate di ebrei. Ma devo dire che papà, la mamma e anche Mischa mi hanno sbalordita. E vero che papà è completamente indifeso, che in queste ore il suo colletto è diventato troppo, troppo largo e che la sua ispida barba grigia fa tanta pena. Ma stamattina ha impugnato la sua piccola Bibbia mentre aspettavamo per ore e ore nella pioggia, e ha trovato splendide parole nel libro di Giosuè. Ora stanno in una delle grandi baracche, un magazzino umano stipato al massimo dove per ogni tre persone ci sono due strette cuccette di ferro, nessun materasso per gli uomini, nessuna possibilità di riporre qualcosa da qualche parte, aria pesante, bambini che urlano, la peggior miseria immaginabile. Farò il possibile per aiutarli a superare queste difficoltà, personalmente mi sento molto forte e piena di coraggio anche se a volte tutto diventa buio e incomprensibile. [... ] Spero di trovare un letto stanotte, ogni millimetro quadrato è preso. La prossima volta scriverò di più. Prega un pochino per noi» (Ibidem, pp. 68-69).
Alla stessa Christine è indirizzata l'ultima cartolina, che Etty riuscì a buttare fuori del treno che la portava ad Auschwitz, prima di lasciare per sempre il territorio olandese, con la chiara consapevolezza del proprio destino: «Christine, apro a caso la Bibbia e trovo questo: "Il Signore è il mio alto ricetto". Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci. Papà, la mamma e Mischa sono alcuni vagoni più avanti. La partenza è giunta piuttosto inaspettata, malgrado tutto. Un ordine improvviso mandato appositamente per noi dall'Aia. Abbiamo lasciato il campo cantando, papà e mamma molto forti e calmi, e così Mischa. Viaggeremo per tre giorni. Grazie per tutte le vostre buone cure. Alcuni amici rimasti a Westerbork scriveranno ancora ad Amsterdam, forse avrai notizie? Anche della mia ultima lunga lettera? Arrivederci da noi quattro. Etty» (Ibidem, p. 149).
E’ quel miracolo del presente che la grazia può compiere anche in situazioni al limite dell'assurdo, e mostra come il regno di Dio viene proprio nelle circostanze più impensate.

Rito romano

VANGELO
Lc 23,35-43
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, il popolo stava a vedere, i capi invece schernivano Gesù dicendo: “Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto”.
Anche i soldati lo schernivano, e gli si accostavano per porgergli dell'aceto, e dicevano: “Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso”. C'era anche una scritta, sopra il suo capo: Questi è il re dei Giudei.
Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!”. Ma l'altro lo rimproverava: “Neanche tu hai timore di Dio, benché condannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male”. E aggiunse: “Gesù ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”.
Gli rispose: “In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso”.

Con questa solennità si vuole celebrare Cristo quale Signore della storia
e del tempo. Essa fu introdotta da papa Pio XI, con l’enciclica Quas
Primas dell’11 dicembre 1925.
Quest’anno la liturgia ci propone di contemplare Gesù in croce, quale re
dei Giudei, ma più di tutto come colui che regna dalla croce.
Il vangelo di Luca è quello che ci mostra la misericordia di Gesù anche
sulla croce.
Alla derisione dei capi, che vedendolo in croce non credono sia capace
di salvare se stesso, dopo i tanti miracoli compiuti a favore di altri, Gesù
non risponde nulla.
Anche i soldati lo deridono in quanto lo vedono come un re impotente e
senza armi.
Sono i suoi compagni di morte coloro che lo interpellano sul senso vero
della sua regalità sulla morte.
Il primo lo insulta con la domanda che ha attraversato i secoli: se sei il
Cristo perché non salvi tutti gli uomini risparmiando loro la morte?
Il secondo invece riconosce l’innocenza di Gesù e la sua vera regalità:
«ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Egli non sa bene cosa
questo voglia dire, ma sa che il regno di Dio annunciato da Gesù è un
regno di vita e non di morte, e di questo regno lui vuole farne parte,
anche quando tutto sembra contraddire questa realtà.
Questa fiducia del secondo malfattore riceve una risposta positiva da
Gesù, che conferma la sua fede in Gesù annunciatore del regno di Dio:
«oggi con me sarai nel paradiso».
Gesù dona sempre con abbondanza, al di là delle aspettative degli
uomini: la realizzazione del regno si compie in quel venerdì di Pasqua,
mentre si celebra l’alleanza tra Dio e il suo popolo, alleanza che
coinvolge oggi tutti i popoli della terra offrendo a ciascuno la salvezza
nel nome di Gesù.

mercoledì 10 novembre 2010

14 novembre prima domenica di avvento; l'anno liturgico

14 novembre 2010 I di Avvento

1. Rito ambrosiano

Vangelo secondo Matteo 24, 1-31

In quel tempo. Mentre il Signore Gesù, uscito dal tempio, se ne andava, gli si avvicinarono i suoi discepoli per fargli osservare le costruzioni del tempio. Egli disse loro: «Non vedete tutte queste cose? In verità io vi dico: non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sarà distrutta». Al monte degli Ulivi poi, sedutosi, i discepoli gli si avvicinarono e, in disparte, gli dissero: «Di’ a noi quando accadranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo». Gesù rispose loro: «Badate che nessuno vi inganni! Molti infatti verranno nel mio nome, dicendo: “Io sono il Cristo”, e trarranno molti in inganno. E sentirete di guerre e di rumori di guerre. Guardate di non allarmarvi, perché deve avvenire, ma non è ancora la fine. Si solleverà infatti nazione contro nazione e regno contro regno; vi saranno carestie e terremoti in vari luoghi: ma tutto questo è solo l’inizio dei dolori. Allora vi abbandoneranno alla tribolazione e vi uccideranno, e sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio nome. Molti ne resteranno scandalizzati, e si tradiranno e odieranno a vicenda. Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti; per il dilagare dell’iniquità, si raffredderà l’amore di molti. Ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato. Questo vangelo del Regno sarà annunciato in tutto il mondo, perché ne sia data testimonianza a tutti i popoli; e allora verrà la fine. Quando dunque vedrete presente nel luogo santo l’abominio della devastazione, di cui parlò il profeta Daniele – chi legge, comprenda –, allora quelli che sono in Giudea fuggano sui monti, chi si trova sulla terrazza non scenda a prendere le cose di casa sua, e chi si trova nel campo non torni indietro a prendere il suo mantello. In quei giorni guai alle donne incinte e a quelle che allattano! Pregate che la vostra fuga non accada d’inverno o di sabato. Poiché vi sarà allora una tribolazione grande, quale non vi è mai stata dall’inizio del mondo fino ad ora, né mai più vi sarà. E se quei giorni non fossero abbreviati, nessuno si salverebbe; ma, grazie agli eletti, quei giorni saranno abbreviati. Allora, se qualcuno vi dirà: “Ecco, il Cristo è qui”, oppure: “È là”, non credeteci; perché sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi segni e miracoli, così da ingannare, se possibile, anche gli eletti. Ecco, io ve l’ho predetto. Se dunque vi diranno: “Ecco, è nel deserto”, non andateci; “Ecco, è in casa”, non credeteci. Infatti, come la folgore viene da oriente e brilla fino a occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Dovunque sia il cadavere, lì si raduneranno gli avvoltoi. Subito dopo la tribolazione di quei giorni, “il sole si oscurerà, / la luna non darà più la sua luce, / le stelle cadranno dal cielo / e le potenze dei cieli saranno sconvolte”. Allora comparirà in cielo il segno del Figlio dell’uomo e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra, e vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi del cielo con grande potenza e gloria. Egli manderà i suoi angeli, con una grande tromba, ed essi raduneranno i suoi eletti dai quattro venti, da un estremo all’altro dei cieli».

Commento

II Vangelo di Matteo di questa liturgia inizia il quinto discorso di Gesù (capp 24-25)

secondo i criteri di Matteo (le parole di Gesù sono, infatti, raggruppate in questo Vangelo

in cinque lunghi insegnamenti, per un richiamo alla “Legge” ebraica che veniva custodita

nei primi cinque libri della Bibbia). L’argomento fondamentale, in tale discorso, è la fine

del mondo che viene identificata con la venuta (parusia) del Figlio dell'uomo (Gesù

risorto). Viene utilizzato un particolare linguaggio detto "apocalittico", usato in quel

tempo per indicare fatti nuovi e sconvolgenti.

Gesù abbandona definitivamente il Tempio e la città santa per salire al monte degli Ulivi

proprio di fronte alla città ed al tempio che risplende sotto il sole come il gioiello più

prezioso e più sacro (v. l). E per il tempio i discepoli mostrano l’orgoglio di essere parte

di un popolo che ospita Dio ed è capace di offrire una casa bella, degna di Dio. Ma il

destino di questi luoghi sacri è segnato: "Non resterà pietra su pietra". Gesù annuncia una

conclusione impressionante che sconvolge e crea, insieme, molta curiosità: "Quando la

distruzione? Quando la tua venuta? Quando la fine del mondo?"

Nel v. 3 si vede bene l’intreccio dei piani: si parla, da una parte, del crollo del tempio,

abbattuto dai romani nel 70 d.C. e consacrato con la “dedicazione ebraica” al tempo di

Erode il grande nel 18 a.C. Insieme, si riflette sulla soluzione globale di tutta la storia del

mondo.

A Gesù chiedono il “quando?”, ma il maestro vuol fare superare la curiosità sul tempo.

Non offre date o appigli, ma vuol riportare la riflessione sul “come” si cammina nella

storia. Come affrontare l’attesa, il tempo presente che è l’unica realtà concreta su cui si

giocano la libertà di ciascuno e la presenza di Dio?

Egli sviluppa i segni della venuta, preannunciando ai discepoli l'inganno di falsi profeti, le

guerre, le tragedie della lotta fratricida, le carestie e i terremoti. Tutta questa è la vita

quotidiana e, nello stesso tempo, la fatica prevista per la nascita di un mondo nuovo.

L'inizio dei dolori è come la sofferenza del parto (Gv 16,21). Alla sofferenza della

persecuzione si aggiungerà anche la fatica del conflitto nella Chiesa stessa, a causa del

raffreddamento dell'amore.

Ma ogni credente è invitato ad essere fedele a Gesù fino alla vittoria conclusiva poiché

tale fedeltà permetterà, cosi, di partecipare al trionfo con lui. In tutto questo cataclisma si

profilano però la grande gioia e la ricca vitalità del "Vangelo del Regno". Esso sarà

annunciato in tutto il mondo da una comunità che non si lascerà sopraffare dalla paura e

dal male.

Quando il Signore verrà, ci saranno cataclismi nel cielo (ma è un linguaggio da non

prendere alla lettera; lo si usa anche per parlare della caduta di Babilonia (Is 13,10) e del

popolo di Edom (Is 34,4).

Verrà il Figlio dell'uomo con il suo segno. Potrà essere la croce che è stata lo strumento di

morte e di rifiuto, orgoglio di potere e segno di amore. E si scoprirà che nel progetto di

Dio la croce ha materializzato la fedeltà di Gesù al Padre mostrandola e garantendola

anche a noi. Egli ha vinto i criteri di potenza che si sono sviluppati nella storia e ha

trionfato sul mondo.

Le immagini utilizzate, oltre la croce, sono: il raduno e il suono della tromba (per gli

ebrei serviva come richiamo di chi comanda perché ha il potere di raccogliere).

Il Signore è potente e grande. Ha lasciato nel cuore dei discepoli il segreto della sua

potenza e della salvezza. Perciò bisogna valutare il mondo con i criteri del vangelo

di Gesù e "vegliando".

L’Anno liturgico: per conoscere le ricchezze della persona di Cristo

L'anno liturgico è l'articolazione del calendario annuale della liturgia della Chiesa Cattolica. Inizia con la prima domenica di Avvento (a metà novembre per noi ambrosiani) e termina con l'ultima settimana del Tempo ordinario.

Esso è costituito da:

* un calendario di celebrazioni articolate attorno al mistero pasquale di Cristo, con il ciclo maggiore della Pasqua e il ciclo minore del Natale;
* un ciclo di letture bibliche per la celebrazione dell'Eucarestia di tutti i giorni dell'anno;
* un ciclo di letture bibliche e patristiche, nonchè di altri testi, per la Liturgia delle Ore.

Vivendo l'anno liturgico percorriamo spiritualmente i vari momenti della vita di Gesù. perciò l’anno liturgico è la maniera principale con cui la Chiesa ci fa conoscere la persona e il volto di Gesù, perché noi lo possiamo accogliere, amare e seguire. La continua ripetizione dell’anno liturgico ha il senso di farci crescere nella relazione con il Signore, allo stesso modo con cui ciascuno di noi è chiamato a crescere nelle relazioni di amore con lo sposo, la sposa, i genitori, i figli e il prossimo. Non si dà relazione d’amore vera se non in crescita. L’anno liturgico è a servizio di questa crescita nell’amore per il Signore e per gli uomini.

Durante i mesi estivi e tra il ciclo di Natale e quello di Pasqua si celebra il Tempo Ordinario, che riguarda le giornate in cui non vi sono particolari feste o periodi liturgici. Gli anni liturgici sono in realtà tre e muovono quasi in concomitanza con il calendario dell’anno civile; attraverso di essi non soltanto i fedeli possono usufruire di un’adeguata organizzazione del patrimonio scritturale biblico ai fini di una retta meditazione delle Scritture medesime, ma hanno anche la possibilità di immergersi nell’intero mistero di Cristo e della sua opera redentiva a favore dell’umanità: in ciascuno di questi anni, che inizia con la prima domenica di Avvento per concludersi con l’ultima domenica del Tempo Ordinario, la Chiesa invita i fedeli alla comprensione delle varie tappe della storia della salvezza e in particolar modo nell’evento salvifico Gesù Cristo attraverso l’itinerario del suo Avvento, della sua Incarnazione, Vita Pubblica, Morte e Risurrezione, fino all’Ascensione e alla Pentecoste. In più, attraverso la celebrazione, si rendono presenti nell’attualità della Chiesa le suddette azioni di grazia da parte del Signore, sicchè si può concludere che l’anno liturgico è costituito dallo stesso Signore che nel tempo opera un prolungamento della sua azione salvifica.

Non per niente gli anni liturgici nel loro insieme permettono la conoscenza di tutta la Sacra Scrittura che viene presentata secondo uno schema organico e ben determinato.

La Chiesa suddivide questa serie di anni attraverso la denominazione di Anno A, Anno B, Anno C, a cui corrisponde un ciclo per quanto riguarda le letture festive (Ciclo A, Ciclo B, Ciclo C), aventi ciascuno di essi una peculiare fisionomia. Ci si limiterà, in questa sede, ai Vangeli, essendo questi l’oggetto principale della nostra meditazione festiva, senza tuttavia che noi si sminuisca l’importanza dei testi dell’Antico Testamento e della Seconda Lettura (di solito staccata dal contesto) che li accompagnano. Ora, durante l’anno A ad offrirci spunti di meditazione su Gesù Cristo è l’evangelista San Matteo; durante l’anno B è San Marco, mentre l’anno C conosce il mistero incarnazionistico salvifico attraverso il Vangelo di San Luca. San Giovanni, che a più riprese compare pressocchè nella Liturgia della Parola di tutti e tre gli anni, viene proposto in modo particolare durante il tempo di Passione del Signore.

TEMPO DI AVVENTO E NATALE

L’Avvento è una celebrazione propria dell’Occidente. Già sul finire del IV secolo in Gallia ed in Spagna si trova un periodo di preparazione al Natale connotato da un forte carattere ascetico, chiamato ‘Adventus’ (Questo termine nel vocabolario pagano significa ‘avvenimento’, anniversario di un determinato avvenimento. Nel linguaggio ecclesiastico-liturgico ha indicato innanzitutto la nascita di Gesù e il suo anniversario, poi la preparazione a tale avvenimento e, infine, l’attesa della seconda venuta.)

Dall’analisi dei testi liturgici di questo ‘tempo forte’, che segna l’inizio dell’anno liturgico, risulta che esso ha un suo ricco ed originale contenuto teologico: considera infatti tutto il mistero della venuta del Signore nella storia fino al suo concludersi.

La liturgia dell’Avvento è tutta un richiamo a vivere alcuni atteggiamenti essenziali al credente: l’attesa vigilante e gioiosa, la speranza, la conversione, la povertà.

* * *

Al sorgere della celebrazione del Natale hanno contribuito diverse cause. E’ pacifico comunque che il 25 dicembre non è storicamente il giorno della nascita di Cristo. La spiegazione più probabile della scelta di questa data è da ricercarsi nel tentativo della chiesa di Roma di soppiantare la festa pagana del “Natalis (solis) invicti”, cioè dell’Imperatore.

Mentre l’Avvento nell’economia dell’Anno Liturgico costituisce il tempo dell’attesa e della speranza, il tempo di Natale costituisce il tempo dell’attuazione, iniziale ma decisiva,delle promesse fatte.

Siamo di fronte alla celebrazione commemorativa della nascita del Signore, della memoria dell’evento storico, avvenuto al tempo di Cesare Augusto: ma la celebrazione del Natale, da questo fatto storico risale al suo vero fondamento: il mistero dell’ Incarnazione,che ancora opera nella Chiesa mediante la celebrazione liturgica.

Anche se il Natale è nato in modo indipendente dalla Pasqua,tuttavia non è una festa alternativo o parallela ad essa: il Mistero dell’Incarnazione infatti, che il tempo di avvento-natale ci fa vivere, ha un orientamento decisamente pasquale, poiché tende alla nostra divinizzazione, che ha il suo culmine nella Pasqua del Signore.

2. Rito romano

In quel tempo, 5 mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di

belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: 6 «Verranno giorni nei quali, di quello

che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta».

7 Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale

sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». 8 Rispose: «Badate di non

lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono

io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! 9 Quando sentirete di

guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono

avvenire queste cose, ma non è subito la fine».

10 Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro

regno, 11 e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi

saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo.

12 Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno,

consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e

governatori, a causa del mio nome. 13 Avrete allora occasione di dare

testimonianza. 14 Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra

difesa; 15 io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non

potranno resistere né controbattere. 16 Sarete traditi perfino dai genitori,

dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; 17 sarete

odiati da tutti a causa del mio nome. 18 Ma nemmeno un capello del vostro

capo andrà perduto. 19 Con la vostra perseveranza salverete

la vostra vita».

I tempi ultimi rendono riducono la vita all’essenziale: condurre una vita

all’insegna dell’amore. Il tempio, pur bello nella sua architettura e pieno di

ricchezze, non rimarrà in piedi. Esso è il luogo della presenza di Dio e tutti

vi si recano per compiere i riti previsti, tuttavia già una volta il Signore

aveva lasciato il tempio per andare a vivere in mezzo al popolo in esilio a

Babilonia, là dove lo aveva mandato per purificarsi dal loro peccato. Egli

non lascia solo il suo popolo nel tempo della purificazione.

Il problema è quello di conoscere il segno per comprendere quando verrà

questo tempo di giudizio.

Ci saranno molti falsi profeti, guerre e rivoluzioni, ma non è questo il

tempo ultimo, perché questi eventi sono sempre presenti nella storia degli

uomini.

Occorre non seguire i falsi profeti e non avere paura di fronte alle guerre,

perché tutto ciò non è la fine.

La fine verrà quando non ci sarà più l’amore e la giustizia e tutti saranno

contro tutti, nessuno si preoccuperà più del bene comune e ciascuno

cercherà solo di salvare se stesso. In questo periodo chi continuerà ad

amare e a praticare la giustizia verrà perseguitato, perché considerato non

in linea con i tempi. Chi si comporta con onestà ed amore, con il solo suo

vivere diventa un atto di accusa insopportabile per chi vive altrimenti.

Quel tempo diventerà una occasione propizia per rendere testimonianza al

Signore della vita. Non occorrerà la sapienza del mondo per difendersi, ma

basterà semplicemente parlare della fiducia nel Signore con cui si è in

comunione. Questa è la sapienza che saprà rendersi parola per testimoniare

della bontà di Dio. Chi si comporta così, salverà la propria vita.

Invito ad andare a vedere il film “Uomini di Dio” che ci racconta della

testimonianza evangelica di 7 monaci trappisti in Algeria nel 1996. Più che

il racconto della loro fine (saranno uccisi e non sappiamo ancora oggi da

chi), è il racconto del loro discernimento se continuare ad abitare o no con

quella popolazione in cui si sono incarnati e hanno legami di alleanza. Ogni

giorno, in varie parti del mondo, i cristiani e gli uomini di buona volontà, a

qualunque religione o meno essi appartengano, sono chiamati a rendere

testimonianza alla pace e alla giustizia, alla vita dei fratelli che subiscono

violenza, perché così vuole il Signore.

Prepariamoci anche noi a condividere con Gesù e con tutti loro il “martirio”

della fede, cioè la testimonianza che è possibile una vita d’amore.