martedì 2 novembre 2010

Domenica 7 Novembre 2010 Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'universo - Solennità del Signore Lettura del Vangelo secondo Matteo 25, 31-46 In que

avvisi:

oggi non si terrà la catechesi del martedì, che riprenderà settimana prossima, eccezionalmente di giovedì (11).

lo stesso vale per la santa messa, la celebreremo giovedì 11 (s. Martino invece che mercoledì 10).

Rito ambrosiano

Lettura del Vangelo secondo Matteo 25, 31-46

In quel tempo. Il Signore Gesù disse: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».

La sostanza e l’apparire, con in mezzo il giudizio.

La festa di Cristo Re dell’Universo è diventata sinonimo di servizio di carità, perché il modo di regnare di Gesù è quello di chi lava i piedi a noi suoi fratelli e di chi dà la vita sulla Croce.

Proprio per questo motivo il vangelo ripropone la scena del giudizio, dove troviamo ciò che conta: la sostanza dell’amore, della prossimità, del dono fatto al più piccolo dei fratelli di Gesù.

Ma ecco che il criterio proposto dal Vangelo, semplicissimo e di facile comprensione, tale che nessuno può ingannarsi, ci sembra troppo impegnativo. E così lo abbiamo lasciato da parte.

E che cosa è successo? Lasciando la sostanza, siamo diventati vittima dell’apparire. Gran parte del mondo è vuoto, come un pallone gonfiato, ma non se ne cura, perché conta solo l’apparire: ovviamente giovani, possibilmente ricchi e brillanti.

Il giudizio sugli altri è uno sport, su se stessi è ripudiato. Nessuno vuole essere giudicato. Ma a parte il fatto che siamo comunque giudicati, magari nel pettegolezzo quotidiano, dobbiamo considerare che arriva il giudizio di Dio, il solo che farà verità in noi.

Il giudizio di Dio conduce alla nostra verità, alla nostra sostanza, ci aiuta a uscire dalla palede morale in cui siamo tentati di infilarci.

C’è un modo per essere e restare uomini di verità anche prima del Giudizio finale: si tratta della serena pratica dell’ ESAME DI COSCIENZA. È una delle cinque cose necessarie per fare una buona confessione (per chi ha dimenticato il catechismo, le altre sono: pentimento o dolore dei peccati, proponimento di non fare il male, confessione dei peccati, penitenza che rimedia al male fatto).

Non è paccottiglia del passato, ma risorsa per un presente di vera maturità.

Vi propongo un cammino in cinque tappe per il suo recupero.

1. Il peccatore che si confessa ha bisogno di preparazione.

L'affermazione non è scontata; non si tratta di fare un elenco, ma qualcosa di molto più serio.

Proprio per il fatto di essere peccatori, la giusta visione della verità è bloccata.

La liberazione dai peccati mediante la confessione è possibile solo se il Signore ci comunica qualche cosa della sua giusta visione sul peccato.

Si capisce cosi che la preparazione consisterà nel misurare dal punto di vista del Signore la distanza, il distacco tra noi e la sua volontà.

Nello stesso tempo si tornerà indietro allo stato in cui ci si trovava dopo l'ultima assoluzione, esaminando i peccati e le circostanze in cui sono stati commessi.

In questo modo veniamo a conoscere la nostra situazione cosi come Dio la conosce, in una visione in cui la verità è unita alla misericor­dia: Dio vuol perdonare, ma bisogna conoscere esattamente il peccato, perché bisogna abbandonarlo.

Quindi dobbiamo essere inesorabili con noi stessi, non tanto per commuovere Dio, ma perché il riconoscimento della colpa ci prepari alla trasformazione del cuore.

2. Riconoscere il peccato come nostro.

E' necessario che riconosciamo i peccati come nostri; dobbiamo farlo espressamente ed essere compenetrati dalla convinzione che essi sono imperdonabili perché Dio ci ha donato abbastanza fede e amore per evitarli.

Dobbiamo riconoscere la malvagità del nostro peccato e la nostra intenzione di commetterlo.

Quando cerchiamo di scusarlo facciamo di noi stessi un impedimento alla grazia e ci priviamo dell'effetto migliore della riconciliazione.

3. Non ci si può preparare bene alla confessione senza un vivo rapporto con la Sacra Scrittura.

Si può partire da ogni insegnamento del Signore per arrivare a vedere il proprio stato di errore. Qualunque episodio della vita del Signore ci rivela la sua innocenza, di fronte alla quale noi ci sentiamo impacciati a causa del nostro peccato.

Nella luce di Cristo che vive in intimità con il Padre, vediamo subito in che stato si trova la nostra esistenza, la nostra preghiera, il nostro servizio: vediamo ciò che vi manca, ciò che è trascurato; dappertutto troviamo sintomi di morte invece che di vita, di raffreddamento, di indifferenza e di tiepidezza. Non ci riuscirà difficile, sotto i tre punti di vista dell'amore, della preghiera del servizio, di cogliere la nostra relazione con Dio, di scoprire il nostro peccato.

Sempre a partire dal comportamento di Gesù verso gli uomini, possiamo considerare la nostra relazione con il prossimo.

Il Signore dà tutto ciò che ha.

Davanti a lui scopriamo quanto il nostro amore è stato debole, quanto egoistico, quanto avaro; scopriremo pure quanto abbiamo disprezzato, disdegnato, danneggiato, forse odiato, il nostro prossimo.

Infine possiamo considerare lo stile di Gesù in relazione alla sua missione: il Signore fa tutto per ubbidire al Padre e servire noi uomini. Tutto ciò che fa va in questa direzione, anche il riposo, anche il ristoro; tutto serve per poter essere capace di nuovo lavoro, di nuovo dono. In questa luce possiamo misurare lo stile con cui viviamo la nostra missione personale.

4. Due pericoli da evitare.

Questo esame va compiuto senza paura, perché è una grazia che Dio richieda questo da noi.

L'ansia non ha posto nella confessione cristiana.

Ci dobbiamo esaminare bene e a lungo in modo da far emergere con chiarezza i contorni del peccato, ma bisogna smettere se un'ulteriore ricerca non promette un frutto maggiore.

Non bisogna perdersi in fantasticherie, cercando le circostanze delle circostanze; altrimenti c'è il pericolo di cadere nella colpa di compiacersi della propria bravura nel dispiacersi dei propri peccati.

Se volessimo inseguire i nostri peccati troppo a lungo nelle loro radici e concatenazioni, ben presto queste concatenazioni sarebbero per noi più importanti del peccato stesso e si offuscherebbe la nostra coscienza del peccato, chiudendoci cosi all'azione della grazia.

Dobbiamo rimanere semplici anche di fronte alla nostra colpa e conten­tarci dell'essenziale.

Questa semplicità nella verità ci sarà di aiuto anche per un sincero pentimento e un buon proposito, mentre interminabili introspezioni ci distraggono dalla via maestra che il Signore ci traccia.

L'altro pericolo, molto più diffuso, è quello di esaminarsi solo superficialmente.

Anche da questo pericolo siamo liberati se meditiamo la vita del Signore.

La superficialità consiste nel giudicarsi secondo i propri principi, che normalmente sono di manica larga per due motivi: primo perché il peccato stesso tende a rovinare la coscienza e a renderla insensibile; secondo, perché il mondo che ci circonda ci incoraggia nel disimpegno (tutti fanno così).

Per evitare la superficialità dobbiamo guardare intensamente al Signore e abbandonarci alla sua verità.

Nel caso di peccati "nuovi" bisogna sentirne il carico per averlo commesso, la presunzione che avevamo prima di commetterlo, che forse non ci fatto stare all'erta abbastanza.

Nel caso di peccati "usuali" dobbiamo tenere conto anche delle circostan­ze, delle tentazioni e delle occasioni di peccato che sono da evitare.

La severità dell'esame deve procedere secondo due direzioni:

‑ nel non esagerare le piccolezze, in modo da non perdere di vista ciò che conta.

Dobbiamo essere capaci di fare sintesi e di non mettere tutto sullo stesso piano.

La confessione c'è per rimettersi insieme davanti a Dio, non per perdersi nella confusione. Chi mette davanti soltanto futilità su cui la forza dell'assoluzione va a frantumarsi, non può ricevere la grande scossa sanante dell'assoluzione. L'analisi psicologica va in una direzione contraria a quella della confessione cristiana.

La confessione qualche volta potrà essere più sommaria dell'esame di coscienza, ma l'importante è che ci sia l'essenziale, lo sguardo a Dio, alla grazia del Signore che ci fa vedere tutta la nostra ingrati­tudine .

‑ l'inesorabilità della ricerca; non ci devono essere zone d'ombra, aspetti della vita che non vogliamo mettere davanti a Dio; tutto dell'esistenza va messo sotto lo sguardo del Signore.

5. Tutta la preparazione deve avvenire nello Spirito Santo.

In primo luogo si invocherà lo Spirito Santo perché operi e illumini, facendoci partecipi del suo modo di pensare.

Dobbiamo chiedere allo Spirito che entri nel nostro spirito perché venga in aiuto alla nostra preghiera, al nostro sforzo, alla nostra fede, alla nostra ragione.

Ci sono delle confessioni in cui ci si accorge che non sono basate su una seria preparazione; si dicono un paio di cose, cosi, schematicamente, senza pensarci.

Una tale cicalata mostra che questa persona non si confessa nell'amore.

Chi si confessa formalisticamente non ha più parte all'amore del Figlio per il Padre e per gli uomini.

I peccati diventano delle cose chiuse in sé prive di collegamento con la vita. Questo è l'atteggiamento farisaico.

L'umiltà è il punto decisivo per guarire tutti questi difetti.

Senza l'umiltà i peccati tendono ad essere qualcosa di estraneo alla persona, e basta confessarli per togliersene il peso.

Con l'umiltà si capisce che i peccati sono roba nostra, che sono attaccati alla nostra persona, che siamo noi che abbiamo offeso Dio.

Siamo noi che abbiamo bisogno di essere perdonati e che solo Dio ci può perdonare e non il nostro orgoglio.

La trasformazione della propria vita può cominciare e continuare solo dove c'è la grazia di Dio e il suo perdono, altrimenti c'è solo la nostra supponenza e la nostra incapacità di amare.

Nella preparazione bisogna richiamare al cuore e alla mente l'assoluzio­ne precedente, che ha ricostruito l'amicizia con Dio, in modo che si accresca il desiderio di ritornare alla purezza, alla vicinanza di Dio, nel regno dell'amore.

RITO ROMANO

XXXII DOMENICA

Vangelo: Lc 20,27-38
[In quel tempo, si avvicinarono alcuni sadducei, i quali negano che vi sia la risurrezione], e posero a Gesù questa domanda: “Maestro, Mosè ci ha prescritto: Se a qualcuno muore un fratello che ha moglie, ma senza figli, suo fratello si prenda la vedova e dia una discendenza al proprio fratello.
C'erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette; e morirono tutti senza lasciare figli.
Da ultimo anche la donna morì. Questa donna dunque, nella risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l'hanno avuta in moglie”.
[Gesù rispose: “I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni dell'altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito; e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgono, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando chiama il Signore: Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui”].

COMMENTO di Ileana Mortari

Il brano rientra nella sezione di Luca del cap.20, in cui troviamo una serie di dispute di Gesù con esponenti delle autorità religiose di Israele: i dottori della Legge (o scribi), i farisei e i sadducei; nella fattispecie qui si tratta del terzo gruppo.

Nati probabilmente nei circoli degli ebrei filellenici intorno al 200 a.Cr., i SADDUCEI erano esponenti della ricca aristocrazia di Gerusalemme, membri di famiglie influenti con funzioni sacerdotali di rilievo: erano sommi sacerdoti e anziani, responsabili dell'organizzazione e dell'amministrazione del Tempio. Il loro nome infatti risaliva a Sadok, sommo sacerdote al tempo di Salomone.

Caratterizzati da rigido conservatorismo, si attenevano strettamente alla Legge di Mosè, cioè al Pentateuco (o Torah) e respingevano la tradizione orale (accettata invece dai farisei) e le credenze del giudaismo più recente. Così negavano la resurrezione dai morti, giudicata una superstizione popolare estranea alle Scritture, perché non menzionata nel Pentateuco; e ritenevano non canonico il passo di Daniele che ne parla. Respingevano pure il messianismo nella sua forma più alta e spirituale e la presenza nella storia di angeli e demoni.

Conservatori in campo religioso, erano invece politicamente aperti, pronti a consolidare la loro autorità anche ricorrendo ad accordi palesi o segreti col potere romano con cui non avevano conflitti. Nel 70 d.Cr., in seguito alla caduta di Gerusalemme, essi spariscono dalla scena come partito attivo politicamente, mentre acquistano sempre più influenza e potere i farisei. La loro presenza nei Vangeli è una reale memoria storica del tempo di Gesù.

Nel brano in questione alcuni sadducei, che - come abbiamo visto - non credevano nella resurrezione, propongono a Gesù un caso ipotetico, una storia inventata nelle scuole rabbiniche: se una donna, conformemente alla legge del levirato (Deut.25,5 ssg.), ha avuto sette mariti, di chi sarà moglie nella resurrezione? E lo dicono con una buona dose di ironia; come dire: se c'è la resurrezione, come la mettiamo in un caso del genere? quali complicazioni assurde deriverebbero dall'esistenza della resurrezione! Essi erano certi di poter gettare il ridicolo su ogni eventuale risposta di Gesù.

Il quesito rientrava in quella casistica su cui si svolgevano frequenti e infervorate discussioni nell'ambito rabbinico accademico. Ma il Maestro come sempre non scende sul terreno della disputa e sposta la questione a un altro livello, dando nel contempo ai sadducei e a noi un importante insegnamento sulla resurrezione. Dalle sue parole si capisce che essa non andava intesa come continuazione e accrescimento delle gioie della vita terrena (così affermava allora una grossolana concezione popolare), ma come una condizione assolutamente nuova, che non è possibile esprimere con il linguaggio e le categorie mentali della vita presente, perché sfugge agli schemi del mondo terreno.

In sostanza Egli dice: i risorti non si sposano, perché ormai sono immortali e non occorre più il matrimonio per proseguire la stirpe umana; inoltre essi sono uguali agli angeli, cioè hanno come loro un corpo spiritualizzato (cfr. S.Paolo 1° Cor. 15, 42-46); infine essi sono a pieno titolo "figli di Dio", perché partecipano integralmente della condizione divina, e dunque dell'eternità.

E poi, analogamente ai Sadducei, anche Gesù fa una citazione scritturistica dal Pentateuco, ma non per ribattere colpo su colpo le affermazioni degli avversari, bensì, ancora una volta, per spostare il dibattito su un altro piano, individuando il "centro" della questione: ciò che conta non è "come" saranno gli uomini dopo la morte, ma chi è quel Dio che si rivela e mostra loro una fedeltà senza limiti. Egli si rifà all'episodio del roveto ardente, in cui Dio si manifesta a Mosè e gli dice: "Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe" (Es.3,2-6) e ne trae la conseguenza che "Dio non è il Dio dei morti, ma dei viventi, perché tutti vivono per lui" (v.38).

Ora, l'espressione "il Dio di Abramo, etc." richiama il patto di Alleanza, cioè di reciproca e stretta appartenenza che ha legato Israele a Jahvè; ma allora, se al popolo ebraico è stato offerto un amore particolare, una predilezione da parte di Dio, che è il Salvatore per antonomasia, non può accadere che la morte abbia l'ultima parola; Dio non può essere più debole della morte! E soprattutto, se Dio ama l'uomo, non può abbandonarlo in potere della morte. Ecco perché tutti "per lui", cioè grazie a lui, vivono!

Certo, nella resurrezione non si ha la semplice continuazione della vita terrena (come ritenevano i farisei, e per di più con un'accresciuta fecondità!), ma un'esistenza totalmente "nuova" e non esprimibile nelle categorie terrene. La nostra condizione attuale può essere paragonata a quella del feto che vive e si muove nel grembo della madre come in un ambiente a lui familiare, ma che non ha e non può avere la benché minima idea sul mondo che l'aspetta al momento in cui vedrà la luce!
Così sarà per noi, quando varcheremo il "muro d'ombra": non sappiamo, né mai potremo sapere come sarà! Pertanto ci è chiesto di respingere le inutili curiosità su come, in che modo, quando, etc., mentre dovremmo piuttosto preoccuparci di rispondere alla illimitata fedeltà di Dio, cercando di compiere ogni giorno la Sua volontà.

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