venerdì 27 gennaio 2012

29 gennaio 2012 festa della santa famiglia nel rito ambrosiano

SANTA FAMIGLIA DI GESÙ, MARIA E GIUSEPPE
29 gennaio 2012
Carissimi, in occasione della festa della santa famiglia vi allego anche un mio intervento su Avvenire:
Denatalità e senso della generazione umana
L’amicizia per la vita e la nascita di nuovi figli è alla base di ogni civiltà veramente umana. Sembra che questa amicizia stia indebolendosi in tutto l’Occidente. Ci sono mille motivi pratici, ma non solo. Crediamo che, più ancora dei motivi pratici, conti la concezione della vita che punta esclusivamente alla realizzazione dell’individuo, una realizzazione a tutti i costi, anche contro l’amore e i legami più profondi. L’eterna adolescenza o narcisismo contemporaneo è nemico della nascita dell’uomo. Perciò è urgente riscoprire il significato della generazione dell’uomo.
Se in ogni azione dell'uomo c'è una mescolanza di senso e di scopo, si può dire che nella generazione, ci troviamo all'estremo in cui emerge in tutta la sua potenza l'appello a compiere un'azione per il suo significato e non per uno scopo.
Generare un figlio significa, proprio in quanto atto della libertà, fare un atto di fede nella vita. In questo atto di fiducia, la vita stessa scopre la sua verità più profonda. Il figlio costituisce una grazia, perché permette all'uomo e alla donna di superare il dubbio che la loro vita si consumi inutile, infatti soltanto dedicando la propria vita al figlio essa trova consistenza. Senza la capacità di questo atto di fiducia, la vita stessa rischia di trovarsi priva di senso, di gusto: una chiusura pregiudiziale alla generazione significherebbe infatti la mancanza di fiducia nella vita come qualcosa che sia degna di essere vissuta.
Questo atto di fiducia implica che si accetti il figlio senza nessuna condizione. La coppia che desidera il figlio deve alimentarsi con l'intenzione di accettare il figlio per quello che egli è. Solo così la procreazione realizza la verità della fecondità dell'uomo: accoglienza che fa vivere l'altro così come egli è. In nessun modo si può perciò pensare alla fecondità come a un fatto biologico, come viene sostanzialmente considerato da coloro che accettano di usare le tecniche di fecondazione artificiale.
Troppo povero e del tutto insufficiente a descrivere la realtà umana è il linguaggio di chi si ferma solo sull'aspetto biologico e parla solo di produzione di zigote o di un aggregato di cellule. Perciò è moralmente scadente la figura dell'uomo che volesse fabbricare il figlio, facendolo e disfacendolo a proprio piacimento con l'aiuto della tecnica. Con la fecondità fisica si procrea non qualcosa, ma qualcuno: si crea una nuova libertà. Per questo il figlio è l'opera più grande che un uomo e una donna possono fare.
Bisogna aprire gli occhi sul fatto che il bambino, con la sua presenza di persona, conduce i genitori a riconoscere il mistero della vita. Il figlio chiede quel rispetto dovuto alla libertà personale e chiede ai genitori di compiere quell'opera di espropriazione di sé, che significa riconoscimento che c'è una realtà che ci precede, che è indisponibile e che dobbiamo rispettare.
In tal modo il figlio, amato per se stesso, costituisce la verità della libertà degli adulti, perché la libertà è vera quando è capace di staccarsi da sé per impegnarsi nella cura indissolubile per gli altri. In questo caso è cura del figlio, a cui si promette di essere un dono con tutto se stessi.
Il figlio amato per se stesso, che non è frutto di un calcolo costi/benefici, ha la forza di far passare le persone dal rischio dell’eterna adolescenza alla maturità dell’adulto che ama gratuitamente. È un regalo straordinario che il figlio fa ai genitori: infatti non c’è uomo vero e maturo se non accetta di legare la propria libertà al voler bene, anche quando costa e si debbono fare sacrifici. Il figlio, con le sue esigenze sottrae la nostra vita alla superficialità e dalla irresponsabilità e ci introduce nella bellezza del legame d’amore tra le persone, il solo che costituisce l’adulto.
La denatalità dei nostri tempi non è solo un fatto pratico che ci sta conducendo al suicidio demografico, ma il segno di una umanità che vuole restare adolescente e irresponsabile, troppo ripiegata nella cura del proprio io. Come Narciso; ma come Narciso si muore se non si ritorna a crescere e a diventare adulti.

Lettura
Lettura del profeta Isaia 45, 14-17

Così dice il Signore: / «Le ricchezze d’Egitto e le merci dell’Etiopia / e i Sebei dall’alta statura / passeranno a te, saranno tuoi; / ti seguiranno in catene, / si prostreranno davanti a te, / ti diranno supplicanti: / “Solo in te è Dio; non ce n’è altri, / non esistono altri dèi”». / Veramente tu sei un Dio nascosto, / Dio d’Israele, salvatore. / Saranno confusi e svergognati / quanti s’infuriano contro di lui; / se ne andranno con vergogna / quelli che fabbricano idoli. / Israele sarà salvato dal Signore / con salvezza eterna. / Non sarete confusi né svergognati / nei secoli, per sempre.

Salmo
Sal 83 (84)

® Beato chi abita la tua casa, Signore.

L’anima mia anela
e desidera gli atri del Signore.
Il mio cuore e la mia carne
esultano nel Dio vivente. ®

Anche il passero trova una casa
e la rondine il nido dove porre i suoi piccoli,
presso i tuoi altari, Signore degli eserciti,
mio re e mio Dio. ®

Beato chi abita nella tua casa:
senza fine canta le tue lodi.
Beato l’uomo che trova in te il suo rifugio
e ha le tue vie nel suo cuore. ®


Epistola
Lettera agli Ebrei 2, 11-17

Fratelli, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli, dicendo:
«Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, / in mezzo all’assemblea canterò le tue lodi»; / e ancora: / «Io metterò la mia fiducia in lui»; / e inoltre: / «Eccomi, io e i figli che Dio mi ha dato».
Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che, per timore della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita. Egli infatti non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo si prende cura. Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo.

Vangelo
Lettura del Vangelo secondo Luca 2, 41-52

In quel tempo. I genitori del Signore Gesù si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme.
Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro.
Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.

Commento
Il Vangelo di Luca, a conclusione dei capitoli dell'infanzia, riporta il difficile testo di Gesù che si ferma nel tempio, a 12 anni, senza avvisare nessuno della sua famiglia, risultando perciò disperso.

Per intendere il testo, vanno riletti gli elementi proposti, sapendo che sono stati scritti a distanza di circa settant'anni, e dopo una enorme maturazione e riflessione sulla figura di Gesù. Non è perciò un fatto di cronaca che viene raccontato, ma un richiamo, all'inizio della vita adulta di Gesù, che sintetizza tutta la vicenda della sua vita e della sua morte. È infatti, come spesso avviene nei Vangeli, un testo carico di richiami simbolici e teologici.

Gesù, infatti, è condotto a Gerusalemme secondo l'usanza del tempo che, per sé, prevedeva tre incontri nell'anno per ogni ebreo maschio. Per coloro, però, che erano lontani, per i più devoti, era uso andare a Gerusalemme almeno una volta all'anno, normalmente nel periodo della Pasqua. Luca ricorda che, in questa occasione, Gesù ha 12 anni, e, a 12 anni, un ragazzo era ormai prossimo a quella festa in cui il ragazzo ebreo compie la cerimonia del "Bar miswah" (lett. "figlio del precetto") che identifica l'ingresso nella maggior età religiosa. Così, a 13 anni, ogni ebreo diventa religiosamente adulto ed è obbligato all‘osservanza integrale dei precetti. Diventa così "figlio del comandamento", direttamente, senza aver più bisogno della mediazione dei genitori.

Il testo è diviso in tre parti:

- Io smarrimento e il ritrovamento di Gesù (2,41-47) durante il pellegrinaggio. Il 12 tuttavia richiama anche il numero del popolo.
- il dialogo tra Maria e Gesù nel tempio (2,48-50) apre allo stupore di un ritrovamento, ma anche alla scoperta di una saggezza imprevista. Nelle parole di Maria c'è però anche un logico rimprovero: si riferisce alla violazione di una norma che prescriveva, a chi non era ancora maggiorenne, di vivere nella casa paterna. Gesù invece rivela che, stando nel tempio, non viola la legge, ma la osserva nel suo più profondo significato: il tempio, ritenuto la casa di Dio, è la vera casa paterna di Gesù, figlio di Dio. Giuseppe e Maria non capiscono ma accettano in silenzio questo mistero che si svelerà via via.
- la conclusione dell'episodio e dell'infanzia di Gesù (2,51-52).

Il tema di fondo, tuttavia, è dato dalla frase dì Gesù "Non sapete che debbo essere presso il Padre mio?" (traduzione che sembra più aderente al testo).

Gesù dimostra la sua dipendenza fondamentale dal Padre e quindi la sua consapevolezza e chiarezza nella vocazione e nell'ubbidienza ("devo").

Eppure egli resta sottomesso a Giuseppe e Maria. Vengono richiamati alcuni elementi già trovati: la partenza, il ricordo di Maria, la crescita. Gesù non è a caccia di autonomia ma esprime nella casa di Nazareth la sua volontà di amore e di rispetto verso i genitori nell'obbedienza ed "era loro sottomesso".

L'episodio sottolinea la fondamentale vocazione di Gesù: "Essere maestro nella Parola del Signore per individuare la volontà del Padre". Qui Gesù adolescente stupisce per la sapienza, nel tempio, in mezzo ai sapienti. Il testo, comunque, non presenta un ragazzo presuntuoso che vuole insegnare ai dottori della legge, ma richiama l'atteggiamento di un giovane intelligente, che ascolta ciò che i sapienti dicono e, desideroso di capire, pone domande. Questo è il modello di ogni saggio che scruta le Scritture ed è, anche, il modello di ogni discepolo che vuole conoscere.

Lo stupore, che questo giovane suscita, è per l'acutezza delle domande, per la ricerca di senso che egli vuol porre a sé e agli altri nella vita. Dovrebbe essere un grande insegnamento per noi che dovremmo interrogarci e interrogare molto di più e ascoltare più profondamente.

La stranezza della domanda di Gesù a Maria e Giuseppe: "Perché mi cercavate?" pone il problema del valore della vita di ognuno nei confronti del Signore. E l'inizio della propria maturità. Questo ragazzo desidera, dal primo momento, ricordare che il suo rapporto con Dio è un rapporto unico e totale.

Lo scontro tra le generazioni e la ricerca della vocazione disorientano persino la piccola e santa famiglia: non basta volersi bene. E' sempre, comunque, difficile capirsi.

C'è di mezzo un mistero di futuro che non resiste ai nostri schemi. Eppure Maria, da una parte, interroga e riflette in silenzio, dall'altra lei e Giuseppe non rinunciano alle loro responsabilità di madre e di padre. Perciò Gesù ritorna nella normalità.

Ma il simbolismo si accentua nel pensare ai tre giorni di assenza (come quelli della morte) e alla domanda: "Perché mi cercavate?" che corrisponde a quella degli angeli nella risurrezione: "Perché cercate tra i morti colui che è vivo?" (24,5).

Questo brano che, come spesso molti brani di Luca, è una sintesi della vita di Gesù, può diventare anche un bellissimo testo di riflessione sul nostri metodi educativi e sulle attese che abbiamo verso i figli e le nuove generazioni che crescono.

La famiglia trova così una sua preziosa vocazione: scoprire e vivere la volontà di Dio, educando e impegnandosi nel gratuito. Mentre si propongono i valori fondamentali della vita alle nuove generazioni, bisogna saper capire i figli, educandoli nella libertà e nella responsabilità: due dimensioni difficili che diventano così elementi di verifica e di ricerca tra noi adulti.

Ogni adulto è educatore, maestro, modello agli occhi di un ragazzo. Non accettiamo di dire, almeno sul nostro comportamento: "Nella vita privata il mio comportamento è un affare mio", soprattutto se abbiamo una rapporto stretto di responsabilità. Libertà e responsabilità suppongono che si debba chiarire, spiegare, motivare e, magari, in alcuni casi, chiedere scusa.

Ognuno di noi riceve un saggio esempio da Maria: "Maria custodisce e conserva tutto il messaggio nel suo cuore" per capire e vivere la volontà del Padre.

Gesù cresce a somiglianza del giovane Samuele "Il giovane andava crescendo in statura e bontà davanti al Signore e agli uomini" (1 Sam. 2,26).

venerdì 20 gennaio 2012

III domenica dopo l'Epifania 22 1 2012

III DOMENICA DOPO L’EPIFANIA


Lettura
Lettura del libro dei Numeri 11, 4-7. 16a. 18-20. 31-32a

In quei giorni. La gente raccogliticcia, in mezzo a loro, fu presa da grande bramosia, e anche gli Israeliti ripresero a piangere e dissero: «Chi ci darà carne da mangiare? Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cetrioli, dei cocomeri, dei porri, delle cipolle e dell’aglio. Ora la nostra gola inaridisce; non c’è più nulla, i nostri occhi non vedono altro che questa manna».
La manna era come il seme di coriandolo e aveva l’aspetto della resina odorosa.
Il Signore disse a Mosè: «Dirai al popolo: “Santificatevi per domani e mangerete carne, perché avete pianto agli orecchi del Signore, dicendo: Chi ci darà da mangiare carne? Stavamo così bene in Egitto! Ebbene, il Signore vi darà carne e voi ne mangerete. Ne mangerete non per un giorno, non per due giorni, non per cinque giorni, non per dieci giorni, non per venti giorni, ma per un mese intero, finché vi esca dalle narici e vi venga a nausea, perché avete respinto il Signore che è in mezzo a voi e avete pianto davanti a lui, dicendo: Perché siamo usciti dall’Egitto?”».
Un vento si alzò per volere del Signore e portò quaglie dal mare e le fece cadere sull’accampamento, per la lunghezza di circa una giornata di cammino da un lato e una giornata di cammino dall’altro, intorno all’accampamento, e a un’altezza di circa due cubiti sulla superficie del suolo. Il popolo si alzò e tutto quel giorno e tutta la notte e tutto il giorno dopo raccolse le quaglie.

Salmo
Sal 104 (105)

® Il Signore ricorda sempre la sua parola santa.

È lui il Signore, nostro Dio:
su tutta la terra i suoi giudizi.
Si è sempre ricordato della sua alleanza,
parola data per mille generazioni,
dell’alleanza stabilita con Abramo
e del suo giuramento a Isacco. ®

Fece uscire il suo popolo con argento e oro;
nelle tribù nessuno vacillava.
Quando uscirono, gioì l’Egitto,
che era stato colpito dal loro terrore.
Distese una nube per proteggerli
e un fuoco per illuminarli di notte. ®

Alla loro richiesta fece venire le quaglie
e li saziò con il pane del cielo.
Spaccò una rupe e ne sgorgarono acque:
scorrevano come fiumi nel deserto.
Così si è ricordato della sua parola santa,
data ad Abramo suo servo. ®


Epistola
Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 10, 1-11b

Non voglio che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto.
Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono. Non diventate idolatri come alcuni di loro, secondo quanto sta scritto: Il popolo sedette a mangiare e a bere e poi si alzò per divertirsi. Non abbandoniamoci all’impurità, come si abbandonarono alcuni di loro e in un solo giorno ne caddero ventitremila. Non mettiamo alla prova il Signore, come lo misero alla prova alcuni di loro, e caddero vittime dei serpenti. Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento.

Vangelo
Lettura del Vangelo secondo Matteo 14, 13b-21

In quel tempo. Il Signore Gesù partì di là su una barca e si ritirò in un luogo deserto, in disparte. Ma le folle, avendolo saputo, lo seguirono a piedi dalle città. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati.
Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». Gli risposero: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!». Ed egli disse: «Portatemeli qui». E, dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla. Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.



VANGELO: Mt 14,13b-21

Mt 13,53 – 16,20, la sezione che segue il discorso delle parabole, non contiene soltanto molti echi di Mt 11-12, ma anche molte ripetizioni, tra cui appunto i due segni della condivisione del pane (Mt 14,13-21 e 15,32-39), le due confessioni del Figlio di Dio (14,33 e 16,16), le due ritrattazioni di Gesù di fronte ai capi del popolo a lui ostili (14,13 e 15,21) e i due sommari circa le guarigioni (14,34-36 e 15,29-31). Da qui la dif-ficoltà di tracciarne una struttura narrativa accettabile.
U. Luz, a partire dai tre allontanamenti dai capi di Israele, trova tre sezioni: 13,53 – 14,33; 14,34 – 15,39 e 16,1-20. L’insieme della narrazione non è casuale, ma il tutto mira a una finalità che porta a compimento motivi e temi precedentemente annunciati.

vv. 13-14: Gesù viene a sapere di quanto Erode pensa su di lui (l’episodio della morte di Giovanni è retrospettivo) e si ritira. Non insegna più alla folla. Il suo insegnamento per la gente si è concluso con le parabole. La folla è cieca e sorda nei confronti del messaggio (Mt 13,14s). Tuttavia guarisce gli infermi e, malgrado la mancanza di rispo-sta, l’amore di Gesù per la folla non viene meno (v. 14: ne ebbe compassione).
vv. 15-18: Matteo indica il momento della giornata: era passata l’ora di mangiare. I di-scepoli se ne preoccupano e chiedono a Gesù di congedare la gente. «Comprare» signi-fica tornare alla società da cui provengono per sottomettersi ancora alle leggi economi-che che li hanno mantenuti nella miseria. Al «comprare» Gesù contrappone il «donare»: sono i discepoli che devono dar da mangiare alla gente. Essi ritengono di non avere il necessario. «Cinque pani», in relazione coi cinquemila uomini (v. 21). Cinque pani e due pesci sommati danno sette, il numero che indica la totalità.
vv. 19-21: «Sdraiarsi» per mangiare era proprio degli uomini liberi ed era l’atteggia-mento adottato per il pasto pasquale in ricordo della liberazione dall’Egitto. Gesù prende tutte le provviste di cui il gruppo dispone e pronuncia la benedizione. Come in Marco, la benedizione rappresenta l’azione di grazie rivolta a Dio per il pane.
La benedizione, proclamando la positività del mondo e la sorgente del bene che lo sotten-de, rivela nello stesso tempo la legge fondamentale del reale, la legge della circolazione dei beni, della condivisione, della solidarietà. Al di fuori di questa legge - cioè al di fuori del circuito delle soggettività buone, libere e amanti - le cose e i beni del mondo si pervertono in oggetti di competizione e di accaparramento, mentre dentro di essa fioriscono come frutti edenici per la gioia di tutti. Proclamando: “Benedetto tu… Signore”, l'orante non so-lo dice che il mondo è buono perché ci sono i beni donati dal Bene, ma enuncia la condi-zione essenziale con cui farlo restare tale: la condivisione. Con questa preghiera egli si in-sedia nel cuore del reale, lì dove le cose vengono generate dal Bene Bene-volenza e affidate alla sua responsabilità, chiamata alla stessa bene-volenza. Entro il tessuto delle soggettività benevolenti, trasparenza della benevolenza divina, i beni della terra, oltre che oggetti di consumo e di fruizione, si doppiano di ulteriore significato che è il loro spessore di dono. Affermare la benedizione è vivere nella gratuità e per la gratuità, “transustanziando” le cose in gesti di amore. C. DI SANTE, Parola e Terra. Per una teologia dell’ebraismo, Presentazione di A. BALLETTO (Dabar. Sag-gi Teologici 39), Marietti 1820, Genova 1990, p. 46.

Il pane viene svincolato dai suoi possessori umani per essere considerato come dono di Dio, espressione della sua generosità e del suo amore per gli uomini. Condividere il pane e i pesci significa prolungare la generosità di Dio creatore. Quando la creazione viene liberata dall’egoismo umano ce n’è d’avanzo per provvedere alle necessità di tutti. La sazietà è in relazione con la promessa di Mt 5,6; è realizzata la liberazione degli op-

pressi propria del regno di Dio. Gli avanzi che colmano dodici ceste indicano che con la condivisione si può saziare la fame di Israele.
La scena è in relazione con l’esodo: luogo deserto, mancanza di cibo, gente inaspet-tatamente saziata. Si pensava che il Messia dovesse compiere l’esodo, la liberazione de-finitiva. In questo episodio Gesù propone il suo modello di esodo. La gente è uscita dalle città (v. 13), cioè dalla società del suo tempo (allusione alle città che Gesù rim-proverava, cf Mt 11,20). È questo il punto di partenza dell’esodo. Alla manna corri-spondono i pani e i pesci che saziano la folla. Non è un fenomeno prodigioso come quello antico, ma una lezione data da Gesù: l’amore, manifestato nella condivisione di tutto ciò che si ha, assicura l’abbondanza e libera dalla schiavitù alla società ingiusta.
Questo episodio si oppone direttamente alla prima tentazione. «Il diavolo» aveva proposto a Gesù la soluzione miracolosa per la fame. Gesù ha respinto la tentazione. La soluzione non si trova in un prodigio compiuto dal Figlio di Dio, ma in qualcosa di semplice, alla portata di tutti, nel condividere i beni della creazione.
La scena prepara l’eucaristia, che sarà l’espressione del dono totale di Gesù e dei suoi. Il pane dell’eucaristia fonda la possibilità di condividere questo pane. Il numero cinquemila, multiplo di cinquanta (50×100, moltiplicatore che indica la ripetizione il-limitata) allude alle comunità profetiche del Primo Testamento (cf 1 Re 18,4. 13; 2 Re 2,7); «uomini adulti» allude invece all’opera dello Spirito. Il numero cinquemila è dun-que simbolico; significa che condividendo il pane si comunica lo Spirito che porta l’uomo alla sua maturità e costruisce la nuova comunità. Di qui la mancanza di donne e bambini (simbolo dei deboli).
Con questi tratti Matteo descrive le caratteristiche dell’esodo di Gesù: la terra di schiavitù è la società giudaica del tempo; la Legge è l’amore manifestato nella condivi-sione, che prosegue la generosità di Dio e fa sovrabbondare i suoi doni a beneficio di tutti; la terra promessa significa la comunità dello Spirito.
Si spiega anche il significato della scelta per la povertà (Mt 5,3); «povero» è chi non si riserva nulla, ma mette ciò che ha a disposizione di chi ne ha bisogno. Si compiono così i detti di Gesù sulla generosità (Mt 6,22s) e sulla provvidenza del Padre (6,25-34). Cf J. MATEOS - F. CAMACHO, Il vangelo di Matteo. Lettura commentata, Traduzione di T. TOSATTI (Bibbia per Tutti), Cittadella Editrice, Assisi 1986, pp. 206-208.

PER LA NOSTRA VITA


1. Il Cristo è il nostro pane. […]
La parte efficace della volontà non consiste nello sforzo, che è teso verso l’avvenire, bensì nel consenso, il sì delle nozze. Un sì proferito nell’istante presente per l’istante presente, eppure al modo di una parola eterna, perché si acconsente all’unione del Cri-sto con la parte eterna della nostra anima.
Noi abbiamo bisogno del pane. Siamo esseri che senza sosta attingono l’energia dall’esterno, giacché man mano che la ricevono i loro sforzi la esauriscono. Se questa energia non viene rinnovata quotidianamente, perdiamo le forze e non riusciamo più a muoverci. Oltre al nutrimento vero e proprio, nell’accezione letterale del termine, tutti gli stimoli sono per noi fonte di energia. Il denaro, la carriera, la considerazione altrui,

le onorificenze, la fama, il potere, gli esseri che amiamo, ogni cosa che travasi in noi una qualche capacità di agire equivale a un po’ di pane. Se uno di questi attaccamenti penetra in noi abbastanza in profondità, fino alle radici vitali della nostra esistenza car-nale, la privazione può spezzarci e addirittura causare la nostra morte. E’ quel che si dice morire di dolore. E’ come morire di fame. Tutti gli oggetti dei nostri attaccamenti costituiscono, insieme al nutrimento vero e proprio, il pane di quaggiù. […]
Non dobbiamo chiedere il pane di quaggiù.
Vi è un’energia trascendente che scaturisce in cielo ed entra in noi appena lo deside-riamo. […]
È questo il nutrimento che bisogna chiedere. Quando lo chiediamo, e proprio per-ché lo chiediamo, sappiamo che Dio vuole donarcelo. S. WEIL, Attesa di Dio, a cura di M.C. SALA, Con un saggio di G. GAETA (Biblioteca Adelphi 529), Adelphi, Milano 2008, pp. 92-93.

2. Il bene è reale quando genera comunione. La sua stessa creatività si delinea così nel senso della transitività e della partecipabilità senza esclusione: esso è già sempre, in qualche misura, bene comune, giacché non ammette privilegio, espulsione, emargina-zione. Il bene implica la comunicazione di sé, dove però “comunicazione” non signifi-ca soltanto trasmissione o traslazione, quanto comunionalità. Il bene fa incontrare le persone nella loro identità profonda e nel senso della loro vita, stabilendo legami irri-ducibili. Al tempo stesso la sua realtà si lascia esperire nelle condivisione di una plura-lità di beni. Penso alla vita di ogni creatura, alle sue condizioni positive, ai diritti fon-damentali delle persone e del creato, ai valori e alle opere che li rispecchiano o li accre-scono, a quanto ci è dato in dono e anche a ciò che produciamo con le nostre mani senza ricadere in qualche forma di distruzione
Il bene è reale quando ci apre alla vera reciprocità umana e creaturale. La natura comunionale del bene ci indica che esso è realmente vissuto quando le persone ne di-ventano co-soggetti e nessuno è ridotto a vivere come mero oggetto, neppure si assi-stenza o di carità. Già la coscienza del fatto che tendenzialmente riceviamo del bene in qualche forma e che diventiamo liberi nel ricomunicarlo fa affiorare una corrente di re-ciprocità.
Il bene è reale quando assistiamo a una umanizzazione delle persone e delle loro re-lazioni. Se invece si diffondono alienazione, deformazione o regressione delle identità singole e comunitarie, ciò rappresenta già un male. […] È vero che ci sono vite desola-te, non amate, private di questo fondamento di ciò che noi siamo. Sono le situazioni estreme – che non vuol dire rare – le quali non attestano l’illusorietà del bene, ma indi-cano quanto siamo affidati gli uni agli altri.

3. ... “Mi accade sovente di domandarmi se esista un vero rapporto tra adempimento e desideri. Certo, fintanto che il desiderio è debole, esso è simile a una metà che per diventare autonoma ha bisogno del proprio adempimento come di un’altra metà. Ma i desideri possono germinare in modo così meraviglioso da diventare un tutto, pie-no e intero, che non si lascia più completare e ormai si accresce, si forma e si riempie

solo dall'interno. A volte si potrebbe credere che alla radice di una vita grande e inten-sa ci sia proprio stato un coinvolgimento in desideri eccessivi che come una molla inte-riore hanno riversato nella vita azione su azione, effetto su effetto; e quasi non ram-mentando il proprio fine originario, diventati ormai elementari come un'impetuosa ca-scata, si sono trasformati in azione e cordialità, in presenza e immediatezza, in lieto co-raggio, a seconda degli eventi e delle circostanze che li avevano provocati”. […]
Io credo che dalla vita si possa ricavare qualcosa di positivo in tutte le circostanze, ma che si abbia il diritto di affermarlo solo se personalmente non si sfugge alle circo-stanze peggiori. E. HILLESUM, Diario 1941-1943, a cura di J.G. GAARLANDT, Traduzione di C. PASSANTI (Gli Adelphi 93), Adelphi, Milano 1996, 200510, pp. 26-27.


4. La sola scelta che si pone all’uomo è quella di legare o meno il proprio amore alle cose di quaggiù. Egli deve rifiutarsi di legarlo a esse e rimanere immobile, senza cercare, senza muoversi, in attesa, senza nemmeno cercare di sapere ciò che aspetta: è certo che Dio farà tutto il cammino fino a lui. [...] Un bambino che non vede più sua madre nella strada accanto a lui, corre di qua e di là, ma facendo così sbaglia. Se egli infatti avesse sufficiente ragione e forza d'animo per arrestarsi e attendere, la madre lo troverebbe più in fretta. Dobbiamo solo attendere e chiamare. Non chiamare qualcu-no, dato che non sappiamo ancora se c'è qualcuno. Dobbiamo gridare che abbiamo fame e che vogliamo del pane. Grideremo più o meno a lungo, ma finalmente saremo nutriti e allora non soltanto crederemo ma sapremo che esiste veramente del pane. Quando ne abbiamo mangiato, quale prova più sicura potremmo desiderare? Fintanto che non ne abbiamo mangiato, non è necessario e nemmeno utile credere nel pane. L'essenziale è sapere che si ha fame. […]
Tutti coloro che credono che vi è o vi sarà un nutrimento prodotto quaggiù, men-tono. Il nutrimento celeste non fa solo crescere in noi il bene: esso distrugge il male, cosa che i nostri sforzi personali non potrebbero mai fare. S. WEIL, L’amore di Dio, Traduzione di G. BISSACA - A. CATTABIANI, con un saggio introduttivo di A. DEL NOCE, Edizioni Borla, Roma 1968, 19943, 112-113.

5. La fede non è se stessa se non quando è fedele alla propria origine assente che non può esaurirsi in nessuna positività. È per questo che la pratica dell’alterità, la rela-zione all’altro, l’ospitalità nei confronti dell’estraneo non sono semplicemente delle sssssopzioni di ordine etico, delle opzioni facoltative; esse rientrano in un’esigenza di natura e attestano, così, l’alterità di un Dio sempre più grande. […]
Si potrebbe dire che l’unicità del cristianesimo è l’unicità del divenire, non di una totalità già costituita e chiusa, bensì l’unicità di un divenire che è fatto di consenso e di servizio. C. GEFFRÉ, Credere e interpretare. La svolta ermeneutica della teologia, Editrice Queriniana, Brescia 2002, pp.139-141.



6. Gli apostoli erano preoccupati perché avevano poco pane. Non capivano che era sufficiente. Noi sappiamo chi è il pane. Se è con noi, il pane sarà moltiplicato. Non appena pensiamo il futuro, lo pensiamo come il passato. Non abbiamo l’immagina-zione di Dio. Domani sarà un’altra cosa e noi non possiamo immaginarla. Questa si

chiama “la povertà”. “Dio mio, sono pienamente provvisto di questo legame che tu vuoi offrirmi”. Il futuro appartiene a Dio che, in ogni modo, vuole colmarci. FRÈRE CHRISTIAN DE CHERGE E GLI ALTRI MONACI DI TIBHIRINE, Piu forti dell'odio, Introduzione e traduzione con raccolta di ulteriori testi di G. DOTTI, Prefazione di E. BIANCHI (Sequela Oggi), Edizio-ni Qiqajon, Comunità di Bose - Magnano BI 1997, 20103, p. 176.

7. Voi stessi date (loro) da mangiare.
L’azzardo è infinito. Essere pane, nutrimento.
Salvaguardati e insieme “mangiati”.
Vita per la vita.
Sì, un azzardo, divenire pane in questi nostri deserti.
Voi stessi date loro da mangiare.
Sbriciolato il confine e la misura nell’invito.
La nostra vita, nel dono, non si distrugge.
Si dissemina.

venerdì 13 gennaio 2012

15.01.2012 II DOMENICA DOPO L’EPIFANIA

Lettura del profeta Isaia 25, 6-10a

In quei giorni. Isaia disse: «Preparerà il Signore degli eserciti / per tutti i popoli, su questo monte, / un banchetto di grasse vivande, / un banchetto di vini eccellenti, / di cibi succulenti, di vini raffinati. / Egli strapperà su questo monte / il velo che copriva la faccia di tutti i popoli / e la coltre distesa su tutte le nazioni. / Eliminerà la morte per sempre. / Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto, / l’ignominia del suo popolo / farà scomparire da tutta la terra, / poiché il Signore ha parlato. / E si dirà in quel giorno: “Ecco il nostro Dio; / in lui abbiamo sperato perché ci salvasse. / Questi è il Signore in cui abbiamo sperato; / rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza, / poiché la mano del Signore si poserà su questo monte”».

Salmo

Sal 71 (72)

® Benedetto il Signore, Dio d’Israele, egli solo compie meraviglie.

Il Signore libererà il misero che invoca

e il povero che non trova aiuto.

Abbia pietà del debole e del misero

e salvi la vita dei miseri. ®

Il suo nome duri in eterno,

davanti al sole germogli il suo nome.

In lui siano benedette tutte le stirpi della terra

e tutte le genti lo dicano beato. ®

Benedetto il Signore, Dio d’Israele:

egli solo compie meraviglie.

E benedetto il suo nome glorioso per sempre:

della sua gloria sia piena tutta la terra. ®

Lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi 2, 1-10a

Fratelli, voglio che sappiate quale dura lotta devo sostenere per voi, per quelli di Laodicèa e per tutti quelli che non mi hanno mai visto di persona, perché i loro cuori vengano consolati. E così, intimamente uniti nell’amore, essi siano arricchiti di una piena intelligenza per conoscere il mistero di Dio, che è Cristo: in lui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza. Dico questo perché nessuno vi inganni con argomenti seducenti: infatti, anche se sono lontano con il corpo, sono però tra voi con lo spirito e gioisco vedendo la vostra condotta ordinata e la saldezza della vostra fede in Cristo.

Come dunque avete accolto Cristo Gesù, il Signore, in lui camminate, radicati e costruiti su di lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, sovrabbondando nel rendimento di grazie. Fate attenzione che nessuno faccia di voi sua preda con la filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo.

È in lui che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi partecipate della pienezza di lui.

Lettura del Vangelo secondo Giovanni 2, 1-11

In quel tempo. Vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».

Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora».

Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.

COMMENTO AL VANGELO

Normalmente si designa questa pagina giovannea come il "miracolo della trasformazione dell'acqua in vino". E' vero; ma, sulla scorta del grande esegeta Dufour, dobbiamo notare che molti elementi non corrispondono a quelli che sono i "classici" racconti evangelici di miracoli.

"Nei racconti di miracoli, i beneficiari vengono ordinariamente identificati e caratterizzati, mentre qui la sposa è letteralmente assente, lo sposo appare solo alla fine e in maniera indiretta … Perché Maria, invitata fra tanti altri, si accorge della mancanza di vino prima dei responsabili del banchetto?? Tutti dati che una narrazione di miracolo avrebbe fornito.
In compenso si nota abbondanza di curiose minuzie in un testo per altri versi così sobrio: il grande spazio dato al dialogo tra Gesù e Maria, i particolari relativi alle giare, l'obbedienza scrupolosa dei servi. Soprattutto, se si trattasse solo di un miracolo, perché Gesù non agisce direttamente, come per esempio nell'episodio dei pani a profusione (Giov.6) o quando ordina al mare di calmarsi (Mc.4)? " (X.L.Dufour, Lettura del Vangelo secondo Giovanni, Paoline, pagg. 295-6)

Dunque siamo di fronte a un prodigio, sì, ma anche a qualcosa di più, anzi di più importante della trasformazione dell'acqua in vino, qualcosa che dobbiamo decifrare, se vogliamo leggere il brano correttamente. Giovanni infatti va sempre letto a due livelli: quello ovvio del racconto, e quello che lo stesso autore ci invita a scoprire attraverso particolari indicazioni.

Anzitutto egli non usa il termine "tératon" = prodigio, per indicare il miracolo del vino, bensì "semèion" = segno. Nel 4° vangelo "segno" è un'azione compiuta da Gesù che, ben visibile, conduce però alla conoscenza di una realtà superiore e non percepibile ai sensi.

In questa sua scelta Giovanni non fa altro che riprendere e sviluppare una tendenza già presente nella storiografia antica. "Nell'ottica dei popoli antichi quanto accade, e certi fatti in particolare, non è solo un accadimento, ma - cosa forse più importante ancora - un inviato all'uomo dalla divinità. Un segno che può venire dalla natura come può venire dalla serie dei fatti umani, dall'andamento stesso delle umane vicende, collettive o individuali. Entro questa viva sensibilità al si sviluppa quel particolare modo di guardare agli eventi cercando in essi, quasi in prima istanza, ciò che essi significano per l'uomo". (E. Fermi, Venuta sera, SBC Ed., pagg.248-9)

Lo scopo dell'evangelista è infatti portare i suoi uditori/lettori alla fede in Cristo attraverso la narrazione di alcuni dei "segni" da Lui compiuti. Quello di Cana è il primo, l'inizio, letteralmente il "prototipo" dei segni, cioè è un segno "esemplare", nel quale è in un certo senso prefigurata e precontenuta tutta la serie dei successivi "segni" (guarigione del figlio del funzionario regio, del cieco nato, moltiplicazione dei pani, etc.), che dunque andranno letti tenendo presente quello di Cana.

Ed è questa peculiarità giovannea che può spiegarci quella strana frase, apparentemente rude e quasi irrispettosa che Gesù rivolge a sua madre: "Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora". Nell'originale la prima espressione è "che c'è tra me e te" e significa divergenza di punti di vista, che nella fattispecie sta in questo: Maria (pur suggerendo un miracolo) si preoccupa del vino materiale che manca; Gesù eleva il discorso ad un altro piano, quello della sua manifestazione come Figlio di Dio che avverrà pienamente nella sua "ora"; e l' "ora" nella teologia giovannea è quella della passione-morte-resurrezione del Nazareno.

Al v.6 ci sono due indicazioni che parrebbero superflue: "vi erano là sei anfore di pietra"; con la sottolineatura "di pietra" l'evangelista ci vuole ricordare che anche le tavole della Legge (date a Mosè sul Sinai) erano di pietra; quanto al numero "sei", è, per chiunque sia familiarizzato con la Scrittura, un richiamo ai sei giorni della creazione. Con ciò abbiamo probabilmente un invito da parte dell'autore a considerare ciò che sta per succedere come qualcosa che è strettamente connesso sia alla creazione che all'esodo di Israele dall'Egitto.

E poi si può ricordare anche Ezechiele 36,26: "Toglierò da voi il cuore di pietra e vi porrò un cuore di carne". Cioè: l'alleanza scolpita sulle tavole di pietra dovrà essere impressa nel cuore. E' la visione di Ezechiele (e anche di Geremia cap.31) sulla "nuova alleanza": "Verranno giorni in cui stabilirò un patto nuovo e la mia legge sarà impressa nel loro cuore". Conclusione: nell'episodio di Cana Giovanni vuole renderci coscienti di questa "nuova alleanza".

Proseguiamo nella lettura a due piani, cioè "simbolica", del testo, sulla scorta di Dufour: "Poiché il racconto di Cana non è di tipo biografico (per le ragioni dette all'inizio), il tema delle nozze richiama subito alla mente un'immagine biblica, divenuta tradizionale a partire dall'esperienza coniugale di Osea fino al Cantico dei Cantici e a Gesù stesso, che ha presentato il regno dei cieli come un banchetto di nozze (Matteo 22,2; 25,1). La festa umana per eccellenza, quella che dice l'amore dell'uomo e della donna, destinati a divenire "uno" in conformità con l'immagine divina, è servita da metafora per esprimere l'alleanza di Dio con il suo popolo, e più particolarmente la sua realizzazione escatologica, allorché Dio la stringerà non solo con Israele, ma col mondo intero. La ripetizione della parola "nozze" all'inizio del racconto è manifestamente intenzionale per sottolineare il quadro simbolico dell'episodio …" (op. cit. pag.305)

Quanto alle giare che devono essere riempite d'acqua: "Da dove viene quest'acqua? Il testo non lo dice, ma è evidente che è stata attinta alla fontana o al pozzo. E'dunque l'acqua della creazione; l'Alleanza di Dio, di cui il segno di Cana è una figura, viene ripresa a partire dal primo stadio. Ireneo e altri Padri della Chiesa hanno spesso fatto attenzione al simbolo dell'acqua che diventa vino: l'Alleanza di Dio con Israele passa nella nuova Alleanza, come l'acqua passa nel vino. Mediante il suo gesto Gesù manifesta in figura che è giunto il tempo in cui Israele entrerà nella comunione definitiva con Dio, come pure l'intera umanità. Ecco perché il vino assaggiato dal direttore di mensa è migliore del primo vino bevuto a Cana." (ibidem pp.324-5)

Gesù ha compiuto il "segno": il dono del vino. Il banchetto di nozze e l'offerta del vino buono e quanto mai abbondante sono i tipici simboli biblici dei tempi messianici. Soprattutto il vino nuovo è il segno dell'avvento del Messia (peraltro già riconosciuto in Giov.1,19-51), l'inizio della "nuova creazione", cioè della salvezza e della liberazione dal peccato e dalla morte: "Egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui" (v.11)

E' da notare poi che, se Giovanni usa il termine "segni" al plurale, è perché non vuole limitarsi ai "segni-miracoli", ma vuole dire che tutte le azioni di Cristo, tutti gli aspetti della sua vicenda storica sono SEGNI che suscitano interrogativi. Infatti il "segno" per Giovanni è - come già visto - un elemento visibile che conduce all'invisibile; per lui tutto il mondo della "carne" (o delle realtà terrestri) è un segno del mondo invisibile, della realtà di Dio. Ecco perché il 4° vangelo termina con: "Gesù fece molti altri segni … questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo" (20,30-1).