venerdì 20 gennaio 2012

III domenica dopo l'Epifania 22 1 2012

III DOMENICA DOPO L’EPIFANIA


Lettura
Lettura del libro dei Numeri 11, 4-7. 16a. 18-20. 31-32a

In quei giorni. La gente raccogliticcia, in mezzo a loro, fu presa da grande bramosia, e anche gli Israeliti ripresero a piangere e dissero: «Chi ci darà carne da mangiare? Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cetrioli, dei cocomeri, dei porri, delle cipolle e dell’aglio. Ora la nostra gola inaridisce; non c’è più nulla, i nostri occhi non vedono altro che questa manna».
La manna era come il seme di coriandolo e aveva l’aspetto della resina odorosa.
Il Signore disse a Mosè: «Dirai al popolo: “Santificatevi per domani e mangerete carne, perché avete pianto agli orecchi del Signore, dicendo: Chi ci darà da mangiare carne? Stavamo così bene in Egitto! Ebbene, il Signore vi darà carne e voi ne mangerete. Ne mangerete non per un giorno, non per due giorni, non per cinque giorni, non per dieci giorni, non per venti giorni, ma per un mese intero, finché vi esca dalle narici e vi venga a nausea, perché avete respinto il Signore che è in mezzo a voi e avete pianto davanti a lui, dicendo: Perché siamo usciti dall’Egitto?”».
Un vento si alzò per volere del Signore e portò quaglie dal mare e le fece cadere sull’accampamento, per la lunghezza di circa una giornata di cammino da un lato e una giornata di cammino dall’altro, intorno all’accampamento, e a un’altezza di circa due cubiti sulla superficie del suolo. Il popolo si alzò e tutto quel giorno e tutta la notte e tutto il giorno dopo raccolse le quaglie.

Salmo
Sal 104 (105)

® Il Signore ricorda sempre la sua parola santa.

È lui il Signore, nostro Dio:
su tutta la terra i suoi giudizi.
Si è sempre ricordato della sua alleanza,
parola data per mille generazioni,
dell’alleanza stabilita con Abramo
e del suo giuramento a Isacco. ®

Fece uscire il suo popolo con argento e oro;
nelle tribù nessuno vacillava.
Quando uscirono, gioì l’Egitto,
che era stato colpito dal loro terrore.
Distese una nube per proteggerli
e un fuoco per illuminarli di notte. ®

Alla loro richiesta fece venire le quaglie
e li saziò con il pane del cielo.
Spaccò una rupe e ne sgorgarono acque:
scorrevano come fiumi nel deserto.
Così si è ricordato della sua parola santa,
data ad Abramo suo servo. ®


Epistola
Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 10, 1-11b

Non voglio che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto.
Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono. Non diventate idolatri come alcuni di loro, secondo quanto sta scritto: Il popolo sedette a mangiare e a bere e poi si alzò per divertirsi. Non abbandoniamoci all’impurità, come si abbandonarono alcuni di loro e in un solo giorno ne caddero ventitremila. Non mettiamo alla prova il Signore, come lo misero alla prova alcuni di loro, e caddero vittime dei serpenti. Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento.

Vangelo
Lettura del Vangelo secondo Matteo 14, 13b-21

In quel tempo. Il Signore Gesù partì di là su una barca e si ritirò in un luogo deserto, in disparte. Ma le folle, avendolo saputo, lo seguirono a piedi dalle città. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati.
Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». Gli risposero: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!». Ed egli disse: «Portatemeli qui». E, dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla. Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.



VANGELO: Mt 14,13b-21

Mt 13,53 – 16,20, la sezione che segue il discorso delle parabole, non contiene soltanto molti echi di Mt 11-12, ma anche molte ripetizioni, tra cui appunto i due segni della condivisione del pane (Mt 14,13-21 e 15,32-39), le due confessioni del Figlio di Dio (14,33 e 16,16), le due ritrattazioni di Gesù di fronte ai capi del popolo a lui ostili (14,13 e 15,21) e i due sommari circa le guarigioni (14,34-36 e 15,29-31). Da qui la dif-ficoltà di tracciarne una struttura narrativa accettabile.
U. Luz, a partire dai tre allontanamenti dai capi di Israele, trova tre sezioni: 13,53 – 14,33; 14,34 – 15,39 e 16,1-20. L’insieme della narrazione non è casuale, ma il tutto mira a una finalità che porta a compimento motivi e temi precedentemente annunciati.

vv. 13-14: Gesù viene a sapere di quanto Erode pensa su di lui (l’episodio della morte di Giovanni è retrospettivo) e si ritira. Non insegna più alla folla. Il suo insegnamento per la gente si è concluso con le parabole. La folla è cieca e sorda nei confronti del messaggio (Mt 13,14s). Tuttavia guarisce gli infermi e, malgrado la mancanza di rispo-sta, l’amore di Gesù per la folla non viene meno (v. 14: ne ebbe compassione).
vv. 15-18: Matteo indica il momento della giornata: era passata l’ora di mangiare. I di-scepoli se ne preoccupano e chiedono a Gesù di congedare la gente. «Comprare» signi-fica tornare alla società da cui provengono per sottomettersi ancora alle leggi economi-che che li hanno mantenuti nella miseria. Al «comprare» Gesù contrappone il «donare»: sono i discepoli che devono dar da mangiare alla gente. Essi ritengono di non avere il necessario. «Cinque pani», in relazione coi cinquemila uomini (v. 21). Cinque pani e due pesci sommati danno sette, il numero che indica la totalità.
vv. 19-21: «Sdraiarsi» per mangiare era proprio degli uomini liberi ed era l’atteggia-mento adottato per il pasto pasquale in ricordo della liberazione dall’Egitto. Gesù prende tutte le provviste di cui il gruppo dispone e pronuncia la benedizione. Come in Marco, la benedizione rappresenta l’azione di grazie rivolta a Dio per il pane.
La benedizione, proclamando la positività del mondo e la sorgente del bene che lo sotten-de, rivela nello stesso tempo la legge fondamentale del reale, la legge della circolazione dei beni, della condivisione, della solidarietà. Al di fuori di questa legge - cioè al di fuori del circuito delle soggettività buone, libere e amanti - le cose e i beni del mondo si pervertono in oggetti di competizione e di accaparramento, mentre dentro di essa fioriscono come frutti edenici per la gioia di tutti. Proclamando: “Benedetto tu… Signore”, l'orante non so-lo dice che il mondo è buono perché ci sono i beni donati dal Bene, ma enuncia la condi-zione essenziale con cui farlo restare tale: la condivisione. Con questa preghiera egli si in-sedia nel cuore del reale, lì dove le cose vengono generate dal Bene Bene-volenza e affidate alla sua responsabilità, chiamata alla stessa bene-volenza. Entro il tessuto delle soggettività benevolenti, trasparenza della benevolenza divina, i beni della terra, oltre che oggetti di consumo e di fruizione, si doppiano di ulteriore significato che è il loro spessore di dono. Affermare la benedizione è vivere nella gratuità e per la gratuità, “transustanziando” le cose in gesti di amore. C. DI SANTE, Parola e Terra. Per una teologia dell’ebraismo, Presentazione di A. BALLETTO (Dabar. Sag-gi Teologici 39), Marietti 1820, Genova 1990, p. 46.

Il pane viene svincolato dai suoi possessori umani per essere considerato come dono di Dio, espressione della sua generosità e del suo amore per gli uomini. Condividere il pane e i pesci significa prolungare la generosità di Dio creatore. Quando la creazione viene liberata dall’egoismo umano ce n’è d’avanzo per provvedere alle necessità di tutti. La sazietà è in relazione con la promessa di Mt 5,6; è realizzata la liberazione degli op-

pressi propria del regno di Dio. Gli avanzi che colmano dodici ceste indicano che con la condivisione si può saziare la fame di Israele.
La scena è in relazione con l’esodo: luogo deserto, mancanza di cibo, gente inaspet-tatamente saziata. Si pensava che il Messia dovesse compiere l’esodo, la liberazione de-finitiva. In questo episodio Gesù propone il suo modello di esodo. La gente è uscita dalle città (v. 13), cioè dalla società del suo tempo (allusione alle città che Gesù rim-proverava, cf Mt 11,20). È questo il punto di partenza dell’esodo. Alla manna corri-spondono i pani e i pesci che saziano la folla. Non è un fenomeno prodigioso come quello antico, ma una lezione data da Gesù: l’amore, manifestato nella condivisione di tutto ciò che si ha, assicura l’abbondanza e libera dalla schiavitù alla società ingiusta.
Questo episodio si oppone direttamente alla prima tentazione. «Il diavolo» aveva proposto a Gesù la soluzione miracolosa per la fame. Gesù ha respinto la tentazione. La soluzione non si trova in un prodigio compiuto dal Figlio di Dio, ma in qualcosa di semplice, alla portata di tutti, nel condividere i beni della creazione.
La scena prepara l’eucaristia, che sarà l’espressione del dono totale di Gesù e dei suoi. Il pane dell’eucaristia fonda la possibilità di condividere questo pane. Il numero cinquemila, multiplo di cinquanta (50×100, moltiplicatore che indica la ripetizione il-limitata) allude alle comunità profetiche del Primo Testamento (cf 1 Re 18,4. 13; 2 Re 2,7); «uomini adulti» allude invece all’opera dello Spirito. Il numero cinquemila è dun-que simbolico; significa che condividendo il pane si comunica lo Spirito che porta l’uomo alla sua maturità e costruisce la nuova comunità. Di qui la mancanza di donne e bambini (simbolo dei deboli).
Con questi tratti Matteo descrive le caratteristiche dell’esodo di Gesù: la terra di schiavitù è la società giudaica del tempo; la Legge è l’amore manifestato nella condivi-sione, che prosegue la generosità di Dio e fa sovrabbondare i suoi doni a beneficio di tutti; la terra promessa significa la comunità dello Spirito.
Si spiega anche il significato della scelta per la povertà (Mt 5,3); «povero» è chi non si riserva nulla, ma mette ciò che ha a disposizione di chi ne ha bisogno. Si compiono così i detti di Gesù sulla generosità (Mt 6,22s) e sulla provvidenza del Padre (6,25-34). Cf J. MATEOS - F. CAMACHO, Il vangelo di Matteo. Lettura commentata, Traduzione di T. TOSATTI (Bibbia per Tutti), Cittadella Editrice, Assisi 1986, pp. 206-208.

PER LA NOSTRA VITA


1. Il Cristo è il nostro pane. […]
La parte efficace della volontà non consiste nello sforzo, che è teso verso l’avvenire, bensì nel consenso, il sì delle nozze. Un sì proferito nell’istante presente per l’istante presente, eppure al modo di una parola eterna, perché si acconsente all’unione del Cri-sto con la parte eterna della nostra anima.
Noi abbiamo bisogno del pane. Siamo esseri che senza sosta attingono l’energia dall’esterno, giacché man mano che la ricevono i loro sforzi la esauriscono. Se questa energia non viene rinnovata quotidianamente, perdiamo le forze e non riusciamo più a muoverci. Oltre al nutrimento vero e proprio, nell’accezione letterale del termine, tutti gli stimoli sono per noi fonte di energia. Il denaro, la carriera, la considerazione altrui,

le onorificenze, la fama, il potere, gli esseri che amiamo, ogni cosa che travasi in noi una qualche capacità di agire equivale a un po’ di pane. Se uno di questi attaccamenti penetra in noi abbastanza in profondità, fino alle radici vitali della nostra esistenza car-nale, la privazione può spezzarci e addirittura causare la nostra morte. E’ quel che si dice morire di dolore. E’ come morire di fame. Tutti gli oggetti dei nostri attaccamenti costituiscono, insieme al nutrimento vero e proprio, il pane di quaggiù. […]
Non dobbiamo chiedere il pane di quaggiù.
Vi è un’energia trascendente che scaturisce in cielo ed entra in noi appena lo deside-riamo. […]
È questo il nutrimento che bisogna chiedere. Quando lo chiediamo, e proprio per-ché lo chiediamo, sappiamo che Dio vuole donarcelo. S. WEIL, Attesa di Dio, a cura di M.C. SALA, Con un saggio di G. GAETA (Biblioteca Adelphi 529), Adelphi, Milano 2008, pp. 92-93.

2. Il bene è reale quando genera comunione. La sua stessa creatività si delinea così nel senso della transitività e della partecipabilità senza esclusione: esso è già sempre, in qualche misura, bene comune, giacché non ammette privilegio, espulsione, emargina-zione. Il bene implica la comunicazione di sé, dove però “comunicazione” non signifi-ca soltanto trasmissione o traslazione, quanto comunionalità. Il bene fa incontrare le persone nella loro identità profonda e nel senso della loro vita, stabilendo legami irri-ducibili. Al tempo stesso la sua realtà si lascia esperire nelle condivisione di una plura-lità di beni. Penso alla vita di ogni creatura, alle sue condizioni positive, ai diritti fon-damentali delle persone e del creato, ai valori e alle opere che li rispecchiano o li accre-scono, a quanto ci è dato in dono e anche a ciò che produciamo con le nostre mani senza ricadere in qualche forma di distruzione
Il bene è reale quando ci apre alla vera reciprocità umana e creaturale. La natura comunionale del bene ci indica che esso è realmente vissuto quando le persone ne di-ventano co-soggetti e nessuno è ridotto a vivere come mero oggetto, neppure si assi-stenza o di carità. Già la coscienza del fatto che tendenzialmente riceviamo del bene in qualche forma e che diventiamo liberi nel ricomunicarlo fa affiorare una corrente di re-ciprocità.
Il bene è reale quando assistiamo a una umanizzazione delle persone e delle loro re-lazioni. Se invece si diffondono alienazione, deformazione o regressione delle identità singole e comunitarie, ciò rappresenta già un male. […] È vero che ci sono vite desola-te, non amate, private di questo fondamento di ciò che noi siamo. Sono le situazioni estreme – che non vuol dire rare – le quali non attestano l’illusorietà del bene, ma indi-cano quanto siamo affidati gli uni agli altri.

3. ... “Mi accade sovente di domandarmi se esista un vero rapporto tra adempimento e desideri. Certo, fintanto che il desiderio è debole, esso è simile a una metà che per diventare autonoma ha bisogno del proprio adempimento come di un’altra metà. Ma i desideri possono germinare in modo così meraviglioso da diventare un tutto, pie-no e intero, che non si lascia più completare e ormai si accresce, si forma e si riempie

solo dall'interno. A volte si potrebbe credere che alla radice di una vita grande e inten-sa ci sia proprio stato un coinvolgimento in desideri eccessivi che come una molla inte-riore hanno riversato nella vita azione su azione, effetto su effetto; e quasi non ram-mentando il proprio fine originario, diventati ormai elementari come un'impetuosa ca-scata, si sono trasformati in azione e cordialità, in presenza e immediatezza, in lieto co-raggio, a seconda degli eventi e delle circostanze che li avevano provocati”. […]
Io credo che dalla vita si possa ricavare qualcosa di positivo in tutte le circostanze, ma che si abbia il diritto di affermarlo solo se personalmente non si sfugge alle circo-stanze peggiori. E. HILLESUM, Diario 1941-1943, a cura di J.G. GAARLANDT, Traduzione di C. PASSANTI (Gli Adelphi 93), Adelphi, Milano 1996, 200510, pp. 26-27.


4. La sola scelta che si pone all’uomo è quella di legare o meno il proprio amore alle cose di quaggiù. Egli deve rifiutarsi di legarlo a esse e rimanere immobile, senza cercare, senza muoversi, in attesa, senza nemmeno cercare di sapere ciò che aspetta: è certo che Dio farà tutto il cammino fino a lui. [...] Un bambino che non vede più sua madre nella strada accanto a lui, corre di qua e di là, ma facendo così sbaglia. Se egli infatti avesse sufficiente ragione e forza d'animo per arrestarsi e attendere, la madre lo troverebbe più in fretta. Dobbiamo solo attendere e chiamare. Non chiamare qualcu-no, dato che non sappiamo ancora se c'è qualcuno. Dobbiamo gridare che abbiamo fame e che vogliamo del pane. Grideremo più o meno a lungo, ma finalmente saremo nutriti e allora non soltanto crederemo ma sapremo che esiste veramente del pane. Quando ne abbiamo mangiato, quale prova più sicura potremmo desiderare? Fintanto che non ne abbiamo mangiato, non è necessario e nemmeno utile credere nel pane. L'essenziale è sapere che si ha fame. […]
Tutti coloro che credono che vi è o vi sarà un nutrimento prodotto quaggiù, men-tono. Il nutrimento celeste non fa solo crescere in noi il bene: esso distrugge il male, cosa che i nostri sforzi personali non potrebbero mai fare. S. WEIL, L’amore di Dio, Traduzione di G. BISSACA - A. CATTABIANI, con un saggio introduttivo di A. DEL NOCE, Edizioni Borla, Roma 1968, 19943, 112-113.

5. La fede non è se stessa se non quando è fedele alla propria origine assente che non può esaurirsi in nessuna positività. È per questo che la pratica dell’alterità, la rela-zione all’altro, l’ospitalità nei confronti dell’estraneo non sono semplicemente delle sssssopzioni di ordine etico, delle opzioni facoltative; esse rientrano in un’esigenza di natura e attestano, così, l’alterità di un Dio sempre più grande. […]
Si potrebbe dire che l’unicità del cristianesimo è l’unicità del divenire, non di una totalità già costituita e chiusa, bensì l’unicità di un divenire che è fatto di consenso e di servizio. C. GEFFRÉ, Credere e interpretare. La svolta ermeneutica della teologia, Editrice Queriniana, Brescia 2002, pp.139-141.



6. Gli apostoli erano preoccupati perché avevano poco pane. Non capivano che era sufficiente. Noi sappiamo chi è il pane. Se è con noi, il pane sarà moltiplicato. Non appena pensiamo il futuro, lo pensiamo come il passato. Non abbiamo l’immagina-zione di Dio. Domani sarà un’altra cosa e noi non possiamo immaginarla. Questa si

chiama “la povertà”. “Dio mio, sono pienamente provvisto di questo legame che tu vuoi offrirmi”. Il futuro appartiene a Dio che, in ogni modo, vuole colmarci. FRÈRE CHRISTIAN DE CHERGE E GLI ALTRI MONACI DI TIBHIRINE, Piu forti dell'odio, Introduzione e traduzione con raccolta di ulteriori testi di G. DOTTI, Prefazione di E. BIANCHI (Sequela Oggi), Edizio-ni Qiqajon, Comunità di Bose - Magnano BI 1997, 20103, p. 176.

7. Voi stessi date (loro) da mangiare.
L’azzardo è infinito. Essere pane, nutrimento.
Salvaguardati e insieme “mangiati”.
Vita per la vita.
Sì, un azzardo, divenire pane in questi nostri deserti.
Voi stessi date loro da mangiare.
Sbriciolato il confine e la misura nell’invito.
La nostra vita, nel dono, non si distrugge.
Si dissemina.

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