mercoledì 29 settembre 2010

DOMENICA VI DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - 3 Ottobre 2010

Is 56,1-7; Sal 118; Rm 15,2-7; Lc 6,27-38


LETTURA

Lettura del profeta Isaia 56, 1-7

Così dice il Signore: / «Osservate il diritto e praticate la giustizia, / perché la mia salvezza sta per venire, / la mia giustizia sta per rivelarsi». / Beato l’uomo che così agisce / e il figlio dell’uomo che a questo si attiene, / che osserva il sabato senza profanarlo, / che preserva la sua mano da ogni male. / Non dica lo straniero che ha aderito al Signore: / «Certo, mi escluderà il Signore dal suo popolo!». / Non dica l’eunuco: / «Ecco, io sono un albero secco!». / Poiché così dice il Signore: / «Agli eunuchi che osservano i miei sabati, / preferiscono quello che a me piace / e restano fermi nella mia alleanza, / io concederò nella mia casa / e dentro le mie mura un monumento e un nome / più prezioso che figli e figlie; / darò loro un nome eterno / che non sarà mai cancellato. / Gli stranieri, che hanno aderito al Signore per servirlo / e per amare il nome del Signore, / e per essere suoi servi, / quanti si guardano dal profanare il sabato / e restano fermi nella mia alleanza, / li condurrò sul mio monte santo / e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera. / I loro olocausti e i loro sacrifici / saranno graditi sul mio altare, / perché la mia casa si chiamerà / casa di preghiera per tutti i popoli».

Stiamo leggendo il primo brano della terza parte del libro di Isaia (56,1-66,24). Il libro di Isaia contiene le

parole di diversi profeti. Solo alcuni brani nella prima parte del libro (cc. 1-39) possono essere fatti risalire

direttamente a Isaia (primo Isaia), il profeta vissuto in Giudea nell'VIII sec. a.C.

A partire dal c. 40 si incontrano oracoli che furono pronunciati (o scritti) all'epoca dell'esilio in Babilonia

(587-538 Secondo Isaia)).

Gli ultimi capitoli (cc. 56-66) sono invece da collocare dopo il ritorno dall'esilio e dopo la ricostruzione

del tempio di Gerusalemme (terzo Isaia).

Si deve quindi pensare che alcuni profeti, di cui non conosciamo il nome, richiamandosi all'opera di Isaia,

al suo pensiero, al suo linguaggio e al suo stile, abbiano prolungato la raccolta dei suoi scritti,

aggiungendo oracoli che rispecchiavano le nuove situazioni storiche del popolo d'Israele.

Così questo testo, attribuito al terzo Isaia e ritenuto discepolo spirituale del secondo Isaia riferisce la

consolazione che Dio offre al suo popolo ed il messaggio delle meraviglie che il Signore opera per la

nuova Gerusalemme, ricostruita e ripopolata. Alla salvezza di Dio deve corrispondere la cooperazione dei

rimpatriati affinché regni la giustizia nella città santa.

La liberazione da Babilonia ha aperto molte speranze, ma l’esperienza faticosa della convivenza con un

popolo pagano e vincitore ha obbligato a grandi riflessioni e maturazioni. E comunque è stata una

convivenza con un popolo straniero di alta cultura.

Israele si è sempre mantenuto lontano dagli altri popoli, alimentando diffidenze e sospetti poiché, per

pregiudizi pericolosi, immaginava che tutti i pagani fossero corrotti ed immorali.

Il testo del Deuteronomio (7,2-4) impegna a non fare alleanze con gli stranieri né ad imparentarsi con loro.

L’esperienza dell’esilio ha fatto loro ripensare ad atteggiamenti diversi. Ha fatto superare paure e

pregiudizi. Anche a Babilonia, hanno incontrato uomini e donne di fiducia, giusti, portatori e portatrici di

valori condivisi.

Il profeta, mentre offre suggerimenti di fedeltà, incoraggia a prepararsi al tempo nuovo: “Osservate il

diritto e praticate la giustizia”. Perciò ai rimpatriati è rivolto l'invito, superando la tentazione

dell'esclusivismo, cioè di formare una comunità etnicamente pura. Il profeta annuncia che adesso, per

volontà del Signore, potranno aderire anche coloro che prima erano esclusi come lo straniero e l'eunuco,

purché vivano le esigenze dell'alleanza.

Insieme, con molta saggezza, anche gli stranieri giusti sono condotti al monte santo (Gerusalemme-Sion)

di Dio come gli israeliti e con gioia pregheranno insieme nella casa di preghiera che è “Casa di preghiera

per tutti i popoli”. Così la condizione proposta per tutti è la pratica del riposo del sabato come segno

dell'alleanza (Es 31,12-17) e la pratica della giustizia e della fedeltà all'alleanza e non il legame di sangue

o la purità legale.

Il progetto di speranza e di liberazione, delimitato ad Israele come custode dell’Alleanza e dell’amore di

Dio, in realtà è liberazione per tutti gli uomini. Questo incomincia a realizzarsi nel tempio. Per noi deve

incominciare nella Comunità cristiana, come il momento di maturazione e formazione. Ma poi il nostro

posto è nel mondo, come un popolo che porta speranza nella quotidianità con tutti gli altri che

incontreremo. Il Signore vuole che ciascuno si offra come accompagnatore di tutti coloro che accettano di

cercarlo verso il monte di Dio.

SALMO

Sal 118 (119)

® Signore, conservo nel cuore le tue parole.

Come potrà un giovane tenere pura la sua via?

Osservando la tua parola.

Con tutto il mio cuore ti cerco:

non lasciarmi deviare dai tuoi comandi. ®

Ripongo nel cuore la tua promessa

per non peccare contro di te.

Benedetto sei tu, Signore:

insegnami i tuoi decreti.

Con le mie labbra ho raccontato

tutti i giudizi della tua bocca. ®

Nella via dei tuoi insegnamenti è la mia gioia,

più che in tutte le ricchezze.

Voglio meditare i tuoi precetti,

considerare le tue vie.

EPISTOLA

Lettera di san Paolo apostolo ai Romani 15, 2-7

Fratelli, ciascuno di noi cerchi di piacere al prossimo nel bene, per edificarlo. Anche Cristo infatti non cercò di piacere a se stesso, ma, come sta scritto: «Gli insulti di chi ti insulta ricadano su di me». Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché, in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza. E il Dio della perseveranza e della consolazione vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, sull’esempio di Cristo Gesù, perché con un solo animo e una voce sola rendiate gloria a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo. / Accoglietevi perciò gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi, per la gloria di Dio.

VANGELO

Lettura del Vangelo secondo Luca 6, 27-38

In quel tempo. Il Signore Gesù disse: «A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. Da’ a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro. E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro. Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso. / Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio».

Luca continua il “discorso della pianura”, riprendendo in parte il “discorso della montagna” di Matteo e

ripropone il tema centrale del discorso delle Beatitudini in 4 parti:

- le beatitudini e le maledizioni (6,20-26)

- l’esortazione sull’amore per i nemici (6,27-36) diviso in tre strofe

- la parabola con 4 immagini: il cieco, la trave, l’albero, il tesoro, (6,39-45)

- la casa fondata sulla roccia (6,46-49).

Il seguito del discorso delle “Beatitudini” di Matteo (capp 5-7) viene ripreso nella “sezione lucana” detta

“grande inserto” e che va dal cap. 9 al cap. 19. Se Matteo sceglie, come cornice della predicazione di

Gesù, “il discorso” (ce ne sono infatti cinque, come i 5 libri di Mosè), Luca preferisce svolgere la

predicazione di Gesù lungo la strada che lo porta dalla Galilea a Gerusalemme. In questo viaggio vengono

anche raccontate parabole proprie del Vangelo di Luca: il buon Samaritano, il figliol prodigo, il ricco

epulone.

Una piccola osservazione interessante: da notare l’insistenza del numero 4 che indica la terra, l’orizzonte

umano, l’universale mentre il 3 richiama il cielo e il 7 ricorda la creazione del cielo e della terra.

Le dimensioni dell’amore cristiano

- Le dimensioni dell’amore cristiano sono smisurate: non c’è limite poiché l’amore non è posto

come dovere ma come stile di fedeltà alla Parola di Dio e alla testimonianza di Gesù. La legge del perdono

va fino al rinnegamento di sé e al dono totale di sé agli altri.

- A Gesù non interessa solo estendere al massimo l’arco dei destinatari, ma anche la pienezza

degli atti: “dire-fare, pregare e donare, vedere e provvedere”. Da notare il crescendo: “amate, fate del

bene, benedite, pregate” e le azioni concrete: “porgi la guancia, non rifiutare, dà, non richiedere”.

- Viene rilevato un crescendo: “vostri nemici, coloro che vi odiano, coloro che vi maledicono,

coloro che vi maltrattano” e quindi: “chi ti percuote, chi ti leva il mantello, chiunque ti chiede, chi prende

del tuo”. Sono situazioni che si ripercuotono nella vita quotidiana e che rimandano a scelte “evangeliche”.

- E’ un ideale realizzabile a cui si sono ispirate le comunità cristiane del I secolo, ideale di nonviolenza,

ideale di discepoli poveri, affamati, dolenti, perseguitati.

- Il modello dell’amore cristiano è divino: “Siate misericordiosi come Dio, vostro Padre” (v 36).

E’ un amore attento e tenero, un amore paterno e fraterno, altruistico, disinteressato e gratuito, infaticabile,

che si libera da egoismi e da confronti (non accetta il “Ti do se mi dai”), un amore “a perdere”. E’ un

modello divino che si incarna in gesti umani e concreti e perfino provocatori.

Le motivazioni dell’amore cristiano

- Le motivazioni dell’amore cristiano sono sconfinate. L’ideale proposto non ha una

giustificazione umana, ma è sostenuta dalla speranza conclusiva del dono che Dio farà a noi di se stesso

alla fine dei tempi.

- Per ricevere il suo dono, bisogna prepararsi e poiché Dio è misericordioso, bisogna essere

misericordiosi. Matteo usa il termine: “Siate perfetti” (5,48), Luca usa il temine: “Siate misericordiosi”.

Egli è “l’evangelista della misericordia di Gesù”.

- Il regalo che viene dato non consiste nell’avere da Dio qualche cosa, ma “nell’essere figli

dell’Altissimo”. Domani sarete in pienezza ciò che cercate di realizzare: figli di Dio. Tuttavia questa

figliolanza è dono di Dio e realtà che si esprime mediante il pentimento, la fede in Gesù e le buone opere.

La misura dell’amore cristiano

- La pratica della misericordia, a imitazione di Dio, avviene mediante il perdono (v.37) e l’offerta

generosa dei beni propri (v.38).

- Anche qui ci sono 4 imperativi, due negativi e due positivi: “Non giudicate, non condannate,

perdonate, date”. A questi corrispondono dei verbi passivi che esprimono la risposta di Dio.

- L’immagine finale della “misura” è l’invito ad investire le proprie ricchezze sullo stile di Dio

che non si lascia vincere in generosità.

- Tutto questo in vista del perdono-dono che riceveremo. Anche qui il comportamento di Dio

diventa modello.

- Ma è conciliabile l’amore con la giustizia? L’amore, mentre porta a compimento la giustizia

integrandone le manchevolezze, corregge asprezza e inflessibilità. E richiede il perdono delle offese.

Allora rappresenta un colpo di spugna sul passato? Il perdono non richiede l’oblio ma una memoria sana e

non inquinata dall’odio. Mentre accetta la dimenticanza, non smette di cercare le cause dell’offesa che ha

reso l’altro incapace di amore.

RITO ROMANO

VANGELO

Luca 17,5-10

In quel tempo, 5 gli apostoli dissero al Signore: 6 «Accresci in noi la fede!».

Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste

dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi

obbedirebbe.

7 Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando

rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? 8 Non gli dirà piuttosto:

“Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato

e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? 9 Avrà forse gratitudine verso quel servo,

perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10 Così anche voi, quando avrete fatto

tutto quello che vi è stato ordinato, dite:“Siamo servi inutili. Abbiamo fatto

quanto dovevamo fare”».

Molti confessano, al giorno d’oggi, la debolezza della propria fede e

possono dunque associarsi a questa richiesta degli apostoli a Gesù:

«accresci in noi la fede!». Tutti, poi, abbiamo bisogno di crescere nella

fede nel Signore Gesù, per approfondire il suo mistero pasquale di

salvezza.

Gesù risponde in due tempi. Dapprima constata che effettivamente la fede

degli apostoli è debole, meno ancora di un granello di senape, che è molto

piccolo. Essa ci darebbe la forza di fare cose strabilianti come mutare alla

radice il nutrimento di una pianta. Il sale non fa bene alle piante eppure,

tramite la fede, saremmo capaci di trarre la vita anche dalle cose che non

fanno bene.

Poi fa seguire una parabola che mostra come il Signore chiama a un

banchetto i propri servi, a differenza degli uomini che si fanno servire dai

servi perché è così che va il mondo. Il Signore è grato a tutti coloro che si

mettono ad evangelizzare con amore. La fede che gli apostoli chiedono di

accrescere, è accresciuta dal modo di fare del Signore che non li tratta

come servi, ma come commensali.

Tuttavia l’evangelizzazione è un servizio, e dunque quanto facciamo per

annunciare Gesù risorto è dovuto come il servizio dei servi, che proprio

perché obbediscono al Signore, non possono vantarsi di ciò che fanno.

Devono semplicemente riconoscere che quanto operano viene da colui che

glielo ha richiesto.

La gloria dell’evangelizzazione non viene da noi, ma dal Signore che ci ha

salvato nella pasqua vissuta da Gesù. Noi siamo inutili nel senso che non

produciamo la salvezza, ma siamo necessari per rendere presente il

Signore ai fratelli che incontriamo ogni giorno, testimoniando con la

nostra vita la fede nell’amore di Dio.

giovedì 23 settembre 2010

DOMENICA IV DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - 26 Settembre 2010

LETTURA
Lettura del libro dei Proverbi 9, 1-6

La sapienza si è costruita la sua casa, / ha intagliato le sue sette colonne. / Ha ucciso il suo bestiame, ha preparato il suo vino / e ha imbandito la sua tavola. / Ha mandato le sue ancelle a proclamare / sui punti più alti della città: / «Chi è inesperto venga qui!». / A chi è privo di senno ella dice: / «Venite, mangiate il mio pane, / bevete il vino che io ho preparato. / Abbandonate l’inesperienza e vivrete, / andate diritti per la via dell’intelligenza».

SALMO
Sal 33 (34)

® Gustate e vedete com’è buono il Signore.

Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino. ®

Guardate a lui e sarete raggianti,
i vostri volti non dovranno arrossire.
Questo povero grida e il Signore lo ascolta,
lo salva da tutte le sue angosce. ®

L’angelo del Signore si accampa
attorno a quelli che lo temono, e li libera.
Gustate e vedete com’è buono il Signore;
beato l’uomo che in lui si rifugia. ®

EPISTOLA
Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 10, 14-21

Miei cari, state lontani dall’idolatria. Parlo come a persone intelligenti. Giudicate voi stessi quello che dico: il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane. Guardate l’Israele secondo la carne: quelli che mangiano le vittime sacrificali non sono forse in comunione con l’altare? Che cosa dunque intendo dire? Che la carne sacrificata agli idoli vale qualcosa? O che un idolo vale qualcosa? No, ma dico che quei sacrifici sono offerti ai demòni e non a Dio. Ora, io non voglio che voi entriate in comunione con i demòni; non potete bere il calice del Signore e il calice dei demòni; non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demòni.

San Paolo, nella sua prima lettera al Corinzi, affronta, tra gli altri, un problema che
divide la comunità cristiana in modo violento: si tratta di trovare comportamenti
coerenti e omogenei rispetto al “mangiare le carni offerte agli idoli” (pare fossero
cosi tutte le carni vendute al mercato). Alcuni cristiani, convertiti dal paganesimo,
continuavano ad avere congiunti e amici pagani legati ad abitudini di culto pagano.
Che fare? Partecipare ai culti? Mangiare carne proveniente dal mercato senza
indagare?
A Corinto ci sono opinioni differenti, ma anche lacerazione tra credenti a causa di
diversi comportamenti.
Paolo chiarisce che partecipare ai banchetti idolatrici fa conseguire una vicinanza
con la divinità che l'idolo rappresenta: non si tratta solo di mangiare, ma di attuare,
mediante il cibo, un orientamento, un incontro e una presenza del divino nel fedele.
Per il cristiano è lo stesso. San Paolo richiama il valore del pane e del vino che non
sono più solo elementi indispensabilmente legati alla nutrizione, ma acquistano
significati e richiami nuovi: il calice della benedizione è caricato di riferimenti al
sangue versato da Gesù sulla croce, il pane rende visibile e presente il corpo di
Cristo morto per la salvezza e l'unità di tutto il popolo.
L'unico pane spezzato, come l'Agnello pasquale condiviso da molti, rende tutti un
unico corpo: così il Corpo di Cristo diventa il corpo della Chiesa; i Cristiani che
partecipano all'unico pane diventano Corpo dato in offerta.
Più avanti, San Paolo completa dicendo che l'unità del corpo è operata dallo Spirito
nel Battesimo e nell'Eucaristia: "E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo
Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo
abbeverati a un solo Spirito” (1 Cor 12,13).
Perciò i cristiani non debbono partecipare al culto degli idoli. Tuttavia non sono
obbligati ad indagare su eventuali operazioni cultuali precedenti, qualora siano stati
invitati ad un banchetto. Se non sanno la provenienza della carne, non si
preoccupino. Se invece ne sono consapevoli, allora se ne astengano per non
offendere la debolezza della fede di qualche fratello o sorella che potrebbe
scandalizzarsi (10,23-32).

VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Giovanni 6, 51-59

In quel tempo. Il Signore Gesù disse: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno». / Gesù disse queste cose, insegnando nella sinagoga a Cafàrnao.

Nel Vangelo di Giovanni, Gesù sviluppa nella sinagoga di Cafarnao il significato
del pane distribuito a profusione, “segno” avvenuto oltre il lago.
Nella prima parte tutto il discorso di Gesù é centrato nelle due parole: pane-fede.
Nella seconda parte, che leggiamo oggi, si parla di pane-carne.
_ Il nostro incontro con Gesù si fa nella fede: “lo sono il pane della vita; chi viene a
me non avrà più fame e chi crede in me, non avrà più sete” (Gv. 6,35): bisogna accogliere
Gesù e la sua Parola.
_ Il nostro incontro con Gesù si completa in un gesto misterioso: “Chi mangia la
mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui” (Gv. 6,54). Perciò non solo
credere ma anche “masticare” (é il significato del verbo greco tradotto con
“mangiare”).
_ L’elemento fondamentale della vita é Gesù, morto e risorto. Si aderisce a Lui
se si crede e si mangia nel suo mistero; se si aderisce a Lui e ci si nutre di Lui; se lo
si ama e ci si incorpora in Lui.
_ Mangiando di Lui, il discepolo abita in Lui (Gv.6,56-Gv 15,4-10). E tutta la
vita di Gesù “passa” nella propria vita. Si fa riferimento al pane azzimo pasquale.
Chi mangiava quel pane “passava”, faceva pasqua tra gli Ebrei (Pasqua significa
passaggio), ricordava la liberazione dall’Egitto alla terra nuova.
Questo testo si ricollega alla prima lettura del libro dei Proverbi.
Quando Gesù si offre come «il pane vivo, disceso dal cielo» (Gv 6,51) e
insiste, scandalizzando gli ebrei, sulla necessità di mangiarlo, non sta
invitando a un inconcepibile cannibalismo, ma sta presentando se stesso
come la Sapienza che tutti invita al suo banchetto e alla sua scuola. Egli, il
Figlio di Dio, il Logos, che operava come architetto fin dall'inizio della
creazione, è l’unico che conosce il senso del mondo e della storia e che lo
può autorevolmente interpretare. Egli ha dato un'interpretazione sapiente
dell'esistenza, con la sua vita così diversa e così paradossale. Una vita
sorprendente, scandalosa quanto affascinante, difficile da capire e da
imitare; eppure, la promessa di vita che veniva dalla sapienza dell'Antico
Testamento ha trovato realizzazione piena e definitiva soltanto nella vita di
Cristo, che ha potuto vincere la morte con la sua resurrezione. Dunque
davvero la follia della croce di Gesù è stata più sapiente di tutti gli sforzi
della sapienza umana, e non ci è data altra parola nella quale possiamo
sperare salvezza.
Quando Giovanni scrive il suo Vangelo, ormai i discepoli da molti anni celebrano
l’Eucaristia (siamo a circa 70 anni dalla morte e risurrezione). Perciò, attraverso
questo gesto, la comunità cristiana vive con profondità la presenza di Gesù morto e
risorto, si sente arricchita della forza e della grazia della sua presenza. Essa accoglie
ogni volta la sapienza nuova che va vissuta nella vita quotidiana come “pane di
vita”.

RITO ROMANO

Lc 16,19-31

In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”»

La morte, quando arriva, pone termine alla vita e diventa così un punto fermo
per valutare la qualità della vita di ciascuno di noi. Il contrasto tra il ricco, di
cui Luca non dice il nome, e il povero Lazzaro è volutamente stridente. La
sofferenza di Lazzaro non scalfisce il cuore del ricco e questo è il suo vero
peccato, non quello di essere ricco. Se la sofferenza del fratello non tocca il
cuore dell’altro, vuol dire che questo è un cuore indurito, non più capace di
comprendere e discernere quanto sta accadendo. La vista si è annebbiata, in
questo caso definitivamente.
Questa parabola, che Gesù dice ai farisei, mette in scena l’al di là, per parlare
di quello che accade in questo mondo. La sofferenza del ricco è motivo della
preghiera verso Abramo. Ma le regole della vita dell’al di là sono diverse da
quelle di questo mondo: la definitività della situazione di vita è la differenza
reale. In questo mondo c’è sempre tempo per convertirsi, ma la morte pone
termine a questa possibilità.
Il ricco si rivolge ad Abramo affinché Lazzaro vada a testimoniare alla sua
famiglia cosa gli è accaduto e il perché. Ma Abramo risponde che occorre
ascoltare la parola di Dio presente in Mosè e i profeti; lì c’è già tutto il
necessario per poter condurre una vita buona: basta leggerli con attenzione e
mettere in pratica quanto si è letto.
Ma il ricco sa quanto sia duro il cuore dell’uomo per esperienza personale e
chiede ad Abramo di mandare qualcuno che è morto, così che la sua famiglia
possa sapere cosa effettivamente c’è dopo la morte. Ma Abramo, che ha
vissuto una vita buona, e che anche lui conosce bene il cuore dell’uomo per
esperienza personale, afferma con decisione che se non ascoltano Mosè e i
profeti, non si convertiranno neanche alla vista di Gesù risorto dai morti.
Infatti gli ebrei che hanno seguito Gesù sono coloro che hanno accolto la sua
interpretazione autentica («In verità vi dico….») della parola di Dio e hanno
riconosciuto in Gesù colui che ha vissuto fino in fondo il comandamento
dell’amore di Dio e del prossimo, riassunto di tutta la legge.
La resurrezione di Gesù è testimonianza della sua vita buona: è perché è
vissuto bene che è risorto, cioè ha trovato la vita vera. E questo lo ha fatto
ascoltando la parola di Dio in quelle Scritture che noi chiamiamo Antico
Testamento. Esse ci istruiscono sulla via della vita, che Gesù ci ha mostrato
nella sua autenticità con le parole e con i fatti.
Confessare la propria fede in Gesù vuol dire accogliere il regno di Dio che lui
ha predicato e realizzato nel mistero pasquale.

mercoledì 15 settembre 2010

III DOMENICA DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE

III DOMENICA DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE

Avvisi

1. Lunedì venti settembre si tiene il MATRICOLA DAY. Anche il Centro pastorale ha il suo banchetto. A questo proposito chi volesse aiutarmi a incontrare le matricole venga nel cortile dei gelsi dalle 12. alle 13.

2. Alla fine del commento ai testi trovate le informazioni circa la beatificazione di una giovane e straordinaria ragazza: Chiara Luce Badano, che si terrà a Roma il 25 settembre.

3. Inizia anche quest’anno la scuola di formazione politica della Diocesi. Informazioni presso il sito www.scuolaformazionepolitica.org


Messa nel giorno

LETTURA
Lettura del profeta Isaia 43, 24c - 44, 3

Così dice il Signore Dio: «Tu mi hai dato molestia con i peccati, / mi hai stancato con le tue iniquità. / Io, io cancello i tuoi misfatti per amore di me stesso, / e non ricordo più i tuoi peccati. / Fammi ricordare, discutiamo insieme; / parla tu per giustificarti. / Il tuo primo padre peccò, / i tuoi intermediari mi furono ribelli. / Perciò profanai i capi del santuario / e ho votato Giacobbe all’anàtema, / Israele alle ingiurie». / Ora ascolta, Giacobbe mio servo, / Israele che ho eletto. / Così dice il Signore che ti ha fatto, / che ti ha formato dal seno materno e ti soccorre: / «Non temere, Giacobbe mio servo, / Iesurùn che ho eletto, / poiché io verserò acqua sul suolo assetato, / torrenti sul terreno arido. / Verserò il mio spirito sulla tua discendenza, / la mia benedizione sui tuoi posteri».

SALMO
Sal 32 (33)

® Cantate al Signore, acclamate il suo santo nome.
Cantate al Signore un canto nuovo,
con arte suonate la cetra e acclamate,
perché retta è la parola del Signore
e fedele ogni sua opera. ®

Beata la nazione che ha il Signore come Dio,
il popolo che egli ha scelto come sua eredità.
Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,
su chi spera nel suo amore. ®

L’anima nostra attende il Signore:
egli è nostro aiuto e nostro scudo.
È in lui che gioisce il nostro cuore,
nel suo santo nome noi confidiamo. ®

EPISTOLA
Lettera agli Ebrei 11, 39 - 12, 4

Fratelli, i nostri padri, pur essendo stati approvati a causa della loro fede, non ottennero ciò che era stato loro promesso: Dio infatti per noi aveva predisposto qualcosa di meglio, affinché essi non ottenessero la perfezione senza di noi. Anche noi dunque, circondati da tale moltitudine di testimoni, avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento. Egli, di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di Dio. Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo. Non avete ancora resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato.

VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Giovanni 5, 25-36

In quel tempo. Il Signore Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: viene l’ora – ed è questa – in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno. Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso anche al Figlio di avere la vita in se stesso, e gli ha dato il potere di giudicare, perché è Figlio dell’uomo. Non meravigliatevi di questo: viene l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e usciranno, quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna. Da me, io non posso fare nulla. Giudico secondo quello che ascolto e il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. Se fossi io a testimoniare di me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera. C’è un altro che dà testimonianza di me, e so che la testimonianza che egli dà di me è vera. Voi avete inviato dei messaggeri a Giovanni ed egli ha dato testimonianza alla verità. Io non ricevo testimonianza da un uomo; ma vi dico queste cose perché siate salvati. Egli era la lampada che arde e risplende, e voi solo per un momento avete voluto rallegrarvi alla sua luce. Io però ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato».


commento

Stiamo leggendo solo una parte di un lungo discorso che Gesù fa con alcuni "Giudei",
che avevano scoperto un tale che andava in giro, in un giorno di sabato, con un lettino/branda/ giaciglio sulle spalle.
Questo tale era stato guarito da Gesù "alla piscina, chiamata in ebraico Betzada, presso le porte delle pecore" (5,2) da una paralisi che lo teneva nel letto, incapace di camminare da 38 anni (nel Deuteronomio 38 anni sono praticamente la conclusione della vita (2,14) e quindi in procinto di morire senza speranza (5,5). E’ un grave scandalo, suscitato dalla disobbedienza della legge chiara sul sabato e dalla sua tradizionale osservanza. Tale fatto suscita rimproveri autorevoli e minacciosi: “Chi si può permettere di violare la legge del sabato?” Il paralitico, frastornato dal fatto della guarigione, ha ritenuto che l’ubbidienza al comando di questo sconosciuto guaritore fosse doverosa. Così, molto semplicemente e ingenuamente, riporta il comando di Gesù. Ma poiché gli chiedono l'identità di questo
strano benefattore, il paralitico guarito, sconcertato, risponde di non conoscerlo e quindi di non sapere chi fosse.
Da qui nasce l'interrogativo che percorre tutto il capitolo quinto: chi è Gesù?
Gesù stesso cerca la persona guarita e la incoraggia: “Ecco, sei guarito. Non peccare
più” (v 14). Gesù si fa individuare non solo come guaritore, ma anche come liberatore
dal male morale. Così incomincia il confronto con lui.
Sullo sfondo di un processo immaginario tra Gesù e i Giudei, Gesù, l'accusato,
- dapprima difende il suo operato (vv 19-30, autodifesa)
- riporta le testimonianze a suo favore (vv 31-40),
- infine attacca gli avversari divenendo a sua volta accusatore, invertendo così le
parti (vv 41-47).
Il primo problema, non marginale in quel contesto, è il richiamo al riposo del sabato.
"I Giudei cominciarono a perseguitare Gesù, perché faceva tali cose di sabato" (5,16). Ma già dall’inizio la giustificazione, da parte di Gesù, si pone in un linguaggio che sembra blasfemo: "Il Padre mio opera sempre e anch'io opero". E quindi, nella sua figliolanza da Dio Padre, Gesù e i suoi si possono permettere di operare di sabato poiché il Padre opera "sempre".
Gesù insiste in questa dipendenza-figliolanza unica dal Padre. Anzi, nel progetto di Dio, aggiunge Gesù, ci sono opere di risurrezione che il Padre opera, “ripromettendosi di meravigliare” (v 20) e garantisce che sarà data al Figlio la capacità di offrire la vita, di aprire il giudizio e di ricevere lo stesso onore che Dio stesso esige per sé (vv 21-23).
Il valore della sua parola, la salvezza che Gesù offre persino a chi è come morto e
comunque lontano da Dio, nel presente e nella prospettiva della risurrezione nell'ultimo giorno, tutto questo viene dalla potenza del Padre. "Da me io non posso fare nulla" (v 30).
Quello che Gesù dice ha bisogno di verifiche e le verifiche si sviluppano a mo’ di
processo. E’ necessaria così la ricerca di prove che testimoniano ciò che Gesù dice. E Gesù porta almeno quattro testimonianze:
- la testimonianza di Giovanni (vv 33-35),
- “le opere che il Padre mi ha dato da compiere” (5,36),
- il richiamo delle coscienze (vv 37-38)
- le Sacre Scritture (vv 39-40).
- Poiché molti giudei, non tutti certo, ma molti credono nella testimonianza di
Giovanni il Battista, Gesù sottolinea che anche la testimonianza di Giovanni, che
essi opportunisticamente hanno accettato, ha valore, pur essendo solo un uomo. La
sua è luce di una lampada "che arde e risplende; e voi solo per un momento avete
voluto rallegrarvi alla sua luce" (v 35).
- Le testimonianze del Padre, offerte attraverso le sue opere, sono luce abbagliante.
Gesù ha visto il volto del Padre e porta la sua parola.
- "Il Padre non è stato ascoltato e perciò la sua parola non resta in voi". Non hanno
visto e non hanno ascoltato la parola di Gesù. Così questa parola non resta e non
sanno credere a colui che il Padre ha mandato.
- Lo stesso loro studio delle Scritture, che essi ritengono essere portatrici di vita
eterna, testimoniano l’unicità di Gesù poiché “sono proprio esse che danno
testimonianza di me” (v 5,39).


Rito romano

Luca 16,1-13
In quel tempo, Gesù 1 diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore,
e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. 2 Lo chiamò e gli
disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché
non potrai più amministrare”. 3 L’amministratore disse tra sé: “Che cosa
farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la
forza; mendicare, mi vergogno. 4 So io che cosa farò perché, quando sarò stato
allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”.
5 Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi
al mio padrone?”. 6 Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la
tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. 7 Poi disse a un altro: “Tu
quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta
e scrivi ottanta”. 8 Il padrone lodò quell’amministratore
disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti,
verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.
9 Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando
questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.
10 Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è
disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. 11 Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? 12 E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
13 Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà
l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio
e la ricchezza».

Se rimaniamo nel simbolismo della parabola ci sono due questioni che ci
aiutano a mettere a fuoco il messaggio di questo testo evangelico che urta la
nostra sensibilità a riguardo giustizia: infatti, perché lodare un uomo
disonesto?
La prima è il v. 9: se la ricchezza è fatta in modo disonesto, occorre
ridistribuirla per farsi degli amici, in modo da compensare l’ingiustizia
compiuta. Farsi degli amici è la cosa importante della vita. Essi si vedono e si
riconoscono nel momento del bisogno e il Signore loda questo amministratore
disonesto per la sua astuzia che gli ha permesso di farsi degli amici. Egli non
si preoccupa di quanto gli ha rubato, ma lo ammira per il fatto che ha saputo
destreggiarsi nella situazione di difficoltà. L’amministratore ha scelto questa
strada, perché le strade normali non le può percorrere, riconoscendo così la
sua incapacità a lavorare e la vergogna del mendicare.
La spregiudicatezza dei figli di questo mondo, la loro capacità di destreggiarsi
negli affari del mondo, è maggiore di quella dei figli della luce e può essere
messa a frutto per la salvezza.
La seconda questione è la fedeltà nei riguardi della ricchezza disonesta, che
occorre mettere a frutto per il bene comune. Infatti occorre trafficarla bene per
ottenere la vera ricchezza, che è quella di intrecciare relazioni di amicizia
sincera con tutti.
Non si può servire Dio e la ricchezza, perché sono due padroni che seguono
logiche diverse. La ricchezza rivolge il cuore dell’uomo verso il proprio
interesse e alla sua difesa contro gli altri. La relazione con il Signore invece
rivolge il cuore dell’uomo verso la relazione con gli altri, così da condividere
le ricchezze e, soprattutto, la vita.
Se la parabola urta la nostra sensibilità, è per provocarci a comprenderne il
senso ultimo: ciò che conta non sono le ricchezze, ma la qualità delle relazioni
che realizziamo nella nostra vita quotidiana e in tutti gli ambiti.
E’ una questione di sapienza della vita che, sembra, i figli del mondo
conoscono e trafficano meglio dei figli della luce. E’ una sapienza al servizio
della salvezza di tutti e non solo della propria: per questo è lodata dal Signore.



A Roma la beatificazione
di Chiara Luce Badano



Oltre mille persone, in gran parte giovani, dalla sola Lombardia sono attesi a Roma sabato 25 settembre in occasione della beatificazione di Chiara Luce Badano. Ma in tutto il mondo - dall’Australia al Kenya, dall’Olanda alla Giordania, dalla Cina alla Colombia - sono un crescendo le prenotazioni per partecipare agli eventi in programma per la beatificazione. E sono proprio i giovani a comunicare ai loro coetanei la straordinarietà della vita di questa ragazza, con canzoni, brani teatrali, musical e attraverso Internet, Facebook e YouTube.
Chiara Badano nasce il 29 ottobre 1971 a Sassello (Savona). È bella, sportiva, gioiosa e volitiva. Si orienta agli studi di medicina per andare in Africa a curare i bambini. Ha una predilezione per gli altri giovani, per chi è alla ricerca, per chi è nel bisogno. Molti amici trovano in lei apertura e ascolto. Ma prova anche l’emarginazione di chi la chiama “suorina” per il suo impegno cristiano, nato dopo la partecipazione al Family Fest (manifestazione internazionale per le famiglie promossa dal Movimento dei Focolari).
Si impegna tra i più giovani del Movimento, le gen. Scrive alla fondatrice Chiara Lubich: «Abbiamo cominciato subito la nostra avventura: fare la volontà di Dio nell’attimo presente. Col Vangelo sotto braccio faremo grandi cose». Diventerà l’incarnazione viva delle parole della fondatrice: «Non abbiate paura! Lasciate fare a Lui ricompensarvi di amore! Vi farà felici in questa vita e per l’eternità!».
A sorpresa, a 17 anni, un dolore acuto mentre gioca a tennis. Le ricerche, poi la diagnosi: un tumore osseo tra i più dolorosi. Ben presto si dilegua ogni speranza di guarigione. Chiara perde l’uso delle gambe e a ogni nuova “sorpresa” della malattia dice: «Per Te, Gesù, se lo vuoi Tu lo voglio anch’io!». Subentra una grave emorragia. I medici si chiedono se lasciarla morire o procedere alla trasfusione tentando di salvarla, ma rimettendo così in moto anche le sofferenze. Decidono per la vita. Chiara vivrà ancora un anno, decisivo per lei. È l’anno di un’ardita scalata, in cordata con Chiara Lubich, con i suoi genitori, con gli altri giovani che condividono i suoi stessi ideali.
Chi va a farle visita col desiderio di darle coraggio, ne esce sconvolto e cambiato: è Chiara che contagia con la sua serenità e pace. Uno dei medici, non credente e critico nei confronti della Chiesa, confessa: «Da quando ho conosciuto Chiara, qualcosa è cambiato dentro di me. Qui c’è coerenza, qui del cristianesimo tutto mi quadra».
Chiara Luce è proiettata sino all’ultimo ad amare chi le sta accanto, a comunicare a più giovani possibile l’ideale che la anima, a dare Dio a chi è alla ricerca. La vigilia della sua “partenza” saluta tutti i presenti uno a uno, ma i giovani con un amore speciale. Lascia a loro una consegna: «I giovani sono il futuro. Io non posso più correre, però vorrei passare loro la fiaccola come alle Olimpiadi. Hanno una vita sola e vale la pena di spenderla bene». Poi scompiglia i capelli della mamma: «Ciao! Sii felice, perché io lo sono».
Chiara muore il 7 ottobre 1990. Per il suo funerale ha pensato a tutto: ai canti, alle preghiere dei fedeli, ai fiori, alla pettinatura, al vestito bianco, da sposa. Alla cerimonia partecipano moltissimi giovani. Celebra il vescovo di Acqui, monsignor Livio Maritano: «La gioia era dominante, stranamente unite lacrime e sorrisi». Immediato l’eco della straordinarietà della sua breve esistenza. Molti cambiano vita. Innumerevoli le testimonianze. È lo stesso vescovo - che l’ha conosciuta personalmente - a prendere l’iniziativa e portare avanti la causa di beatificazione, che ha un iter particolarmente rapido: poco più di dieci anni.
Questo il programma a Roma.
Sabato 25 settembre , alle 16: S. Messa con rito di beatificazione presso il Santuario della Madonna del Divino Amore (Roma), presieduto da monsignor Angelo Amato, Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi
Sabato 25 settembre, alle 21: Festa con Chiara Luce Badano nell’Aula Paolo VI, con maxischermo in Piazza S. Pietro
Domenica 26 settembre, alle 10.30: S. Messa di ringraziamento presso la Basilica di San Paolo fuori le Mura, presieduta dal cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato
Domenica 26 settembre, alle 12: Angelus di Papa Benedetto XVI in collegamento con la Basilica di San Paolo fuori le Mura.

mercoledì 8 settembre 2010

Domenica 12 Settembre 2010



II dopo il Martirio di s. Giovanni il Precursore

LETTURA
Lettura del profeta Isaia 5, 1-7

Così dice il Signore Dio: / «Voglio cantare per il mio diletto / il mio cantico d’amore per la sua vigna. / Il mio diletto possedeva una vigna / sopra un fertile colle. / Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi / e vi aveva piantato viti pregiate; / in mezzo vi aveva costruito una torre / e scavato anche un tino. / Egli aspettò che producesse uva; / essa produsse, invece, acini acerbi. / E ora, abitanti di Gerusalemme / e uomini di Giuda, / siate voi giudici fra me e la mia vigna. / Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna / che io non abbia fatto? / Perché, mentre attendevo che producesse uva, / essa ha prodotto acini acerbi? / Ora voglio farvi conoscere / ciò che sto per fare alla mia vigna: / toglierò la sua siepe / e si trasformerà in pascolo; / demolirò il suo muro di cinta / e verrà calpestata. / La renderò un deserto, / non sarà potata né vangata / e vi cresceranno rovi e pruni; / alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia. / Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti / è la casa d’Israele; / gli abitanti di Giuda / sono la sua piantagione preferita. / Egli si aspettava giustizia / ed ecco spargimento di sangue, / attendeva rettitudine / ed ecco grida di oppressi».

SALMO
Sal 79 (80)

® La vigna del Signore è il suo popolo.

Hai sradicato una vite dall’Egitto,
hai scacciato le genti e l’hai trapiantata.
Ha esteso i suoi tralci fino al mare,
e arrivavano al fiume i suoi germogli. ®

Dio degli eserciti, ritorna!
Guarda dal cielo e vedi
e visita questa vigna,
proteggi quello che la tua destra ha piantato,
il figlio dell’uomo che per te hai reso forte. ®

Da te mai più ci allontaneremo,
facci rivivere e noi invocheremo il tuo nome.
Signore, Dio degli eserciti, fa’ che ritorniamo,
fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi. ®

EPISTOLA
Lettera di san Paolo apostolo ai Gàlati 2, 15-20

Fratelli, noi, che per nascita siamo Giudei e non pagani peccatori, sapendo tuttavia che l’uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno. Se pertanto noi che cerchiamo la giustificazione in Cristo siamo trovati peccatori come gli altri, Cristo è forse ministro del peccato? Impossibile! Infatti se torno a costruire quello che ho distrutto, mi denuncio come trasgressore. In realtà mediante la Legge io sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me.

VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Matteo 21, 28-32

In quel tempo. Il Signore Gesù disse: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».

Gesù fa una verifica sui messaggi che vengono accolti e sui profeti che vengono
inviati dal Signore. La parabola richiama uno dei grandi amori e ricchezze di un
contadino d’Israele: l’amore e la dedizione per la vigna che è il capolavoro delle
sue competenze e del suo successo. E’ anche segno di benessere e di pace.
“Invitare il suo vicino sotto la sua vite e sotto il suo fico” era il sogno coltivato da
ogni Israelita (Zac 3,10).
E’ una delle immagini più alte, in poesia, dell’amore e della premura di Dio verso
il suo popolo (Is 5,1-7 prima lettura).
Anche Gesù si richiama spesso alla vigna, fino a dire che “Egli è la vera vite” (Gv
15,1-8). In scena ci sono un Padre e due figli, e se è comprensibile che il padre
rappresenti Dio, lo è molto meno l’identificazione dei due figli. Per Israele, c’è un
solo figlio di Dio “chiamato dall’Egitto” (Osea 11,1) e i giudei sono i “figli del Dio
altissimo” (Ester testo greco 8,12q).
Ma la provocazione si allarga. Il figlio maggiore è ossequiente, accetta. Tuttavia,
probabilmente, non è d’accordo con il progetto del Padre. Perciò a lui bastano le
parole. Ma queste non bastano al Padre. Lo dice Gesù stesso: “Non chiunque mi
dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del
Padre mio che è nei cieli” (Mt7,21).
Nel mondo religioso, lamenta Gesù, esiste molto formalismo per cui,
espressamente, non si accetta di dichiararsi irrispettosi verso Dio, di rifiutarlo, di
rinnegarlo.
Noi diciamo che il Signore è sempre al vertice dei nostri pensieri. Ma poi
avvengono segni e fatti strani, imprevedibili, in cui percepiamo che la voce di Dio
si manifesta attraverso messaggi nuovi, inusitati e però sufficientemente chiari. Ma
si scoprono scomodi e quindi si resta al “si” formale.
Si è rimasti con una religiosità legata alla pelle, senza verifiche, senza riscontri e
chiarificazioni. Era la religiosità del tempio, delle grandi liturgie, non la religiosità
dei frutti (Mt 21,18-22).
Gesù parla di Giovanni Battista, seguito dai peccatori (vengono ricordate, allo
stesso livello, le categorie ritenute infedeli di uomini e donne nel mondo ebraico:
“i pubblicani e le prostitute”). Sono i più lontani, a cui, quando Matteo scrive,
circa 50 anni dopo, si sono aggiunti i pagani convertiti che, nella Comunità
cristiana, rappresentano la maggioranza.
Il problema dell’ubbidire alla volontà del Signore, scoprendo nella storia, “il diritto
e la giustizia” (Is. 5,7), ci porta alle infinite verifiche a cui ci invitano i vescovi
italiani nel “messaggio per la salvaguardia del creato” . “Si tratta di un impegno
di vasta portata che tocca le grandi scelte politiche e gli orientamenti macroeconomici, e che comporta anche una radicale dimensione morale”.
Ci rendiamo conto che ci vorrebbe una solidarietà diversa, meno legata ai soldi e
più alla competenza, al lavoro comune, all’istruzione, alla sanità. E, nello stesso
tempo, andrebbero ridimensionati i nostri consumi per riconoscere esigenze e
diritti di altri. Questo suppone anche un parlare, un’influenza politica e sociale
sulle autorità costituite, un rivedere i programmi ed i progetti. “Ogni soggetto è
invitato a farsi operatore di pace nella responsabilità per il creato, operando con
coerenza negli ambiti che gli sono propri”.


PER APPROFONDIRE PER LA NOSTRA, VITA DEDICATO AI PIU’ VOLENTEROSI

1. La domanda carica di rammarico dell’amato nella pagina di Isaia si attualizza
anche nella vita di coloro che si dedicano agli altri e si spendono per la vita amministrativa
e politica. Per molti onesti che hanno dedicato anni ed energie alla cosa pubblica,
la tentazione di ritirarsi amareggiati e sconsolati è forte: «Perché, pur avendo fatto
tanto, non ho ricevuto alcun riconoscimento? Perché non sono stato compreso dagli
altri in quanto mi sono prodigato di fare...?». La domanda non deve però condurre a
ripiegarsi su se stessi, ma dev’essere un’occasione propizia per aprirsi al modo di agire
e di essere del nostro Dio, il quale continua – nonostante tutto – a «far sorgere il sole
sui malvagi e sui buoni» (cf Mt 5,45). E anche deve essere un momento di discernimento,
per riprendere con forza la decisione di donarsi «sino alla misura massima» (Gv 13,1),
perché qui sta la nostra identità. Scrive Maurice Bellet:
Sì, separare la divina tenerezza dalla sua orribile caricatura: la falsa compassione che si nutre
della sventura dell’altro, che ne succhia l’abiezione e la vergogna. Senza dubbio per
consolarsi del peggio che la abita.
A ciascuno il proprio dono.
Sarei certo incapace di accogliere, nutrire, curare, così come sono stato accolto, nutrito e
curato.
Devo rattristarmene? Forse ciò che posso dare io è diverso.
Di quale dono sto parlando? Del dono che ho ricevuto o di quello che offro? Ma è la stessa
cosa. La verità di ogni uomo si rivela così: in questo dono che è la sua vera potenza. Non è
un suo bene, una sua proprietà: in un certo senso, non fa che passare in lui. E tuttavia è lui,
ciò che ha di unico e singolare, come la musica di Mozart o la scrittura di Pascal; è il suo
nome.
Rapportarsi ad ognuno per quanto può, piuttosto che esigere da lui ciò che non può: questa
è la saggezza della divina tenerezza.
Non confrontare i doni. Non istituire delle gerarchie. Non come prima cosa, perché è vero
che bisogna anche riconoscere chi è il più competente, il più dotato, etc., ma sono in funzione
di un compito, di una situazione. Questo lascia integro il dono che è proprio in ciascuno.
C’è una misteriosa unità dei doni. Essa si manifesta soltanto nel loro rispetto e nel
loro amore reciproci.
In primo luogo si tratta di riconoscere il dono che si ha; poi di dedicarvisi, come a ciò che
contemporaneamente ci è più personale e ci rende nella più giusta misura servi di tutti; infine, di vincere le resistenze esterne ed interne. È molto. E molti soffocano, perché questa
forza che è in loro non giunge a maturità, non porta fiori e frutti.( M. BELLET, Il corpo alla prova o della divina tenerezza, Traduzione dal francese di E. D’AGOSTINI
(Quaderni di Ricerca 52), Gorle BG, Servitium Editrice, 1996, 22000, p. 77s).

2. La capacità politica è un perfetto equilibrio teso tra azione e risposta. Ad ogni
livello, la capacità politica sta nel coniugare le tesi contrapposte per portarle ad
un’unità di azione positiva per l’insieme della collettività. Da una parte, infatti, la politica
è l’arte di costruire una città dal volto umano, partendo da uno sguardo d’amore
per la comunità civile che dobbiamo servire.
Nel discorso alla città del 6 dicembre 2003, il nostro Arcivescovo card. Tettamanzi
ebbe a sottolineare:
Guardiamo, dunque, alla nostra Città! Con attenzione, con intensità, con amore, con responsabilità!
Guardiamola senza timori. Anche se ne scopriamo la “crisi”, ne vediamo multiformi
e ingannevoli volti, siamo impauriti dalla sua complessità o sentiamo tutto il peso
delle sue contraddizioni, non temiamo! Lasciamoci spronare, piuttosto, a nuova e più decisa
responsabilità!
D’altra parte, il mestiere del politico è proprio quello di far superare le difficoltà della vita e
di rendere più facile quanto avviene perché le cose accadano «come Dio vuole»: ma quella
volontà di Dio non può non essere che la giustizia.
È, quella di Milano, una chiamata alla giustizia. Sì, ad essere giusti, a dare a ciascuno il suo,
ciò che gli è dovuto. È una chiamata a essere veramente “uomini”. Dare a tutti e a ciascuno
ciò che si deve è – come afferma sant’Ambrogio – prova autentica e garanzia di vera
umanità. «Considera, uomo, donde hai preso il nome», così egli scrive. E subito aggiunge:
«Certamente da humus (terra), la quale non toglie nulla a nessuno, ma elargisce tutto a tutti
e fornisce i diversi prodotti per l’uso di tutti gli esseri viventi. Perciò è stata chiamata “umanità”
la particolare virtù propria dell’uomo, per effetto della quale si reca aiuto ai propri
simili» (AMBROGIO, I doveri, III, 3, 16). E il grande pensatore Romano Guardini fa eco al
nostro Santo quando, in modo sintetico e incisivo, scrive: «Un uomo è degno del nome di
uomo quando, sul luogo dove esiste, si adopera per la giustizia» (R. GUARDINI, Le virtù,
Morcelliana, Brescia, 21980, 65).
Milano ci chiama, dunque, ad essere giusti. Non ci chiama semplicemente e solamente ad
una solidarietà generica, a un dare perché possediamo qualcosa che l’altro non ha.
L’appello è più impegnativo e coinvolgente, radicale e urgente: è a ridistribuire secondo giustizia
i beni ricevuti.
Questa è precisamente la responsabilità civile che ci vogliamo assumere. È ben diversa, infatti,
una solidarietà che scaturisce dalla giustizia oggettiva rispetto alla solidarietà che scaturisce
dal desiderio soggettivo di sentirci buoni o migliori. C’è, allora, una sfida da raccogliere,
alla quale nessuno può e deve sfuggire: bisogna ricostruire un rapporto stretto, saldo,
inscindibile tra giustizia e solidarietà, tra restituzione del dovuto e prossimità. Non c’è giustizia
senza solidarietà e non c’è solidarietà senza giustizia! C’è quindi un’alleanza tra giustizia e
solidarietà da ritrovare, da costruire, da garantire.
Tutti noi, che operiamo nella Città, non possiamo dimenticarci dei doveri di giustizia che
incombono. Il primo di questi doveri è di partecipare alla costruzione di una Città in cui le antinomie
vengano ricomposte; in cui il povero non sia costretto a tendere la mano per chiedere
l’elemosina; lo straniero sia accolto; i giovani possano costruirsi una famiglia; gli anziani si
sentano sicuri; tutti possano lavorare, studiare, inventare, fare ricerca, amare.( D.TETTAMANZI, Milano, una città da amare. Discorso alla città per la vigilia di Sant’Ambrogio 20033.
Quanto è rischioso agire «per Dio» e non lasciarsi agire da Dio! In nome di Dio
si possono perpetrare gli abomini peggiori, che vanno contro la dignità dell’uomo. E la
storia – anche recente – è maestra di vita... Lo aveva ben capito Simone Weil:
In senso generale, «Per Dio» è una espressione scorretta. Dio non dev’essere messo
al dativo. Non andare verso il prossimo per Dio, ma essere spinto da Dio verso il prossimo
come la freccia è spinta dall’arciere verso il bersaglio.
Essere appena l’intermediario fra la terra incolta e il campo arato, fra i dati del problema
e la soluzione, fra la pagina bianca e la poesia, fra l’infelice affamato e l’infelice
che è stato saziato. [...]
La volontà di Dio. Come conoscerla? Se si fa silenzio in se stessi, se si fanno tacere
tutti i desideri, tutte le opinioni; e si pensa con amore, con tutta l’anima e senza parole:
«Sia fatta la tua volontà», quel che allora si sente, senza incertezza, di dover fare (quand’anche,
per certi riguardi, fosse un errore) è la volontà di Dio. Perché, se gli si chiede
pane, egli non ci dà pietre.( 16 S. WEIL, L’ombra e la grazia (Testi di Spiritualità), Milano, Rusconi Editore, 1985, p. 58).


4. I veri profeti sono i politici della realtà, poiché annunciano il loro messaggio politico
a partire dall’intera verità storica che è loro dato di conoscere. I falsi profeti, i politici
dell’illusione, con la forza del loro desiderio strappano via un pezzetto di realtà
storica, impreziosendola con illusioni variopinte. Quando intendono raggiungere degli
effetti suggestivi, mettono in mostro i loro colori meravigliosi, ma quando si chiede loro
il contenuto di verità, si fanno scudo di essi.
I falsi profeti, con la loro politica dell’illusione, già ai tempi di Ezechia hanno impedito
ai governanti di prendere coscienza dell’importanza del loro compito e di decidere
di assumersene tutte le responsabilità, educando poi alla realizzazione delle decisioni
un popolo intero. Del messaggio di Isaia hanno divulgato solo la promessa, senza le
condizioni necessarie perché questa fosse duratura, come ogni messaggio profetico salvifico
si cura invece di fare. […]
I falsi profeti non sono senza Dio. Essi pregano il dio “successo”. Hanno gran bisogno
di successo e lo ottengono promettendo al popolo, e tuttavia sono convinti, in coscienza
di ricercare il successo per il bene del popolo. La brama di successo domina i
loro cuori, determinando poi tutto ciò che ne scaturisce: è questo che Geremia chiama
“l’inganno dei loro cuori”. In realtà, infatti, non mentono, ma sono ingannati, e non
possono respirare che aria di inganno.
I veri profeti conoscono bene il piccolo idolo tronfio del successo e sanno che dieci
vittorie che non sono altro che questo, possono dare come risultato finale una sconfitta,
mentre dieci insuccessi, se lo Spirito alberga in essi, possono costituire una vittoria. È
difficile che i profeti veri, quando parlano al popolo, possano ottenere un successo, anzi
questo li ripugna, quando è fine a se stesso. Ma quando vengono gettati nella fossa,
quanto è rimasto dell’anima di Israele è in fiamme; così comincia, silenziosa, la conversione,
che porta al rinnovamento partendo dai bisogni più profondi.
Il falso profeta vive di sogni e si comporta come se il sogno fosse realtà. Il vero profeta
vive della parola vera che riceve.( M. BUBER, Profezia e politica. Sette saggi, a cura di G. MORRA (IDEE / Filosofia 107), Città Nuova, Roma, 1996, pp. 132-134).

5. Una attualizzazione per coloro che sono impegnati nella res publica.
Sarebbe importante tracciare un itinerario spirituale dell’homo politicus, ovvero ridisegnare
le tappe necessarie per raggiungere quell’amore «sino all’estremo» che giunge a
offrire la vita per gli amici (non è forse questa la testimonianza più grande, il martirio
più vero?). A modo di titoli da sviluppare ricordo quattro dimensioni:
a) la capacità di discernimento e di giudizio sul proprio operato: essa deve essere un
esercizio quotidiano per colui che vive nella cosa pubblica, non solo al momento delle
elezioni o dei grandi dibattiti. Proprio in questo contesto è necessario rigettare ogni
forma di accidia, anche quella più sottile che conduce alla dissipazione delle proprie
capacità, come ha sottolineato Josef Pieper rileggendo la virtù della temperanza in san
Tommaso:
Acedia: è la neghittosa tristezza del cuore che ripudia la grandezza alla quale Dio chiama
l’uomo. Questa tristezza accidiosa leva il suo volto funereo quando l’uomo si accanisce a
respingere la sua nobiltà essenziale del suo essere in quanto persona e le responsabilità ad
esse congiunte, soprattutto la grandezza della figliolanza divina: quando cioè ripudia il suo
vero essere. San Tommaso afferma che l’acedia si manifesta precipuamente nella «dissipazione
dello spirito». [...] La «dissipazione dello spirito» si manifesta in una forma di logorrea,
nella smania incontenibile di diffondersi all’esterno, «disperdendosi dalla cittadella dello
spirito nel molteplice fenomenico», in una interiore irrequietezza, nell’instabilità della dimora
e nella volubilità del carattere, e appunto nella divorante insaziabilità della curiosità.
Può essere l’indizio di un totale inaridimento e sradicamento. Può voler dire che un uomo
ha completamente perduto la capacità d’inabitare in se stesso.( J. PIEPER, Sulla temperanza, Traduzione di G. CONTERNO (Il Pellicano), Brescia, Morcelliana, 1957,
21965, pp. 96-97).
b) il rapporto tra il nostro «fare» e il «fare» di Dio. Proprio a questo livello potrebbe
porsi la domanda fondamentale circa quella scelta idolatrica, che riduce “dio” ad un
oggetto della decisione, ma che in definitiva non si lascia interpellare dal Dio vivo e vero.
Il Gesù di Giovanni riprende in altro modo questa relazione: «come il tralcio non
può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in
me» (Gv 15,4).
c) coltivare e verificare il rapporto tra l’attesa di giustizia della gente comune e la
propria fatica nel gestire la cosa pubblica, non perdendo mai la concretezza del bisogno
dell’oggi, ma anche non lasciandosi soffocare dall’immediato. Anche le priorità
delle «opere» eseguite evidenziano con chiarezza a quale tipo di divinità si sta sacrificando
la vita...
d) per giungere, infine, alla pienezza della vita spirituale, che in Gv 15 è sintetizzata
come il «dono la vita». Ogni cammino spirituale cristiano – qualsiasi carisma, e quindi
anche la gestione della cosa pubblica – è traduzione del cammino di Gesù. Non potrebbe
essere diversamente. Un ideale tanto alto ridimensiona le molte tensioni immediate
e soprattutto spinge il credente a scoprire in questa storia il mistero di un Dio che
non può essere imbrigliato dalle nostre attese, ma che le nostre attese desiderano e verso
cui anelano, come mèta ultima del futuro dell’intero universo.

mercoledì 1 settembre 2010

Domenica 5 settembre 2010

Domenica 5 settembre 2010

LETTURA
Lettura del profeta Isaia 30, 8-15b

Così dice il Signore Dio: / «Su, vieni, scrivi questo su una tavoletta davanti a loro, / incidilo sopra un documento, / perché resti per il futuro / in testimonianza perenne. / Poiché questo è un popolo ribelle. / Sono figli bugiardi, / figli che non vogliono ascoltare la legge del Signore. / Essi dicono ai veggenti: “Non abbiate visioni” / e ai profeti: “Non fateci profezie sincere, / diteci cose piacevoli, profetateci illusioni! / Scostatevi dalla retta via, uscite dal sentiero, / toglieteci dalla vista il Santo d’Israele”». / Pertanto dice il Santo d’Israele: / «Poiché voi rigettate questa parola / e confidate nella vessazione dei deboli e nella perfidia, / ponendole a vostro sostegno, / ebbene questa colpa diventerà per voi / come una breccia che minaccia di crollare, / che sporge su un alto muro, / il cui crollo avviene in un attimo, improvvisamente, / e s’infrange come un vaso di creta, / frantumato senza misericordia, / così che non si trova tra i suoi frantumi / neppure un coccio / con cui si possa prendere fuoco dal braciere / o attingere acqua dalla cisterna». / Poiché così dice il Signore Dio, il Santo d’Israele: / «Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, / nell’abbandono confidente sta la vostra forza».

SALMO
Sal 50 (51)

® Convertici a te, Dio, nostra salvezza.
Aspergimi con rami d’issòpo e sarò puro;
lavami e sarò più bianco della neve.
Distogli lo sguardo dai miei peccati,
cancella tutte le mie colpe. ®

Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non scacciarmi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito. ®

Rendimi la gioia della tua salvezza,
sostienimi con uno spirito generoso.
Insegnerò ai ribelli le tue vie
e i peccatori a te ritorneranno. ®

EPISTOLA
Lettera di san Paolo apostolo ai Romani 5, 1-11

Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliàti con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione.

VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Matteo 4, 12-17

In quel tempo. Quando il Signore Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nàzaret e andò ad abitare a Cafàrnao, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia: / «Terra di Zàbulon e terra di Nèftali, / sulla via del mare, oltre il Giordano, / Galilea delle genti! / Il popolo che abitava nelle tenebre / vide una grande luce, / per quelli che abitavano in regione e ombra di morte / una luce è sorta». / Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino».


PER LA NOSTRA VITA

Lasciamoci provocare da una lettura che aiuta a illuminare le pagine bibliche di questa domenica

1. La fede che preferisco, dice Dio, è la speranza.
La fede non mi stupisce.
Non è stupefacente.
Risplendo talmente nella mia creazione. [...]
Che per non vedermi veramente ci vorrebbe che quella povera gente fosse cieca.
La carità, dice Dio, non mi stupisce.
Non è stupefacente.
Quelle povere creature sono così infelici che a meno di avere un cuore di pietra,
come non avrebbero carità le une per le altre.
Come non avrebbero carità per i loro fratelli.
Come non si toglierebbero il pane di bocca, il pane quotidiano, per darlo a dei
bambini disgraziati che passano.
E mio figlio ha avuto per loro una tale carità. [...]
Ma la speranza, dice Dio, ecco quello che mi stupisce.
Me stesso.
Questo è stupefacente.
Che quei poveri figli vedano come vanno le cose e che credano che andrà meglio
domattina. [...]
Questo è stupefacente ed è proprio la più grande meraviglia della nostra grazia.
E io stesso ne sono stupito.
E bisogna che la mia grazia sia in effetti di una forza incredibile.
E che sgorghi da una fonte e come un fiume inesauribile. [...]
Quello che mi stupisce, dice Dio, è la speranza.
Non me ne capacito.
Questa piccola speranza che ha l’aria di non essere nulla.
Questa bambina speranza.
Immortale.

2. Si potrebbe credere che il Vangelo, istituendo la distinzione tra spirituale e temporale,
tra religione e politica, tra salvezza dell’anima e interessi della città terrena, abbia
instaurato un principio che distoglie dall’azione sociale. È invece accaduto proprio
il contrario, in piena logica. Il Vangelo, infatti, con tale distinzione libera il germe della
libertà spirituale che si trova nel fondo di ogni individuo e spinge a vedere in lui non
soltanto il soggetto che deve servire alla costruzione di un impero o il cittadino che deve
svolgere il suo ruolo in seno alla città, ma anche l’essere personale, nell’interesse del
quale si deve operare. Era necessario che il Vangelo ci facesse, per così dire, decollare
da terra, che facesse emergere in noi qualche cosa che alla terra sfugge, affinché anche
l’interesse per il sociale si liberasse dall’interesse per la città terrena e la sua coesione,
interesse che regnava sovrano nel mondo antico. E perché è sempre vivo il rischio che
assorba nuovamente il primo, bisogna che la fedeltà all’evangelo mantenga in noi questa
“emergenza”.10

3. La lettura continua dei libri biblici costringe chiunque sia disposto ad ascoltare
a portarsi, a farsi trovare là dove Dio ha agito per la salvezza dell’uomo una volta per
tutte. […] Diventiamo partecipi di ciò che un tempo accadde per la nostra salvezza, ci
dimentichiamo di noi stessi e ci perdiamo, nel partecipare al passaggio del Mar Rosso,
nella traversata del deserto, nel passaggio del Giordano per giungere alla terra promessa,
sprofondiamo nel dubbio e nella mancanza di fede insieme con Israele, e rinnoviamo
l’esperienza dell’aiuto e della fedeltà di Dio attraverso la punizione e la penitenza;
tutto questo non nell’immaginazione irreale, ma nella santa realtà di Dio. Siamo sradicati
dalla nostra personale esistenza e trapiantati nella storia santa di Dio sulla terra. È
lì che Dio ha agito su di noi, e ancora oggi Dio agisce su di noi, sulle nostre miserie,
sui nostri peccati, per mezzo dell’ira e della grazia. Non nel senso che Dio sia spettatore
e partecipe della nostra vita attuale, ma nel senso che noi siamo ascoltatori e partecipi
dell’agire di Dio, nella meditazione della storia sacra, della storia del Cristo in terra:
questo è l’importante, e solo per quel tanto che ne siamo partecipi Dio anche oggi è
con noi.11

4. Non la religione ci rende buoni davanti a Dio, ma Dio soltanto; è dalla sua azione
che questo dipende. Di fronte a essa ogni nostra pretesa viene a cadere. La cultura
come la religione stanno sotto il giudizio divino. Le cause della nostra moralità e
della nostra religione sono smascherate, vorremmo essere signori dell’eterno e ora siamo
schiavi. Rimane solo una salvezza: il cammino di Dio, che significa della grazia. […]
Non la religione, ma la rivelazione, la grazia, l’amore, non il cammino verso Dio,
ma il cammino di Dio verso l’uomo, questa è la somma del cristianesimo. Qui si trova
una grande disillusione e tuttavia una speranza ancora più grande. Il nostro guadagno,
la nostra superbia, il nostro onore, tutto questo è finito. Ma allora inizia la grazia di
Dio, la gloria di Dio, l’onore di Dio. N0n la nostra religione – nemmeno quella cristiana
– ma la grazia di Dio, questo è il messaggio di tutto il cristianesimo. Non è impor-
tante la mano tesa a mendicare, ma il fatto che Dio la riempia; e questo significa che
non siamo assolutamente noi e il nostro agire a essere importanti, ma Dio e il suo agire.
Il nostro agire lo è soltanto nella misura in cui crea spazio per l’agire di Dio, perché fa
essere la grazia di Dio grazia. La nostra speranza non si fonda su di noi, ma su Dio.
Gesù Cristo, bambina, non è venuto per dirci frivolezze,
Capisci, non ha fatto il viaggio di venire sulla terra [...]
per venire a contarci indovinelli
E barzellette.

5 ... e Gesù non ci ha neanche dato delle parole morte
Che noi dobbiamo chiudere in piccole scatole (o in grandi.)
E che dobbiamo conservare in olio rancido
Come le mummie d’Egitto.
Gesù Cristo, bambina, non ci ha dato delle conserve di parole
Da conservare,
Ma ci ha dato delle parole vive.
Da nutrire.
Io sono la via, la verità e la vita.
Le parole di vita, le parole vive non si possono conservare che vive.
Nutrite vive,
Nutrite, portate, scaldate, calde in un cuore vivo...
Come Gesù ha preso, è stato costretto a prendere corpo, a rivestire la carne
Per pronunciare queste parole (carnali) e per farle intendere,
Per poterle pronunciare,
Così noi, ugualmente noi, a imitazione di Gesù,
Così noi, che siamo carne, dobbiamo approfittarne, [...]
Dobbiamo nutrire, abbiamo da nutrire nel nostro cuore,
Con la nostra carne e col nostro sangue,
Col nostro cuore,
Le Parole carnali,
Le Parole eterne, temporalmente, carnalmente pronunciate. [...]
È a noi, infermi, che è stato dato,
È da noi che dipende, infermi e carnali,...
di assicurare (è incredibile) di assicurare alle parole eterne
Inoltre come una seconda eternità, ...
Un’eternità terrena.

6. C’era, sì, c’era – ma come ritrovarlo
quello spirito nella lingua
quel fuoco nella materia.
Chi elimina la melma, chi cancella la contumelia?
Sepolto nelle rocce,
rocce dentro montagne
di buio e grevità –
così quasi si estingue,
così cova l’incendio
l’immemorabile evangelio…