giovedì 20 dicembre 2012

Domenica 22 e Santo Natale. Auguri!



Cari amici in questo invio trovate il commento al vangelo della domenica e al vangelo del giorno di Natale, quindi c’è molto da leggere e da pregare!


I. 22 dicembre 2012  DOMENICA SESTA DI AVVENTO
DELL’INCARNAZIONE DEL SIGNORE O DELLA DIVINA MATERNITÀ DELLA VERGINE MARIA

La liturgia ambrosiana – celebrando nell’ultima domenica di Avvento la Divina Maternità di Maria – accosta la Madre di Gesù come “figura di attesa” a Giovanni il Battista. È il modo originario e più autentico di celebrare la fede di Maria e con lei, in quanto Madre della Chiesa, ripercorrere lo stesso cammino di fede e di attesa, dal concepimento ai piedi della croce, sino al cenacolo della pentecoste.
Un pensiero di Ferdinand Ebner (1882-1931), che ha espresso nel “pensiero dialogico” – accanto a Martin Buber e Franz Rosenzweig – la sua tormentata esistenza e la limpida ricerca di filosofia del linguaggio, ci fa entrare nella contemplazione della Parola che si fa carne e sangue nel grembo di Maria:
La parola dell’uomo proceda dal suo silenzio davanti a Dio e dalla pienezza della sua vita in Dio. Questa pienezza della vita è l’amore. Si deve capire la parola partendo dall’amore, altrimenti non la si capisce nella sua natura profonda. Quelli che riflettono sulla parola devono esser filologi, devono amare la parola. Ma si deve anche illuminare l’amore con il significato essenziale della parola – altrimenti alla fine lo si intende, o lo si fraintende, soltanto come amor proprio, autofilìa, cupidigia, avidità e, quando va bene, come l’eros della filosofia di Platone. Il vero amore invece è di più, è qualcosa di assolutamente diverso dall’amore platonico. Esso è – come la parola – la realizzazione del rapporto al tu, del rapporto all’uomo e a Dio.
 F. EBNER, Parola e amore. Dal diario 1916/17. Aforismi 1931, a cura di E. DUCCI - P. ROSSANO (= Testi di Spiritualità), Rusconi Editore, Milano, 1983, p. 137.  
VANGELO: Lc 1,26-38a

26 Al sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzareta, 27 a una vergine, sposa di un uomo di nome Giuseppe, del casato di Davide,b e il nome della vergine era Maria.
28 Entrato, le disse:
– Rallégrati, riempita della benevolenza [di Dio]: il Signore è con te!c
29 Ella, per questo saluto, rimase confusa e si domandava quale genere di saluto fosse mai questo.
30 L’angelo le disse:
– Non temere, Maria! Tu hai trovato grazia presso Dio 31 ed ecco, concepirai e darai alla luce un figlio e lo chiamerai Gesù; 32 egli sarà grande e sarà chiamato figlio dell’Altissimo e il Signore Iddio gli darà il trono di Davide suo padre 33 e regnerà sulla casa di Giacobbe nei secoli e del suo regno non ci sarà fine.
34 Maria allora disse all’angelo:
– Come avverrà questo, dal momento che non conosco uomo?
35 E in risposta l’angelo le disse:
– Lo Spirito santo scenderà su di te e ti adombrerà la potenza dell’Altissimo; perciò il nascituro santo d sarà chiamato figlio di Dio. 36 Ed ecco, Elisabetta, la tua parente, anch’ella ha concepito un figlio nella sua vecchiaia e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: 37 poiché nessuna cosa detta sarà impossibile per Dio.
38 Maria allora disse:
– Ecco la serva del Signore: mi avvenga secondo la tua parola.
E l’angelo si allontanò da lei.
La pericope deve essere letta ogni volta con lo stesso stupore, come fosse la prima volta che l’ascoltiamo, evitando il più possibile di considerarla troppo nota. Essa rappresenta «la vocazione di Maria alla maternità» e assume le strutture narrative portanti dal modello letterario della vocazione profetica (cf almeno Is 6; Ger 1; Ez 2) e preprofetica (cf Es 3 per Mosè; Gdc 6 per Gedeone; Gdc 13 per Sansone).
Nel piano narrativo di Lc 1-2, si esprime così nel dittico asimmetrico che viene a svilupparsi tra Giovanni Battista e Gesù, la superiorità del secondo sul primo.
La struttura della scena, che riscrive il modello letterario della vocazione preprofetica, qui applicato alla chiamata di Maria alla maternità, è scandita dagli interventi dell’angelo, che «al sesto mese» dall’annunzio a Zaccaria (l’incipit è omesso dal brano liturgico) entra da Maria (v. 28a) e se ne diparte dopo il dialogo con Maria (v. 38b):
vv. 26-27: preambolo
vv. 28-29: saluto (ἀσπασμός) dell’angelo e reazione di Maria
vv. 26-27: Gli elementi raccolti nel preambolo sono tutti significativi per rendere ragione di quanto sta accadendo. Nessun particolare è inutile o di troppo. La situazione riguarda Maria, una ragazza di Nazaret che aveva già sottoscritto il contratto matrimoniale con Giuseppe, un discendente davidico: ἐμνηστευμένην «sposata», significa che era stato compiuto il primo atto del matrimonio, lo ʾĕrûsîn, che comportava la scrittura della ketubbâ, il «contratto» matrimoniale; tuttavia la sposa non era ancora andata a vivere con lo sposo, e quindi manca ancora il secondo atto della celebrazione matrimoniale, il nesûʾîn, che comportava la coabitazione come marito e moglie. Quanto a Nazaret, il giudizio di Natanaele (Gv 1,46: «Da Nazaret, può mai venire qualcosa di buono?») sintetizza molto bene la considerazione che questo villaggio vicino alla stupenda città greco-romana di Sipporis aveva per un “autentico” figlio di Israele.
vv. 28-29: Il saluto del messaggero divino e la reazione di Maria sono due punti cruciali del racconto.
a) Χαῖρε, κεχαριτωμένη, ὁ κύριος μετὰ σοῦ «Rallégrati, riempita della benevolenza [di Dio]: il Signore è con te!». Χαῖρε: il problema è di capire se si è in presenza di un normale saluto o se invece si voglia alludere a contesti profetici, in modo più o meno velato. Vista la reazione di Maria a un tale saluto, bisogna dire che più c’è molto di più di un semplice “buongiorno”!
Vi sono infatti alcuni testi profetici che hanno la medesima struttura del saluto utilizzato da Lc 1,28:
– Gioele 2,21: θάρσει, γῆ, χαῖρε καὶ εὐφραίνου… «non temere, terra, ma rallegrati e gioisci…»
– Sof 3,14: Χαῖρε σφόδρα, θύγατερ Σιων, κήρυσσε, θύγατερ Ιερουσαλημ· εὐφραίνου καὶ κατατέρπου ἐξ ὅλης τῆς καρδίας σου, θύγατερ Ιερουσαλημ «Rallégrati, figlia di Sion, grida di gioia, Israele, esulta e acclama con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme!»
– Zc 9,9: Χαῖρε σφόδρα, θύγατερ Σιων· κήρυσσε, θύγατερ Ιερουσαλημ «Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme!»
– Lam 4,21: Χαῖρε καὶ εὐφραίνου, θύγατερ Ιδουμαίας «Esulta pure, gioisci, figlia di Edom»
Questi testi permettono di scoprire una tipologia veterotestamentaria che qui è applicata a Maria. Che il saluto dell’angelo debba essere letto nel senso della «gioia» e come invito a «gioire» è confermato anche dalla ricorrenza del tema della gioia negli altri messaggi angelici lucani (cf Lc 1,14 e 2,10). In questo messaggio angelico, centrale e più significativo, mancherebbe quell’invito alla gioia, se venisse espulso da quel χαῖρε iniziale. Andrebbe ricordato anche il tema della gioia in tutta l’opera lucana.
κεχαριτωμένη: anche questa singolare designazione avvicina Maria a Gdc 6,12 (Gedeone è chiamato nel saluto: δυνατὸς τῇ ἰσχύι «potente quanto alla forza»). Si tratta di una designazione “profetica”, una dichiarazione che già contiene tutto il mistero che sarà esplicitato in seguito. La forma grammaticale è un participio perfetto passivo: è dunque un “passivo teologico” che rimanda subito alla relazione tra Maria e Dio. Dio ha fatto Maria oggetto della sua χάρις (ḥēn) da sempre; o anche, Dio si è ricordato con Maria del suo ḥesed. In che cosa consista questa benevolenza sarà spiegato dal seguito del racconto. Sembrerebbe l’assegnazione di un nuovo nome: il cambio di nome, come sempre, indica l’inizio di un nuovo ruolo o di una nuova mansione.
Possiamo notare due allusioni create dal nuovo nome: la prima per paronomasia e la seconda per rimando di significato:
– κεχαριτωμένη entra subito in assonanza con il χαῖρε del saluto: l’invito alla gioia di Maria è dunque fondato sulla riconoscenza dei favori che Dio ha operato in lei;
– è poi rimando alla vicenda di Anna (ḥnn): sarà un rimando sottolineato più chiaramente dal cantico del Magnificat.
ὁ κύριος μετὰ σοῦ: anche questa parte di saluto è un rimando a Gdc 6,12. Non si tratta di una formula di saluto e neppure è un modismo convenzionale: è un’affermazione che apre una missione. La missione per Maria sarà la sua maternità.
b) ecco dunque spiegato perché di fronte a un tale saluto (ὁ ἀσπασμὸς οὗτος) la reazione di Maria sia stata duplice:
– διεταράχθη «rimase confusa» è hapax nel NT, più usuale è il semplice ταράσσω (cf Lc 1,12 e 24,38), che è anche la reazione emotiva normale di fronte alla manifestazione del divino;
– διελογίζετο «s’interrogava»: è la reazione di ricerca intellettiva, suscitata dalla stranezza di quella triplice affermazione dell’angelo.
vv. 30-33: Il primo discorso dell’angelo si compone di due elementi: a) una premessa, con l’esortazione a «non temere!»; b) l’annunzio di nascita, con il nome del nascituro e il suo futuro.
a) l’esortazione a «non temere!» (μὴ φοβοῦ, v. 30), inizio di ogni oracolo di salvezza, è motivata dall’«aver trovato grazia» presso Dio. Il formulario, che ricorre circa 60× nel Primo Testamento (molto frequente in Is, Ger e Dt), è la normale introduzione di oracoli di salvezza e di consolazione. Normalmente è seguita da una motivazione (Gn 21,17; 26,24; Is 10,24; 41,10; ecc.).
«Trovare grazia agli occhi di qualcuno» ricorre una quarantina di volte e 13 volte in riferimento a Dio. La grazia è il favore che in generale un superiore elargisce a un suo subalterno. Solo di Noè (Gn 6,8) e Mosè (Es 33,12. 17)8 si dice esplicitamente che hanno trovato grazia presso Dio. Inoltre solo a Mosè e a Maria giunge direttamente da una parola di Dio (elemento in più per ritrovare il formulario di vocazione). Tale “favore” è un indicatore del rapporto che sussiste tra le due persone in relazione: Dio e Maria. In questa cornice Maria è abilitata a realizzare il compito che sarà descritto nei versetti seguenti.
b) annunzio di nascita, nome e futuro del nascituro (v. 31-33). La missione di Maria sta nella sua maternità. Nei vv. 31-33, si annunzia tale nascita con il formulario tipico del genere annuncio di nascita: promessa, nome e futuro del nascituro.
Il problema interpretativo sta al v. 31, se cioè questo versetto sia da spiegare ricorrendo al cliché generale degli annunci di nascita o se invece dipenda dal background di Is 7,14. Il contatto con la pagina di Isaia non è impossibile, ma vi sono rimandi possibili anche a Sof 3 e, più genericamente, ad altri racconti di nascita.
v. 34: Il senso della domanda di Maria al v. 34 («Come avverrà questo, dal momento che non conosco uomo?») è centrale per il passo lucano. Si tratta di una vera e propria domanda, in cui Maria chiede un chiarimento su come possa avverarsi quanto l’angelo le ha riferito. Passo anzitutto in rassegna le principali interpretazioni date lungo la ricca storia esegetica, prima di esporre quella che ritengo essere l’interpretazione più adeguata al contesto della pagina in cui ci troviamo.
1) Maria si sarebbe impegnata ad osservare la verginità, per cui di fronte alla proposta dell’angelo, ella obietta ricordando il suo proposito: «Come accadrà, se non devo conoscere uomo?». Si ricordi la notizia che proviene dall’apocrifo Protovangelo di Giacomo 9,2, secondo cui Giuseppe sarebbe un anziano vedovo. Questa spiegazione fiorì con il monachesimo femminile cristiano, così da rendere Maria una monaca ante tempus. La testimonianza più antica di tale interpretazione risale a Gregorio di Nissa (PG 1140D-1141A) e si diffuse in Occidente con Ambrogio e Agostino. Tuttavia non si sa nulla a questo proposito: niente che ci faccia supporre la possibilità che una giovane ragazza si potesse sposare con il proposito di rimanere vergine. La testimonianza di Qumrān non serve a questo proposito.
2) Maria avrebbe conosciuto e meditato a fondo Is 7,14 e avrebbe capito che il Messia sarebbe nato da una vergine. La domanda significherebbe dunque: «Come accadrà questo, dato che [secondo la parola profetica] non devo avere rapporti con un uomo?». Ma nella tradizione giudaica il passo di Is 7,14 non era mai stato interpretato in vista della nascita messianica; e poi non parla esplicitamente di concepimento verginale.
3) Maria sarebbe stata in realtà una vergine non sposata, per cui la frase originariamente aveva questo senso: «Come accadrà questo, dal momento che non ho ancora marito?». Sarebbe stato Luca o la tradizione da cui egli dipende a rendere Maria una vergine già sposata a Giuseppe, almeno nel senso che aveva già scritto la ketubbâ «il contratto» matrimoniale, ma non era ancora andata a coabitare con il suo sposo. Però è molto strano pensare che un autore non si accorga del malinteso… E poi: come giustificare la davidicità del Messia? tramite la linea genealogica di Maria?
4) R.E. Brown propone un’interpretazione più letteraria: la domanda sarebbe un espediente letterario introdotto dall’abile mano di Luca, per mettere in luce un duplice contenuto che esplicitasse il senso teologico del titolo «figlio di Dio. Maria con la sua domanda sottolinea che il concepimento di Gesù è avvenuto senza intervento maschile (come anche Gv 1,13, se si leggesse al singolare con alcuni padri dei secoli II-IV,9 potrebbe esplicitamente affermare): il concepimento verginale di Gesù significa che esso è avvenuto «per opera dello Spirito santo», come avrebbe poi affermato la formula della confessione di fede.
5) L’interpretazione più plausibile parte dalla constatazione che la frase di Maria «io non conosco uomo» esprime la situazione reale di Maria, che è vergine; esprime il suo stato e non le sue intenzioni. Si tratta quindi di una vera domanda. Se non si fanno entrare in gioco altri elementi, dopo le parole dell’angelo vi è di fatto bisogno di un chiarimento: «d’accordo su quanto hai detto, ma chi sarà il padre di questo bambino?». Il «questo» che deve accadere si riferisce a quanto l’angelo ha detto. È una domanda quindi veramente aperta e non si deve presupporre alcuna risposta. Lo studio di K. Stock ha sottolineato che anche la forma di questa domanda si chiarisce tenendo conto del modello letterario della vocazione preprofetica applicato alla maternità di Maria. Anche Gedeone in Gdc 6 non domanda direttamente: «Chi mi aiuterà in questo compito?»; bensì – in modo indiretto – per mettere in luce la sua condizione di insufficienza: «Come potrei salvare Israele, dal momento che il mio casato è il più povero di Manasse e io sono il piccolo della mia famiglia?» (Gdc 6,15).
Dunque, la domanda di Maria è un modo per riconoscere la grandezza del compito cui è chiamata e insieme l’incapacità, o meglio la non-sufficienza, di colei che è chiamata a svolgere un tale compito. In questo modo, Luca dice anche il senso teologico della verginità di Maria: fin da principio ella è colei che ascolta, che medita su quanto ha ascoltato e tenta di comprendere quanto le è annunziato. Ella è colei che è aperta all’azione di Dio e la vuole solo comprendere. «La verginità è purezza di dedizione a Dio ed è soprattutto l’estrema impotenza umana, che lascia il posto all’azione di Dio».10
vv. 35-38a: Il secondo discorso dell’angelo presenta quattro spunti che si inseriscono nel modello di vocazione, sulla cui base Luca ha steso il suo racconto: a) l’azione dello Spirito (v.

35a); b) il nome (v. 35b); c) il segno (v. 36); d) il “sì” di Maria (v. 38a).

a) l’azione dello Spirito (v. 35a)
Dal punto di vista contenutistico, qui si precisa l’agire di Dio verso Maria, che è così abilitata a realizzare la sua missione di madre. Vediamo se dal vocabolario utilizzato è possibile dedurre qualche elemento in più per comprendere il modo dell’azione divina:
– πνεῦμα ἅγιον ἐπελεύσεται ἐπὶ σὲ «lo Spirito santo scenderà su di te» è un’espressione che nei LXX si trova in Nm 5,14 (il soggetto è πνεῦμα ζηλώσεως «spirito di gelosia»). In altri passi, il verbo ἐπέρχεσθαι è usato per cose materiali che «scendono» dall’alto verso il basso o per indicare la «presa» che hanno i sentimenti di una persona (ira, sdegno…). Volutamente sembra dunque essere un vocabolo generico che non vuole esprimere niente altro che la discesa dello Spirito in Maria;
– δύναμις ὑψίστου ἐπισκιάσει σοι «ti adombrerà la potenza dell’Altissimo». Il verbo ἐπισκιάζω richiama Es 40,35 e i contesti della «nuvola» nel santuario, corrispondente al verbo ebraico šākan (donde il tema teologico rabbinico della šekînâ «la presenza» di Dio). Da qui si potrebbe indurre la figura di Maria come «tabernacolo» e «arca dell’alleanza (cf Lc 1,39ss).
Mi sembra comunque importate sottolineare il soggetto di questo «adombramento», la δύναμις ὑψίστου «potenza dell’Altissimo». L’incarnazione dunque, secondo quest espressione, si compie in virtù di Dio stesso, ossia attraverso un processo inafferrabile dalla ragione umana. Il giudaismo dell’epoca usava questa perifrasi proprio per non pronunciare il nome di Dio, in quanto all’idea di Dio il Giudaismo dell’epoca legava strettamente l’idea di potenza e forza che può salvare l’uomo. E se il Giudaismo era riuscito a evitare l’ipostatizzazione della «Potenza», essa diviene realtà nel pensiero di Filone. Tale ipostatizzazione filoniana ha un addentellato nella letteratura sapienziale, in cui la Sapienza divina assume lo stesso ruolo della Potenza di Filone. Si rilegga al riguardo Sap 7,25-26. Luca non fa riferimento all’ipostatizzazione filoniana, ma il linguaggio dell’epoca ci aiuta a spiegare la figura del concepimento secondo Luca: egli vede in esso un prodigio speciale della Potenza divina, che gli dà pienamente diritto al nome di Figlio di Dio. È una δύναμις «potenza» che è comunicata a Maria e si trasmette a Gesù, una δύναμις «potenza» che consiste nello Spirito santo: δύναμις «potenza» e Spirito santo sono, infatti, intimamente connessi nel racconto lucano (cf ad es., At 10,38). Quanto è detto per il momento del concepimento e della nascita è in verità costantemente presente nella vita di Gesù. la δύναμις «potenza» dello Spirito è presente nei momenti-chiave della sua manifestazione in quanto «Figlio di Dio»: risalire a quei momenti significa capire anche la formazione di questo passo, in cui l’essere Figlio significa essere concepito senza alcun intervento maschile, che è esattamente la costante dell’attestazione del NT (cf Gv 1,13 nella lettura al singolare).

b) il nome (v. 35b)
Il v. 35 b ha non poche difficoltà testuali (cf apparato). Accettando l’interpretazione come una costruzione a duplice predicato, il nome sarebbe duplice: «perciò colui che nascerà sarà chiamato santo e figlio di Dio». L’agire di Dio in Maria fonda per il figlio l’essere santo e l’essere Figlio di Dio. È l’interpretazione della traduzione ufficiale CEI.
Se, invece, si sceglie di mantenere la costruzione originaria del greco, un po’ aspra a dire il vero, si avrebbe un solo predicato, in quanto il titolo di santo si riferisce al nascituro: «perciò il nascituro santo sarà chiamato figlio di Dio». Con questa lettura, l’unico nome del «nascituro santo» è quello di Figlio di Dio.

c) il segno (v. 36) Il rimando a quanto Dio ha già fatto in Elisabetta ha funzione di conferma dell’agire efficace di Dio: è la stessa funzione del segno che si ha anche negli altri racconti di vocazione (cf lo sdoppiamento del segno del vello per Gedeone in Gdc 6,36-40).
All’offerta del segno fa seguito una motivazione che di nuovo riporta il discorso a sottolineare la potenza di Dio, che è il fondamento di quanto accadrà. Il fatto che il verbo sia al futuro indica che il riferimento non è a quanto è già avvenuto in Elisabetta, ma a quanto avverrà in Maria. La sottolineatura del futuro in Luca deve essere preferita e sostenuta, soprattutto se si guarda a Gn 18,14 (LXX), la fonte di questa citazione. In Genesi, il testo recita: μὴ ἀδυνατεῖ παρὰ τῷ θεῷ ῥῆμα «poiché nessuna parola è impossibile per Dio».

d) il “sì” di Maria (v. 38a)
È la terza reazione di Maria, dopo il turbamento e la domanda. Ora ecco la risposta convinta, di piena adesione per il ῥῆμα detto dall’angelo. Nessun altro racconto di vocazione o di annuncio di nascita ha una risposta simile: è un tratto caratteristico di Maria e Luca l’ha voluto sottolineare.
Ἰδοὺ ἡ δούλη κυρίου «ecco la serva di JHWH»: è la ripresa della frase di Anna (1 Sam 1,18; cf infra), ma il sintagma ἡ δούλη κυρίου si trova solo qui in tutta la Scrittura (in ebraico non c’è nemmeno il femminile di ʿebed, e in questi casi usa altri vocaboli come ʾāmâ oppure šipḥâ). Questa auto-definizione di Maria mette in risalto che ella ha compreso di avere un ruolo da svolgere nel piano di Dio e così si sente «ministra di JHWH» in quanto sta accadendo.
γένοιτό μοι κατὰ τὸ ῥῆμά σου «mi avvenga secondo la tua parola»: non è soltanto un assenso formale di Maria all’agire di Dio, ma ancora una volta è il riconoscere il primato alla «tua parola», la Parola di JHWH che ora prende la carne umana in lei. Luca non aveva bisogno di particolari fonti per stendere questa risposta di Maria, né di particolari informazioni private. È una risposta coerente con quello che egli sapeva già dalla comune tradizione sinottica (cf Lc 8,19-21). In questa risposta, Maria riprende quella di Anna, la madre di Samuele, la quale all’assicurazione che avrebbe avuto un figlio nonostante la propria sterilità, rispose: «Possa la tua serva trovare grazia ai tuoi occhi (Εὗρεν ἡ δούλη σου χάριν ἐν ὀφθαλμοῖς σου: 1 Reg 1,18 LXX = timṣāʾ šipḥātekā ḥēn beʿênèkā: 1 Sam 1,18). Nell’episodio seguente, la visita alla parente Elisabetta (Lc 1,39-56), Maria reciterà il Magnificat, che trova il suo più stretto contatto proprio nel Cantico di Anna di 1 Sam 2,1-10.
v. 38b: L’inclusione della dipartita dell’angelo chiude il quadro narrativo della vocazione di Maria alla maternità.


PER LA NOSTRA VITA:
1. Stare nelle mani di Dio.
Con fiducia.
Tempio suo e casa…
Terra buona per nascere a lui.
Nulla è impossibile a Dio…
Nulla.
Nazaret,
una donna, l’annuncio
la Vita.
Dio aspetta un “sì”.
E si fa strada in uno spazio accogliente e umano.
Sta alle porte del cuore di una giovane.
Nulla è impossibile a Dio.
L’Onnipotenza viene ad abitare
nella fragilità umana
facendola Infinito.
F. CECCHETTO, Testi inediti.


2. Profondo è lo spazio creato dall’azione di qualcosa che non è predisposta a stare nello spazio e che lo crea affinché chi vive nello spazio e lo percorre possa entrare in contatto con esso. La profondità ha molte pretese ed è tanto misterioso perché è lo spazio che sentiamo crearsi, grazie all’azione di qualcosa che è sul punto di tradire il suo essere per offrirlo in una consegna suprema, come è ogni consegna di ciò che non si possiede originariamente e s’acquisisce per offrirlo a chi solo così può volgersi verso colui che lo chiama. La profondità è un appello amoroso.
M. ZAMBRANO, Verso un sapere dell’anima, Traduzione di E. NOBILI, Edizione italiana a cura di R. PREZZO (Minima 31), Raffaello Cortina Editore, Milano 1996, p. 51.



3. Accettare un vuoto in se stessi è cosa sovrannaturale. Dove trovar l’energia per una atto che non ha contropartita? L’energia deve venire da un altro luogo. E, tuttavia, ci vuole dapprima come uno strappo, qualcosa di disperato; bisogna anzitutto, che quel vuoto si produca. Vuoto: notte oscura. […]
La volontà di Dio. Come conoscerla? Se si fa silenzio in se stessi, se si fanno tacere tutti i desideri, tutte le opinioni; e si pensa con amore, con tutta l’anima e senza parole: “Sia fatta la tua volontà”, quel che allora si sente, senza incertezza, di dover fare (quand’anche, per certi riguardi, fosse un errore) è la volontà di Dio. Perché, se gli si chiede pane, egli non ci dà pietre”.
S. WEIL, L’ombra e la grazia, Introduzione di G. HOURDIN, Traduzione di F. FORTINI (Testi di Spiritualità), Rusconi Editore, Milano 1985, p. 58.




4. L’intuizione della chiamata è l’intuizione stessa di Dio come senso della mia vita. Essa è unità, percepita dallo spirito, di Dio e del soggetto, e di tutto in Dio. […]
È un evento improvviso, imprevisto, imprevedibile. Dio si manifesta, la trascendenza della sua chiamata si rivela in questo incontro che il soggetto non ha preparato né ricercato. Questa trascendenza si esprime anche attraverso il tema della debolezza divenuta forza. [Il soggetto …] si sperimenta impotente, indegno, inadatto. In tale situazione la sua prima reazione è spesso la protesta, il dubbio, la paura.
Ma Dio insiste, assicura la sua grazia, dilegua le apprensioni dell’eletto.
M. BELLET, Vocazione e libertà, Edizione italiana a cura di G. COMO - E. PAROLARI (Comunità Cristiana), Cittadella Editrice, Assisi 2008, pp. 32-35.




5. È sempre la beatitudine della fede, dunque, ad essere esaltata in Maria. In questo senso ella è la “figlia di Sion”: erede della fede di Abramo, capace di vivere autenticamente la fede.
Maria è credente: è sempre dalla parte di chi accoglie Dio, di chi crede e si fida e si affida a Dio. Quindi, pur avendo una singolarissima vocazione e una singolarissima missione, pur avendo un singolarissimo rapporto con il Salvatore che è Gesù Cristo, resta una credente. È, cioè, dalla nostra parte, non dalla parte di Dio. In questo senso ella richiama anche il cammino dell’Arca che porta la presenza di Dio (cfr 1 Cr 13-16), ma non è il Salvatore e la salvezza. (p. 26)
“Ecco la serva del Signore” significa allora questo: io sono disposta a servire il Signore incondizionatamente, rendendogli il culto della mia vita, vissuta secondo lui, secondo il suo progetto. Sono disposta a “conoscere” il Signore, facendo quello che lui vuole, vivendo quello che lui vuole. (p 52)
Nella risposta di Maria vi è dunque un invito, una prospettiva, un criterio di valore anche per noi, per la nostra vita.
Potremmo anche dire: l’uomo che dà la stessa risposta di Maria è l’uomo della carità, del servizio, della disponibilità.
È l’uomo che si pone in contestazione con se stesso e in se stesso: contesta cioè la logica del proprio diritto come l’unico criterio dell’agire. […]
È l’uomo che non rivendica l’assoluto dei propri diritti, ma del “servizio”: non perché sia male rivendicare il proprio diritto, ma perché la carità dice che si può anche “perdere” l’assoluto del “mio” diritto, della “mia” verità; e si può dire, non a parole, sono “servo”, ma del Signore.
È l’uomo che accoglie e assume la prospettiva di Dio per leggere la vita, la storia, gli avvenimenti. […] E si pone in contestazione con il mondo, con la logica di questo mondo (cf 1 Gv 2,15).
È l’uomo che accetta la salvezza come il mistero della libertà di Dio che si offre.
Anche se non è facile. Anche se potrà sorgere, inevitabile, la domanda: «come è possibile questo?». Come è possibile essere uomo di fede così?
È la domanda della Vergine Maria, che non riguarda soltanto la concezione verginale. Esprime una fede interrogata: quella che ogni credente vive nell’assumere i problemi, le ansie, gli interrogativi che lo toccano appunto come un uomo, e a cui deve una risposta. Ma nella fede: lasciando che Cristo sia l’interprete ultimo e definitivo dell’uomo e della storia.
G. MOIOLI, Il mistero di Maria (Contemplatio), Glossa, Milano 1990, pp. 26. 52. 53-54.


6. Annunciazione
(Le parole dell’Angelo)
Tu non sei più vicina a Dio di noi;
siamo lontani tutti. Ma tu hai stupende
benedette le mani.
Nascono chiare a te dal manto,
luminoso contorno:
Io sono la rugiada, il giorno,
ma tu, tu sei la pianta.
Sono stanco ora, la strada è lunga,
perdonami, ho scordato
quello che il Grande alto sul sole
e sul trono gemmato,
manda a te, meditante
(mi ha vinto la vertigine).


Vedi: io sono l’origine,
ma tu, tu sei la pianta.
Ho steso ora le ali, sono
nella casa modesta immenso;
quasi manca lo spazio
alla mia grande veste.
Pur non mai fosti tanto sola,
vedi: appena mi senti;
nel bosco io sono un mite vento,
ma tu, tu sei la pianta.
Gli angeli tutti sono presi
da un nuovo turbamento:
certo non fu mai così intenso
e vago il desiderio.
Forse qualcosa ora s’annunzia
che in sogno tu comprendi.
Salute a te, l’anima vede:
ora sei pronta e attendi.
Tu sei la grande, eccelsa porta,
verranno ad aprirti presto.
Tu che il mio canto intendi sola:
in te si perde la mia parola
come nella foresta.
Sono venuto a compiere
la visione santa.
Dio mi guarda, mi abbacina...
Ma tu, tu sei la pianta.
R.M. RILKE, Poesie, Tradotte da G. PINTOR, Prefazione di F. FORTINI, Einaudi, Torino 1942, 71958, pp. 16-17.

7. Terra d’avvento, Vergine Maria,
grembo Tu sei del grembo d’ogni cosa
donna, che tutto ricevi e tutto dai,
Madre, in cui inizia l’alba della Gloria.
Tu sei Colei in cui la nostra storia
allora, come oggi, a Dio si apre,
e da Lui accoglie in umiltà il dono.
In Te dimora la tenerezza del Dio
tre volte Santo, in Te ci è dato il segno
della speranza più forte della morte,
in Te il riflesso dolce dell’amore,
cui solo ognuno può affidare il cuore.
B. FORTE, “Di te ricordo quando...”, Edizioni Piemme, Casale Monferrato AL 1995, p. 49.

8. Luca 1,31
Questo nome, Gesù, qui pronunciato per la prima volta e strettamente legato alla Promessa, chiarisce il senso di tutto ciò che precede.
Finora si trattava dell’intervento di Dio, del messaggio della grazia divina, dello spavento davanti a Dio e all’angelo consolatore. Tutto ciò potrebbe essere descritto come esperienza religiosa, pietà cristiana, a rigore null’altro che parole. Invece sono indicatori che designano un punto preciso, essi hanno senso solo se noi guardiamo questo punto.
Alla fine dell’Avvento, essi vogliono dire che tutto ciò che precede non avrebbe senso se non vi fossero le parole ‘gli metterai nome Gesù’. Teologicamente, anche per il semplice credente, si può affermare che tutto il contenuto della Bibbia come pure tutto ciò che noi poi chiamiamo Chiesa cristiana e predicazione cristiana dipende dal nome di Gesù. […] È per questo Gesù che la Sacra Scrittura si distingue da tutti i libri seri, pii, i libri ‘buoni’; è per lui che ciò che la Sacra Scrittura nomina come rivelazione si distingue da tutto quanto si possa dire delle altre grandezze, dèi e uomini. […]
La testimonianza del Nuovo Testamento è l’impresa temeraria, assolutamente inaudita, di dire tutto ciò che si dice di Dio e delle cose divine non in generale, sotto forma di istruzione o di mito, ma di dirlo nella prospettiva di questo unico fatto: Gesù Cristo. Il nome non è fortuito. Gesù significa ‘il Salvatore’, ‘il Liberatore’ per cui l’uomo che è perduto non può salvarsi da solo e ha bisogno di un Salvatore, cioè di colui cui sarà ‘messo il nome Gesù’.K. BARTH, Advent, Labor et Fides, Genève 1948, pp. 42-44.  





II. SOLENNITÀ DEL NATALE DEL SIGNORE (Messa nel giorno)

Natale vuol dire che Dio si è fatto dono di se stesso a noi. Natale è dunque dono. Ma è dono tutto speciale e del tutto unico. Dio donandosi si è fatto uomo, ha preso la forma umana per essere tra noi, è divenuto uomo come noi – eccetto però la disponibi-lità al peccato – con un cuore umano, una vita umana.
Questo vuol dire esattamente l’incarnazione, cioè divenire «carne», nel senso di di-venire uomo. L’incarnazione non è soltanto il fatto che Dio viene tra noi come uno di noi, ma il significato profondo e preciso della sua venuta come dono. È una venuta di amico, di fratello, di uno che viene ad aiutarci, a consolarci, a volerci bene.
È Dio divenuto compagno di vita.
La grande e inesorabile consegna del Natale così inteso, del dono – Dio fattosi uo-mo per noi – è questa: se Dio, essere necessario, immenso, infinito, eterno, onnipoten-te, si è fatto uomo per esserci vicino come amico e fratello, ogni uomo dovrebbe imi-tarlo, cioè dovrebbe essere come il Cristo un amico, un fratello, un compagno di viag-gio di vita per il prossimo, per ogni altro uomo.
Ci venga in mente ora il racconto dei due discepoli di Emmaus, che dopo la risurre-zione di Gesù erano in viaggio e discorrevano molto tristi e totalmente scoraggiati della morte di Gesù. Per loro la vita non aveva quasi più senso. Allora Gesù come un qual-siasi viandante si congiunge a loro, e facendo strada con loro, li consola spiegando il senso ed il significato della sua vita, e finalmente entrando in casa, cena con loro.
Ed essi lo riconoscevano nel suo gesto amorevole di rompere e porgergli il pane. Poi Gesù sparisce per mostrarsi agli altri e consolarli. I due discepoli raggianti di gioia e di gratitudine ritornano malgrado l’ora notturna ai fratelli, annunciando loro che avevano incontrato il Signore e con lui la pace e la serenità.
Erano felici.
Questo racconto che è un fatto successo dopo la morte e la risurrezione di Gesù, si-tuato dunque all’estremità opposta del Natale, è tuttavia strettamente connesso con il Natale a causa del suo profondo significato.
Esprime infatti cosa Dio vuole dirci con il suo Natale.
Natale, dice la Liturgia, è l’Emmanuele, cioè il «Dio con noi», il «Dio con l’uomo». Tradotto nella vita vuol dire: ogni uomo deve essere mio amico e fratello. E se l’uomo non capisce ancora il linguaggio muto del bambino nel presepio, almeno dovrebbe ca-pire questo bambino divenuto uomo adulto: crocifisso, morto ma anzitutto risorto.
Gesù ha detto: ciò che avete fatto ad uno dei più umili dei miei fratelli l’avete fatto a me. Natale deve essere inteso in questo senso.
Siamo vicini a Dio esattamente nella misura in cui siamo vicini al nostro prossimo, e saremo tanto più vicini a Dio quanto più saremo vicini al più povero dei nostri fratelli.

È povero, anche il più povero di tutti, colui che ha bisogno di comprensione, di un sor-riso, di una mano forte e amica per poter sostenere e continuare a vivere.
Di Gesù nato è detto nella Scrittura: «Venne tra i suoi e i suoi non lo accolsero».
Dio è amore esigente perché domanda tutto per tutti: è un amico difficile per l’uomo. Perciò la venuta di Dio in questo mondo egoistico fu un incontro ingombrante e per conseguenza il mondo in cui venne pure come amico e fratello l’ha rifiutato.
Non c’era posto per lui e i suoi non lo ricevettero. E noi?
Il celebre libro dell’Imitazione di Cristo ci ammonisce: Stai attento che Gesù non ti sfugga passandoti accanto senza che te ne accorga. Infatti, a causa del nostro egoismo esiste sempre il pericolo che noi ci lasciamo scappare l’occasione di accogliere Gesù, che gli rifiutiamo l’ospitalità. E rifiutiamo di accoglierlo ogni volta che rifiutiamo il no-stro affetto, la nostra comprensione, il nostro aiuto al prossimo. Lo rifiutiamo anzitutto quanto ignoriamo i più umili, i più poveri, i più bisognosi di amore.
Oggi Dio è nato a noi, e noi vogliamo rinascere a Dio rinascendo sempre di più ai fratelli. Questo sarà il nostro dono natalizio a Dio e al nostro prossimo.
T. GEIJER (monaco certosino), Testi inediti (1976).  
Vangelo della messa del giorno
1 In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutto il mondo. 2 Questo censimento fu fatto prima che Quirinio fosse governatore della Siria. 3 E tutti andavano per essere cen-siti, ciascuno nella propria città. 4 Anche Giuseppe dalla Galilea, dalla città di Nazaret, salì in Giudea, alla città di Davide chiamata Betlemme, poiché era del casati e della famiglia di Davide. 5 Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. 6 Ora avvenne che mentre si trovavano là, si compirono per lei i giorni del parto. 7 Ed ella partorì il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, poiché per loro non trovarono posto nel piano di sopra.
8 Nella medesima contrada vi erano alcuni pastori che pernottavano all’aperto e tutta la notte facevano la guardia al loro gregge. 9 Ed ecco un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore risplen-dette loro intorno; ed essi temettero di grande timore. 10 Ma l’angelo disse loro:
– Non temete! Ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: 11 è nato per voi oggi un Salvatore, che è Cristo Signore, nella città di Davide. 12 Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia.
13 E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva:
14 Gloria a Dio nei luoghi altissimi
e sulla terra pace tra gli uomini oggetto della sua benevolenza.
Il passo si articola in due momenti:
a) i vv. 1-7 descrivono le circostanze della nascita di Gesù e il motivo per cui, nono-stante Giuseppe fosse di Nazaret in Galilea, Gesù sia nato a Betlemme in Giudea;
b) i vv. 8-14 sono invece la manifestazione del bimbo che il messaggero divino annun-zia ai pastori, i quali poi andranno a rendere omaggio a quel bambino «avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia» (cf vv. 15-20).
vv. 1-7: Il contrasto tra la storia ufficiale dell’impero e quanto avviene nelle piccole contrade di Nazaret e di Betlemme non intacca l’acribia storica di Luca e le sue meticolose ricerche (cf Lc 1,1-4). Per Luca, l’associazione della nascita di Gesù alla figura di Augusto diventa la sottolineatura che è Gesù a portare la vera pace, è Lui il vero salvatore del mondo. La nascita di Gesù a Betlemme da una parte porta con sé un’atmosfera tipicamente giudaica, ma – nel contesto dell’impero romano – assume una valenza mondiale, anzi universale: «Gloria a Dio nei luoghi altissimi e sulla terra pace tra gli uomini oggetto della sua benevolenza» (v. 14).
Nei vv. 6-7 è raccontata propriamente la nascita (cf Lc 1,57-18 per la nascita di Giovanni). Il resto della descrizione assume subito valore simbolico, traguardato attraverso allusioni scritturistiche e anticipazioni della vita reale di colui che sarebbe poi stato crocifisso: così si allude a quanto lo pseudo-Salomone dice di sé in Sap 7,4-5 («Fui al-levato in fasce e circondato di cure; nessun re ebbe un inizio di vita diverso »), o a quanto Isaia dice in 1,3: «Un bue conosce il suo padrone e un asino la greppia del suo signore; ma Israele non mi conosce e il mio popolo non comprende» (ἔγνω βοῦς τὸν κτησάμενον καὶ ὄνος τὴν φάτνην τοῦ κυρίου αὐτοῦ· Ισραηλ δέ με οὐκ ἔγνω, καὶ ὁ λαός με οὐ συνῆκεν). A questo riguardo, si ricordi che la mangiatoia (ἡ φάτνη) con la pre-senza dell’asino e del bue nasce proprio dalla lettura di questo versetto di Isaia. Essa era già presente nelle decorazioni dei sarcofagi cristiani (cf Sarcofago di Stilicone, Basili-ca di S. Ambrogio, IV secolo) e aveva un’intonazione antigiudaica: Israele ancora una volta non ha saputo riconoscere e comprendere. Il riferimento al piano di sopra della casa, dove usualmente stavano le persone ad abitare e a dormire, richiama il testo di Ger 14,8, che parla di JHWH «speranza di Israele» e «Salvotore in tempo di calamità: «perché vuoi essere come un forestiero nella terra e come un viandante che sale in al-loggio (κατάλυμα) solo una notte?» (LXX).
Maria avvolge in fasce il bambino appena nato e lo depone in un mangiatoia (v. 7): si veda qui sotto il senso prolettico di questi gesti, ripresi nel segno offerto ai pastori.

vv. 8-14: La manifestazione del bambino comprende il messaggio angelico (vv. 8-12) e il canto degli angeli (vv. 13-14). Perché una manifestazione ai pastori? Il vocabolo «pa-store» indica spesso nelle lingue dell’antico Vicino Oriente la valenza di «capo politico» (cf 2 Sam 5,2) o di «capo militare». Ma evidentemente non riguarda il presente raccon-to lucano. Piuttosto, si possono ricordare le nascite di molti personaggi famosi antichi circondati da pastori (ad esempio, Ciro, Romolo e Remo, Mitra). Ma anche a questo proposito il collegamento sarebbe troppo generico, come generico sarebbe il riferimen-to ai pastori in quanto i custodi della stalla e della mangiatoia di cui parla Luca (così J. Jeremias).
Alcuni commentatori fanno riferimento a Migdal Eder «la torre del gregge» (Gn 35,21 e Mic 4,8) e alla tradizione targumica, secondo cui «il Re Messia sarebbe stato rivelato alla fine dei giorni dalla Torre del gregge» (Targum dello Ps.Jonatan a Gn 35,21). Anche questo collegamento sembra impossibile per diverse ragioni di inopportunità.
I pastori sono quasi certamente introdotti da Luca nella sua narrazione proprio per l’ambientazione betlemita della nascita: si ricordi Davide pastore, che è fuori a pasco-lare il gregge di Iesse, suo padre (1 Sam 16,11; cf anche 1 Sam 17,14-15. 20. 28. 34). Inoltre, si ricordi anche il testo di Mic 5,1 che parla di Betlemme come il luogo più insiginificante di Giuda, da cui sarebbe però uscito un mōšēl «dominatore» per governare su Israele (testo citato in Mt 2,6). Tuttavia, Luca non cita mai questo testo. Si do-vrebbe allora pensare ad un’allusione indiretta per indicare il luogo di estrema povertà, e forse anche di emarginazione, rappresentato non solo dalla piccola Betlemme, ma anche e soprattutto dall’ambiente dei pastori, invisi al mondo cittadino per le loro condizioni. Non è necessario pensare ad altre caratterizzazioni (peccatori, impuri, ladri…). La loro presenza è un altro elemento tipico di Lc 1-2, con la scelta di una uma-nità povera ed emarginata (cf Lc 1,38 e 52).
L’annuncio sta propriamente nei vv. 9-12, con gli elementi tipici di un annunzio di nascita: a) l’apparizione dell’angelo del Signore (v. 9a); b) il timore da parte dei pastori (v. 9b); c) il messaggio celeste, sotto forma di oracolo di salvezza («Non temete!»); d) il segno di assicurazione offerto (v. 12). Manca soltanto l’obiezione dell’interlocutore.
Il messaggio angelico è esattamente l’anti-editto imperiale: è il progetto provviden-ziale di Dio ad aver donato al mondo un bambino che diventerà per la storia umana il Salvatore, il Messia e il Signore (tre titoli del kerygma pasquale, anticipato al momento della nascita). Nella cornice della Pax Augusta e nel quadro della Città di Davide, i pa-stori sono invitati a riconoscere in lui la fonte della vera gioia, che sarà di tutto il popo-o.
Non solo i titoli cristologici, ma anche il segno offerto anticipa il momento della croce: «troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». Si noti che l’evangelista Luca allude all’azione di Giuseppe di Arimatea che «avvolge in un lenzuo-lo» (Lc 23,53: ἐνετύλιξεν αὐτὸ σινδόνι) il corpo ormai esanime di Gesù morto in croce. Anche l’azione di Maria che «adagia [il bambino] in una mangiatoia» (ἀνέκλινεν αὐτὸν ἐν φάτνῃ) è un anticipo dell’azione di Giuseppe di Arimatea che «adagia il corpo di Gesù in un sepolcro (ἔθηκεν αὐτὸν ἐν μνήματι λαξευτῷ), scavato nella roccia, nel qua-le nessuno era stato ancora sepolto» (Lc 23,53b). È un’iconografia molto frequente nel-la tradizione orientale, presente anche nella tradizione occidentale, almeno sino a Giot-to: raffigurare il bambino Gesù deposto in una mangiatoia che è in verità un sepolcro. Quel segno è dunque un anticipo di quanto avverrà al momento della croce.
Infine, nei vv. 13-14, il coro angelico invita il lettore a unirsi nel canto della Gloria di Dio, perché davvero la nascita di questo bambino significa una manifestazione di sal-vezza per il suo popolo della risposta. Questa è la fonte della vera gioia per tutto il po-polo: sapere che è ormai compiuta l’εὐδοκία «il disegno favorevole» di Dio per l’intera umanità, passando attraverso la chiamata di Abramo e di Israele.


PER LA NOSTRA VITA

1. È una vera gioia, perché viene da Cristo, il Signore. È la confessione di fede. Da lui può veramente venire la vera gioia. “Oggi è nato a noi il Cristo Signore”. Trattan-dosi del Signore che è Dio, “oggi è nato” potrebbe suonare in chiave solamente meta-forica, potrebbe sembrare “oggi è apparso”, alla pari delle manifestazioni del Primo Testamento. Il testo evangelico non è di questo avviso, ma ci dà il segno che è una na-scita da prendere in tutto il suo senso reale, storico: “Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia” (Lc 2,12). E poco prima il testo aveva specificato il compimento dei giorni del parto della Vergine: “E avvenne che…”.
Il segno: un bambino, che è il Salvatore e Signore, adagiato oltre tutto in una man-giatoia! Tale è, cari fratelli, la strada perenne, adatta alle nostre categorie, con cui Dio interviene per operare la salvezza, il suo amore tra gli uomini. Come pure fa san Paolo proclamando la croce “scandalo” per i giudei, cioè per ogni dimensione religiosa, e “follia” per le filosofie umane mentre invece questo non lo è mai per chi è povero e si apre all’amore. La strada perenne diventa la Sapienza somma di Dio: così è del bam-bino posto nella mangiatoia, segno di salvezza, che sarà poi di colui che regnerà dalla croce. Coincidenza misteriosa tra mangiatoia e croce!
Questa Sapienza è la messa in discussione delle sicurezze dell’uomo, di qualunque tipo esse siano, perché non possono mai dare la salvezza vera, la liberazione. […]
Qual è mai infatti il significato profondo del segno di Dio che si fa uomo, accettan-do le leggi della nascita e del cammino dell’uomo: “Troverete un bambino avvolto in fasce”? Dio si coinvolge nella storia umana attraverso una economia meravigliosa dell’Amore. Dinanzi a Dio che si fa bambino siamo provocati a riscoprire che è lui, Dio, a operare e solo lui a darsi con una legge che è lui stesso, fuori da qualsiasi para-digma delle istituzioni umane. […]
La vita dell’uomo esigeva questa visita-abitazione permanente di Dio per poter esse-re salva dal peccato, il che significa poter entrare in comunione con Dio e scorgere nell’uomo il fratello. Se Dio abita nell’uomo, è nell’uomo che bisognerà ormai trovarlo. […]
Comprendiamo, cari fratelli, che la nascita di Cristo nella grotta, come la morte sul-la croce, ci svelano il mistero della povertà e dell’abbassamento di Dio per noi, mistero di disponibilità di Dio per noi, come Paolo che lo descrive nell’inno di Fil 2,7-9: «Spo-gliò se stesso, assumendo la condizione di servo divenendo simile agli uomini: apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce».
B. CALATI, Conoscere il cuore di Dio. Omelie per l’anno liturgico, Introduzione di P. STEFANI (Quaderni di Camaldoli 11), EDB, Bologna 2001, pp. 27-29.

2. Ciò che si annuncia è la vita felice: il risveglio, la premura, la partecipazione – e per tutti – abbandonare la via della tristezza e della crudeltà, passare sul sentiero della gioia e della grazia. È il dolce splendore dell’amore, la pace, la riconciliazione, la fine della colpa, l’armonia delle potenze – la genesi ritrovata!
Niente di debole o di molle, come lo immaginano i violenti, nella loro fondamentale debolezza. Al contrario, la forza più grande, l’inaudito. (p. 31)
Quale parola parla nel silenzio? Quale visione sorge dall’abisso? Il luogo non è qui o là; il luogo è l’unico, che testimonia l’altrove. Ecco la nostra prima dimora. Essa coin-cide assolutamente con la tenerezza reciproca, che si dà in noi. […]Sì, agape, la divina tenerezza è l’esperienza stessa, nelle nostre vite, di ciò che è co-me l’esplosione del mondo, o la nascita in esso, germinazione inafferrabile, di ciò che oltrepassa il campo padroneggiabile dei possibili. (p. 41)
M. BELLET, Incipit o dell'inizio, Traduzione di G. FORZANI, Prefazione all’edizione italiana di A. ROSSI (QdR 54), Servitium Editrice, Gorle BG 1997, pp. 31 e 41.

3. Questo Natale non è stato come gli altri. È ancora carico di significato. Come Maria, conserviamo tutte le cose che ci sono successe. Proseguiamo quella meditazio-ne che lei iniziò nel suo cuore. Il significato, come una spada, ci trafigge. Il Verbo prende questa comunità di carne e di sangue per narrarsi qui, oggi. (p 110) […]
Tutto è pasquale nella vita del Figlio. Dobbiamo avere una visione ampia del miste-ro pasquale. Morte e risurrezione fanno parte del mistero dell’incarnazione che consi-ste a prendere l’umanità per introdurla nella gloria di Dio. Dobbiamo trovare nel mi-stero dell’incarnazione le vere ragioni della nostra presenza. Nella Pasqua di Cristo, la redenzione è il motivo, ma l’incarnazione è il modo. Dopo la prima visita di un gruppo armato in monastero, il Natale del 1993, abbiamo celebrato la messa di mezzanotte. Dovevamo accogliere questo bambino indifeso e già minacciato. Attraverso questi eventi ci siamo sentiti invitati a “nascere”. La vita di un uomo passa di nascita in nasci-ta. Giovanni, l’evangelista dell’incarnazione – «e il Verbo si è fatto carne» –, era l’unico discepolo presente ai piedi della croce. Ci presenta l’intera vita di Cristo come un mi-stero di incarnazione. Nella nostra vita c’è sempre un bambino da mettere al mondo: il figlio di Dio che noi siamo. “Bisogna rinascere”, ha detto a Nicodemo.
Questa nascita ci è proposta nella chiesa. La chiesa è il proseguimento dell’incarna-zione. Essa non ha che noi, qui, per continuare l’incarnazione. Nel bene e nel male. […]
Dobbiamo essere testimoni dell’Emmanuele, cioè del “Dio-con”. C’è una presenza del “Dio tra gli uomini” che proprio noi dobbiamo assumere.
FRÈRE CHRISTIAN DE CHERGE E GLI ALTRI MONACI DI TIBHIRINE, Piu forti dell’odio, Introduzione e traduzione con raccolta di ulteriori testi di G. DOTTI, Prefazione di E. BIANCHI (Sequela Oggi), Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose - Magnano BI 2010, pp. 110 e 175-177.


4. Non sono le luci della festa, e il calore intimo che vi si avvolge, la pietra dello scandalo.
È il vuoto di realtà che vi si installa, il nostro problema.
Natale è un punto di tangenza con il mistero della nostra origine e della nostra de-stinazione. Dio non è mai stato così vicino agli esseri umani, come in quel giorno. Quando non vediamo più, quando non siamo più toccati – e persino feriti – dai segni di quella presenza, possiamo allungare le prediche e accendere i fari quando vogliamo. L’occasione è persa.
Se invece batte il cuore, per la nostalgia della presenza bambina di Dio, allora tutto può accadere.
Trafitto mille volte, questo Natale. Dagli aguzzi profili delle nostre insensibili città di pietra, dove si tollerano luci solo per gli ultimi nati di mammona. Dalle terribili om-bre di un risentimento disperato e distruttivo, che viene da oscuri fraintendimenti del Sacro. Eppure, mai così vicino al nostro impotente senso di struggimento per il vuoto che lascerebbe se fosse spento. Guardate i vostri figli. Cercate il respiro della carne del Figlio.
P.A. SEQUERI, Editoriale: La luce sul vuoto, «Avvenire», 6 gennaio 2011.

5. NATALE
È Natale, Signore.
O è già subito Pasqua?
Il legno del presepio è duro,
come il legno della croce.
Il freddo ti punge quasi corona di spine.
L’odio dei potenti ti spia e ti teme.
Fuga affannosa nella notte.
Sangue innocente di coetanei,
presagio del tuo sangue.
Lamento di madri desolate,
eco del pianto di tua Madre.
Quanti segni di morte, Signore,
in questa tua nascita.
Comincia così il tuo cammino tra noi,
la tua ostinata decisione
di essere Dio, non di sembrarlo.
Le pietre non diverranno pane.
Non ti lancerai dalla dorata cima del tempio.
Non conquisterai i regni dell’uomo.
Costruirai la tua vita di ogni giorno
raccogliendo con cura meticolosa,
con paziente amore,
tutto quello che noi scartiamo:
gli stracci della nostra povertà,
le piaghe del nostro dolore,
i pesi che non sappiamo portare;
le infamie che non vogliamo riconoscere.
Grazie, Signore, per questa ostinazione,
per questo sparire,
per questo ritrarti,
che schiude un libero spazio
per la mia libera decisione di amarti.
Dio che ti nascondi,
Dio che non sembri Dio,
Dio degli stracci e delle piaghe,
Dio dei pesi e delle infamie,
io ti amo.
Non so come dirtelo,
ho paura di dirtelo,
perché talvolta mi spavento
e ritiro la parola;
eppure sento che devo dirtelo:
io ti amo.
In questa possibilità di amarti,
che la tua povertà mi schiude,
divento veramente uomo.
Amo gli stracci, le piaghe, i pesi
di ogni fratello.
Piango le infamie di tutto il mondo.
Scopro di essere uomo,
non di sembrarlo.
Il tuo Natale è il mio natale.
Nella gioia di questo nascere,
nello stupore di poterti amare,
nel dono immenso di vivere insieme,
io accetto, io voglio, io chiedo
che anche per me, Signore,
sia subito Pasqua.
 Preghiera di mons. Luigi Serenthà (1938-1986).

6. I Pastori non stavano al tempio.
Erano ai loro greggi, a guardia, vegliavano.
E pronti anche per il cammino, già fuori.
Incontrati dalla luce, avvolti dalla gloria. Loro.
Erano svegli, a veglia del gregge.
La gloria, la luce:
Incontrati nella notte dalla luce,
il pascolo e la gloria del Signore.
Un angelo a rassicurarli:
un annunzio di gioia grande.
È nato il Salvatore, che è Cristo, Signore.
Un segno: vicino più alla loro condizione che alla gloria del Signore annunciata…
Dove la gioia grande?
In un bambino avvolto in fasce, in una mangiatoia.
Attesero tutto l’annuncio, ascoltarono tutto l’annuncio.
Solo dopo fra loro parlavano gli uni gli altri.
Attraversiamo, camminiamo fino a Betlemme e vediamo la Parola accaduta.
Vennero, si affrettarono, trovarono e fecero conoscere …
Attraversarono la notte, sapendo camminare, senza perdere la direzione.
Quale grande fiducia a quell’annuncio per affrettarsi così:
il loro passo, il loro cercare, e la certezza di ciò che avevano visto accaduto.
La fede di chi ha incontrato la salvezza!
Lo spavento non li aveva fermati.
Chi cammina al buio impara a godere della luce,
della voce, dell’annuncio anche solo prefigurato.
Chi cammina non può che giungere là dove si nasconde Dio,
in un così grande annuncio, abissalmente confuso nella invisibilità,
nell’oscurità di quella notte di Betlemme.
F. CECCHETTO, Testi inediti.