OTTAVA DOMENICA DOPO PENTECOSTE 22.07.2012
Cari amici,
con l'invio odierno si conclude per il momento il servizio di commento al Vangelo domenicale, riprenderemo la seconda domenica di Settembre.
Chi desidera può collegarsi al sito www.qumran2.net dove trova innumerevoli commenti alle letture sia di rito romano sia di rito ambrosiano.
buone vacanze a tutti
don Michele
LETTURA
Lettura del libro dei Giudici 2, 6-17
Lettura del libro dei Giudici 2, 6-17
In quei giorni. Quando Giosuè ebbe congedato il popolo, gli Israeliti se ne andarono, ciascuno nella sua eredità, a prendere in possesso la terra. Il popolo servì il Signore durante tutta la vita di Giosuè e degli anziani che sopravvissero a Giosuè e che avevano visto tutte le grandi opere che il Signore aveva fatto in favore d’Israele. Poi Giosuè, figlio di Nun, servo del Signore, morì a centodieci anni e fu sepolto nel territorio della sua eredità, a Timnat-Cheres, sulle montagne di Èfraim, a settentrione del monte Gaas. Anche tutta quella generazione fu riunita ai suoi padri; dopo di essa ne sorse un’altra, che non aveva conosciuto il Signore, né l’opera che aveva compiuto in favore d’Israele. Gli Israeliti fecero ciò che è male agli occhi del Signore e servirono i Baal; abbandonarono il Signore, Dio dei loro padri, che li aveva fatti uscire dalla terra d’Egitto, e seguirono altri dèi tra quelli dei popoli circostanti: si prostrarono davanti a loro e provocarono il Signore, abbandonarono il Signore e servirono Baal e le Astarti. Allora si accese l’ira del Signore contro Israele e li mise in mano a predatori che li depredarono; li vendette ai nemici che stavano loro intorno, ed essi non potevano più tener testa ai nemici. In tutte le loro spedizioni la mano del Signore era per il male, contro di loro, come il Signore aveva detto, come il Signore aveva loro giurato: furono ridotti all’estremo. Allora il Signore fece sorgere dei giudici, che li salvavano dalle mani di quelli che li depredavano. Ma neppure ai loro giudici davano ascolto, anzi si prostituivano ad altri dèi e si prostravano davanti a loro. Abbandonarono ben presto la via seguita dai loro padri, i quali avevano obbedito ai comandi del Signore: essi non fecero così.
SALMO
Sal 105 (106)
® Ricòrdati,
Signore, del tuo popolo e perdona.
I figli
d’Israele si mescolarono con le genti
e impararono ad agire come loro.
Servirono i loro idoli
e questi furono per loro un tranello. ®
e impararono ad agire come loro.
Servirono i loro idoli
e questi furono per loro un tranello. ®
Si
contaminarono con le loro opere,
si prostituirono con le loro azioni.
L’ira del Signore si accese contro il suo popolo
ed egli ebbe in orrore la sua eredità. ®
si prostituirono con le loro azioni.
L’ira del Signore si accese contro il suo popolo
ed egli ebbe in orrore la sua eredità. ®
Molte volte
li aveva liberati,
eppure si ostinarono nei loro progetti
e furono abbattuti per le loro colpe;
ma egli vide la loro angustia,
quando udì il loro grido. ®
eppure si ostinarono nei loro progetti
e furono abbattuti per le loro colpe;
ma egli vide la loro angustia,
quando udì il loro grido. ®
EPISTOLA
Prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicesi 2, 1-2. 4-12
Voi stessi, fratelli, sapete bene che la nostra venuta in mezzo a voi non è stata inutile. Ma, dopo avere sofferto e subìto oltraggi a Filippi, come sapete, abbiamo trovato nel nostro Dio il coraggio di annunciarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte.
Come Dio ci ha trovato degni di affidarci il Vangelo così noi lo annunciamo, non cercando di piacere agli uomini, ma a Dio, che prova i nostri cuori. Mai infatti abbiamo usato parole di adulazione, come sapete, né abbiamo avuto intenzioni di cupidigia: Dio ne è testimone. E neppure abbiamo cercato la gloria umana, né da voi né da altri, pur potendo far valere la nostra autorità di apostoli di Cristo. Invece siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli. Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari.
Voi ricordate infatti, fratelli, il nostro duro lavoro e la nostra fatica: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi, vi abbiamo annunciato il vangelo di Dio. Voi siete testimoni, e lo è anche Dio, che il nostro comportamento verso di voi, che credete, è stato santo, giusto e irreprensibile. Sapete pure che, come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi, vi abbiamo incoraggiato e scongiurato di comportarvi in maniera degna di Dio, che vi chiama al suo regno e alla sua gloria.
VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Marco 10, 35-45
Lettura del Vangelo secondo Marco 10, 35-45
In quel tempo. Si avvicinarono al Signore Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
Commento
Assimilazione
e identità sono due tendenze che si oppongono in ogni società e, al loro
in-terno, in ogni gruppo amalgamato con radici culturali o etniche comuni,
specialmente religiose. Solitamente soggetti all’assimilazione sono i membri di
gruppi etnici immigrati in paesi diversi da quelli di origine oppure gruppi
minoritari che sono assorbiti all’interno di una comunità più prettamente
istituzionalizzata. Ciò comporta la perdita di molte caratteri-stiche culturali
e religiose che permettono di “identificare” il gruppo.
Di
contro vi sono gruppi che, nonostante le molte aggressioni dell’ambiente
circostante, mantengono e rafforzano la loro identità, facendo diga con tutte
le forze contro l’attrazione della cultura dominante e rimanendo fermamente
attaccati ai propri riferimenti culturali e religiosi. Non è soltanto il caso
dei ḥăsîdîm delle comunità ebraiche aškenazite dell’Europa centrale e
neppure quello dei simpatici e letteralmente “stravaganti” amish,
comunità religiosa nata in Svizzera nel XVI secolo e sviluppatasi poi negli
States nel XVIII secolo. Tale identità, specialmente se religiosa, si forma
sulle due direttrici di identificazione (valoriz-zazione delle memorie
del passato proprio e del gruppo di appartenenza) e di individuazione (distinzione
dall’altro e dagli altri gruppi).
Nessuna
società, è vero, può vivere in modo esclusivo una sola delle due tendenze
(nemmeno gli amish!). Ogni gruppo vive in una continua tensione di
assimilazione e d’identità, in quanto il problema non è l’opzione per l’una o
l’altra tendeza, bensì il ruolo assunto dall’altro – e dal diverso –
nella relazione che costruisce il patto simbolico di una società. Il
sociologo e filosofo Zygmunt Bauman, di origini ebraiche, ha sintetizzato con
questo aforisma il problema:
Loro
sono
sempre troppi. “Loro” sono quelli che dovrebbero essere di meno o, meglio
ancora, non esserci proprio. Invece noi non siamo mai abbastanza. Di “noi”
dovrebbero essercene di più ( Z. BAUMAN, Vite di scarto, Traduzione di
M. ASTROLOGO (I Robinson / Letture), GLF Editori Laterza, Roma – Bari 2005, p.
45).
Il
problema vero è l’accoglienza dell’altro e la relazione con lui, accoglienza e
relazione che il vangelo chiede di trasformare in ἀγάπη «amore». La
declinazione di “assimilazione” e “identità” è infatti il modo di vivere
evangelicamente il rapporto di autentica accoglienza e donazione all’altro:
l’“assimilazione” deve trasformarsi in inculturazione e l’“identità” in testimonianza.
Solo in questo modo i due parametri apparentemente opposti possono diventare dialogo
con l’altro e trasformare i due dialoganti in una possibilità di servizio
reciproco e di edificazione vicendevole. Sì, certamente, ha ragione
Joseph H.H. Weiler (Giurista del Sud-Africa (1951-) e membro dell’Accademia
Americana di Belle Arti e Scienze) di domandarsi quale dialogo ci possa mai
essere se i soggetti annacquano le loro differenze. Ma – mi domando io – quale
dialogo ci potrà mai essere se i soggetti non metteranno in comune le proprie
memorie e non cercheranno di ricostruire insieme il proprio futuro?
Il
Vangelo
La
pericope liturgica proposta propone quindi di leggere insieme il paragrafo di
Mc 10,35-41 e 10,42-45. La prima pericope è inclusa dalla ripetizione dei nomi
di Giacomo e Giovanni (vv. 35 e 41); in essa compaiono due gruppi separati: i
due fratelli, da una parte, e, dall’altra, gli altri dieci che insieme a loro
formano «i Dodici». Nel secondo paragrafo (Mc 10,42-45), Gesù istruisce tutti i
discepoli e i nomi propri scompaiono.
vv.
35-41:
Il racconto mostra l’ambizione dei due figli di Zebedeo, manifestata nel
contesto della salita a Gerusalemme, vale a dire della conclusione della vita e
dell’opera di Gesù. Senza darsi per intesi del terzo annuncio della sua
morte-risurrezione (10,33-34), Giacomo e Giovanni, che si attendono
l’intronizzazione di Gesù come Messia a Gerusalemme, vogliono assicurarsi i
primi posti di governo del futuro regno messianico e rivolgono a Gesù una
domanda in questo senso (v. 37).
Gesù,
a sua volta, domanda loro se sono disposti ad attraversare una prova come la
sua (v. 38). Essi rispondono immediatamente di sì (v. 39a), pensando che si
tratti delle vicissitudini che precederanno il trionfo finale. Gesù, dopo aver
loro annunciato che passeranno attraverso quella prova (v. 39b), non promette
loro che otterranno i primi posti: sono già riservati (v. 40).
Gli
altri dieci, venuti a sapere della pretesa di Giacomo e Giovanni, reagiscono
indignati (v. 41). L’ambizione dei due fratelli provoca la scissione del gruppo
dei Dodici. La connessione fra questa tematica e quella di Mc 9,33b-37 (cf Mc
9,34: «chi fosse il più grande») è evidente, e continua a manifestarsi la
resistenza dei Dodici/discepoli ad accettare l’esigenza di Gesù (Mc 9,35: «se
uno vuole essere il primo, deve essere l’ultimo di tutti e servo di tutti»).
Nella
pericope si possono distinguere i seguenti passi nella narrazione:
10,35-37: Richiesta dei
figli di Zebedeo a Gesù.
10,38-40: Risposta di Gesù.
10,41: Reazione degli altri dieci.
«Gli si avvicinano» (v. 35), denota che essi non «stanno con
Gesù» e che gli si accostano separandosi dal resto del gruppo; nel testo gr. il
verbo, che al di fuori di qui non compare in nessun altro luogo del NT, si
trova al presente.
«Giacomo e Giovanni» (v. 35), cf Mc 1,19.29; 3,17; 5,37; 9,2;
10,35.41; in Mc 9,38 viene nominato soltanto Giovanni.
«I due figli di Zebedeo» (v. 35), unica volta in cui Marco fa
uso della formula ampia: «figlio di» in luogo del semplice definitivo; cf Mc
1,19.20; 3,17.
«Maestro» (v. 35), sulla bocca di discepoli, cf Mc 4,38;
9,38; 10,20.
Gesù non si limita a non accondiscendere alla richiesta dei
figli di Zebedeo (v. 36).
«Assiderci» (v. 37) indica uno stato definitivo, senza
prospettarsi i mezzi per raggiungerlo.
Per designare «la sinistra» Marco mette sulla bocca dei figli
di Zebedeo un termine greco (ἐν ἀοιρςεοῶμ) dal significato
sfavorevole (v. 37); quello che mette sulla bocca di Gesù per «sinistra» (v.
40: ἐν εὐωμύμωμ) ha invece etimologicamente un significato favorevole.
I figli di Zebedeo attribuiscono «la gloria» a Gesù (v. 37:
«nel giorno della tua gloria», lett. «nella tua gloria»). Negli altri due passi
in cui compare il termine «gloria» si tratta della «gloria del Padre suo» (Mc
8,38) oppure «vedranno giungere il Figlio dell’uomo... con grande forza e
gloria» (Mc 13,24), senza che si affermi direttamente che spetti a Gesù.
La richiesta dei figli di Zebedeo (v. 37) mostra l’ambizione
di essere «grandi» (9,34) e «primi» (9,35), sebbene Gesù avesse già esposto il
modo di agire necessario per questo: «essere l’ultimo di tutti e servo di
tutti» (9,35).
«Bere la coppa», (v. 38), metafora indicante una prova
dolorosa (cf Is 51,17.22; Ger 25,15; Ez 23,32s; Sal 75,9; Lam 4,21).
«Essere sommersi dalle acque», lett. «essere
immersi/battezzati» (v. 38), metafora indicante un grave pericolo o minaccia
(Sal 18,5.17; 32,6; 42,8; 69,3.16; 124,4s).
L’indignata reazione degli «altri dieci» (v. 41) è un indizio
del fatto che anch’essi sono mossi dalla stessa ambizione dei figli di Zebedeo.
Si verifica una scissione nel gruppo dei Dodici (v. 41), che
ricorda lo scisma delle dieci tribù nell’antico Israele (1 Re 12).
vv. 42-45: L’intento di Gesù nel proporre la
terza predizione è completamente fallito. La reazione dei figli di Zebedeo, che
aspiravano a occupare i primi posti nel regno messianico, ha messo in luce
l’assoluta incomprensione del gruppo rispetto al progetto di Gesù. Ne consegue
che egli torna ad attaccare l’idea dei Dodici/discepoli da un altro punto di
vista. Essi concepiscono un regno messianico autoritario e gerarchico, in tutto
simile ai regimi di-spotici che reggono la società. Gesù mostra loro il tipo di
comunità che intende fondare: una comunità dove non esiste il dominio dell’uomo
sull’uomo, ma una comunità per il servizio vicendevole. Gesù in quanto Figlio
dell’Uomo (= Uomo in pienezza) propone la sua condotta e la sua dedizione come
modello per i suoi discepoli.
Le parole di Gesù sono rivolte all’intero gruppo. Gesù parla
loro al presente perché il monito vale per quel momento come per tutte le
generazioni dei discepoli che sarebbero venute dopo quel momento. La tentazione
del potere, come dimostra la presa di posizione dei figli di Zebedeo e la
reazione degli altri dieci, è di tutta la comunità dei discepoli e tutti sono
mossi dalla stessa ambizione.
Il presente usato per introdurre le parole di Gesù mostra che
Marco è ben conscio dell’attualità, all’epoca sua, dell’insegnamento di Gesù e
della problematica che affronta:
presso i popoli pagani
(«le nazioni») il potere esistente è tirannico e oppressivo. I governanti
pagani sono dei despoti («quelli che figurano come capi delle nazioni le
dominano») e l’aristocrazia creata da loro («i loro grandi») è al servizio dei
loro interessi, abusa del proprio potere sul popolo («impongono ad esse la
propria autorità»). I due verbi che descrivono il comportamento dei «capi delle
nazioni» e dei «loro grandi» – καςακσοιεύξσριμ αὐςῶμ «dominare» e
καςενξσριάζξσριμ αὐςῶμ «imporre la propria autorità» – esprimono un’opinione
chiaramente sfavorevole circa il modo in cui fra i popoli pagani viene
esercitata l’attività di governo.
Con questo appello ai regimi pagani, Gesù insinua che tanto i
figli di Zebedeo, che hanno preteso di assicurarsi i primi posti nel regno
messianico, quanto gli altri dieci, che aspirano anch’essi alla medesima cosa,
cercano di riprodurre (sia pur basandosi su ragioni d’indole più religiosa che
politica) il modo in cui viene esercitato il potere nella società pagana.
Concepiscono Gesù come un Messia dominatore, sullo stile dei «capi delle
nazioni», ed essi, a loro volta, vorrebbero svolgere il ruolo di «grandi» e
godere della loro autorità e del loro prestigio sociale. In realtà, pretendono
di instaurare in nome di Dio, con Gesù in testa, un regime come quello dei
pagani, pur conoscendo bene («sapete») gli effetti perniciosi che esso ha sul
popolo.
Ma Gesù stabilisce la radicale opposizione («al contrario»)
fra il sistema oppressivo che regge i popoli pagani e il tipo di relazione che
deve esistere fra i suoi («Non deve essere così fra di voi»). Mette così in
risalto il contrasto fra la sua comunità (primizia della nuova società umana o
regno di Dio) e l’organizzazione sociale come quella pagana, basata sulla
tirannia e sul dispotismo di governanti e aristocratici.
Il servizio (διακξμία) che Gesù propone ai suoi e che,
secondo lui, li renderà «grandi», non è quello che è prestato in maniera
forzata, costretti dalle circostanze e poiché non rimane altro rimedio, bensì
quello che si compie in maniera volontaria, quello che nasce dall’interesse e
dalla preoccupazione per l’altro, dalla disposizione ad aiutarlo in tutto ciò
di cui ha bisogno, dal desiderio di cercare sempre il suo bene e la sua
realizzazione; in definitiva, dall’amore. Servire per costrizione umilia;
servire per amore innalza. Il servizio che i discepoli devono prestarsi a
vicenda costituisce un’esigenza, che deriva dal fatto stesso di essere seguaci
di Gesù e che comporta un impegno, un compito, un esercizio continuo di amore
verso il prossimo che, quanto più è nobile e disinteressato, tanto più rende
grande l’essere umano. È a questo impegno e a questo divenire grandi che Gesù
invita. Nella sua comunità tutti devono essere servi, tutti devono essere al
servizio gli uni degli altri: soltanto così giungeranno a essere «grandi». E
servizio reciproco garantisce che nessuno sia trattato come servo o considerato
come inferiore, e che fra tutti regni l’uguaglianza.
In questa prima parte del monito risulta chiaro che il
servizio prestato per amore è l’unica via che porta i discepoli di Gesù a
essere «grandi»; in altre parole, che la linea dello sviluppo o della crescita
umana si trova, per Gesù, nella prassi dell’amore.
La questione su «chi fosse il più grande» era già sorta fra i
discepoli dopo il secondo annuncio della sua morte e risurrezione da parte di
Gesù (Mc 9,30-34). In quell’occasione, Gesù aveva avvertito i Dodici che
dovevano rinunciare a qualsiasi pretesa di preminenza mondana mostrando loro
quale fosse la vera grandezza: «Se uno vuole essere il primo, deve essere
l’ultimo di tutti e servo di tutti» (Mc 9,35). Vista però la richiesta dei
figli di Zebedeo (10,37) e la reazione dei rimanenti membri del gruppo (10,41),
quella lezione è caduta nel vuoto; perciò Gesù deve tornare a insistere su di
essa.
La seconda parte del monito (v. 44) non è un semplice
parallelo della prima (v. 43b) e non ne ripete lo stesso contenuto. Sebbene in
entrambe le parti compaia il «fra voi», per
indicare che l’uno e
l’altro monito si riferiscono ugualmente al comportamento che deve
caratterizzare i Dodici, l’uso nella seconda parte di termini ed espressioni
nuove, nell’ambito privo di restrizioni del servizio che vi si richiede
(«schiavo di tutti»), sono indizi del fatto che ci si trova dinanzi una
prospettiva differente. In effetti, dalla questione della grandezza si è
passati a quella del primato; dall’invito a farsi servo all’invito a farsi
schiavo.
Se nella prima parte del monito (v. 43b) Gesù proponeva ai
Dodici qualcosa di inammissibile secondo i parametri sociali, cioè che per
giungere ad essere «grandi» dovevano essere servi, ora propone qualcosa che in
qualsiasi società sarebbe considerato completa-mente strampalato: che per
essere «primi, devono farsi schiavi di tutti». Per Gesù, il primato, vale a
dire la dignità più alta cui possa aspirare un suo seguace, non si ottiene con
il massimo del potere, rango o prestigio, bensì con l’esatto contrario: «primo»
è colui che si colloca al più basso livello sociale, quello degli schiavi.
Ancora una volta, con la sua proposta, Gesù mette fine alle ambizioni dei suoi
discepoli. È questa la prima volta in cui Marco utilizza la parola δξῦλξπ
(«schiavo/servo»). Com’è noto, la schiavitù era assai diffusa nell’antichità,
che la considerava un fenomeno normale e persino uno stato naturale dell’essere
umano; la società greco-romana dell’epoca di Gesù, non soltanto legittimava la
schiavitù, ma basava su di essa il suo intero sistema produttivo. Δξῦλξπ (in
latino servus) designa in senso stretto ogni persona sprovvista di
libertà, i cui diritti e il cui lavoro erano integralmente nelle mani di un
altro, che era il suo signore e padrone (κύοιξπ, dominus) e di
cui egli era proprietà. In termini più generali, δξῦλξπ era chiunque fosse
obbligato a compiere lavori servili per poter sopravvivere, nonché le persone
che pagavano i propri debiti assoggettandosi a un regime di lavoro per il loro
creditore. In questi casi, la parola δξῦλξπ andrebbe tradotta con «servo».
Con tali precedenti, non vi è nulla di strano nel fatto che
in quei popoli retti da despoti dominatori, cui Gesù alludeva all’inizio della
sua istruzione e che i Dodici conoscevano molto bene (v. 42), esistano la
schiavitù o la servitù forzata, ma che sia Gesù stesso a invitare i suoi a
essere schiavi o servi sembra cozzare in pieno con la sua proposta precedente
(v. 43b): se nella sua comunità tutti devono essere al servizio gli uni degli
altri, così che fra di essi regni l’uguaglianza, la schiavitù o la servitù
forzata rimangono escluse dal suo ambito. La chiave per comprendere la nuova
proposta di Gesù si trova nel «di tutti», che indica i destinatari del servizio
che questi «schiavi» devono prestare e che, visto quanto detto, non può
riferirsi a coloro che fanno parte della comunità. Il referente ai capi delle
nazioni all’inizio dell’istruzione (v. 42) mostra che quel «tutti» abbraccia
l’umanità intera, in particolare i pagani.
Per un seguace di Gesù essere «schiavo di tutti» non
significa assumere uno stato o una condizione umiliante che gli viene imposta
da un altro, bensì che anche questo fatto – come il precedente «vostro servo» –
costituisce un’esigenza derivante dalla stessa vocazione cri-stiana, e che
comporta il riconoscimento degli altri come signori, vale a dire come persone
libere, che comporta la solidarietà con quanti, nella società, sono vittime
dell’oppressione dei potenti (v. 42) e la disponibilità a restituire loro
quella dignità umana che gli è stata strappata. L’espressione allude quindi
alla schiavitù istituzionalizzata dei regimi pagani menzionati al principio
dell’istruzione (v. 42) e, al tempo stesso, caratterizza i discepoli di Gesù
come coloro che non hanno alcuna affinità con il potere oppressivo: possono
esserne vittime, ma mai complici.
Se la società pagana si divide in due classi, quella dei
dominatori e quella dei dominati, il seguace di Gesù non può allinearsi con i
primi, ma deve volontariamente porsi accanto i secondi e, in base alla solidarietà
con essi, deve cercare di trarli fuori dalla loro ingiusta
situazione. Per far
ciò, la prima cosa che deve fare è trattarli come non saranno mai trattati dai
loro oppressori: come signori o uomini liberi. Così prenderanno consapevolezza
della loro dignità in quanto esseri umani e sapranno che nulla e nessuno potrà
strappargliela.
Gesù caratterizza pertanto i suoi seguaci come coloro che,
all’interno della comunità, sono «servi» e, rispetto all’umanità, sono
«schiavi/servi»; entrambe le funzioni si contrappon-gono diametralmente ad ogni
concezione profana o religiosa di dominio e di potere. «Servo» (διάκξμξπ) è
colui che per amore si mette a disposizione degli altri membri della comunità;
«schiavo/servo» (δξῦλξπ) è colui che riconosce come signori o persone libere
gli uomini di qualunque razza o condizione e che, per senso di giustizia, opera
per la liberazione di tutti gli oppressi. L’opera dei seguaci di Gesù non si
limita dunque alla comunità, ma si estende al mondo che la circonda.
I termini «servo» (v. 43b) e «schiavo/servo» (v. 44) hanno un
tratto in comune: entrambi, metafore dell’aiuto, collocano chi lo pratica al di
sotto di coloro che lo ricevono. La dedizione e il dono di sé agli altri, tanto
ai membri della comunità quanto a coloro che ne sono fuori, non si compiono
dunque «dall’alto», con superiorità o paternalismo, bensì «dal basso», accanto
a coloro che non hanno rilevanza sociale e sono alla mercé dell’arbitrio dei
potenti.
Nel v. 45, Gesù conclude la sua istruzione fornendo ai Dodici
il motivo («perché») delle sue precedenti esortazioni (vv. 43-44). Comincia
autodefinendosi «il Figlio dell’uomo», nome che lo designa come modello della
pienezza umana, cui i suoi seguaci devono aspirare, e nega categoricamente
(«neppure») che la sua missione si realizzerà seguendo il modello dei
dominatori e dei potenti della terra («è venuto per essere servito»). Egli non
sarà, come loro, un despota, padrone e signore della vita dei suoi sudditi, né
un prepotente che impone agli altri la sua autorità; al contrario, sarà
caratterizzato dal suo atteggiamento di servizio («bensì per servire») e dalla
sua disponibilità a dare la vita per la liberazione dell’umanità.
La prima parte del detto finale: «perché neppure il Figlio
dell’uomo è venuto per essere servito, bensì per servire», è in stretta
relazione con quello pronunciato in precedenza: «chi voglia farsi grande fra
voi deve essere vostro servo» (v. 43b). Il fondamento del mutuo servizio che i
discepoli devono prestarsi si trova nella disponibilità a servire che
caratterizza il Figlio dell’uomo e che dev’essere normativa per tutti loro.
Come Gesù, anche i suoi seguaci devono essere al servizio gli uni degli altri.
E il servizio di cui Gesù è modello, e che deve presiedere alle relazioni fra i
suoi, è sempre sulla linea della crescita umana, che si realizza nella libertà
e nella pratica dell’amore che comunica vita. Per i discepoli, di conseguenza,
il servizio reciproco è la via verso il pieno sviluppo personale.
La seconda parte: «e per dare la sua vita in riscatto per
tutti», definisce la missione di Gesù rispetto all’umanità oppressa e, di
conseguenza, è in particolare relazione con il secondo monito: e chi voglia
essere il primo fra voi deve essere schiavo di tutti (v. 44). Se Gesù
propone ai suoi discepoli di farsi schiavi/servi di tutti, egli, da parte sua,
è disposto a dare la propria vita per liberare gli uomini dalla schiavitù che
subiscono («riscattare») e che impe-disce il loro sviluppo di crescita
personale. «Dare la vita» è il caso estremo di servizio cui giunge il suo
amore. Con questa dichiarazione, Gesù avverte ancora una volta i Dodici di non
essere il Messia nazionalista destinato soltanto a Israele, colui che
sottometterà gli altri popoli. La sua missione, e di conseguenza quella dei
suoi seguaci, si estende ai pagani: non però per dominarli, bensì per dare loro
la libertà («riscattare»).
La metafora del riscatto sembra a prima vista implicare che
Gesù paghi un prezzo a coloro che tengono schiavo l’uomo, ma nel linguaggio
biblico il termine «riscatto» si usa soprattutto per indicare la liberazione
dalla schiavitù in Egitto e dalla deportazione a Babi-
lonia a opera di Dio,
senza alcuna allusione al fatto che Dio abbia dovuto pagare un prezzo per
compierle. Di fatto, i dirigenti religiosi e politici daranno la morte a Gesù
per impedire la sua attività liberatrice nei confronti del popolo, senza
rendersi conto che, in virtù di tale morte, gli oppressi/schiavi diverranno
liberi e che essa costituirà dunque il riscatto dell’umanità. I suoi nemici
credono di togliere la vita a Gesù, ma in realtà egli la dà libera-mente e, con
il dono di sé, offre a quegli oppressi la possibilità di emancipazione.
Il «riscatto» denota il primo passo nel processo dello
sviluppo dell’uomo. Ottiene la libertà, condizione indispensabile per dare
sviluppo, ma il compito del Figlio dell’uomo non si conclude qui; a partire da
questo punto, ha inizio la via verso la pienezza di vita. In altre parole, lo
scopo di Gesù non si limita alla liberazione delle vittime dei regimi
oppressori, ma mira a potenziare tutti gli esseri umani affinché avanzino verso
la loro piena realizzazione.
La preposizione ἀμςί «per, al posto di» rende la morte del
Figlio dell’uomo un riscatto per colui che prende il posto di «molti», ossia
per colui che si sostituisce alla loro morte e dona loro vita eterna. Il
pronome «tutti» (πξλλξί, lett. «molti») ha la stessa ambiguità di Mc
10,31: «Ma tutti (lett. «molti»), anche se sono primi, devono essere ultimi, e
questi ultimi saranno primi». «Molti» sono «tutti» gli uomini che risponderanno
all’offerta di Gesù. Si tratta di un «tutti» potenziale, dato che a tutti loro
viene offerta la liberazione, e di un «molti» reale, dato che non tutti lo
accetteranno. D’ora innanzi, tutti gli esseri umani potranno giungere ad essere
liberi; esserlo o meno dipenderà dalla scelta personale di ciascuno.
PER LA NOSTRA VITA
1. La Parola ha una profondità infinita, mentre noi tendiamo
a ridurla, a catturarla, secondo la nostra misura. È importante invece, che
lasciamo a Dio-che-parla di esserne l’interprete vero, autentico: così da
superare ogni rischio di confondere la Parola con il nostro stato d’animo, il
nostro sentimento, il nostro modo di leggere la realtà.
Il senso della Parola è soltanto quello che Dio le dà.
Allora, nei momenti del cammino di fede, nei quali abbiamo l’impressione che
non ci sia alcuna ragione che tenga, c’è ancora, invece, la verità della
Parola: «Stai di sentinella… Se ti pare di non vedere nulla, guarda ancora…». È
come se il Signore ci staccasse da tante cose, ma per dirci: «Dov’è la ragione
per cui credi? Dov’è l’appoggio che dai alla tua vita di credente?». «Signore,
basti Tu; basta la tua Parola».
Signore, l’unica cosa che posso fare è udire una Parola che
mi sembra quasi soltanto un suono… Quando tutte le possibilità di appigliarsi
sembrano venir meno, c’è una cosa ancora: la tua Parola. Ed io resto lì.
Signore non voglio catturare questa Parola. Non voglio darle
il senso che le darei io. Voglio che sia Tu a darle il senso. Signore, dammi la
pazienza di stare nel senso della tua Parola, di appoggiarmi ad essa, di dire:
Mi fido, vado avanti. […]
Voglio che tu sia l’unica realtà, l’unico motivo del mio
cammino verso di Te (G.
MOIOLI, Temi cristiani maggiori, a cura di D. CASTENETTO (Contemplatio
5), Glossa, Milano 1992, pp. 86-87).
2. Il mistero del Cristo è anche il nostro. Ciò che si è compiuto
nel Capo deve compiersi anche nelle membra. Incarnazione, morte e resurrezione:
è radicamento, distaccamento e trasfigurazione. Non c’è spiritualità cristiana
che non comporti questo ritmo in tre tempi. Noi dobbiamo far penetrare il
cristianesimo nel più profondo delle realtà
umane, ma non per
farvelo perdere o snaturare. Non per svuotarlo della sua sostanza spirituale.
Ma perché agisca nell’anima e nella società come un fermento che lievita tutta
la pasta. […] Perché al cuore di tutto metta un principio nuovo, e faccia udire
dappertutto l’esigenza e l’urgenza dell’appello dall’alto. (H. DE LUBAC, Paradossi
e nuovi paradossi. In appendice: Immagini del Padre Monchanin, Traduzione
di E. BABINI (Già e Non Ancora 172. Opera Omnia di H. De Lubac 4), Jaca Book,
Milano 1956, 19892, pp. 26-27).
3. Anche i discepoli che camminano con Gesù sono a loro modo
ciechi. Il pericolo di non vedere si manifesta quando gli chiedono di trovare
“posto d’onore” accanto a Lui. Gli annunci di Passione, la sua salita a Gerusalemme
non bastano ai discepoli per capire quale “re” stanno seguendo, quale vicinanza
al trono stanno chiedendo. Gesù cammina davanti, solo, verso la morte e la
vita; i discepoli discutono dei primi posti… Pietro, in precedenza, aveva
rifiutato la sconfitta e la sofferenza del Messia. Ora Giacomo e Giovanni non
intendono che la vita di Gesù sta per essere donata nella morte di croce.
Il cammino di Gesù diventa insistente e necessaria pedagogia
di conversione, per “divenire” discepoli (13 F. CECCHETTO, Testi inediti).
4. Gesù, dunque, si presenta come verità dell’uomo attraverso
parole, gesti, segni, dai quali traspare che egli conosce come è fatto l’uomo,
sa quale è il suo vero bene, ha una visione luminosa del mistero che avvolge e
spiega la sua vita; ma vuole che questa verità, che è la sua parola, che è la
sua venuta tra noi, che è lui stesso, incontri noi come cercatori della verità;
come persone disposte a pagare tutti i prezzi che la ricerca della verità
comporta; come ragionatori pacati e coraggiosi, che discutono il senso delle
cose, valutano l’importanza e la fragilità degli incontri interpersonali, si
interrogano sugli aspetti contrastanti della libertà, la quale, per un verso,
ci si presenta come un valore ultimo, assoluto, totalmente appagante, per un
altro verso è bene sfuggente, non ha contorni precisi, non sa darsi contenuti
positivi, è in cerca di valori veramente assoluti, per i quali impegnarsi e nei
quali realizzarsi.
Tra la scoperta della verità, che è Gesù, e la ricerca della
verità, per cui ogni uomo è fatto, può nascere una benefica cospirazione.
È vero che, ultimamente, è proprio la verità recata da Gesù
che rivela noi a noi stessi, ci dice perché siamo fatti in questo modo, ci
spiega perché siamo cercatori della verità, ci incoraggia a non stancarci della
ricerca, ci libera dalle ombre e dagli intoppi che ostacolano o interrompono
del tutto il nostro cammino verso la verità.
Ma è anche vero che una vigile e incessante chiarificazione
dei nostri modi di pensare, di giudicare, di fare progetti ci dispone ad
accogliere con un frutto maggiore la luce della verità che proviene
dall’incontro con Gesù.
Ecco perché alle soglie
dell’incontro con Gesù non è inutile una battuta d’arresto sulla nostra
condizione spirituale di cercatori della verità, per cogliere il senso e la
portata di tale ricerca, insieme con i limiti e le oscurità che la affliggono.
Tanto più che questa attenzione alla nostra situazione umana diventa
indispensabile per comprendere il messaggio evangelico come portatore di una
interpellanza vitale per la nostra esistenza (L. SERENTHÀ, Passi verso la
fede: una nuova esposizione delle ragioni della fede, Prefazione di C.M.
MARTINI (Testi di Teologia per Tutti), ElleDiCi, Leumann TO 1984, 19872, pp.
10-11).
5. Quando non sappiamo
più vedere nella Chiesa che i suoi meriti umani, quando non la consideriamo più
che come un mezzo, sia pur nobile finché si voglia in vista di un fine
temporale, quando in essa non sappiamo più scoprire, pur rimanendo vagamente
cristiani, un mistero di fede, non la comprendiamo assolutamente più. Gli
aspetti stessi che noi ammiriamo sono snaturati. L’elogio che ne pronunciamo
non è più che vanità, quando non diventa bestemmia. Sovente, per esempio, essa
non appare più che come una specie di museo, da cui la vita si è ritirata a
poco a poco, e tutte le lodi che essa ancora raccoglie, non è un campo di
battaglia tra forze contrastanti che si contendono l’appoggio di questa potenza
morale. Ognuno le impone di dichiararsi per la sua causa che egli trasforma in
crociata; per il proprio partito che erige a mistica. Gli uni l’aggiogano alla
“reazione”, gli altri alla “rivoluzione”. Quando gli uni sembrano riuscire ad
accaparrarla, gli altri se ne allontanano, e le ragioni che i primi hanno di esaltarla
diventano per i secondi altrettante ragioni di denigrarla e di accusarla.
Ne derivano a volte situazioni paradossali in cui alcuni
ostentano di sostenere la Chiesa senza credere alla sua missione divina, ed
altri incominciano a dubitarne perché non li segue nei loro sogni. Qua e là,
pare talvolta che essa si lasci compromettere, perché lo Spirito che l’assiste
non dono a tutti coloro che la rappresentano, o che si richiamano ad essa, una
chiaroveggenza o una energia senza debolezza; né li preserva da ogni passo
falso. Ci furono non soltanto uomini politici, ma talvolta anche uomini di
chiesa, che non esitarono a fare della sposa di Cristo lo strumento dei loro
progetti umani. […]
No: se Gesù Cristo non è la sua ricchezza, la Chiesa è
miserabile. La Chiesa è sterile se lo Spirito di Gesù Cristo non ne è
l’architetto, e se il suo Spirito non è il cemento che tiene insieme le pietre
viventi con cui è costituito. È senza bellezza, se non rispecchia l’unica
bellezza del volto di Gesù Cristo, e se non è l’albero la cui radice è la
passione di Gesù Cristo. La scienza di cui si vanta è falsa; è falsa la
sapienza che l’adorna se non convergono l’una e l’altra in Gesù Cristo, e se la
sua luce non è una “luce illuminata” che tutta viene da Gesù Cristo, essa tiene
immersi nelle tenebre di morte. È menzogna tutta la sua dottrina se essa non
annuncia la verità che è Gesù Cristo. È vana tutta la sua gloria se essa non la
fa consistere nell’umiltà di Gesù Cristo. Il suo nome stesso ci è indifferente
se non evoca subito il suo nome dato agli uomini per la loro salvezza. Non
rappresenta nulla per noi, se essa non è per noi il sacramento, il segno
efficace di Gesù Cristo (H.
DE LUBAC, Meditazione sulla chiesa, Traduzione di E. MARTINELLI,
Edizione italiana a cura di E. GUERRIERO (Già e Non Ancora 54. Opera Omnia di
Henri De Lubac 8), Jaca Book, Milano 1987, pp. 145-148).
6. Noi non conosciamo tutto ciò che è bene per noi.
Ma Dio lo sa benissimo e anche quando dobbiamo soffrire
è sempre la sua mano amorosa che ci guida e il suo amore
infinito che ci visita.
Non c’è per la creatura altra alternativa che naufragare in
questo abisso di salvezza
o in quello della propria solitudine.
La sua volontà è severa, esige e comanda.
Mentre l’incredulità ci permette di indugiare
nei nostri diletti in cui siamo adagiati come in una comoda
dimora.
Dio si rivela per amore, l’uomo crede per amore;
e l’amore impone l’adesione ad un Dio
che si rivela padre, fratello, amico, perdono e beatitudine (P. TARCISIO
GEIJER, Testi inediti, Omelie alla Certosa di Vedana, 1971.