venerdì 25 novembre 2011

Domenica 27 novembre 2011


III DOMENICA DI AVVENTO - Le profezie adempiute

Lettura del profeta Isaia 51, 1-6

Così dice il Signore Dio: / «Ascoltatemi, voi che siete in cerca di giustizia, / voi che cercate il Signore; / guardate alla roccia da cui siete stati tagliati, / alla cava da cui siete stati estratti. / Guardate ad Abramo, vostro padre, / a Sara che vi ha partorito; / poiché io chiamai lui solo, / lo benedissi e lo moltiplicai.

Davvero il Signore ha pietà di Sion, / ha pietà di tutte le sue rovine, / rende il suo deserto come l’Eden, / la sua steppa come il giardino del Signore.

Giubilo e gioia saranno in essa, / ringraziamenti e melodie di canto! / Ascoltatemi attenti, o mio popolo; / o mia nazione, porgetemi l’orecchio. / Poiché da me uscirà la legge, / porrò il mio diritto come luce dei popoli. / La mia giustizia è vicina, / si manifesterà la mia salvezza; / le mie braccia governeranno i popoli. / In me spereranno le isole, / avranno fiducia nel mio braccio.

Alzate al cielo i vostri occhi / e guardate la terra di sotto, / poiché i cieli si dissolveranno come fumo, / la terra si logorerà come un vestito / e i suoi abitanti moriranno come larve. / Ma la mia salvezza durerà per sempre, / la mia giustizia non verrà distrutta».

Salmo

Sal 45 (46)

® Nostro rifugio è il Dio di Giacobbe.

Dio è per noi rifugio e fortezza,

aiuto infallibile si è mostrato nelle angosce.

Perciò non temiamo se trema la terra,

se vacillano i monti nel fondo del mare. ®

Un fiume e i suoi canali rallegrano la città di Dio,

la più santa delle dimore dell’Altissimo.

Dio è in mezzo ad essa: non potrà vacillare.

Dio la soccorre allo spuntare dell’alba.

Fremettero le genti, vacillarono i regni;

egli tuonò: si sgretolò la terra. ®

Il Signore degli eserciti è con noi,

nostro baluardo è il Dio di Giacobbe.

Venite, vedete le opere del Signore,

egli ha fatto cose tremende sulla terra. ®

Epistola

Seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 2, 14-16a

Fratelli, siano rese grazie a Dio, il quale sempre ci fa partecipare al suo trionfo in Cristo e diffonde ovunque per mezzo nostro il profumo della sua conoscenza! Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo per quelli che si salvano e per quelli che si perdono; per gli uni odore di morte per la morte e per gli altri odore di vita per la vita.

Vangelo

Lettura del Vangelo secondo Giovanni 5, 33-39

In quel tempo. Il Signore Gesù disse: «Voi avete inviato dei messaggeri a Giovanni ed egli ha dato testimonianza alla verità. Io non ricevo testimonianza da un uomo; ma vi dico queste cose perché siate salvati. Egli era la lampada che arde e risplende, e voi solo per un momento avete voluto rallegrarvi alla sua luce.

Io però ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato. E anche il Padre, che mi ha mandato, ha dato testimonianza di me. Ma voi non avete mai ascoltato la sua voce né avete mai visto il suo volto, e la sua parola non rimane in voi; infatti non credete a colui che egli ha mandato. Voi scrutate le Scritture, pensando di avere in esse la vita eterna: sono proprio esse che danno testimonianza di me».

Commento

VANGELO: Gv 5,33-39

Gv 5 narra della seconda salita di Gesù a Gerusalemme secondo il Quarto Vangelo. In questa occasione, tuttavia, Gesù non si reca al Tempio, ma presso un “santuario” paganeggiante, dove il popolo andava per cercare guarigione: la piscina di Bethzatha (in aramaico potrebbe significare «il palazzo della fossa» oppure Beth ʾešdātajim «il palazzo delle due piscine»). Là Gesù guarisce un paralitico, donandogli quella libertà resa impossibile dalla malattia che lo immobilizzava (Gv 5,1-9a).

Il segno operato da Gesù, essendo stato compiuto in giorno di sabato, provoca una reazione ostile da parte di coloro che detengono il potere religioso, un potere fondato su una certa interpretazione della Legge di Dio, manipolata contro la libertà dei figli di Dio (Gv 9b-15).

Questa disputa permette a Gesù di chiarire quale sia la sua vera missione: egli ha il compito di portare a compimento l’opera creatrice del Padre e precisamente è chiama-to a far risorgere i morti, chiamandoli fuori dal regno di morte e di tenebra in cui sono stati ridotti (vv. 16-30). Le sue opere sono la testimonianza della missione, che manife-sta l’unico volto di Dio, il suo amore. Dio non è il Giano bifronte!

L’opera compiuta un giorno da Mosè è «testimonianza» e anticipazione di quanto Gesù sta compiendo ora in pienezza: la liberazione dell’uomo. Il passo quindi, per la precisione, abbraccerebbe i vv. 31-47 e si dividerebbe in due paragrafi, entrambi cen-trati sulle testimonianze che legittimano la missione di Gesù: i vv. 31-38 espongono le testimonianze presenti; i vv. 39-47 quelle del passato, a partire dalla Scrittura, testimo-nianza perenne. Ciascuno dei due paragrafi termina con un’affermazione che denuncia l’incredulità dei Giudei (ovvero dei capi di Gerusalemme, nel linguaggio del Quarto Vangelo).

vv. 33-38: La testimonianza di Giovanni il Battista era valida, ma Gesù non si basa su di essa; per provare che la sua missione viene da Dio, non può appoggiarsi a una te-stimonianza umana. Sebbene Giovanni fosse un inviato di Dio (Gv 1,6), non è suffi-ciente opporre l’autorità di Giovanni (che ha negato di essere Elia o il Profeta) (Gv 1,21), a quella di Mosè. A loro, tuttavia, conviene ricordare quella testimonianza, la cui validità Gesù conferma, per abbandonare il loro immobilismo e avvicinarsi a Gesù, annunciato da Giovanni (Gv 1,27). Così avrebbero potuto raggiungere la salvezza che, per mezzo suo, Dio offre al mondo (Gv 3,17).

Giovanni non era la luce (Gv 1,6): era soltanto un testimone a favore della luce, che si poteva paragonare a una lampada, il cui splendore prometteva l’esistenza della luce piena. I dirigenti si gloriarono per breve tempo della risonanza del messaggio di Gio-vanni, figura tanto straordinaria che si era giunti a pensare che potesse essere il Messia (Gv 1,19s). Non si trattava, tuttavia, di una vera adesione al suo messaggio, che an-nunciava sempre Gesù (Gv 1,15. 27. 29-34. 36; 3,27-30), ma di un opportunismo. Di fatto, il Battista si dovette ritirare più tardi in un luogo al di fuori della loro giurisdizio-ne e finì in carcere (Gv 3,23).

Mentre Giovanni rendeva testimonianza a parole (Gv 10,41: Giovanni non compì alcun segno, ma tutto ciò che Giovanni disse di costui era vero), Gesù non lo fa con dichiarazioni, ma con opere, con la sua stessa attività liberatrice. Il plurale «opere» mo-stra nuovamente che la guarigione dell’invalido alla piscina di Bethzatha non era stata un caso isolato, ma un esempio o paradigma dell’attività di Gesù fra il popolo emargi-nato. La qualità di tali opere dimostra che Gesù è un inviato del Padre.

La sua argomentazione si basa sul concetto di Dio come Padre, già illustrato nel prologo (Gv 1,14d; 4,53 lett.). Chiamando Dio «Padre», Gesù lo definisce come colui che comunica senza alcun limite la propria ricchezza, che è la sua vita e il suo amore. È il Dio che dimostrò il suo amore per l’umanità dando Gesù, suo Figlio unico (3,16). Ebbene, chiunque riconosca che Dio è Padre, deve riconoscere che sono di Dio anche le opere di Gesù, perché come quelle del Padre comunicano vita all’uomo (Gv 5,17 e 21). Gesù sta implicitamente facendo appello a un passo chiaramente espresso nell’AT, che descrive la sollecitudine di Dio per il suo popolo, specialmente per i de-boli; lo si chiamava «giusto» perché rendeva giustizia all’oppresso, riabilitava il calun-niato, spezzava il giogo oppressore. Questa era anche la sua esigenza, espressa con for-za dai profeti:

Es 1,17: «Cessate di fare il male, e imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova».

Is 58,6-7: «Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l'affamato, nell'introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne?».

Is 61,1: «Mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a Fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri».

Ger 21,11-12: «Ascoltate la parola del Signore! Casa di Davide, così dice il Signore: ammi-nistrate la giustizia ogni mattina e liberate l'oppresso dalla mano dell'oppressore».

Ger 22,15-16: «Forse tu agisci da re perché ostenti passione per il cedro? Forse tuo padre non mangiava e beveva? Ma egli praticava il Dritto e la giustizia e tutto andava bene. Egli tutelava la causa del povero e del misero e tutto andava bene; questo non significa infatti conoscermi? Oracolo del Signore».

Ez 34,2-4: « Guai ai pastori di Israele che pascolano se stessi! I pastori non dovrebbero for-se pascere il gregge? Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge. Siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza».

Sal 72,4. 12-14 (riferito al re messianico): «Ai miseri del suo popolo renderà giustizia, salve-rà i figli dei poveri e abbatterà l’oppressore ... egli libererà il povero che grida e il misero che non trova aiuto, avrà pietà del debole e del povero e salverà la vita dei suoi miseri. Li riscatterà dalla violenza e dal sopruso, sarà prezioso ai suoi occhi il loro sangue ».

Da questi e da molti altri testi che si potrebbero citare, appare chiaramente che Dio è a favore dell’indifeso, del disgraziato. Chi avesse penetrato tale caratteristica di Dio, così prominente nell’AT, avrebbe dovuto concludere che l’opera di Gesù a favore dei deboli era quella di Dio, che Gesù era il suo inviato e che faceva ciò che gli aveva inse-gnato il Padre (Gv 5,19-20). In Gv 5,3 veniva raffigurato il gregge abbandonato e mal-trattato. Dio stesso aveva promesso di cercare le sue pecore disperse come fa un pasto-re (Ez 34,11-12) e di dar loro un pastore che ne avesse cura (Ez 34,23: «susciterò per loro un pastore che le pascerà: Davide mio servo. Egli le condurrà al pascolo, sarà il lo-ro pastore»). Davanti alle teorie sull’origine del Messia (Gv 7,27), Gesù, per accredita-re la propria missione, propone unicamente la testimonianza delle sue opere, secondo le promesse di liberazione e di salvezza annunciate nei testi profetici (cf Gv 7,31).

Questa testimonianza di Gesù sarà anche quella della sua comunità. Come Gesù, questa dovrà realizzare le opere del Padre che lo inviò (Gv 9,4). Non esiste altra prova della missione divina: chi, per amore dell’uomo, gli comunica vita e libertà, è agente del Padre; chi si oppone alla vita, non esercita l’attività di Dio né sta con Dio. La sua testimonianza è qualcosa di immediato, che chiunque può constatare; è oggettiva, visi-bile, palpabile. Può negarla soltanto la malafede. Per questo, la testimonianza delle sue opere è testimonianza diretta di Dio. L’amore per l’uomo, tradotto in opere, è sempre appoggiato dal Padre.

Mosè faceva appello alla conferma di Dio per legittimare le sue opere: «da questo saprete che il Signore mi ha mandato ad agire così (LXX: a realizzare tutte queste ope-re) e che non opero per conto mio » (LXX: π᾽ἐμαυτο «di mia iniziativa», cf Gv 5,19. 30). «Se questa gente muore di morte naturale ... JHWH non mi ha mandato; ma se JHWH fa una cosa meravigliosa, se la terra spalanca la bocca e l’ingoia con quanto ap-partiene loro ... allora saprete che questi uomini hanno disprezzato JHWH» (Nm 16, 28-30). Le opere di Mosè non rivelavano da se stesse la propria origine divina, necessita-vano di una conferma miracolosa; in questo caso, un effetto di morte. Quelle di Gesù, al contrario, non necessitano legittimazione alcuna: rivelano senza equivoco la presen-za del Padre, manifestando il suo amore per l’uomo. Non sono segni portentosi (cf Gv 4,48), spettacolari, né tanto meno terrificanti; manifestano la meraviglia del potere creatore di Dio, sviluppando e ampliando la capacità dell'uomo.

Dall’esposizione della testimonianza a suo favore, Gesù passa all’invettiva contro i dirigenti, che pretendevano di essere i depositari dell’autentica tradizione e i mediatori fra Dio e il popolo; sono loro che, in nome di Dio, condannano Gesù. Egli denuncia in primo luogo la loro disobbedienza. La frase ascoltare la sua voce ricorda i comandi di Dio nell’antica alleanza, l’esigenza che il popolo lo ascoltasse (Ez 19,5; 23,22), e le promesse del popolo di ascoltare quanto JHWH aveva detto (Es 19,8; 24,3. 7[LXX]), come ratifica dell’alleanza. Gesù li accusa di non avere ascoltato la voce di Dio e di non avere osservato la sua alleanza, come in Gv 7,19 li accusa di non osservare la Leg-ge di Mosè che ufficialmente difendono.

La «figura» di Dio che Gesù menziona è anch’essa in relazione con l’alleanza. In Es 24,17 (LXX) viene descritta la manifestazione sul Sinai come la «figura della gloria» di Dio, visibile per tutto il popolo. Dio invitò a vederla, ma essi, che non hanno ubbidito alla sua voce, non l’hanno vista. Gesù nega che essi abbiano non già la conoscenza piena di Dio, che non ebbe nemmeno Mosè (Es 33,22), ma la conoscenza propria dell’antica alleanza, che avrebbe dovuto prepararli alla piena rivelazione nella sua per-sona. Lì Dio apparve come fuoco vorace; ora Gesù lo rivela come amore leale.

In conseguenza della loro disubbidienza e mancanza di fedeltà all’alleanza hanno perso il messaggio che questa intendeva comunicare e che era stato rinnovato dai profeti. Hanno ignorato la vera caratteristica di Dio, quella del suo amore per l’uomo. Quest’amore si farà realtà tangibile e sperimentatile in Gesù (Gv 1,17); Dio però volle annunciarlo e prepararlo, ma essi lo hanno ignorato. Per questo a Cana mancava il vi-no (Gv 2,3). Dio aveva voluto dare vino d’amore al suo popolo, ma era stato soffocato dall’istituzione giudaica, incarnata nell’assoluto della Legge (Gv 2,6 lett.). Gesù de-nuncia un indurimento inveterato nei circoli dirigenti di Israele e dà la chiave per comprendere il carattere oppressivo delle sue istituzioni. Mai hanno ascoltato il mes-saggio d’amore che Dio proponeva.

Sono messe qui a confronto due concezioni di Dio: il Dio di Gesù, il Padre, che ama l’uomo e si manifesta dandogli vita e libertà, e il Dio dei dirigenti, il Sovrano, che impone e mantiene un ordine giuridico, prescindendo dal bene concreto dell’uomo. Per questo Gesù può affermare decisamente che non conoscono assolutamente il Pa-dre; per di più, non hanno conservato neppure il messaggio trasmesso, espresso fin dal principio con l’azione di Dio, che li rese appunto un popolo traendoli fuori dalla schia-vitù. La descrizione che Dio stesso fece di sé a Mosè prima dell’alleanza: il Dio miseri-cordioso e clemente, paziente, grande in amore e lealtà (Es 34,6), è appunto quella che corrispondeva all'opera di Gesù, fino al punto che la gloria del Padre, presente in Ge-sù, è stata descritta da Gv con queste parole di Dio (1,14 e 17). Essi, tuttavia, hanno dimenticato tale immagine data da Dio stesso, per fabbricarsene una propria.

In effetti, nel codice dell’Alleanza che segue il Decalogo (Es 20,22 – 25,33), all’in-terno della minuziosa casistica che regola materie diverse, s’incontrano prescrizioni re-lative al modo di comportarsi con i derelitti che, per la loro condizione, possono essere oggetto di sfruttamento o abuso (Es 22,20-26). Il loro grido, avverte JHWH, sarà ascol-tato sempre (Es 22,22). Fu proprio il grido degli israeliti, mentre soffrivano l’op-pressione in Egitto, a motivare l’intervento liberatore di JHWH (Es 3,7-9). Egli agisce a favore dell’oppresso perché è pietoso (Es 22,26: io sono pietoso, annûn). È una quali-tà che lo definirà quando più tardi Mosè gli domanderà di vedere la sua gloria (Es 34,6); ed è da questa che sarà mosso a liberare il popolo e a stabilire la sua alleanza con lui. Per questo, Dio tratterà come ha trattato gli egiziani (Es 22,23; cf 4,23; 13,15) i figli di Israele che si trasformano a loro volta in oppressori. È significativa a questo ri-guardo l’espressione: se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo (eb. ʾet ʿammî), all’indigente che sta con te... (Es 22, 24); parlando così, Dio separa momentaneamen-te il creditore dal suo popolo, costituito dai poveri.

Questo spiega perché i profeti, davanti alle ingiustizie che si commettono, denun-ciano il non compimento dell’alleanza ed equiparano Israele ai popoli pagani (Is 1,10: Sodoma e Gomorra), squalificandolo come popolo di Dio malgrado il culto splendido praticato nel tempio (Is 1,10-28).

Ciò che essi insegnano e sostengono è, pertanto, un tradimento della rivelazione di Dio, tanto più grave in quanto pretende di essere l’unica dottrina autentica. La prova di questa affermazione di Gesù è che non riconoscono nella sua l’azione di Dio e, di conseguenza, non prestano fede al suo inviato. Chi si chiude al bene dell’uomo non può riconoscere Dio (cf Gv 7,17; 8,19. 54s; 15,21; 16,3).

v. 39: Dopo aver esposto la testimonianza delle sue opere, che stanno sotto i loro oc-chi, ricorda loro la testimonianza che viene dal passato, ma che continua a indicare la sua persona. Ai capi nemmeno le Scritture danno testimonianza, perché il loro modo di leggerle è sbagliato. Pensano di potervi trovare ciò che non contengono: vita definitiva, la piena realizzazione dell’uomo. Hanno assolutizzato la Scrittura come una citta-della chiusa, in luogo di vedervi una promessa e una speranza. La permanenza di Gesù in Giudea aveva dato occasione a una polemica contro l’assolutizzazione degli antichi intermediari dell’alleanza (Gv 3,22-36).

Il vero ruolo della Scrittura era il medesimo di Giovanni Battista: rendere testimo-nianza preparatoria all’arrivo del Messia (Gv 1,6). Prometteva l’azione definitiva di Dio e ne annunciava le linee maestre. Essi non danno retta a tale testimonianza. In realtà non possono farlo, perché la loro chiave di lettura è falsa, dato che non colgono il tratto fondamentale di Dio: il suo interesse e il suo amore per l’uomo (cf Es 22,20-26). Per questo non vedono la necessità del mutamento e sono ostili a Gesù, che era l’oggetto della speranza. Non vanno da lui per ottenere vita: di fatto, non conoscendo Dio come Padre, cioè come datore di vita, non sanno nemmeno ciò che questa signifi-ca.

PER LA NOSTRA VITA

1. Anziché mantenerci nella corrente dell’amore del Padre, assumendo Gesù come guida, abbiamo costruito un intreccio di logiche sostitutive che usurpano la verità della logica dell’amore. Le logiche sostitutive rappresentano un vero e proprio sistema di po-tenze che, in realtà provengono da noi, dal nostro cuore oscurato, dalla nostra compli-cità con il male. Sono logiche che si frappongono tra noi e l’amore di Dio proprio mentre hanno l’apparenza di configurare il giusto e dovuto rapporto del credente verso la divinità. Se da un lato il male è sempre distruzione – di vite, di relazioni, di verità, di futuro, di senso –, dall’altro è anche sostituzione: sostituzione della menzogna alla veri-tà, di se stesso al bene, di altre logiche alla logica dell’amore. Che questa dinamica di sostituzione possa aver avuto luogo anche nel contesto della tradizione cristiana sino a oggi mostra, intanto, quanto l’uomo abbia il potere negativo di pervertire ogni cosa, anche la più luminosa. Ma mostra inoltre e in particolare come rifiutare l’amore sia, in effetti, una mutilazione spirituale che procura fatalmente una grande sofferenza. […]

Andiamo al nucleo essenziale di questo equivoco tragico. L’Amore paterno invita l’umanità, giungendo a incarnare l’invito stesso nel Figlio. Questo invito è come un seme da accogliere in sé, è come una parola da ospitare nel proprio cuore lasciando che cresca e ci trasformi. Non è una verità che si impone. […]

La fede passa per la “resa” alla Parola che attrae tutti a sé. Allora la fede stessa di-venta vita nuova.

2. Se volessimo definire la natura e il contenuto della fiducia assoluta, direi che è l’esperienza di una riconciliazione: si va verso la propria casa. Certo, facciamo uso di metafore, adopero immagini, ma come parlare diversamente? Il segreto nascosto in noi è quello della nostra vera dimora che non ci appartiene. Essa costituisce la residenza dell’Invisibile in noi.

L’infelicità degli uomini consiste nel fatto che, spesso, si ingannano! Non vogliono che stare lontano da un tesoro segreto che non li rapporta con l’immediato. Al contra-rio, noi tradiamo senza vergogna l’ascolto che ci conduce verso questo luogo e la chiamata dell’origine sempre futura.

3. L’amore trascende sempre, è l’agente di ogni trascendenza nell’uomo. E per questo apre il futuro; non l’avvenire, che è il domani che si presume certo, ripetizione con variazioni dell’oggi e replica del passato: il futuro, l’eternità, quell’apertura senza limiti a un altro spazio e a un altro tempo, a un’altra vita che ci appare davvero come la vita. Il futuro che attrae anche la storia.

Ma l’amore ci proietta verso il futuro obbligandoci a trascendere tutto quello che promette. La sua promessa indecifrabile squalifica ogni raggiungimento, ogni realizza-zione. L’amore è l’agente più poderoso della distruzione, perché scoprendo l’inadegua-tezza e a volte l’inutilità del suo oggetto, lascia aperto un vuoto, un nulla che atterrisce nel momento in cui viene percepito. È l’abisso in cui sprofonda non solo l’amato, ma la vita, la realtà stessa di colui che ama. È l’amore che scopre la realtà e l’inutilità delle cose, che scopre il non-essere e anche il nulla. […]

È il futuro inimmaginabile, l’irraggiungibile futuro di quella promessa di vita vera che l’amore insinua in chi lo sente. Il futuro che ispira, che consola del presente facen-do perdere la fiducia in esso; che raccoglierà tutti i sogni e le speranze, da cui scaturi-sce la creazione, il non previsto. È libertà senza alcuna arbitrarietà. Ciò che attrae il di-venire della storia, che corre alla sua ricerca. Quello che non conosciamo e ci invita a conoscere. Quel fuoco senza fine che soffia nel segreto di ogni vita. Ciò che unifica con il volo che trascende vita e morte, semplici momenti di un amore che rinasce sempre da se stesso. Quanto dell’abisso del divino è più nascosto; l’inaccessibile che discende in ogni istante.

4. La volontà di Dio può essere molto profondamente nascosta sotto le tante pos-sibilità che ci si presentano. Né essendo essa un sistema di regole stabilito in partenza, ma essendo ogni volta nuova e diversa nelle varie situazioni della vita, bisogna conti-nuamente discernere quale essa sia. In tale discernimento devono collaborare tra loro il cuore, la mente, l’osservazione e l’esperienza. Appunto […] perché tale grazia vuole essere ogni mattina nuova tale discernimento della volontà di Dio è una cosa tanto se-ria.

Né la voce del cuore, né alcuna ispirazione, né alcun principio universalmente vali-do può infatti essere scambiato con la volontà di Dio, che si rivela solo di volta in volta in maniera nuova a colui che di volta in volta cerca di discernerla. Poiché, infatti, la conoscenza di Gesù Cristo, la metamorfosi, il rinnovamento, l’amore, e quale che sia-no i nomi che vogliamo usare, sono infatti qualcosa di vivo e non qualcosa di dato, di fisso e di acquisito una volta per tutte, per questo con ogni nuovo giorno si pone la domanda di come io rimanga e sia conservato oggi e qui in questa situazione, in questa nuova vita con Dio e con Gesù Cristo. Ma appunto tale domanda è il senso del discer-nimento della volontà di Dio.

5. Gesù ci esorta a partecipare all’opera di Dio, come ha fatto lui. Di solito non consideriamo le cose da questo punto di vista. Comunemente, riteniamo che le cose da farsi siano la nostra opera. Dio entra nel quadro come qualcuno che può aiutarci a com-piere il nostro lavoro. Dobbiamo pregare, si dice, per ricevere la grazia di Dio. In realtà ciò che si deve compiere è l’opera di Dio e si può dire che siamo noi a dare una mano partecipando a questa grande Opera. La grazia o libero dono di Dio è meglio intesa proprio come concessione del privilegio di partecipare.

Ma prima di tutto abbiamo bisogno di diventare abbastanza liberi e umili da agire in questa direzione.

[…] Possiamo rinunciare a fare le nostre cose e cominciare a partecipare all’unica impresa efficace e reale: l’opera di Dio. Questo può includere molte delle cose che stiamo già facendo , ma rinnovando il modo in cui le facciamo, introducendo una nuova motivazione. […] Anche la propria trasformazione, in ultima analisi, è opera di Dio.

L’opera di Dio, come la sua sapienza, è rivoluzionaria. Capovolge il mondo. Noi vi partecipiamo aggiungendo le nostre voci alle molte voci profetiche che si alzano corag-giosamente oggi. Ci sono moltissime persone, in tutto il mondo, che compiono l’opera di Dio. […]

La via di Gesù è un cammino che ci porta verso la libertà, la libertà radicale, che ci permette di partecipare alla grande opera d’arte di Dio, liberamente, spontaneamente, creativamente, tutti insieme.

6. Il comandamento dell’amore rivela i discepoli. Eppure, ogni sua buona appros-simazione, da parte di chiunque altro, non deve eccitare la loro gelosia, bensì la loro gratitudine. Gesù è venuto per rendere testimonianza alla verità di Dio. Quando Pilato pone la sua domanda («Che cos’è la verità?»), Gesù tace. Esiste una disciplina dell’arcano – estranea, come in Gesù, a ogni esoterismo – che comunica grandezze in-commensurabili svincolandosi, a proprio rischio, dalle trappole dello svilimento inte-ressato. E restituisce intatta, sgomberando il terreno da ogni alibi pretestuoso, la re-sponsabilità dell’accoglienza della verità, purificata – attraverso l’esposizione del testi-mone che non parla per sé e non tace per sé – da ogni pretestuosa apparenza di preva-ricazione.9

7. Non devi attendere che Dio venga a te

E dica: Eccomi.

Un Dio che professi la sua forza non ha senso.

Devi sapere che Dio soffia in te come il vento

Sin dagli inizi,

e se il cuore ti brucia e non si vela,

c’è lui dentro, operante.

venerdì 18 novembre 2011

domenica 20 novembre seconda di Avvento

Lettura del profeta Isaia 51, 7-12a

Così dice il Signore Dio: / «Ascoltatemi, esperti della giustizia, / popolo che porti nel cuore la mia legge. / Non temete l’insulto degli uomini, / non vi spaventate per i loro scherni; / poiché le tarme li roderanno come una veste / e la tignola li roderà come lana, / ma la mia giustizia durerà per sempre, / la mia salvezza di generazione in generazione. / Svégliati, svégliati, rivèstiti di forza, / o braccio del Signore. / Svégliati come nei giorni antichi, / come tra le generazioni passate. / Non sei tu che hai fatto a pezzi Raab, / che hai trafitto il drago? / Non sei tu che hai prosciugato il mare, / le acque del grande abisso, / e hai fatto delle profondità del mare una strada, / perché vi passassero i redenti? / Ritorneranno i riscattati dal Signore / e verranno in Sion con esultanza; / felicità perenne sarà sul loro capo, / giubilo e felicità li seguiranno, / svaniranno afflizioni e sospiri. / Io, io sono il vostro consolatore».

SALMO Sal 47 (48)

® Il tuo nome, o Dio, si estende ai confini della terra.
Grande è il Signore e degno di ogni lodenella città del nostro Dio.La tua santa montagna, altura stupenda,è la gioia di tutta la terra. ®Il monte Sion, vera dimora divina,è la capitale del grande re.Dio nei suoi palazziun baluardo si è dimostrato. ®
Come avevamo udito, così abbiamo vistonella città del Signore degli eserciti,nella città del nostro Dio;Dio l’ha fondata per sempre. ®
O Dio, meditiamo il tuo amore dentro il tuo tempio.Come il tuo nome, o Dio,così la tua lode si estende sino all’estremità della terra;di giustizia è piena la tua destra. ®
Circondate Sion, giratele intorno.Osservate le sue mura,passate in rassegna le sue fortezze,per narrare alla generazione futura:questo è Dio, il nostro Dio in eterno e per sempre. ®

EPISTOLA
Lettera di san Paolo apostolo ai Romani 15, 15-21

Fratelli, su alcuni punti, vi ho scritto con un po’ di audacia, come per ricordarvi quello che già sapete, a motivo della grazia che mi è stata data da Dio per essere ministro di Cristo Gesù tra le genti, adempiendo il sacro ministero di annunciare il vangelo di Dio perché le genti divengano un’offerta gradita, santificata dallo Spirito Santo.Questo dunque è il mio vanto in Gesù Cristo nelle cose che riguardano Dio. Non oserei infatti dire nulla se non di quello che Cristo ha operato per mezzo mio per condurre le genti all’obbedienza, con parole e opere, con la potenza di segni e di prodigi, con la forza dello Spirito.Così da Gerusalemme e in tutte le direzioni fino all’Illiria, ho portato a termine la predicazione del vangelo di Cristo. Ma mi sono fatto un punto di onore di non annunciare il Vangelo dove era già conosciuto il nome di Cristo, per non costruire su un fondamento altrui, ma, come sta scritto: «Coloro ai quali non era stato annunciato, lo vedranno, e coloro che non ne avevano udito parlare, comprenderanno».

VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Matteo 3, 1-12
In quei giorni venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!».Egli infatti è colui del quale aveva parlato il profeta Isaia quando disse: «Voce di uno che grida nel deserto: / Preparate la via del Signore, / raddrizzate i suoi sentieri!».E lui, Giovanni, portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette e miele selvatico.Allora Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: «Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: “Abbiamo Abramo per padre!”. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo. Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».



VANGELO: Mt 3,1-12
La seconda sezione del Vangelo secondo Matteo (Mt 3,1 – 4,22) comprende diversi passi che servono da “introduzione” alla narrazione: si è davvero agli «Inizi dell’attività di Gesù in Galilea» ed è corretto tenere uniti i capp. 3 e 4.
In questa sezione introduttiva, è possibile intravede una struttura simmetrica, che pone in primo piano il Battista.
La simmetria tra la predicazione del Battista (Mt 3,1-12) e la predicazione di Gesù (Mt 4,17) è sorprendente ed è un elemento che dovrà essere spiegato quando se ne da un’adeguata esegesi. Le parole del maestro Giovanni sono infatti ripetute da Gesù, senza alcuna variazione, all’inizio della sua attività in Galilea, non appena Giovanni è imprigionato per ordine di Erode Antipa (cf vv. 3 e 17: μετανοεῖτε· ἤγγικεν γὰρ ἡ βασιλεία τῶν οὐρανῶν «Cambiate il cuore! Si è avvicinato, infatti, il regno dei cieli!»).
È importante anche sottolineare la simmetria che viene a crearsi tra la “vocazione” di Gesù, mentre era discepolo di Giovanni, e la “vocazione” dei primi discepoli che Gesù chiama sulle sponde del lago di Genezaret:
a) l’attività di Giovanni Battista: 3,1-17
i. la predicazione del Battista (3,1-12)
ii. Battesimo di Gesù e rivelazione come servo di JHWH (3,13-17)
b) le tentazioni ovvero la decisione del modo di quale Messianismo: 4,1-11
a') arresto di Giovanni e inizio dell’attività di Gesù: 4,12-22
i. Gesù nella «Galilea delle genti» (4,12-17)
ii. la chiamata dei primi discepoli di Gesù (4,18-22)
vv. 1-4: Il momento storico è lasciato da Matteo volutamente indeterminato: Giovanni Battista era una figura ben nota nel I secolo giudaico (cf Giuseppe Flavio). Egli fa par-lare di sé, per la sua predicazione nel deserto della Giudea, nella zona di là del Giorda-no. Con l’aggiunta «della Giudea», Matteo mostra che la rottura con la società (il deser-to) non porta al di fuori della terra promessa (al contrario di Gv 1,28). La sua visione teologica coglie nell’intera umanità la pienezza di Israele.
L’attività di Giovanni è di «proclamare» (κηρύσσειν) come un banditore, questo messaggio: «Cambiate il cuore (μετανοεῖτε), perché il regno di Dio è vicino!». La vici-nanza del regno è la notizia; il cambiamento del cuore è la condizione perché tale re-gno sia possibile ed esso si manifesta cambiando l’atteggiamento verso l’altro e adot-tando una condotta di giustizia.
Il cambiamento richiesto da Giovanni è «pentimento», che non va confuso con la «conversione» (ἐπιστροφή), un vocabolo a valenza teologica che dice il ritorno a Dio. Anche nei LXX il verbo ebraico šûb «convertirsi» non è di norma tradotto con μετα-νοεῖν. In Marco e Matteo, la conversione si esprime con la fede o adesione a Gesù. Dal momento in cui sarà presente nel mondo il «Dio con noi» (Mt 1,23), allora sarà neces-sario «tornare» a lui. Dato che Gesù non è ancora apparso in scena, il precursore invita al cambiamento di vita, come farà Gesù stesso (Mt 4,17) prima di darsi a conoscere. Il cambiamento di vita (μετάνοια) ha la propria radice nella predicazione profetica. Il suo paradigma è espresso bene da Is 1,16-17:
Cessate di agire male,
imparate ad agire bene.
«Il regno di Dio» esprime la signoria di JHWH sulla storia del mondo intero. L’ebraico malkût e la sua traduzione greca βασιλεία dicono anzitutto la dignità regale, ma anche la struttura del «governare», nonché il territorio e un insieme di popoli. Mat-teo preferisce la dizione giudaizzante «regno dei cieli», con la sostituzione del nome di-vino, ma il contenuto è del tutto identico alla formula «regno di Dio». All’epoca di Giovanni e Gesù era oggetto di viva attesa. Molte correnti del Giudaismo ritenevano che si sarebbe realizzato con l’avvento del Messia, re discendente e successore di Da-vide, il quale avrebbe vinto i pagani e restaurato la gloria di Israele come nazione. Gio-vanni Battista, tuttavia, esigendo il cambiamento come condizione per il regno, mostra che esso non è soltanto frutto dell’intervento di Dio, ma richiede la collaborazione dell’uomo. Si pensava anche che il Messia dovesse purificare anche lo stesso Israele, separando al suo interno giusti e peccatori.
Matteo riferisce alla predicazione di Giovanni un testo di Isaia. La preparazione di cui il profeta parla coincide col cambiamento che Giovanni chiedeva. La voce grida «nel deserto»: il luogo dove si colloca il banditore (ἐν) è anche il luogo dove esercita la sua attività. «Gridare nel deserto» nel senso di parlare invano, senza che nessuno diaretta, non avrebbe significato, dato che la voce di Giovanni trova eco immediata «fuori» del deserto, a Gerusalemme e in Giudea (Mt 3,5).
Basandosi sul testo di Mal 3,23: «Io vi manderò il profeta Elia, prima che giunga il Giorno del Signore», le prime scuole rabbiniche avevano già sviluppato l’idea che Elia sarebbe dovuto giungere come precursore del Messia, per purificare Israele e preparar-lo all’arrivo del regno messianico (cf Mt 17, 10). Per il suo vestito, e in particolare per la cinghia di cuoio alla cintura, Giovanni è presentato con gli stessi indumenti di Elia (cf 2Re 1, 8). In questo modo Matteo ne precisa il carattere di precursore (cf Mt 11,14; 17,12s). Sarà lui a precedere il Giorno del Signore, cioè la venuta del Messia. La vici-nanza del regno si associa così con la prossimità del Messia. Ma era anche un indizio molto preciso che Giovanni il Battista non osservava la purità nel modo ossessivo della comunità di Qumrān da cui non era fisicamente molto lontano. Mentre a Qumrān si vestiva solo lino per evitare ogni eventuale contaminazione derivata da pelli di animali morti, il Battista vestiva addirittura pelli di cammelli e cinture di pelle.
Anche il cibo, ricordato non certo per la sua straordinarietà, era un indizio della considerazione con cui metteva in pratica le leggi sulla purità (ṭohŏrût) degli alimenti. Giovanni utilizza l’alimento che ha a portata di mano, anche se impuro (ṭāmēʾ), senza dipendere dalla società da cui si è separato.
vv. 5-12: La risposta alla proclamazione di Giovanni è unanime: la capitale e tutti gli abitanti del paese giudaico accorrono alla sua proclamazione («tutta la Giudea» signifi-ca tutto il paese giudaico: cf Mc 1,5; Lc 1,5; Erode il Grande, «re di Giudea»: At 10,37; 26,20); accorre gente anche dalla regione vicina al fiume. Si stabiliscono così due poli opposti: Gerusalemme, sede delle autorità religioso-politiche e centro del culto ufficia-le, e il deserto, da dove si fa udire la voce di Giovanni. L’affluenza massiccia verso quest’ultimo è un plebiscito in suo favore e contro l’istituzione giudaica; il popolo esprime così il suo profondo scontento nei confronti dell’istituzione e dei suoi dirigen-ti.
Il battesimo, o immersione in acqua, era un rito comune nella cultura giudaica. Si-gnificava la morte a un passato che veniva simbolicamente sepolto nell’acqua. In ambi-to civile si utilizzava per indicare – ad esempio – l’emancipazione di uno schiavo e in quello religioso la conversione di un proselito. Qui significa il cambiamento di vita: il passato d’ingiustizia resta sepolto. Ne consegue che il battesimo va accompagnato da un riconoscimento dei «peccati» cioè delle ingiustizie commesse. Questa è la prepara-zione per il regno di Dio.
I farisei erano un modello di pia religiosità e si gloriavano della loro fedeltà alla Leg-ge interpretata secondo la tradizione rabbinica. Per la loro esemplarità, almeno appa-rente (cf Mt 23,13-36), esercitavano un grande influsso sul popolo; rappresentavano il potere spirituale. I sadducei invece erano la classe dominante. Tra loro vi erano i gran-di proprietari terrieri e le famiglie dell’aristocrazia sacerdotale; rappresentavano il pote-re economico, religioso e politico. Molti dunque si avvicinano a Giovanni per ricevere il suo battesimo, ma senza il proposito di riconoscere l’ingiustizia in cui vivono, né di rettificare la propria condotta. In vista della reazione del popolo, il sistema oppressore vuole in qualche modo integrare la figura di Giovanni e il movimento da lui suscitato.
Giovanni non li accetta, li rimprovera anzi, violentemente. «Razza di vipere» (γεννή-ματα ἐχιδνῶν) caratterizza le due categorie come agenti di morte. Giovanni qualificacosì il potere politico-religioso nella sua relazione con gli uomini. Lo stesso farà Gesù con i farisei e dottori della legge (Mt 12,34; 23,33). «Ira» (ὀργή): nell’ebraico biblico e nel greco biblico si esprime di frequente una realtà attraverso i sentimenti che la pro-vocano o che essa stessa provoca; anche l’esito giudiziario di condanna è espresso con «ira». Giovanni suppone che Dio o il Messia come re che giunge sentenzierà la con-danna; i farisei e i sadducei vogliono evitarlo assoggettandosi al rito esterno ma senza adempiere la condizione richiesta, il cambiamento del sistema di vita.
Matteo distingue quindi fra la massa della gente che accetta il battesimo di Giovan-ni e adempie alla condizione proposta (Mt 3,5s) e i circoli influenti che non hanno il proposito di compierla. Vogliono esprimere una rottura con l’ingiustizia ma senza cor-reggere la loro condotta personale. Costoro credono che sia sufficiente discendere da Abramo per essere salvati. Giovanni demolisce una tale sicurezza. Non la stirpe conta, ma le opere. La discendenza di Abramo può provenire anche da fuori di Israele. Dio può suscitarla persino da quanto è apparentemente incapace di vita («queste pietre»). Allusione, sulla bocca del Battista, al futuro ingresso dei pagani nel regno di Dio (Mt 8,11). Giovanni attende che quando arriverà il Messia vi sarà un giudizio imminente e severo. Il frutto buono deriva dal cambiamento di vita (Mt 3,8). Non bastano dunque riti esteriori per accogliere il regno di Dio, si richiede un cambiamento di vita. Chi non lo compie ne verrà escluso. La condanna è quella dell’albero che non dà frutto, la di-struzione attraverso il fuoco. La separazione che il Messia effettuerà non sarà dunque basata sulla purezza di sangue né sulle pratiche di culto (sadducei), né sulla fedeltà alle prescrizioni della Legge (farisei), ma sull’atteggiamento nei confronti dell’uomo.
Giovanni paragona il suo battesimo a quello di colui che deve giungere. Si dichiara precursore di qualcuno più forte di sé. Il proposito del suo battesimo è quello di susci-tare il cambiamento di vita (μετάνοια). Colui che viene porta un battesimo molto su-periore al suo, fatto di Spirito Santo e fuoco. «Santo» applicato allo Spirito significa in primo luogo la sua appartenenza alla sfera divina; in secondo luogo la sua attività «san-tificatrice» o «consacratrice»; è lui a «separare» l’uomo, trasferendolo nella sfera di Dio. La sua comunicazione interiore di vita divina trasforma l’uomo, lo mantiene in contat-to con Dio e gli conferisce la fedeltà a lui (Ez 36,26s). Il proposito umano di cambiare condotta non acquista autentica solidità finché non è confermato dallo Spirito. Il bat-tesimo del Messia effettuerà un giudizio: per chi si è preparato correggendosi sarà puri-ficazione e infusione di Spirito (forza di vita e fecondità), effetto del favore di Dio; perchi non ha cambiato condotta sarà distruzione espressa in precedenza, manifestazione dell’ira divina (Mt 3,10). Di se stesso Giovanni afferma che «non merita neppure di to-gliere i sandali a colui che viene». Il simbolo di togliere i sandali è ispirata da una antica usanza matrimoniale: quando un uomo moriva senza figli il parente più prossimo do-veva sposare la vedova per dare discendenza al defunto (Dt 25,5). Nel caso in cui non lo facesse un altro poteva prendere il suo posto; il gesto simbolico che significava tale appropriazione del diritto del primo si compiva togliendogli uno o entrambi i sandali. Giovanni riconosce che chi viene è più forte di lui e ha diritto di priorità. Si annuncia il tema dello Sposo, che presuppone quello dell’alleanza. Chi viene fonda un’alleanza nuova (cf Mt 26,28), in cui prende il posto di Dio (lo Sposo) in quanto «Dio con noi» (Mt 1,23).
Giovanni ripete l’idea del giudizio con un altro simbolo: quello del seminatore che raccoglie le messi. Il suo grano che verrà riunito saranno quanti hanno prodotto il frut-to del cambiamento di vita; il verbo «riunire» ricorda la riunione escatologica delle tri-bù di Israele. La paglia sarà bruciata con fuoco inestinguibile, che ne assicura l’assolu-ta distruzione.
La figura del Messia, come appare nelle parole del Battista, corrisponde a una certa aspettativa di Israele, condivisa da Giovanni, che l’applica nella sua critica contro i fa-risei e la classe dei dirigenti (sadducei). Il movimento iniziato dal Battista è dunque di radice popolare e attende che il Messia faccia giustizia senza ritardi. Considera i diri-genti come nemici del regno di Dio e assolutamente bisognosi di un cambiamento ra-dicale. Nella prospettiva del regno, essi devono rinunciare al loro modo di procedere; la loro attuale condotta è incompatibile con esso. Si tratta di una condotta particolar-mente perversa («razza di vipere»).
Tuttavia, l’azione del Messia come giudice, annunciata da Giovanni il Battista, non corrisponde alla successiva attività di Gesù e ciò provocherà una crisi nel Battista (cf Mt 11,2-6).2
2 Il commento a Mt 3,1-12 dipende in parte da J. MATEOS - F. CAMACHO, Il vangelo di Matteo. Lettura commentata, Traduzione di T. TOSATTI (Bibbia per Tutti), Cittadella Editrice, Assisi 1986, pp. 40-46.
3 D. BONHOEFFER, Voglio vivere questi giorni con voi, a cura di M. WEBER, Traduzione dal tedesco di A. AGUTI - G. FERRARI (Books), Editrice Queriniana, Brescia 2007, p. 390.
PER LA NOSTRA VITA:
1. Un profeta è un uomo che, a un preciso e sconvolgente momento della sua vita, sa di essere afferrato da Dio e chiamato da lui, e che non può fare altrimenti che anda-re dagli uomini e annunciare la volontà di Dio. La chiamata è divenuta il punto di svolta della sua vita, e per lui vale oramai soltanto l’andare dietro a questa chiamata, anche se portasse alla disgrazia e alla morte. […]
Il punto centrale, a partire dal quale è acquisita la comprensione dell’anima profeti-ca, è il fatto che il profeta sa di essere alleato con Dio e che questa alleanza renderà la sua vita una tragedia, una tragedia d’incomparabile serietà, proprio perché si tratta di un’alleanza con Dio. Dal fatto che il profeta sia alleato con Dio dipende che le sue pa-role siano così strane, che egli sia così inflessibile, così temibile, che sia incomprensibi-le dal punto di vista umano e psicologico. […]
Dio lacera, manda in frantumi, annienta l’armonia spirituale dell’uomo che è il suo annunciatore. Dio stesso è autore della tragedia della vita del profeta, affinché in que-sta sconfitta dell’uomo venga alla luce la forza e il peso della richiesta divina.3
2. Profeta, precursore, Giovanni compie infine la sua missione: preparare le vie al-la gloria di Colui che viene nel deserto. L’avvertimento escatologico è prossimo. Il Verbo di Dio sta per giungere di fronte all’uomo sua creatura. È il Verbo onnipotente: «Ecco che i popoli sono come goccia che cade nel secchio» (Is 40,15). Verrà come un pastore per pascolare il suo gregge, radunare le pecore, tenendo in braccio gli agnelli (cf Is 40,11). Egli viene a visitare i suoi. E questa ora decisiva della storia è ormai im-minente. Giovanni è inviato per predisporre i cuori ad accogliere il Signore.
Il suo messaggio sarà messaggio di conversione: «Egli camminerà davanti al Signo-re… per ricondurre i cuori dei padri verso i figli ed i ribelli ai sentimenti dei giusti» (Lc 1,17). Poiché gli uomini si sono allontanati da Dio. L’antico peccato di Adamo conti-nua a riprodursi in essi. Il peccato di Adamo era la presunzione dell’uomo di essere au-tosufficiente: “Noi non abbiamo bisogno di Dio”. Era la presunzione dell’umanità di essere artefice del proprio destino e garante della propria salvezza. Ma, in tal modo, l’uomo si autodistrugge poiché egli non esiste e non agisce che in relazione alla sorgen-te divina dalla quale prende vita e alla quale si riferisce. È in questo mondo peccatore che Dio viene.
Questo mondo, Giovanni, non può salvarlo. Persino lui, il maggiore dei profeti, co-nosce la vanità di qualsiasi predicazione. Egli non sarà l’apportatore di una vita di sag-gezza, ma l’annunciatore di un avvenimento. A questo mondo peccatore sta per essere offerta una salvezza. La liberazione è prossima. Il Verbo di Dio redimerà Adamo e lo riporterà al Padre. In lui verrà restaurata la comunicazione tra Dio e l’uomo. Il Regno di Dio è prossimo. Dio regnerà sovranamente, anzitutto nell’umanità di Gesù Cristo, tutta quanta riferita a lui; in ogni uomo, poi, che potrà partecipare a questa salvezza realizzata in Gesù Cristo.4
3. Tutto è sorprendente nel destino del Precursore. Il Signore davanti alla folla ne dà una testimonianza piena di mistero: egli è più che un profeta (Mt 11,9). Un profeta ri-vela i segreti di Dio, trasmette agli uomini la sua parola; Giovanni è un testimone che attesta l’evento prendendovi parte; egli è più che un profeta poiché la sua testimonianza è una delle condizioni umane della missione di Cristo: Conviene che così adempiamo ogni giustizia (Mt 3,15).5
4. In Giovanni la possibilità della salvezza è collegata alla disponibilità a sottoporsi al battesimo di conversione e a portare “frutti” (Lc 3,9) di conversione. Pure Gesù co-nosce il messaggio della conversione (Mc 1,15), che però è strettamente collegato con la testimonianza in favore del regno, che viene agli uomini con una forza integrante e riconciliante. Il messaggio di questo regno trasformante, rinnovante e vivificante è per-ciò euanghélion, vangelo, buona novella. Rispetto all’oscuro sfondo apocalittico dell’im-minente fine collettiva di questa generazione perversa […]: prevale, nella predicazione di Gesù non l’aspetto dell’annuncio della perdizione, bensì piuttosto l’aspetto ottimistico dell’annuncio della salvezza.6
5. Dio ha un amore fedele, incondizionato; neppure il peccato può condizionarlo. Egli infatti perdona, è tenerezza e misericordia; appena vede nell’uomo un minimo di resipiscenza, subito entra con tenerezza infinita e distrugge il peccato. Ma nonostante il perdono, il cuore dell’uomo rimane invincibilmente peccatore; occorre allora che Dio, mentre perdona e distrugge il peccato, trovi un altro modo per garantirsi una ri-sposta all’alleanza. Ecco l’intuizione dei profeti: Dio perdona il peccato del suo popolo ed egli stesso, mediante il Messia e lo Spirito, verrà ad abitare nel cuore del popolo. Egli stesso dirà sì alla propria alleanza. L’alleanza antica, in cui Dio vuole consangui-neità con il suo popolo, si realizza perché in questa nuova alleanza, egli non è solo co-lui che fa l’alleanza, ma anche colui che risponde di sì all’alleanza. […]
L’accesso a Dio da parte dell’uomo non è facile: non è una passeggiata gioiosa, che l’uomo compie incontro a Dio, ma ha a che fare con l’umile riconoscimento di una si-tuazione di imperfezione, di infedeltà che radicalmente abita nel cuore dell’uomo. E’ l’esperienza dell’uomo peccatore, che sa di avere labbra impure e cuore impuro. L’idea di comunione con Dio dunque comporta un rossore, un mettersi la mano sulle labbra per dire: “Come posso io comparire davanti a Dio?” Ma dà anche un tocco nuovo, stupendo, commovente al rapporto del popolo con Dio. Il popolo sta davanti a Dio non soltanto come uno che ama, ma come uno che ama con tremore, sapendo tutta la fragilità e la povertà del proprio amore, conoscendo come esso venga fuori, goccia a goccia, da un’esperienza di durezza, di fatica, di superficialità, di ottusità, connaturata col cuore dell’uomo. Accanto a questa esperienza, però, il popolo fa anche quella della tenerezza dell’amore di Dio: egli sa che non solo Dio lo ama, ma lo ama perdonando; e un amore che perdona è l’amore più sublime.

venerdì 4 novembre 2011

Domenica 6 Novembre 2011 NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO RE DELL’UNIVERSO


I santi, non tutti hanno cominciato bene, ma tutti hanno finito bene.

Se le diverse esperienze che facciamo ci fanno scegliere di essere persone che amano e fanno dono di sé, va bene.

Se le esperienze ci lasciano immaturi e cattivi, sono esperienze tragiche.

Lettura del secondo libro di Samuele 7, 1-6. 8-9. 12-14a. 16-17

In quei giorni. Il re, quando si fu stabilito nella sua casa, e il Signore gli ebbe dato riposo da tutti i suoi nemici all’intorno, disse al profeta Natan: «Vedi, io abito in una casa di cedro, mentre l’arca di Dio sta sotto i teli di una tenda». Natan rispose al re: «Va’, fa’ quanto hai in cuor tuo, perché il Signore è con te». Ma quella stessa notte fu rivolta a Natan questa parola del Signore: «Va’ e di’ al mio servo Davide: Così dice il Signore: “Forse tu mi costruirai una casa, perché io vi abiti? Io infatti non ho abitato in una casa da quando ho fatto salire Israele dall’Egitto fino ad oggi; sono andato vagando sotto una tenda, in un padiglione”. Ora dunque dirai al mio servo Davide: Così dice il Signore degli eserciti: “Io ti ho preso dal pascolo, mentre seguivi il gregge, perché tu fossi capo del mio popolo Israele. Sono stato con te dovunque sei andato, ho distrutto tutti i tuoi nemici davanti a te e renderò il tuo nome grande come quello dei grandi che sono sulla terra. Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu dormirai con i tuoi padri, io susciterò un tuo discendente dopo di te, uscito dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Egli edificherà una casa al mio nome e io renderò stabile il trono del suo regno per sempre. Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio. La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a te, il tuo trono sarà reso stabile per sempre”». Natan parlò a Davide secondo tutte queste parole e secondo tutta questa visione.

SALMO

Sal 44 (45®

Dio ti ha consacrato con olio d’esultanza.

Liete parole mi sgorgano dal cuore: io proclamo al re il mio poema, la mia lingua è come stilo di scriba veloce. ®

Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia, perciò Dio ti ha benedetto per sempre. ®

Ami la giustizia e la malvagità detesti: Dio, il tuo Dio, ti ha consacrato con olio di letizia, a preferenza dei tuoi compagni. ®

Ai tuoi padri succederanno i tuoi figli; li farai prìncipi di tutta la terra. Il tuo nome voglio far ricordare per tutte le generazioni; così i popoli ti loderanno in eterno, per sempre. ®

Lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi 1, 9b-14

Fratelli, non cessiamo di pregare per voi e di chiedere che abbiate piena conoscenza della sua volontà, con ogni sapienza e intelligenza spirituale, perché possiate comportarvi in maniera degna del Signore, per piacergli in tutto, portando frutto in ogni opera buona e crescendo nella conoscenza di Dio. Resi forti di ogni fortezza secondo la potenza della sua gloria, per essere perseveranti e magnanimi in tutto, ringraziate con gioia il Padre che vi ha resi capaci di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre / e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore, / per mezzo del quale abbiamo la redenzione, / il perdono dei peccati.

VANGELO Giovanni 18, 33c-37

In quel tempo. Pilato disse al Signore Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».

Commento

Quando Pio XI istituì nel 1925 la festa di Cristo Re, voleva reagire contemporanea-mente agli eccessi del laicismo moderno, che vorrebbe fare a meno di Dio, e a quelli del cesaropapismo e del clericalismo, sempre tentati di «servirsi» di Dio a loro vantaggio. La regalità umana, così com’era intesa nelle culture antiche, solo in parte riesce ad esprimere il mistero di Gesù māšîa «unto» e quindi «re» e «sacerdote» (cf la magna charta della monarchia davidica di 2 Sam 7, Lettura).

L’ambiguità della regalità con il potere umano ha sempre portato Gesù a rifiutare, almeno sino alla morte in croce, il titolo di Messia, perché troppo intriso di attese poli-tiche, costruite sul nazionalismo e sulla lotta contro il potere romano.

La regalità alla quale Gesù tende è invece del tutto aliena da ogni forma di potenza. Gesù Cristo è re dell’universo in quanto «ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha fatto partecipare al suo regno di luce» (cf Epistola) ed è re dell’universo per elevare e portare alla pienezza della verità tutti gli uomini, per i quali egli è veramente «testimone della Verità» (cf Vangelo).

Gesù è Re per portare a piena umanizzazione la comunità degli uomini, infondendo in essa la speranza di un futuro di risurrezione e permettendo a ciascuno di costruire un mondo più umano nella collaborazione, nella fraternità e nella pace. Non ci si di-mentichi però che questo “singolare” re, per diventare il re dell’universo, ha speso la quasi totalità della sua vita nella quotidianità sorprendentemente insignificante di Nazaret.

Il testo del vangelo

Il racconto della Passione secondo Giovanni (Gv 18,1 – 19,42) è composto da tre sequenze principali: a) l’arresto (Gv 18,1-27); b) il processo romano con Pilato (Gv 18,28 – 19,22); c) la morte in croce (Gv 19,23-42).

Mi soffermo sulla seconda sequenza, perché ad essa appartiene la pericope liturgica. La sequenza centrale è articolata in due pannelli paralleli, composti ciascuno da quat-tro scene. L’alternanza degli incontri tra Gesù e Pilato, sempre ambientati all’interno del Palazzo, e gli incontri tra Gesù e i soldati oppure i Giudei, sempre ambientati all’esterno, conducono progressivamente a comprendere in che senso Gesù sia re, co-me recita – alla fine – l’iscrizione che viene fissata sopra la croce di Gesù come causa della sua condanna: «Gesù Nazareno, re dei Giudei».

La prima sequenza (Gv 18,33 – 19,8) comincia con l’interrogatorio di Pilato a Gesù: «Tu sei re?» e chiarisce l’origine e lo scopo della regalità di Gesù (18,33-38a). La scena seguente descrive la scelta dei Giudei di mettere a morte l’innocente Gesù per salvare il terrorista Barabba (18,38b-40). La regalità di Gesù non viene compresa e nel tentati-vo di togliersi dall’imbarazzo di una condanna senza giusta causa, Pilato fa flagellare Gesù e i soldati con le loro burla lo incoronano di spine (19,1-3). La prima sequenza si conclude con la presentazione dell’«Uomo» alla folla dei Giudei (19,4-8).

La seconda sequenza (Gv 19,9-42) riprende con l’interrogatorio di Pilato a Gesù: il discorso questa volta verte sul potere e sull’origine del vero potere (19,9-12). Ormai però non ci sono più margini di azione per Pilato: Gesù è condannato e Pilato che sie-de per giudicare è in verità giudicato dal condannato Gesù (19,13-15), consegnato ai soldati perché sia crocifisso (19,16-18). Molti dei Giudei però contestano l’iscrizione di Pilato, il quale conferma: «Rimane scritto quanto ho fatto scrivere!» (19,19-22). La sua iscrizione è la verità di quanto sta accadendo: il Messia regna dalla croce!

vv. 33-34: Pilato rientra nel Palazzo. Le scene di rivelazione avvengono sempre «den-tro» il Palazzo. Dal punto di vista storico, la localizzazione più verosimile è il Palazzo di Erode, che Pilato – stando a Giuseppe Flavio – preferiva alla più spartana Torre Anto-nia, ove stazionava la guarnigione militare a sorveglianza dell’area del Tempio.

Sono le autorità giudaiche del Tempio ad aver portato da lui Gesù, ma egli vuole capire di persona chi sia questo Gesù e lo fa chiamare. Il fatto che lo chiami «re dei Giudei» è molto spregiativo. Il titolo onorifico da parte giudaica sarebbe stato «re di Israele» cf Gv (1,49; 12,13). In questo caso, sulla bocca di Pilato, anche la dizione «giu-dei» che solitamente per Giovanni indica coloro che abitano a Gerusalemme e in Giudea, diventa spregiativa, sottolineando la differenza razziale e religiosa, la nazione co-me tale e non solo la casta dirigente. Per Pilato, poco poteva valere la determinazione religiosa di «Messia»; ai suoi occhi poteva essere solo un problema politico.

Pilato vuol sapere che cosa Gesù dice di se stesso.

La risposta di Gesù è altrettanto precisa: vuole sapere se il suo giudice romano lo sta giudicando con il diritto romano o semplicemente sta sintetizzando il giudizio somma-rio del Sinedrio.

vv. 35-36: Pilato non vuole riconoscersi un semplice strumento manovrato dalle auto-rità religiose di Gerusalemme, ma nel suo discorso tradisce subito tale dipendenza. Gesù è stato consegnato all’autorità romana dalla «nazione e dai sommi sacerdoti», una dizione un po’ strana per discolpare la classe sacerdotale.

Pilato rientra nei suoi ranghi di giudice romano: «Che hai fatto?», domanda tecnica anche nel processo giudaico. Pilato sa già il motivo per cui glielo avevano consegnato: Gesù pretende di essere il «Messia». Eppure tutta l’attività di Gesù aveva dimostrato che egli non voleva essere un agitatore di folle, ma un profeta di Dio...

Nelle parole di Pilato c’è anche il tentativo di riportare il problema di Gesù unica-mente nell’alveo di problematiche interne al Giudaismo, in modo da non dover attri-buire a Gesù una qualche colpa riconosciuta nell’ordinamento dell’occupazione roma-na della Giudea, come una rivolta contro Cesare o il tentativo di attribuirsi un titolo improprio di «re».

La risposta di Gesù non si riferisce alla domanda finale di Pilato («che cosa hai fat-to?»), ma a quella iniziale («Tu sei re dei Giudei?») e scarta subito il concetto di regalità di questo mondo. Gesù afferma di essere re, ma anche da subito precisa che si tratta di una regalità che non ha nulla a che vedere con la regalità temuta da Pilato. L’ordina-mento di questo «mondo» è un sistema d’ingiustizia, che opprime l’uomo, e di peccato (Gv 8,23). Gesù vuole servire la libertà di tutti gli uomini e di tutto l’uomo. Egli vuole essere quel «Figlio dell’Uomo» che dona la propria vita per la salvezza di tutti (Gv 12,13. 15. 32. 34; cf 3,3. 5. 14).

Per Gesù i re di questo «mondo» sono coloro che si appoggiano alla forza delle armi e impongono così il loro dominio: se la regalità di Gesù fosse stata di questo genere, avrebbe dispiegato tutti i suoi eserciti e avrebbe lottato per impedire quanto sta avve-nendo. Proprio in questo la sua regalità si distingue dalle altre. L’opposizione fra la sua posizione e quella di «questo mondo» è chiara; egli si è consegnato volontariamente e ha subito troncato la violenza di Pietro (Gv 18, 11). Rinunciando all’uso della forza ha voluto dire sin dall’inizio di non essere un re come gli altri. Non si è costituito rivale dei suoi avversari, contestando loro il potere, ma si è consegnato nelle loro mani. La sua regalità non ha la propria origine in nessuna legittimità di questo mondo: non è di qui, ha un fondamento completamente diverso (cf in parallelo Gv 8,23).

v. 37: La domanda di Pilato è conclusiva: se stanno le cose dette da Gesù, significa che Gesù in qualche modo si riconosce nel titolo di «re» e «Dunque, tu sei re?».

In effetti, Gesù risponde riconoscendo di essere «re», ma non il «re dei Giudei» e nemmeno un «re» tra gli altri re di questo mondo. La traduzione che ho offerto mi sembra la migliore per tradurre il greco di Giovanni, un po’ sibillino. σ λέγεις τι βασιλεύς εμι, γ ες τοτο γεγέννημαι κα ες τοτο λήλυθα ες τν κόσμον, να μαρτυρήσω τ ληθεί «sei tu a dire che io sono re, ma io per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità». Vi è dunque il riconoscimento di essere «re», «Messia». Eppure la sua mansione di re non riguarda il potere mondano e politico, ma il regno di Dio (cf Gv 10,16; 11,52); in quanto Figlio dell’Uomo, egli vuole che tutti nascano «dall’alto», da acqua e da Spirito (Gv 3,3. 5), e giungano a scoprire la pienezza della Verità, che è la rivelazione dell’amore del Padre, ovvero la vita stessa di Gesù in quanto Figlio.

La regalità di Gesù è tale che potrà e dovrà essere comunicata ai suoi discepoli (cf Gv 17,17s). Comunicando ai suoi discepoli la sua unzione messianica e la sua missione, li fa partecipi della sua condizione regale, perché tutti gli uomini e le donne di questo mondo possano essere liberi, con la dignità di figli di Dio e signori della creazioni, par-tecipando del dono dell’amore del Figlio Gesù.

La verità cui Gesù rende testimonianza, la verità che è lui stesso (Gv 14,6), si identi-fica con la luce e lo splendore della vita (Gv 1,4). Nel Quarto Vangelo la testimonianza di Gesù è ciò che abbiamo visto (3,11), ciò che ha visto personalmente e ha udito (3,32), la sua denuncia del mondo per il suo modo di agire perverso (7,7) e la sua stes-sa persona in relazione con la sua missione (8,14).

Nel suo aspetto positivo, la verità cui Gesù rende testimonianza è pertanto la sua stessa esperienza (Gv 3,11.32; 8,14b), quella dello Spirito che è vita e amore. Posse-dendo la pienezza dello Spirito, egli stesso è la vita, e di conseguenza la verità (14, 6). È la verità dell’amore di Dio per il mondo (3,16), manifestato nella sua persona e atti-vità; la sua missione rivela la vita che egli ha e comunica. Così Gesù è la verità su Dio perché ne manifesta l’amore, e la verità sull’uomo, in quanto è la realizzazione del pro-getto di Dio su di lui. Di questa verità egli rende testimonianza.

Tuttavia, il verbo usato (μαρτυρήσω, congiuntivo aoristo) sembra voler concentrare in un atto la sua testimonianza: sarà la sua morte in croce a riassumere e far culminare tutta la testimonianza della sua vita. Essa sarà la sua opera più grande, che darà la massima testimonianza (5,36); sarà la suprema manifestazione della gloria (17,1) e concluderà la realizzazione del progetto creatore (19,30).

La parola di Gesù mostra che la sua missione si realizza nella storia, pur essendo tutt’altro rispetto allo stile del mondo; e anche i discepoli dovranno essere «nel mondo», senza lasciarsi fagocitare «dal mondo».

Quindi le due caratteristiche della regalità di Gesù, la rinuncia all’uso della forza e la missione di rendere testimonianza alla verità, mostrano come egli eserciti la sua azione liberatrice. Per trarre fuori il popolo dall’oppressione in cui si trova, Gesù non combatte l’ordinamento ingiusto opponendo violenza a violenza (v. 36); Gesù libera anzitutto il popolo mostrandogli la falsità di ciò che crede: non è volontà di Dio che l’uomo sia schiavo. Tuttavia, alla falsa ideologia egli non ne contrappone un’altra, ma l’esperienza dell’amore che comunica vita (Gv 8,32: la verità che rende liberi).

Gesù non ottiene l’adesione dell’uomo con il mito dell’eroe o con l’uso della forza, ma offrendo la verità della vita. Quanti sono a favore di essa rispondono alla sua chia-mata: πς ν κ τς ληθείας κούει μου τς φωνς «Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». «Appartenere alla verità» è l’opposto di «appartenere a questo mondo» (18,36). Appartenere alla verità precede il fatto di ascoltare la voce di Gesù e ne è con-dizione. Fino all’ultimo Giovanni rimarca il suo grande principio: per ascoltare e dare adesione a Gesù si richiede una disposizione previa di amore per la vita e per l’uomo, o in altre parole che la vita sia la luce dell’uomo (1,4). Tale condizione indispensabile è stata formulata lungo il Quarto Vangelo in diversi modi: praticare la lealtà (3,21), ascoltare e apprendere dal Padre (6,45), voler realizzare il disegno di Dio (7,17), cono-scere il Padre (16,3). La verità cui Gesù rende testimonianza è la risposta all’aspirazione centrale dell’uomo: il desiderio di pienezza. La luce che è venuta nel mondo in Gesù è la concretizzazione ed espressione somma del progetto creatore di Dio, intrin-seco all’uomo stesso, che suscita e nutre il suo desiderio di vita. Coloro che si integrano nel sistema di ingiustizia e morte del mondo o che ne professano i principi sono nemici della vita; per questo non appartengono alla verità né ascoltano la voce di Gesù, cioè non gli danno la loro adesione (10,26).

Bisogna quindi leggere la sua regalità sullo sfondo dell’allegoria del pastore modello che dà se stesso per i suoi (Gv 10,11. 15), chiamati più ardi «suoi amici» (15,13), e per riunire i dispersi (11,52); egli non perderà nessuno di loro (18,9). Come re, è lui il Da-vide promesso, il pastore unico (Ez 34, 23: « Darò loro un pastore unico che le pascerà: il mio servo Davide; egli le pascolerà, sarà il loro pastore »). Il testo illude pertanto non solo alla regalità di Gesù, ma all’opposizione del pastore modello ai ladri e ai banditi (10,1. 8. 10). Per questo la verità cui Gesù dà testimonianza si oppone alla menzogna dei dirigenti (8,44.55). Coloro che lo riconoscono come re sono in mezzo al mondo (13,1; 7,11.15; cf 12,25), come lo era lui stesso, ma senza appartenergli 17, 14-16). La comunità che egli costituisce, il regno di Dio (3,3.5), prende una forma completamente diversa da quell’attesa.

I movimenti messianici tendevano a realizzare il regno di Dio all’interno delle cate-gorie della monarchia temporale (cf Gv 12,13.34). Gesù, il Messia-Re, non esercita il proprio regno come i re di questo mondo. Ciò non significa che non abbia incidenza sulla realtà sociale; la comunità che egli forma i presenta appunto come una alternativa non soltanto diversa, ma opposta ai sistemi di questo mondo. Il rapporto che vige fra Gesù e i suoi non è quello da signore a suddito, ma quello che intercorre tra chi Pro-pone la verità e coloro che l’accettano liberamente (cf Gv 15,13-15).

v. 38a: La battuta finale di Pilato dimostra il suo scetticismo, ma soprattutto il suo ve-ro interesse: la colpa di Gesù. Gesù si è dimostrato uno dei tanti sognatori, non lo con-sidera pericoloso e non preoccupa più di lui. Non c’è alcun reato commesso e allora non s’interessa più della sua persona. Quest’uomo di potere appartiene «a questo mondo», non alla verità, e non può ascoltare la voce di Gesù. L’offerta implicita di Ge-sù lo lascia insensibile. Non sa cosa sia la verità perché non conosce la vita.

PER LA NOSTRA VITA

1. Il nostro Padre è re, e tutti noi siamo principi ereditari. È vero che uno solo è Figlio a pieno diritto. Egli è venuto per proclamare il Regno del Padre: un regno paterno, e non un regno tirannico. E noi ci auguriamo che, dopo tanti regni e governi ingiusti o violenti, s’instauri davvero il regno del nostro Padre!

“Sei giusto, con giustizia governi l’universo

e stimi incompatibile con il tuo potere

condannare chi non merita castigo.

Perché la tua forza è il principio della giustizia,

ed esser padrone di tutti, tutti ti fa perdonare

ma tu, padrone del potere, giudichi con moderazione

e ci governi con molto indulgenza” (Sap 12,15-18).

[…] Io voglio pronunciare il tuo nuovo nome e riconoscere con gioia che il Padre di Gesù è il Re della Gloria.

Tu, Re Padre, hai celebrato le nozze del tuo Figlio, legittimo principe ereditario. Egli ha accettato e realizzato pienamente nella sua vita il tuo regno: lo ha annunciato, lo ha descritto nelle sue parabole e lo ha inaugurato. Come nel Sal 72, questo regno è un re-gno di giustizia in difesa dei poveri e di chi non ha diritti, un regno di prosperità dura-tura. Gesù non ha cercato di stabilirlo con la forza, servendosi di legioni di angeli; né ha voluto ribellarsi come Assalonne, contro un regno umano. Ha dichiarato che il suo regno non è di questo mondo (cfr Gv 18,36).

Il tuo Figlio ci ha comandato di proclamare e diffondere il tuo regno nella storia degli uomini. Nella preghiera noi ti chiediamo che esso “venga”; con l’azione opereremo perché venga.

Quand’è che potremo cantare al Padre,

che già viene

a reggere la terra:

reggerà l’orbe con giustizia

i popoli con rettitudine (Sal 98,9)?

Dovremo forse aspettare il compimento dell’Apocalisse?

Ha preso possesso del suo regno il Signore,

il nostro Dio, l’Onnipotente (Ap 19,6).9

2. Bisogna essere umili quando si tratta di Dio, sappiamo così poco di Lui. Siamo deboli e ignoranti quando si tratta di essere veraci nell’amare lui. Dio sa molto meglio di noi cosa occorre per noi, per e fare la sua volontà.

Siamo sempre debitori davanti a Dio quando si tratta di amore: rassicuriamo il no-stro cuore dinanzi a lui, che se in qualche cosa il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore.

Davanti a lui vale un’altra misura: tra grande e piccolo, tra attivo ed inerte. Ciò che dall’esterno può apparire debole e indigente, interiormente è pieno di forza e vitalità.

È la potenza della vita di Dio che opera nella nostra pochezza.10

3. Il fatto che milioni di uomini si siano nutriti del suo nome, che abbiano dipinto con oro il suo volto e fatto risuonare la sua parola sotto cupole di marmo, tutto questo non prova alcunché riguardo alla verità di quest’uomo. Non si può prestar credito alla sua parola sulla base della potenza che ne è storicamente scaturita: la sua parola è vera solo in quanto disarmata. La sua potenza è di essere privo di potenza, nudo, debole, povero: messo a nudo dal suo amore, fatto povero dal suo amore. Questa è la figura del più grande re dell’umanità, dell’unico sovrano che abbia chiamato i propri sudditi a uno a uno, con la voce sommessa della nutrice. Il mondo non poteva sentirlo. Il mondo sente solo quando c’è un po’ di rumore e potenza

L’amore è un re privo di potenza, Dio è un uomo che cammina ben oltre il tramon-to del giorno.

4. [Occorre] uno stile di vita che non discorda da quello di Gesù, che ha incarnato l’amore di Dio attraverso un’ospitalità delle persone più diverse incontrate nelle sue er-ranze, per paesi e villaggi. Egli fa precipitare Dio dal cielo regale della trascendenza, della purezza e della separatezza, per farlo accadere in una relazione fra persone differenti, con tutta la contingenza e l’instabilità, ma anche la promessa e la creatività che questo comporta. La verità umana, in questa concezione, non è quella del valore asso-luto né della sovranità bensì quella della relazione e della cura. Ogni identità esiste nella relazione: è solo nel rapporto con l’altro che cresco, cambiando. Ogni storia rinvia ad un’altra, e sfocia in un’altra. Ogni esistenza, ciascuno di noi, è sempre un grembo in formazione.

5. La salvezza divenuta manifesta in Gesù Cristo è una salvezza specifica. Essa porta il carattere della sua origine da Gesù, è cioè la pienezza di vita di Dio, potentemente imponentesi, che però continua a stare sotto la legge della sua ostile contesta-zione. Contro tale ostile contestazione essa non si impone con i mezzi della forza e della violenza, bensì more Dei, alla maniera di Dio divenuta manifesta in Gesù Cristo: ra-dunando, ispirando, superando la violenza, confidando nella superiore potenza di Dio rispetto alle potenze deleterie del mondo. La grandezza della potenza di Dio si è infatti manifestata nella risurrezione di Gesù come la sua donami (forza) capace di suscitare di nuovo la vita. Con questa potenza Dio si oppone in modo specifico a tutte le potenze e le potestà, la cui potenza consiste sempre nel fatto di lanciare delle minacce di morte o di dar effettivamente seguito a tali minacce. La potenza di Dio non consiste nel mettere a morte, bensì nella invincibilità della vita proveniente da lui.

Il giudizio di Dio sul mondo, consistente nella sua dynamis che si impone e che sta-bilisce la sua giustizia tra gli uomini come il nuovo ordinamento della vita, non rimane incontrastato. La natura specifica di questo giudizio esige che i giudicati lo accettino: senza la fede, senza la conversione alla rottura epistemologica che rende capaci di vede-re in colui che pende dalla croce il vincitore, senza la pistis Iesu Christu, senza la fede nel Crocifisso non esiste alcuna possibilità di pervenire alla vita voluta da Dio quale compendio della salvezza da lui donata.13

6. Fa piaga nel Tuo cuore

La somma del dolore

Che va spargendo sulla terra l’uomo;

Il Tuo cuore è la sede appassionata

Dell’amore non vano.

Cristo, pensoso palpito,

Astro incarnato nell’umane tenebre,

Fratello che t’immoli

Perennemente per riedificare

Umanamente l’uomo,

Santo, Santo che soffri,

Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,

Santo, Santo che soffri

Per liberare dalla morte i morti

E sorreggere noi infelici vivi,

D’un pianto solo mio non piango più,

Ecco, Ti Chiamo, Santo,

Santo, Santo che soffri”.