giovedì 6 dicembre 2012

IV domenica di avvento - S. MESSA DI NATALE martedì 11 ore 13.00






QUARTA DOMENICA DI AVVENTO

Il tempo liturgico dell’Avvento ripresenta nel mistero l’attesa messianica che dal punto di vista storico ha caratterizzato soprattutto il Medio Giudaismo (II sec. a.C. – I sec. d.C.). Nell’attesa della manifestazione gloriosa del Signore Gesù Cristo, crocifisso e glorioso, ci invita a cogliere la sua costante presenza tra noi sino alla «somma di tutti i secoli». Per questo l’Avvento è davvero il καιρός, il momento propizio, che nutre il “senso” della speranza, di cui ha bisogno la nostra esistenza per trasformare in gioia la fatica del vivere.
Mi introduco alla lettura dei testi biblici con un pensiero di Simone Weil:

Al di là dello spazio e del tempo infinito, l’amore infinitamente più infinito di Dio viene ad afferrarci. Viene quando è la sua ora. Noi abbiamo facoltà di acconsentire ad accoglierlo o di rifiutare. Se restiamo sordi, egli torna e ritorna ancora, come un mendicante; ma un giorno, come un mendicante, non torna più.
Se noi acconsentiamo, Dio depone in noi un piccolo seme e se ne va. Da quel momento, a Dio non resta altro da fare, e a noi nemmeno, se non attendere. Dobbiamo soltanto non rimpiangere il consenso che abbiamo accordato, il sì nuziale. Non è facile come sembra, perché la crescita del seme, in noi, è dolorosa. Inoltre, per il fatto stesso che accettiamo questa crescita, non possiamo fare a meno di distruggere ciò che potrebbe intralciarla, di estirpare le erbe cattive, di recidere la gramigna; purtroppo queste erbacce fanno parte della nostra stessa carne, per cui tali operazioni di giardinaggio sono cruente.
Lettura
Is 4,2-5
In quei giorni, Isaia disse: «In quel giorno, il germoglio del Signore crescerà in onore e gloria e il frutto della terra sarà a magnificenza e ornamento per i superstiti d’Israele. Chi sarà rimasto in Sion e chi sarà superstite in Gerusalemme sarà chiamato santo: quanti saranno iscritti per restare in vita in Gerusalemme. Quando il Signore avrà lavato le brutture delle figlie di Sion e avrà pulito Gerusalemme dal sangue che vi è stato versato, con il soffio del giudizio e con il soffio dello sterminio, allora creerà il Signore su ogni punto del monte Sion e su tutti i luoghi delle sue assemblee una nube di fumo durante il giorno e un bagliore di fuoco fiammeggiante durante la notte, perché la gloria del Signore sarà sopra ogni cosa come protezione».
Parola di Dio.
Salmo (Sal 23(24))
Alzatevi, o porte: entri il re della gloria.
Chi potrà salire il monte del Signore?
Chi potrà stare nel suo luogo santo?
Chi ha mani innocenti e cuore puro,
chi non si rivolge agli idoli,
chi non giura con inganno. R.

Egli otterrà benedizione dal Signore,
giustizia da Dio sua salvezza.
Ecco la generazione che lo cerca,
che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe. R.

Alzate, o porte, la vostra fronte,
alzatevi, soglie antiche, ed entri il re della gloria.
Chi è mai questo re della gloria?
Il Signore degli eserciti è il re della gloria. R
Epistola
Eb 2,5-15
Fratelli, non certo a degli angeli Dio ha sottomesso il mondo futuro, del quale parliamo. Anzi, in un passo della Scrittura qualcuno ha dichiarato:
Che cos’è l’uomo perché di lui ti ricordi
o il figlio dell’uomo perché te ne curi?
Di poco l’hai fatto inferiore agli angeli,
di gloria e di onore l’hai coronato
e hai messo ogni cosa sotto i suoi piedi.
Avendo sottomesso a lui tutte le cose, nulla ha lasciato che non gli fosse sottomesso. Al momento presente però non vediamo ancora che ogni cosa sia a lui sottomessa. Tuttavia quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti.
Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza. Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli, dicendo:
Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli,
in mezzo all’assemblea canterò le tue lodi;
e ancora:
Io metterò la mia fiducia in lui;
e inoltre:
Eccomi, io e i figli che Dio mi ha dato.
Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che, per timore della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita.
Parola di Dio.
Acclamazione al Vangelo
(Cfr Mt 21,9)
Alleluia.
Benedetto colui che viene nel nome del Signore!
Osanna al figlio di Davide!
Alleluia.
Vangelo: Lc 19,28-38
In quel tempo. Il Signore Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme. Quando fu vicino a Bètfage e a Betània, presso il monte detto degli Ulivi, inviò due discepoli dicendo: «Andate nel villaggio di fronte; entrando, troverete un puledro legato, sul quale non è mai salito nessuno. Slegatelo e conducetelo qui. E se qualcuno vi domanda: “Perché lo slegate?”, risponderete così: “Il Signore ne ha bisogno”». Gli inviati andarono e trovarono come aveva loro detto. Mentre slegavano il puledro, i proprietari dissero loro: «Perché slegate il puledro?». Essi risposero: «Il Signore ne ha bisogno». Lo condussero allora da Gesù; e gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù. Mentre egli avanzava, stendevano i loro mantelli sulla strada.
Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, pieni di gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto, dicendo:
«Benedetto colui che viene,
il re, nel nome del Signore.
Pace in cielo
e gloria nel più alto dei cieli!».
Parola del Signore.




Commento al VANGELO: LC 19,28-38

Il taglio della pericope evangelica è discutibile, perché i vv. 39-40 – riportati in corsivo nella traduzione seguente – perdono per strada il rifiuto di quei farisei che vorrebbero proibire le manifestazioni gioiose e spontanee di coloro che accolgono festosamente Gesù in Gerusalemme. Ma questo è proprio il tema generale dell’intera sezione.
la pericope scelta per la liturgia di questa domenica comprende una duplice scena: l’intronizzazione di Gesù sul puledro «sul quale non è mai salito nessuno» (Lc 19,29-36) e l’acclamazione di Gesù come re (Lc 19,37-40).
L’accoppiamento delle due scene richiama simmetricamente i due racconti del cieco di Gerico (18,35-42) e dell’incontro con Zaccheo (19,1-10):
– come alcuni farisei vogliono far tacere i discepoli, chiedendo a Gesù di minacciarli, così quelli che camminavano avanti minacciano il cieco che grida a Gesù nel tentativo di farlo tacere;
– il figlio di Davide invocato dal cieco di Gerico (18,39) è proprio «il re»9 acclamato dalla folla dei discepoli (19,38);
– il racconto del cieco si chiude con il popolo che glorifica Dio (18,43) per quanto ha visto, come la moltitudine dei discepoli che intronizza Gesù sull’asino loda Dio per ciò che ha visto (19,37).

v. 28: È Gesù che parte avanti dopo aver proclamato la complessa parabola delle mine (o monete d’oro) e sale verso Gerusalemme, quasi trascinando dietro a sé i discepoli, alla maniera del cieco di Gerico, oppure donando l’opportunità di rendergli testimonianza «sul posto» della propria vita, come Zaccheo che nella sua casa e nel suo «oggi» ha trovato salvezza. Si noti che in questo passo Gerusalemme è Ἱεροσόλυμα, nome geografico al quale Luca non dà particolare valore (cf Lc 2,22 e 13,22). Il nome più teologico della Città Santa è invece Ἱερουσαλήμ (normalmente usato).

vv. 29-31: Le due scene (vv. 29-36 e 37-40) sono entrambe introdotte dalla notazione spaziale dell’avvicinamento progressivo a Gerusalemme: qui Luca annota «vicino a Betfage e a Betania, presso il monte detto degli Ulivi» e nel v. 37 «avvicinandosi ormai alla discesa del monte degli Ulivi». In entrambi i casi è ricordato esplicitamente il Monte degli Ulivi, teatro della preghiera dell’ultima sera di Gesù, ma anche della manifestazione gloriosa dopo la Pasqua. La sequenza del racconto è molto vicina a Marco. La dialettica tra ordine (vv. 29-31) ed esecuzione (vv. 32-34) non dice solo che Gesù ha in mano tutto quanto sta per accadere, ma anche il corretto rapporto maestro-discepolo: Gesù ἀπέστειλεν «invia» due suoi discepoli e i discepoli nel v. 32 – ed è una variante tipica di Luca – sono chiamati οἱ ἀπεσταλμένοι «inviati». È importante la sottolineatura che sul puledro non è mai salito nessuno, quasi un anticipo della sepoltura: Gesù sarà sepolto in una tomba «in cui non era mai stato posto nessuno» (Lc 23,53). Come per la cavalcatura regale, anche la tomba del re non deve mai essere stata usata da un altro.
vv. 32-34: Tutto avviene secondo la parola di Gesù. Lo schema ordine/esecuzione è tipico delle narrazioni profetiche e si ripete anche nel caso di Gesù. È una conferma dell’autenti-cità del profeta.
vv. 35-36: Il gesto va inteso come l’intronizzazione di Gesù come re e si potrebbe leggere dietro questi versetti un’allusione all’intronizzazione di Salomone, il re di pace (cf 1 Re 1,33-35). Prima i discepoli gettano i loro mantelli sul puledro; poi, una volta fatto salire Gesù sopra, stendono i loro mantelli sulla strada. Questo re non è un signore della guerra: la sua cavalcatura non è il cavallo, ma un asino, la cavalcatura dei primi pastori di Israele (cf Dt 17,16). Come aveva detto il profeta Zaccaria (9,9-10) il successo del re di pace non gli verrà dalla forza o dalla potenza militare, ma dalla giustizia e dall’umiltà, ovvero dalla protezione di Dio. Da una parte, questa intronizzazione è il compimento dell’annunzio angelico al momento della nascita: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore» (Lc 2,10-11). Dall’altra, è l’anticipo di quanto accadrà al momento della morte, quando il re crocifisso – mediante la forza dello Spirito – conquisterà con il perdono il ladro condannato insieme a lui (Lc 23,39-43).

vv. 37-38: Alla scena dell’intronizzazione, segue la scena dell’acclamazione, che ha un sapore liturgico, anche perché i discepoli ripetono di fatto il canto angelico intonato dagli angeli al momento della nascita. L’analogia tra i due momenti non deve sfuggire al lettore:

Lc 2,13s. 20

una moltitudine dell’esercito celeste,
che lodava Dio e diceva:
«Gloria a Dio nel più alto dei cieli
e sulla terra pace agli uomini che egli ama».
20I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito
e visto…




In questo modo, Luca sottolinea la dimensione spirituale e l’anticipo pasquale di quanto sta accadendo. Sparisce ogni aspetto di rivolta contro il potere romano e ogni possibile fraintendimento con l’entrata di un re di questo mondo. Forse proprio per questo, Luca non ha citato esplicitamente nemmeno il passo di Zc 9,9-10, perché persino questo passo poteva essere interpretato in senso troppo mondano e trionfalistico.
L’acclamazione della moltitudine dei discepoli va a citare il Sal 118,26, che era già stato citato in Lc 13,34-35, in un contesto di speranza della vita oltre la morte per i profeti uccisi proprio a Gerusalemme:
«34Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te: quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! 35Ecco, la vostra casa è abbandonata a voi! Vi dico infatti che non mi vedrete, finché verrà il tempo in cui direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!».

vv. 39-40:

39Alcuni farisei tra la folla gli dissero: "Maestro, rimprovera i tuoi discepoli". 40Ma egli rispose: "Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre".
Questa finale, purtroppo, non è inclusa nella pericope liturgica. Eppure la scena evangelica ne ha bisogno per completarsi con l’opposizione a Gesù. Da una parte ci sono dunque quei farisei che non sanno andare oltre il visibile agli occhi umani: per questo chiamano Gesù semplicemente διδάσκαλε «maestro!» e, di quanto sta accadendo, colgono solo il rischio politico. Gesù risponde loro con un proverbio, che però va ben al di là del suo
Lc 19,37s
tutta la moltitudine dei discepoli, esultando,
cominciò a lodare Dio a gran voce… dicendo:
«Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Nel cielo pace e gloria nelle altezze!». … per tutti i segni di potenza che avevano visto,
senso immediato: le pietre di Gerusalemme dopo non molti anni avrebbero gridato la distruzione di un potere religioso fondato solo sul visibile e sulla forza mondana.
Mentre «la moltitudine dei discepoli, esultando, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i segni di potenza che avevano visto», contro abbiamo chi minaccia quelli che gridano con la voglia di metterli a tacere. Davanti al re-messia, che adempie a suo modo le promesse profetiche ed entra con umiltà nella sua capitale, il rischio di invertire i ruoli tra i ciechi (cf cieco di Gerico) e i vedenti, come tra gli esclusi (cf Zaccheo) e i chiamati è sempre in agguato.
Alla fine, chi era cieco vede di nuovo, mentre chi ha visto Gesù entrare da Zaccheo e mormora, oppure ha visto Gesù acclamato re dai suoi discepoli che vorrebbe far tacere, ha visto ma non ha capito. Occorre camminare dietro al maestro e seguirlo sino alla fine per essere in grado di capire:
Dai pressi di Gerico, vicino al Giordano ove, con il battesimo e le tentazioni, tutto era cominciato per lui (Lc 3,21-4,13), passando per Betfage e Betania (19,29) fino al monte degli Ulivi (19,37), Gesù cammina, procede verso il compimento di «ciò che è scritto» (18,31), sale verso Gerusalemme, si avvicina alla sua fine. Sin dall’inizio, viene annunciato il compimento: «Il Figlio dell’uomo sarà consegnato alle nazioni…» (18,32).
Su questa strada, che lo conduce alla croce e alla risurrezione, Gesù incontra molta gente, è accompagnato da «una folla» (18,36); lo segue «tutto il popolo» (18,42), «tutta la moltitudine dei discepoli» (19,37), a cui si aggiunge pure uno di quelli che egli «salva» (18,42; 19,9-10). Acclamato da questo immenso corteo, egli si avvicina alla discesa del monte degli Ulivi (19,37-40).
Ma, giunto alla fine del cammino, quando si trova di fronte alla città, che abbraccia dall’alto del monte degli Ulivi (19,41), non sono più menzionati né la folla né i discepoli, come se Gesù si trovasse ormai solo. Si direbbe che tutti sono scomparsi, per lasciarlo faccia a faccia con la Città e il suo destino, e il loro comune destino. I dodici erano stati invitati a seguirlo sino alla fine: «Ecco che saliamo a Gerusalemme» (18,31). Se, arrivato ormai così vicino al termine, Gesù sembra avanzare da solo sulla strada, sarà probabilmente perché essi non hanno capito nulla di ciò che egli aveva detto loro (18,34)…
PER LA NOSTRA VITA
1. Il rischio di follia della nostra società è che tutto possa funzionare su un doppio principio. Uno, tecnologico: «Tutto ciò che è possibile, noi lo faremo»; l’altro, economico: «Tutto ciò che suscita invidia, noi l’avremo». Per uscire da questo ingranaggio, il vangelo propone due atteggiamenti rivoluzionari: coltivare la gratuità e vincere il desiderio. Non per tristezza o repressione, ma per ritrovare il valore del senza prezzo, del più grande desiderio e della fame. Soprattutto il vangelo inverte i ruoli dell’azione. Dio diventa soggetto attivo attraverso la vita del Figlio Gesù: la nostra umanità è visitata da Lui.
«Ma nella prosperità l’uomo non dura: è simile alle bestie che muoiono» (Sal 49,13). Lo spirito del nostro tempo è segnato da una sproporzione violenta tra una cultura tecnologica egemonica e una sete disperata di riflessione, di meditazione, esigenza inestirpabile dal cuore degli uomini e delle donne. Non si vuole consentire allo spirito umano questo? Le conseguenze disastrose ci sono, e si vedono.
La violenta opposizione tra esteriorità e interiorità, tra profondità e superficie … uccide l’acustica dell’anima; il prezzo è alto, poiché nessuno può distruggere in se stesso o negare all’altro il bisogno di ritrovare significati, di non cadere nell’indifferenza. Nella prosperità dell’autosufficienza, o della delega, anche nel cammino della fede, non si comprende.
Bisogna imparare a decifrare le cose più nobili, imparare a cercare la perla preziosa, in mezzo a tanta confusione, anche religiosa. Qual è l’alfabeto per capire che l’appuntamento dell’avvento di Dio e dell’avvento dell’uomo sono un cammino congiunto, di sua accondiscendenza alla nostra umanità, di nostra nascita alla “sua volontà” che è pienezza; un cammino che non chiude, bensì apre la vita all’inedito, si direbbe oggi a “processi”, evoluzioni, trasfigurazioni della nostra esistenza; un appuntamento che ci chiede di cambiare il passo, di ricominciare.
Mentre siamo divenuti un popolo di “camminanti” per salute, benessere, svago … per le ragioni della fede restiamo sedentari e paralitici. I nostri passi sono infantili, incerti, e soprattutto non contempliamo che “il tesoro della vita” valga la fatica di farsi anche interiormente “camminanti”. Solo così potremo giungere all’appuntamento che Dio ci offre nel Figlio che entra nella nostra storia, diventando uno di noi.
Dio attende il nostro nascere a Lui, in autentica umanità e familiarità, per donare il senso stesso del nostro esistere, lavorare, faticare nel tempo. La nostra condizione conosce il tempo come un andare – urlante o muto – verso la morte. La rottura di questa trafila, l’orizzonte interrotto, il cambiamento radicale di prospettiva del tempo è nell’appuntamento cercato da Dio con la nostra umanità.
 F. CECCHETTO, Testi inediti.


2. Te, mio Signore, volevo:
sentirti con i sensi
che urlavano
di fame,
e Tu
a non concederti mai!
E attendere un segno,
almeno un segno nelle
lunghe notti desolate...
Fingere l’abbraccio
e non averti:
chiamarti, e tu sai
con quale strazio:
ma Tu
una risposta, mai!
D.M. TUROLDO, O sensi miei... Poesie 1948-1988, Note introduttive A. ZANZOTTO - L. ERBA (La Scala), Rizzoli, Milano 1990, 19914, p. 653.


3. C’era, sì, c’era – ma come ritrovarlo
quello spirito nella lingua
quel fuoco nella materia.
Chi elimina la melma, chi cancella la contumelia?
Sepolto nelle rocce,
rocce dentro montagne
di buio e grevità –
così quasi si estingue,
così cova l’incendio
l’immemorabile evangelio

M. LUZI, L’opera poetica, a cura e con un saggio introduttivo di S. VERDINO (= I Meridiani), Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1998 [42001], p. 509.

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