Domenica V dopo l'Epifania
Lettura del
profeta Isaia 66, 18b-22
Così dice il
Signore Dio: «Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue; essi
verranno e vedranno la mia gloria. Io porrò in essi un segno e manderò i loro
superstiti alle popolazioni di Tarsis, Put, Lud, Mesec, Ros, Tubal e Iavan,
alle isole lontane che non hanno udito parlare di me e non hanno visto la mia
gloria; essi annunceranno la mia gloria alle genti.
Ricondurranno
tutti i vostri fratelli da tutte le genti come offerta al Signore, su cavalli,
su carri, su portantine, su muli, su dromedari, al mio santo monte di
Gerusalemme – dice il Signore –, come i figli d’Israele portano l’offerta in
vasi puri nel tempio del Signore. Anche tra loro mi prenderò sacerdoti leviti,
dice il Signore.
Sì, come i
nuovi cieli / e la nuova terra, che io farò, / dureranno per sempre davanti a
me / – oracolo del Signore –, / così dureranno la vostra discendenza e il
vostro nome».
Salmo
Sal 32 (33)
® Esultate, o giusti, nel Signore.
Tema il
Signore tutta la terra,
tremino
davanti a lui gli abitanti del mondo,
perché egli
parlò e tutto fu creato,
comandò e
tutto fu compiuto. ®
Il Signore
annulla i disegni delle nazioni,
rende vani i
progetti dei popoli.
Ma il
disegno del Signore sussiste per sempre,
i progetti
del suo cuore per tutte le generazioni. ®
Il Signore
guarda dal cielo:
egli vede
tutti gli uomini;
dal trono
dove siede
scruta tutti
gli abitanti della terra,
lui, che di
ognuno ha plasmato il cuore
e ne
comprende tutte le opere. ®
Lettera di
san Paolo apostolo ai Romani 4, 13-17
Fratelli,
non in virtù della Legge fu data ad Abramo, o alla sua discendenza, la promessa
di diventare erede del mondo, ma in virtù della giustizia che viene dalla fede.
Se dunque diventassero eredi coloro che provengono dalla Legge, sarebbe resa
vana la fede e inefficace la promessa. La Legge infatti provoca l’ira; al
contrario, dove non c’è Legge, non c’è nemmeno trasgressione.
Eredi dunque
si diventa in virtù della fede, perché sia secondo la grazia, e in tal modo la
promessa sia sicura per tutta la discendenza: non soltanto per quella che
deriva dalla Legge, ma anche per quella che deriva dalla fede di Abramo, il
quale è padre di tutti noi – come sta scritto: «Ti ho costituito padre di molti
popoli» – davanti al Dio nel quale credette, che dà vita ai morti e chiama
all’esistenza le cose che non esistono.
Lettura del
Vangelo secondo Giovanni Gv 4, 46-54
In quel
tempo. Il Signore Gesù andò di nuovo a Cana di Galilea, dove aveva cambiato
l’acqua in vino. Vi era un funzionario del re, che aveva un figlio malato a
Cafàrnao. Costui, udito che Gesù era venuto dalla Giudea in Galilea, si recò da
lui e gli chiedeva di scendere a guarire suo figlio, perché stava per morire.
Gesù gli disse: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete». Il
funzionario del re gli disse: «Signore, scendi prima che il mio bambino muoia».
Gesù gli rispose: «Va’, tuo figlio vive».
Quell’uomo
credette alla parola che Gesù gli aveva detto e si mise in cammino. Proprio
mentre scendeva, gli vennero incontro i suoi servi a dirgli: «Tuo figlio
vive!». Volle sapere da loro a che ora avesse cominciato a star meglio. Gli
dissero: «Ieri, un’ora dopo mezzogiorno, la febbre lo ha lasciato». Il padre
riconobbe che proprio a quell’ora Gesù gli aveva detto: «Tuo figlio vive», e
credette lui con tutta la sua famiglia. Questo fu il secondo segno, che Gesù
fece quando tornò dalla Giudea in Galilea.
COMMENTI
Isaia. 66, 18b-22
Il profeta, che conclude il libro di Isaia, apre orizzonti splendidi e sconcertanti al popolo d'Israele. L'esperienza a Babilonia, con la deportazione dal proprio paese, ha sconvolto le abitudini ed ha obbligato ad un rapporto nuovo con il Signore. Il popolo, che si è trovato senza il tempio, che non può più frequentare, s'è costituito in gruppi di coesione interna e di studio, impostando l'esperienza futura delle sinagoghe. Ha ripensato ad un culto nuovo, fondamentalmente legato alla lettura della Parola di Dio e all'ubbidienza alla legge. E, in tal modo, ha maggiormente interiorizzato la propria religiosità. E, nel frattempo, l'esperienza di Babilonia ha avuto anche dei capovolgimenti nei rapporti con i pagani, facendo rivedere la mentalità radicata da secoli e i molti pregiudizi di cui si è alimentato questo popolo. Ha sempre pensato con disprezzo e giudicato i pagani come: "disonesti, violenti, incapaci di accoglienza, nemici di Dio", ma poi ha scoperto, nella convivenza, che in questo paese straniero come il mondo babilonese, ci sono persone generose, accoglienti, responsabili e, a volte, molto migliori degli stessi ebrei, cultori del vero Dio. Al ritorno, in Israele, se si sono riprese le preoccupazioni e le distinzioni rispetto ai pagani, si sta tuttavia formando una nuova conoscenza su tutto il mondo. Dio vorrà un segno fra le nazioni e il segno sarà proprio il popolo disperso d'Israele che, trapiantato nei vari paesi del mondo, con la propria fede e la propria conoscenza, farà attecchire il seme nuovo per la conoscenza di Dio. Avverrà il miracolo. Questi popoli pagani, cambiati, compiranno il loro pellegrinaggio verso Gerusalemme, la città santa, e accompagneranno i fratelli ebrei, portando offerte al Signore insieme a loro.
Anzi, cosa inaudita, tra loro ci saranno anche sacerdoti e leviti tratti dal popolo pagano, che riconosce il Signore e si apre al suo splendore.
Questa prospettiva, che resta abbastanza isolata nella realtà ebraica, ritenendola solamente come punto di riferimento per una visione conclusiva della storia, con il cristianesimo viene riproposta come progetto. In questi tempi la evangelizzazione comporta così due versanti: da una parte i cristiani dovrebbero sviluppare un lavoro comune per far conoscere e rendere visibile la grandezza della misericordia di Dio ai popoli lontani; d'altra parte i credenti dovrebbero aiutare i molti cristiani che si sono allontanati dalla fede, pur essendo stati battezzati e pur avendo avuto un'educazione iniziale cristiana. Il popolo cristiano, coerente e aperto al mondo di Dio, è invitato a sostenere questo cammino comune. È impensabile, tuttavia, che il popolo cristiano non faccia emergere, con intelligenza e con responsabilità, i valori fondamentali ricevuti e quindi non proponga il messaggio di Gesù che apre alla convivenza e alla comunione nella pace.
Paolo ai Romani. 4, 13-17
Esiste, nel mondo ebraico, la credenza che l'elezione di Dio e quindi la sua benedizione siano frutto dell'osservanza della legge mosaica.
Paolo è convinto, e tutta la Scrittura assicura che solo la fede garantisce la giustizia e quindi permette che il Signore offra la sua promessa a chi gli è fedele. C'è la promessa del figlio, la promessa della terra, e la promessa di una discendenza numerosa come le stelle del cielo quindi la promessa di una benedizione per tutti i popoli della terra. Ora anche i cristiani sono figli della fede, dice Paolo e dice ancora che Abramo è padre di tutti i pagani, essi che sono suoi figli mediante la fede davanti a Dio. La promessa si fonda solo sull'unica condizione della fede del patriarca. Se infatti, come condizione, ci fosse un patto bilaterale tra Dio e l'uomo, Dio non sarebbe più legato solo alla sua parola, ma sarebbe legato all'azione umana.
Una promessa che ha bisogno dell'osservanza della legge per essere offerta non è più gratuita, non è più un favore offerto. Paolo sta sviluppando una sua convinzione assai chiara, confermata dalla Scrittura: la fede è la sola condizione richiesta da Dio per giustificare l'uomo.
E Abramo ne è il vero esempio che garantisce il dono di Dio. Abramo e Sara, anziani, ricevono da Dio più promesse: la promessa del figlio, la promessa della terra, la promessa di una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia della spiaggia del mare, la promessa di una benedizione per tutti i popoli della terra, sua discendenza. Nella fede di Abramo sono figli il popolo d'Israele, quindi i cristiani che, a sua volta, sono inviati a tutte le gente e raccolgono tutti i popoli della terra.
Sara, incredula, si sente ricordare da Dio attraverso Abramo: "Non c'è nulla di impossibile per il Signore" (Gn 18,14). Così Abramo, che si fida di Dio, realizzerà la vita anche dove c'è il deserto e diventerà, da pastore errante, proprietario di una terra e capo di popoli, anche se poi, lui stesso, prima di morire, resterà proprietario solo di un pezzo di terra che ha comperato per seppellirvi Sara.
Giovanni. 4, 46-54
Gesù sta risalendo verso la Galilea, dopo un viaggio a Gerusalemme. Si è fermato in Samaria e si è preparato al grande incontro, prima con la Samaritana e poi con i cittadini della città.
Hanno voluto che si fermasse con loro, lo hanno ascoltato e lo hanno accolto come nuovo Messia e come nuova Parola. Dopo due giorni ritorna a Cana, il luogo del primo segno, primo posto della sua manifestazione e dell'ora anticipata. Sotto un certo aspetto si sente l'esigenza di ritrovare i segni messianici della nuova Alleanza che egli ha posto nel banchetto degli sposi.
Gli viene incontro un funzionario del Re che gli parla del figlio malato. Ed è una malattia drammatica perché il padre ha l'impressione che sia legata ad una prossima morte.
Il racconto ha dei paralleli interessanti, collegati al primo segno: là c'è la richiesta di sua madre, Maria che ricorda la mancanza del vino, e quindi della gioia e della festa, qui c'è la richiesta di un padre per la vita del figlio. Verso tutti e due c'è una reazione contraria: sia verso la madre: " Che cosa ci posso fare?", sia verso il padre:" Voi cercate segni; se non vedete segni e prodigi, voi non credete". Ma se ci si impegna nella fiducia e nella certezza della forza di Gesù, Gesù interviene e cambia il corso delle cose.
Se si obbedisce sulla parola: se i servi riempiono d'acqua le idrie, se il dignitario accetta di tornare a casa sulla parola di Gesù, allora il cambiamento avviene.
Situazioni diverse, reazioni insospettate che tuttavia si concludono con due atteggiamenti di comprensione e di misericordia. A dire il vero, il funzionario ha un suo schema mentale anche riguardo alla guarigione. Egli pensa che Gesù debba abbandonare il posto e debba seguirlo, debba incontrare questo ragazzo, debba toccarlo e guarirlo. Ma Gesù, di fronte alla prospettiva di dover organizzare una ritualità religiosa, si rifiuta. Egli imposta sulla parola e quindi sulla fede. Come a Cana, se si ha il coraggio di fidarsi e di credere, il mondo e Dio stringono il patto delle nozze-alleanze; qui con il funzionario il rapporto si gioca tra l'ubbidienza alla Parola e la vita. Noi vogliamo una ritualità religiosa con segni portentosi, una devozione fastosa, una dimostrazione di forza e di potenza. Gesù si ferma alla Parola, al valore di misericordia che la sua Parola garantisce: "Va, tuo figlio vive".
E qui sorge un altro aspetto interessante: il funzionario chiama suo figlio: "bambino", Gesù lo chiama "figlio". Il funzionario non ritiene ancora di dover mantenere il vero rapporto della dimensione adulta, Gesù ridimensiona il potere richiamando il rapporto parentale che sorge dal primo istante di vita: padre e figlio.
Il funzionario ritorna e trova i servi che sono corsi per incontrarlo e comunicargli che "tuo figlio vive".
La distanza non è grande: tra Cafarnao e Cana ci sono circa 26 km. Il padre chiede l'ora della guarigione e gli dicono: «Ieri, un'ora dopo mezzogiorno, la febbre lo ha lasciato»: è la settima ora. Il funzionario ricorda con chiarezza che quella è l'ora della Parola di Gesù: un'ora dopo mezzogiorno. Va ricordato che l'ora di Gesù è la sesta ora: "Era la Parasceve della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: «Ecco il vostro re!». Ma quelli gridarono: «Via! Via! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Metterò in croce il vostro re?». Risposero i capi dei sacerdoti: «Non abbiamo altro re che Cesare».
Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso. (19,14-16). L'ora sesta è il mezzogiorno: coincide con la condanna di Gesù e l'ora in cui nel tempio s'incomincia ad immolare gli agnelli che sarebbero serviti per la cena Pasquale. E' l'ora della donazione dell'amore di Gesù. Dopo quell'ora, "Gesù consegna il suo Spirito" al Padre ed alla Comunità cristiana ( 19, 30). Ogni ora successiva è il dono dello Spirito, qui la settima ora è l'ora della novità nella vita.
Nella casa tutti credono in Gesù. Si sta facendo strada il valore della Parola di Gesù come novità nel mondo, come cambiamento di ricreazione della realtà, nuovo messaggio di Gesù preannunciato e consegnato ai discepoli che può trasformare il mondo. In questo caso "credere" significa accettare, mettersi a disposizione, accogliere l'accaduto come fatto di Dio in Gesù. E' il credere dell'evangelista Giovanni che, di fronte al sepolcro vuoto di Gesù e le bende piegate in un angolo, "Vide e credette" (Gv 20,8).
Il profeta, che conclude il libro di Isaia, apre orizzonti splendidi e sconcertanti al popolo d'Israele. L'esperienza a Babilonia, con la deportazione dal proprio paese, ha sconvolto le abitudini ed ha obbligato ad un rapporto nuovo con il Signore. Il popolo, che si è trovato senza il tempio, che non può più frequentare, s'è costituito in gruppi di coesione interna e di studio, impostando l'esperienza futura delle sinagoghe. Ha ripensato ad un culto nuovo, fondamentalmente legato alla lettura della Parola di Dio e all'ubbidienza alla legge. E, in tal modo, ha maggiormente interiorizzato la propria religiosità. E, nel frattempo, l'esperienza di Babilonia ha avuto anche dei capovolgimenti nei rapporti con i pagani, facendo rivedere la mentalità radicata da secoli e i molti pregiudizi di cui si è alimentato questo popolo. Ha sempre pensato con disprezzo e giudicato i pagani come: "disonesti, violenti, incapaci di accoglienza, nemici di Dio", ma poi ha scoperto, nella convivenza, che in questo paese straniero come il mondo babilonese, ci sono persone generose, accoglienti, responsabili e, a volte, molto migliori degli stessi ebrei, cultori del vero Dio. Al ritorno, in Israele, se si sono riprese le preoccupazioni e le distinzioni rispetto ai pagani, si sta tuttavia formando una nuova conoscenza su tutto il mondo. Dio vorrà un segno fra le nazioni e il segno sarà proprio il popolo disperso d'Israele che, trapiantato nei vari paesi del mondo, con la propria fede e la propria conoscenza, farà attecchire il seme nuovo per la conoscenza di Dio. Avverrà il miracolo. Questi popoli pagani, cambiati, compiranno il loro pellegrinaggio verso Gerusalemme, la città santa, e accompagneranno i fratelli ebrei, portando offerte al Signore insieme a loro.
Anzi, cosa inaudita, tra loro ci saranno anche sacerdoti e leviti tratti dal popolo pagano, che riconosce il Signore e si apre al suo splendore.
Questa prospettiva, che resta abbastanza isolata nella realtà ebraica, ritenendola solamente come punto di riferimento per una visione conclusiva della storia, con il cristianesimo viene riproposta come progetto. In questi tempi la evangelizzazione comporta così due versanti: da una parte i cristiani dovrebbero sviluppare un lavoro comune per far conoscere e rendere visibile la grandezza della misericordia di Dio ai popoli lontani; d'altra parte i credenti dovrebbero aiutare i molti cristiani che si sono allontanati dalla fede, pur essendo stati battezzati e pur avendo avuto un'educazione iniziale cristiana. Il popolo cristiano, coerente e aperto al mondo di Dio, è invitato a sostenere questo cammino comune. È impensabile, tuttavia, che il popolo cristiano non faccia emergere, con intelligenza e con responsabilità, i valori fondamentali ricevuti e quindi non proponga il messaggio di Gesù che apre alla convivenza e alla comunione nella pace.
Paolo ai Romani. 4, 13-17
Esiste, nel mondo ebraico, la credenza che l'elezione di Dio e quindi la sua benedizione siano frutto dell'osservanza della legge mosaica.
Paolo è convinto, e tutta la Scrittura assicura che solo la fede garantisce la giustizia e quindi permette che il Signore offra la sua promessa a chi gli è fedele. C'è la promessa del figlio, la promessa della terra, e la promessa di una discendenza numerosa come le stelle del cielo quindi la promessa di una benedizione per tutti i popoli della terra. Ora anche i cristiani sono figli della fede, dice Paolo e dice ancora che Abramo è padre di tutti i pagani, essi che sono suoi figli mediante la fede davanti a Dio. La promessa si fonda solo sull'unica condizione della fede del patriarca. Se infatti, come condizione, ci fosse un patto bilaterale tra Dio e l'uomo, Dio non sarebbe più legato solo alla sua parola, ma sarebbe legato all'azione umana.
Una promessa che ha bisogno dell'osservanza della legge per essere offerta non è più gratuita, non è più un favore offerto. Paolo sta sviluppando una sua convinzione assai chiara, confermata dalla Scrittura: la fede è la sola condizione richiesta da Dio per giustificare l'uomo.
E Abramo ne è il vero esempio che garantisce il dono di Dio. Abramo e Sara, anziani, ricevono da Dio più promesse: la promessa del figlio, la promessa della terra, la promessa di una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia della spiaggia del mare, la promessa di una benedizione per tutti i popoli della terra, sua discendenza. Nella fede di Abramo sono figli il popolo d'Israele, quindi i cristiani che, a sua volta, sono inviati a tutte le gente e raccolgono tutti i popoli della terra.
Sara, incredula, si sente ricordare da Dio attraverso Abramo: "Non c'è nulla di impossibile per il Signore" (Gn 18,14). Così Abramo, che si fida di Dio, realizzerà la vita anche dove c'è il deserto e diventerà, da pastore errante, proprietario di una terra e capo di popoli, anche se poi, lui stesso, prima di morire, resterà proprietario solo di un pezzo di terra che ha comperato per seppellirvi Sara.
Giovanni. 4, 46-54
Gesù sta risalendo verso la Galilea, dopo un viaggio a Gerusalemme. Si è fermato in Samaria e si è preparato al grande incontro, prima con la Samaritana e poi con i cittadini della città.
Hanno voluto che si fermasse con loro, lo hanno ascoltato e lo hanno accolto come nuovo Messia e come nuova Parola. Dopo due giorni ritorna a Cana, il luogo del primo segno, primo posto della sua manifestazione e dell'ora anticipata. Sotto un certo aspetto si sente l'esigenza di ritrovare i segni messianici della nuova Alleanza che egli ha posto nel banchetto degli sposi.
Gli viene incontro un funzionario del Re che gli parla del figlio malato. Ed è una malattia drammatica perché il padre ha l'impressione che sia legata ad una prossima morte.
Il racconto ha dei paralleli interessanti, collegati al primo segno: là c'è la richiesta di sua madre, Maria che ricorda la mancanza del vino, e quindi della gioia e della festa, qui c'è la richiesta di un padre per la vita del figlio. Verso tutti e due c'è una reazione contraria: sia verso la madre: " Che cosa ci posso fare?", sia verso il padre:" Voi cercate segni; se non vedete segni e prodigi, voi non credete". Ma se ci si impegna nella fiducia e nella certezza della forza di Gesù, Gesù interviene e cambia il corso delle cose.
Se si obbedisce sulla parola: se i servi riempiono d'acqua le idrie, se il dignitario accetta di tornare a casa sulla parola di Gesù, allora il cambiamento avviene.
Situazioni diverse, reazioni insospettate che tuttavia si concludono con due atteggiamenti di comprensione e di misericordia. A dire il vero, il funzionario ha un suo schema mentale anche riguardo alla guarigione. Egli pensa che Gesù debba abbandonare il posto e debba seguirlo, debba incontrare questo ragazzo, debba toccarlo e guarirlo. Ma Gesù, di fronte alla prospettiva di dover organizzare una ritualità religiosa, si rifiuta. Egli imposta sulla parola e quindi sulla fede. Come a Cana, se si ha il coraggio di fidarsi e di credere, il mondo e Dio stringono il patto delle nozze-alleanze; qui con il funzionario il rapporto si gioca tra l'ubbidienza alla Parola e la vita. Noi vogliamo una ritualità religiosa con segni portentosi, una devozione fastosa, una dimostrazione di forza e di potenza. Gesù si ferma alla Parola, al valore di misericordia che la sua Parola garantisce: "Va, tuo figlio vive".
E qui sorge un altro aspetto interessante: il funzionario chiama suo figlio: "bambino", Gesù lo chiama "figlio". Il funzionario non ritiene ancora di dover mantenere il vero rapporto della dimensione adulta, Gesù ridimensiona il potere richiamando il rapporto parentale che sorge dal primo istante di vita: padre e figlio.
Il funzionario ritorna e trova i servi che sono corsi per incontrarlo e comunicargli che "tuo figlio vive".
La distanza non è grande: tra Cafarnao e Cana ci sono circa 26 km. Il padre chiede l'ora della guarigione e gli dicono: «Ieri, un'ora dopo mezzogiorno, la febbre lo ha lasciato»: è la settima ora. Il funzionario ricorda con chiarezza che quella è l'ora della Parola di Gesù: un'ora dopo mezzogiorno. Va ricordato che l'ora di Gesù è la sesta ora: "Era la Parasceve della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: «Ecco il vostro re!». Ma quelli gridarono: «Via! Via! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Metterò in croce il vostro re?». Risposero i capi dei sacerdoti: «Non abbiamo altro re che Cesare».
Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso. (19,14-16). L'ora sesta è il mezzogiorno: coincide con la condanna di Gesù e l'ora in cui nel tempio s'incomincia ad immolare gli agnelli che sarebbero serviti per la cena Pasquale. E' l'ora della donazione dell'amore di Gesù. Dopo quell'ora, "Gesù consegna il suo Spirito" al Padre ed alla Comunità cristiana ( 19, 30). Ogni ora successiva è il dono dello Spirito, qui la settima ora è l'ora della novità nella vita.
Nella casa tutti credono in Gesù. Si sta facendo strada il valore della Parola di Gesù come novità nel mondo, come cambiamento di ricreazione della realtà, nuovo messaggio di Gesù preannunciato e consegnato ai discepoli che può trasformare il mondo. In questo caso "credere" significa accettare, mettersi a disposizione, accogliere l'accaduto come fatto di Dio in Gesù. E' il credere dell'evangelista Giovanni che, di fronte al sepolcro vuoto di Gesù e le bende piegate in un angolo, "Vide e credette" (Gv 20,8).
RITO ROMANO
V DOMENICA TEMPO ORDINARIO
LECTIO - ANNO A
Prima lettura: Isaia 58,7-10
Così dice il Signore: «Non consiste
forse [il digiuno che voglio] nel dividere il pane con l’affamato,
nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo,
senza trascurare i tuoi parenti?Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la
tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la
gloria del Signore ti seguirà. Allora invocherai e il Signore ti risponderà,
implorerai aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”. Se toglierai di mezzo a te
l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore
all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre
la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio»
La
pratica del digiuno è conosciuta presso tutti i popoli. Fin dai tempi più
remoti si digiunava quando ci si trovava in situazioni di pericolo o si era
colpiti da sventure, quando la grandine o le cavallette distruggevano i
raccolti, quando le piogge tardavano. Questo sacrificio volontario aveva lo
scopo di commuovere Dio, placarlo, convincerlo a porre fine ai suoi castighi.
Durante i giorni di digiuno si in-dossavano abiti sdruciti, ci si cospargeva il
capo di polvere e cenere, si rinunciava ai rapporti sessuali, non si faceva il
bagno, si andava scalzi, si dormiva per terra.
La
lettura di oggi va collocata nel contesto di uno di questi momenti di digiuno.
Siamo nel V secolo a. C., il tempo del post-esilio. Il popolo è tornato da
Babilonia, ma le promesse
fatte dai profeti tardano a realizzarsi. Invece della
sospirata comunità pacifica si è instaurata una società dominata da arrivisti e
profittatori. Ovunque ci sono violenze, angherie, di-scordie. Per convincere
Dio a intervenire e porre rimedio alla situazione, si indice un digiuno
nazionale, rigoroso, severo.
Nulla cambia,
tutto continua come prima e in molti si insinua il sospetto che la pratica del
digiuno sia inefficace.
Ci si
chiede: perché digiunare se il Signore non ascolta ed è come se non ci fossimo
sottoposti a mortificazioni e rinunce? (Is 58.3).
La lettura
di oggi dà una risposta a questo interrogativo. La colpa del mancato
cambiamento - spiega il profeta - non è del Signore, ma del modo errato di
praticare il digiuno, ridotto a una sterile autopunizione, a una dolorosa
penitenza. Questo digiuno non ottiene alcun risultato perché sottopone, sì, il
corpo a privazioni, ma non cambia il cuore.
Il vero
digiuno, quello che produce effetti prodigiosi, consiste nel condividere il
proprio pane con chi ha fame, nell'ospitare in casa i miseri senza tetto, nel
dare un vestito a chi è nudo, nel non distogliere gli occhi da chi, uomo come
noi - nostra stessa carne, anche se diverso è il colore della sua pelle e sono
differenti la cultura e la religione - vive al nostro fianco in condizioni
disumane (v. 7).
Questo comportamento
nuovo ottiene miracoli: in breve tempo cura le ferite della società, risolve le
situazioni di disagio, crea rapporti fraterni e fa nascere una co-munità in cui
splendono la giustizia e la gloria di Dio (v. 8).
Nella
seconda parte della lettura (vv. 9-10) viene indicata un'altra caratteristica
del vero digiuno: l'impegno a togliere di mezzo ogni forma di oppressione, il
puntare il dito e il parlare arrogante. Non basta fare la carità e l'elemosina,
è necessario porre fine a tutti gli atteggiamenti di ambiziosa superiorità che
causano umiliazioni, ingiustizie, discrimina-zioni.
Dopo
questo nuovo chiarimento, il profeta riprende, con insistenza quasi ecces-siva,
il tema della condivisione del pane. Vuole che il popolo assimili l'interesse,
la premura, la sollecitudine di Dio nei confronti di chi ha fame.
La
conclusione della lettura introduce il tema della luce che verrà ripreso nel
van-gelo: se praticherai questa nuova giustizia «brillerà fra le tenebre la tua
luce, la tua te-nebra sarà come il meriggio».
Gli
israeliti si ritenevano luce del mondo per la loro devozione a Dio, per la
pratica religiosa impeccabile: solenni liturgie, canti e preghiere, sacrifici e
olocausti. Non era questo il culto gradito al Signore; non erano queste le
opere che avrebbero fatto diventare Israele luce del mondo, ma la pratica della
giustizia e dell'amore all'uomo.
Seconda lettura: 1Corinzi 2,1-5
Io, fratelli, quando venni tra voi, non
mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o
della sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non
Gesù Cristo, e Cristo crocifisso. Mi presentai a voi nella debolez-za e con
molto timore e trepidazione. La mia parola e la mia predicazione non si
basa-rono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello
Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla
sapienza umana, ma sulla potenza di Dio.
I cristiani di Corinto - lo abbiamo sottolineato domenica
scorsa - non appar-tenevano alle classi sociali elevate, erano tutti di umili
origini, gente che non contava nella società (1Cor 1,26). Questo fatto è
interpretato da Paolo come un segno della preferenza di Dio per le persone
disprezzate e senza meriti.
La sua
scelta non va però intesa come un rovesciamento classista (sarebbe una nuova
discriminazione), ma come logica conseguenza dell'amore di Dio: egli non ama
chi può vantare dei meriti, ma chi ha bisogno del suo amore.
Nel
brano di oggi l'Apostolo riprende e sviluppa questo tema ponendo a confronto la
sapienza umana e la potenza di Dio e porta l’esempio concreto della sua
persona.
Comincia
con un richiamo alla sua predicazione (vv. 1-2). Non si è presentato a Corinto
per insegnare una nuova dottrina. Se lo avesse fatto, avrebbe avuto bisogno di
possedere la «eccellenza della parola o della sapienza». In Grecia era
apprezzata la sapienza, la capacità - come diceva Platone - di «indagare il
vero in quanto vero; sollecitudine dell'anima sostenuta dalla retta ragione».
Ogni discorso privo del supporto della dimostrazione razionale e delle risorse
prestigiose del pensiero dei filosofi era deriso e ritenuto frutto di
ignoranza, di creduloneria, di religiosità inge-nua.
In
questo contesto culturale Paolo ha annunciato un messaggio umanamente as-surdo:
ha chiesto di credere alla proposta di vita fatta da un uomo giustiziato. Non
fu solo il contenuto della sua predicazione a essere scandaloso. Era la sua
stessa persona — debole, timorosa, incapace di parlare - a essere la meno indicata
a portare avanti con successo una così grande missione (vv. 3-5). Al riguardo
circolava fra i corinzi una battuta che aveva provocato la reazione risentita
dell'Apostolo: «Le sue lettere - si diceva - sono dure e forti, ma la sua
presenza fisica è debole e la sua capacità di fare discorsi è modesta» (2Cor
10,10).
Della sua scarsa abilità oratoria, Paolo era cosciente; ne
aveva avuto una dimostra-zione ad Atene quando aveva tentato, senza successo,
di convincere gli ascoltatori ricorrendo al linguaggio sublime dei filosofi (At
17,16-34) e un anno dopo, a Troade, ne ebbe la riconferma: durante la sua
predica un giovane si era addormentato ed era caduto dalla finestra (At 20,9).
Malgrado
questa mancanza di supporti umani, il vangelo aveva avuto una note-vole
diffusione a Corinto. Come mai?, viene da chiedersi. Perché - spiega Paolo - la
parola di Dio è forte per se stessa e la sua penetrazione nel cuore degli
uomini non dipende dai mezzi umani, ma dalla «manifestazione dello spirito e
della sua poten-za». L'Apostolo non si riferisce ai prodigi, ai miracoli che
avrebbero convinto i co-rinzi ad accogliere il vangelo, ma al frutto dello
spirito: la forma di vita nuova che, pur in mezzo a miserie e debolezze umane,
era stata adottata da molti membri della comunità.
Vangelo: Matteo 5,13-16
In
quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Voi siete il sale della terra; ma se
il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve
che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. Voi siete la luce del
mondo; non può restare nasco-sta una città che sta sopra un monte, né si
accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa
luce a tutti quelli che sono nella casa. Così ri-splenda la vostra luce davanti
agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e ren-dano gloria al Padre
vostro che è nei cieli».
Esegesi
Per
definire i discepoli e la loro missione, nel vangelo di oggi Gesù impiega una
serie di immagini. Li indica anzitutto come il sale della terra (v. 13).
I
rabbini d'Israele erano soliti ripetere: «La Toràh – la Legge santa data da Dio
al suo popolo - è come il sale e il mondo non può stare senza sale». Facendo
propria questa immagine e applicandola ai discepoli, Gesù sa di usare
un'espressione che può suonare provocatoria. Non smentisce la convinzione del
suo popolo che ritiene le sacre Scritture «sale della terra», ma afferma che
anche i suoi discepoli lo sono, se assimilano la sua parola e si lasciano
guidare dalla sapienza delle sue beatitudini.
Sono
molte le funzioni del sale e probabilmente Gesù intende riferirsi a tutte. La
prima e più immediata è quella di dare sapore ai cibi. Fin dai tempi antichi il
sale è diventato per questo il simbolo della «sapienza». Anche oggi si dice che
una persona ha «sale in testa» quando parla in modo saggio oppure che una
conversazione è «senza sale», quando e noiosa, priva di contenuto. Paolo
conosce questo simbolismo, infatti, ai colossesi raccomanda: «La vostra
conversazione sia sempre gradevole, condita con sale» (Col 4,6).
Intesa
così, l'immagine indica che i discepoli devono diffondere nel mondo una
saggezza capace di dare sapore e significato alla vita Senza la sapienza del
vangelo che senso avrebbero la vita, e gioie e i dolori, i sorrisi e le
lacrime, le teste e i lutti? Quali sogni e quali speranze potrebbe alimentare
l’uomo su questa terra? Difficil-mente andrebbe oltre quelli suggeriti dal
Qoelet: «È meglio mangiare, bere e godere dei beni nei pochi giorni di vita che
Dio dà: è questa la sorte dell’uomo» (Qo 5,17).
Chi è
imbevuto del pensiero di Cristo assapora invece altre gioie, introduce nel
mondo esperienze di felicità nuove e ineffabile, offre agli uomini la
possibilità di sperimentare la stessa beatitudine di Dio.
Il sale
non serve solo per dare sapore ai cibi. È usato anche per conservare gli
ali-menti, per impedire che divengano avariati.
Questo
fatto richiama la corruzione morale e, per associazione d'idee, le forze
negative, gli spiriti maligni. Contro di loro gli antichi orientali si
premunivano u-sando il sale. È a questa convinzione atavica che si collega,
ancor oggi, il rito di spargere il sale per immunizzare da malefici e
iettature.
Il
cristiano è sale della terra: con la sua presenza è chiamato a impedire la corru-zione,
a non permettere che la società, guidata da principi malvagi, si decomponga e
vada in disfacimento. Non è difficile constatare, ad esempio, che, dove non c'è
chi richiama, chi rende presenti i valori evangelici, si diffondono più
facilmente la dis-solutezza, l'odio, la violenza, la sopraffazione. In un mondo
dove è messa in dubbio l'intangibilità della vita umana, dal suo sorgere al suo
spegnersi naturale, il cristiano è sale che ne ricorda la sacralità. Dove si
banalizza la sessualità e le convivenze e gli adulteri non sono più chiamati
con il loro nome, il cristiano richiama la santità del rapporto uomo-donna e il
progetto di Dio sull'amore coniugale. Dove si cerca il proprio tornaconto, il
discepolo è sale che conserva, ricordando a tutti e sempre la proposta, eroica
a volte, del dono di sé.
Il sale
era usato anche per confermare l'inviolabilità dei patti: i contraenti
compi-vano il rito di consumare insieme pane e sale o sale soltanto. Questo
accordo solenne era detto «alleanza di sale». È chiamata con questo nome
l'alleanza eterna stipulata da Dio con la dinastia di Davide (2Cr 13,5).
I
cristiani sono sale della terra anche in questo senso. Testimoniano
l'indefettibilità dell'amore di Dio: mostrano che nessun peccato potrà mai
incrinare il patto di fedeltà che lo lega all'uomo e, con la loro vita, danno
prova che anche all'uomo è possibile ri-spondere a questo amore, basta
lasciarsi guidare dallo Spirito.
La
«parabola» del sale si conclude con un richiamo ai discepoli a non divenire «insipidi».
L'immagine assume una connotazione piuttosto sorprendente: i chimici assicurano
che il sale non si corrompe, eppure Gesù mette in guardia i discepoli dal
pericolo di perdere il proprio sapore. Per quanto possa apparire strano, Gesù
li con-sidera capaci di fare qualcosa di assurdo, di impossibile, come rovinare
il sale: pos-sono far perdere al vangelo il suo sapore.
C'è un
solo modo di combinare questo guaio: mischiare il sale con altro materiale che
ne alteri la purezza e la genuinità. Il vangelo ha un suo gusto e bisogna
lasciar-glielo, non va snaturato, altrimenti non è più vangelo.
La
parabola del sale è raccontata subito dopo le «beatitudini». Il cristiano è
sale se accoglie integralmente le proposte del Maestro, senza aggiunte, senza
modifiche, senza i «ma», i «se» e i «però» con cui si tenta di ammorbidirle, di
renderle meno e-sigenti, più praticabili.
Per
esempio, Gesù dice che bisogna condividere i propri beni, che si deve porgere
l'altra guancia, perdonare settanta volte sette... è questo il gusto
caratteristico del sale evangelico. Ma incombe sempre la tentazione di
aggiungerci un po' di «buon senso»: non si deve esagerare, bisogna pensare
anche a se stessi, se si perdona troppo gli altri se ne approfittano, non si
deve ricorrere alla violenza, a meno che non sia necessario... È così che il
vangelo viene «addolcito», che diventa «praticabile»... ma perde il suo sapore.
È il fallimento della missione, indicato metaforicamente con l'immagine del
sale gettato sulla strada: viene calpestato, come la polvere cui nessuno presta
attenzione né attribuisce alcun valore.
La
seconda funzione assegnata ai discepoli è quella di essere città posta sul
monte (v. 14).
Ancor
oggi, lo sguardo di chi percorre le strade dell'alta Galilea è attratto dai numerosi
villaggi posti sulle cime delle montagne e lungo i clivi delle colline. È
im-possibile non notarli e, specialmente in primavera, quando i vermigli
anemoni ri-coprono le campagne che li circondano, appaiono deliziosi. Quasi
sempre gli scavi archeologici comprovano che le sommità, sulle quali sorgono,
erano abitate fin dai tempi più remoti.
Gesù,
cresciuto in uno di questi villaggi, li ha indicati ai discepoli come
un'im-magine della loro missione: con la loro vita fondata su principi nuovi,
essi dovranno richiamare l'attenzione del mondo.
Non è
l'invito a farsi notare, a mettersi in mostra. Un simile atteggiamento
con-traddirebbe la raccomandazione a non praticare le buone opere davanti agli
uomini, per essere notati, a non suonare la tromba per richiamare l'attenzione
quando si fa l'elemosina (Mt 6,1-2).
Il
richiamo di Gesù è a un famoso testo di Isaia, dove si annuncia che il monte
del tempio del Signore «sarà eretto sulla cima dei monti, sarà più alto dei
colli e ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli... Poiché da
Gerusalemme uscirà la parola del Signore» (Is 2,2-5).
D'ora
in avanti — assicura Gesù — non sarà più a Gerusalemme che i popoli
guarderanno, ma alle comunità dei suoi discepoli. Saranno loro ad attirare gli
sguardi ammirati degli uomini... se avranno il coraggio di impostare la vita
sulle sue beatitudini.
Collegata
all'immagine del monte c'è quella della luce (vv. 14-16).
I
rabbini dicevano: «Come l'olio porta luce al mondo, così Israele è luce per il
mondo» e ancora: «Gerusalemme è luce per le nazioni della terra». Si riferivano
al fatto che ritenevano Israele depositario della sapienza della legge che Dio,
per bocca di Mosè, aveva rivelato al suo popolo.
Qualche
rabbino aveva però intuito che non solo la parola delle sacre Scritture, ma
anche le opere di misericordia erano luce e sosteneva che il primo ordine dato
da Dio all'inizio della creazione: «Sia la luce!» si riferiva non a una luce
materiale, ma alle opere dei giusti.
Chiamando
i discepoli «luce del mondo», Gesù dichiara che la missione affidata da Dio a
Israele era destinata a continuare attraverso di loro. Sarebbe apparsa in tutto
il suo splendore nelle loro opere di amore concrete, verificabili. Sono queste
opere che Gesù raccomanda di «far vedere». Non vuole che i suoi discepoli si
limitino ad annunciare la sua parola senza impegnarsi, senza lasciarsi
compromettere, senza giocarsi la vita su questa parola.
La
prova che gli uomini sono stati raggiunti da questa luce si avrà quando essi
daranno gloria al Padre che sta nei cieli.
La loro
reazione potrebbe però essere anche opposta e inattesa. Potrebbero essere
infastiditi dalle opere dei cristiani e reagire indispettiti.
Non si
deve subito presupporre che questo dipenda da una loro disposizione malevola.
In genere non è il bene che disturba, ma la percezione di qualche ombra di
esibizionismo, di qualche cedimento all'ambizione, alla vanità,
all’autocompiacimento. Queste sbavature, nemmeno consapevoli, che accompa-gnano
spesso anche i gesti più nobili, privano l'opera buona della sua caratteristica
più squisita, più sublime, più «divina»: il soave profumo del disinteresse e
totale gratuità.
I
discepoli sono chiamati a compiere il bene senza attendersi alcun plauso,
alcuna ammirazione, «la loro destra deve sapere ciò che fa la sinistra» (Mt
6,3). Non è a loro dovranno essere rivolte le lodi, ma a Dio.
L'ultima
immagine è deliziosa: veniamo introdotti nell'umile dimora di un con-tadino
dell'alta Galilea dove, alla sera, si accende una lampada di terracotta a olio,
la si pone su un supporto di ferro e la si colloca in alto, in modo che possa
illuminare anche gli angoli più reconditi dell'abitazione. A nessuno passerebbe
per la mente di nasconderla sotto un vaso.
L'invito
è a non occultare, a non velare le parti più impegnative del messaggio
evangelico. I discepoli non devono preoccuparsi di difendere o di giustificare
le proposte di Gesù, devono solo annunciarle, senza paura, senza timore di
venire derisi o perseguitati. Esse saranno per gli uomini come una lampada che
«brilla in un luogo oscuro finché non spunti il giorno e si levi la stella del
mattino» (2Pt 1,19).
Meditazione
«Il giusto risplende come luce».
Il
ritornello del salmo responsoriale ci suggerisce in quale prospettiva accostare
i testi della liturgia della Parola di questa domenica, al cui centro risuona
l'invito che Gesù rivolge ai suoi discepoli affinché riconoscano di essere sale
della terra e luce del mondo.
Il
profeta Isaia annuncia che sorge come luce persino nelle tenebre chi pratica la
giustizia e la misericordia, vive nella compassione verso i bisogni degli
altri, lotta contro l'oppressione e sa consolare le afflizioni.
L'apostolo
Paolo evidenzia un altro aspetto della luminosità del discepolo: è colui che
non solo pone al centro del suo annuncio «Gesù Cristo, e Cristo crocifisso»
(1Cor 2,2), ma assume nella sua testimonianza la logica della Croce,
riconoscendo nella propria debolezza lo spazio in cui può manifestarsi la
potenza di Dio e del suo Spirito. Non la sapienza umana abbandonata a se
stessa, ma la sapienza trasfigurata dall'amore di Dio, pienamente manifestatesi
nel mistero pasquale, diviene luce che può rischiarare il cammino degli uomini,
orientando le loro scelte, sostenendo le loro fatiche.
Dall'accostamento
di queste due letture emerge così come l'essere sale e luce non dipende
solamente dal contenuto delle proprie azioni o delle proprie parole, ma anche
dallo stile che le accompagna e le sostiene. È decisivo, per essere davvero
di-scepoli di Gesù Cristo, e Cristo crocifisso, non solo il che cosa si fa o si
dice, ma il come, con quale sapienza e con quale stile.
Accostiamo
questo testo di Matteo dopo aver ascoltato, nella domenica prece-dente, la
proclamazione delle beatitudini, con cui Gesù apre il cosiddetto Discorso della
montagna, e occorre innanzitutto notare il nesso che collega queste due pagine.
'Luce del mondo' e 'sale della terra' sono proprio coloro la cui vita umile e
povera, mite e disarmata, appare piccola, insignificante, marginale rispetto a
un mondo che spesso si manifesta loro ostile. Eppure sono proprio loro ciò di
cui il mondo non può fare a meno, così come la vita non può mancare di sapore e
di luce. Le due immagini alludono a entrambi gli aspetti: un'assoluta necessità
che si manifesta però in un'apparente debolezza.
Assoluta
necessità: non si può vivere senza luce, così come senza sale.
Il Siracide afferma: «Le cose di prima necessità per la vita
dell'uomo sono: acqua, fuoco, ferro, sale, farina di frumento, latte, miele,
succo di uva, olio e vestito (Sir 39,26). Conosciamo del resto i molteplici usi
del sale nell'antichità, come pure ai no-stri giorni: non solo condisce, ma
purifica, conserva; in molte culture è simbolo di sapienza, di amicizia, di
condivisione della stessa mensa.
Al pari
della luce, dunque, il sale risulta necessario alla vita dell'uomo, al suo
gusto e al suo sapore, così come sono indispensabili la relazione e l'amicizia;
eppure rimane una realtà debole, poco appariscente, esposta al rischio di
venire trascurata. E. Schweitzer, commentando questo testo, sottolinea che sua
moglie, quando deve scrivere una ricetta di cucina per qualche amica, elenca
tutti gli ingredienti, ma di certo non si preoccupa di precisare che occorre
anche il sale. Va da sé che ci vuole, e proprio per questo non se ne esplicita
la necessità. Rimane nascosto, come accade alle cose più preziose della vita, e
alla luce stessa. Se devo descrivere un panorama, parlerò di ciò che vedo, del
profilo dei monti e delle case, degli alberi e delle strade, ma non citerò la
luce, che pure è ciò che consente di vedere ogni cosa. Nelle metafore del sale
e della luce sono dunque presenti entrambi questi aspetti: si tratta di realtà
essenziali, ma nello stesso tempo nascoste e deboli, e proprio per questo
sottoposte a due possibili tentazioni. La prima è che vengano trascurate, senza
che se ne colga l'importanza. È la tentazione del mondo, che non sa riconoscere
il valore della testimonianza evangelica resa dal discepolo di Gesù. C'è però
anche la tentazione opposta, quella del discepolo, che può trascurare il
proprio valore, la propria dignità, senza metterla a servizio del mondo; oppure
la può occultare in un anonimato che non annuncia e non comunica più nulla.
Dobbiamo
anche osservare l'indicativo presente che risuona in modo molto netto e forte
nelle parole di Gesù. «Voi siete il sale della terra; voi siete la luce del
mondo». Non un futuro, non un esortativo, tantomeno un imperativo, ma un
indicativo pre-sente: siete! Coloro ai quali Gesù si rivolge sono già ora sale
e luce. Non possono né debbono fare qualcosa per diventarlo, e l'esserlo non
dipende da una qualche loro virtù o qualità particolari; tanto meno da un loro
merito. È l'azione gratuita di Dio, che regna su di loro, è la prossimità del
Regno che Gesù dona alla loro vita a renderli tali. Devono tuttavia vigilare
per non perdere, o meglio per non sprecare questo dono, poiché il sale può
perdere sapore e la luce rimanere nascosta. Che il sale abbia sapore e che una
lucerna faccia luce sono eventi che non hanno nulla di straordinario e di
sorprendente. La vera sorpresa che sconcerta è che il sale sia senza sapore o
che la lucerna, anziché collocata ben in vista sul lucerniere, venga nascosta
sotto un moggio.
I
chimici ci spiegano che il sale non può perdere il sapore. Eppure, sembra dire
Gesù, può accadere. Il paradosso ricorda una semplice realtà: il sale diventa
insipido e inutile, tanto da essere gettato via, non perché perda il suo
sapore, ma perché non viene utilizzato per dare sapore ad altro. L'immagine
simmetrica della lucerna aiuta a comprendere meglio: a cosa serve una lampada
che viene nascosta sotto un moggio? Non serve più a nulla. Non perde la sua
luce, continua a risplendere, ma soltanto per se stessa, nascosta com'è sotto
il moggio. Nessuno può rallegrarsi alla sua luce. Anche al sale può accadere la
stessa sorte: non perderà il suo sapore, ma a che cosa serve se non condisce i
cibi nei quali deve sciogliersi per far risaltare la loro bontà al palato? Il
discepolo non è chiamato a vivere la beatitudine del Regno per se stesso, ma
per donare sapore e luce al mondo intero. Se per paura di contaminarsi con il
mondo, di perdersi in esso, rifiuta di sciogliersi come sale nei cibi; o se per
paura dell'ostilità e del rifiuto, anziché collocarsi come lampada ben visibile
su un lucerniere, si nasconde al sicuro, in un ambito circoscritto e protetto,
a che cosa serve? Non serve più a nulla: può essere gettato via e calpestato
dagli uomini.
Occorre
però vivere questa testimonianza vigilando sul 'come'. Il sale non può perdere
sapore, ma in se stesso ha un pessimo gusto. Nessuno di noi prende del sale e
lo mangia da solo, e se lo fa ne prova disgusto. Qualcosa di simile accade alla
luce: illumina e consente di vedere, ma se qualcuno fissasse a occhio nudo una
fonte luminosa intensa, ne rimarrebbe abbagliato. Il sale da solo non nutre la
vita, ma è indispensabile per dare sapore a tutti i cibi di cui ci nutriamo. Ne
esalta le qualità donando loro un sapore più pieno che rallegra il palato. La
luce in se stessa non si vede, ma senza luce non si vede nulla di ciò che
esiste. Se entro in una stanza buia, i mobili già ci sono, anche se ancora non
li scorgo; apro una finestra, penetra la luce ed ecco che tutto emerge
dall'oscurità così da poterlo riconoscere e ammirare.
Tale
deve essere lo stile della testimonianza del discepolo. Nella storia è già
pre-sente il Signore con la sua azione, anche se in modo nascosto e misterioso.
Il discepolo è colui che, con un po' di sale e un po' di luce, deve far
emergere questa presenza così che gli uomini possano vederla, riconoscerla,
assaporarla nella sua bellezza. Il Signore è già presente nella storia, anche
nelle storie sbagliate, segnate dal peccato, dal fallimento, dal dolore, da
tante altre ferite come quelle ricordate dal testo di Isaia. Occorre però che
ci siano un po' di sale e un po' di luce perché tale presenza nascosta diventi
manifesta. Non basta la luce, perché non è sufficiente vedere; occorre anche il
sale, poiché è necessario gustare, assaporare, mangiare. La comunione con il
Signore non è questione soltanto di ascolto e di visione; implica
assimilazione, nutrimento, interiorizzazione, giungere a gustare un altro
sapore della vita. Inoltre il sale, oltre a condire, preserva, purifica,
conserva. Occorre anche purificare e conservare, preservandoli dalla
corruzione, dalla dimenticanza, dall'indifferenza, i segni discreti e
misteriosi della presenza di Dio.
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