giovedì 27 settembre 2012

30.09.2012 V DOMENICA DOPO IL MARTIRIO DI SAN GIOVANNI IL PRECURSORE





 Il testo del Buon Samaritano è celebre, per questo motivo sono particolarmente importanti le tante differenti prospettive che si trovano nei testi della sezione “Per la nostra vita”. Offrono spunti non banali di riflessione.

LETTURA
Lettura del libro del Deuteronomio 6, 1-9


In quei giorni. Mosè disse: «Questi sono i comandi, le leggi e le norme che il Signore, vostro Dio, ha ordinato di insegnarvi, perché li mettiate in pratica nella terra in cui state per entrare per prenderne possesso; perché tu tema il Signore, tuo Dio, osservando per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo figlio e il figlio del tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti do e così si prolunghino i tuoi giorni. Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica, perché tu sia felice e diventiate molto numerosi nella terra dove scorrono latte e miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto.
Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte».


SALMO
Sal 118 (119)

      ®   Beato chi cammina nella legge del Signore.

Beato chi è integro nella sua via
e cammina nella legge del Signore.
Beato chi custodisce i suoi insegnamenti
e lo cerca con tutto il cuore. ®

Non commette certo ingiustizie
e cammina nelle sue vie.
Tu hai promulgato i tuoi precetti
perché siano osservati interamente.
Siano stabili le mie vie
nel custodire i tuoi decreti. ®

Non dovrò allora vergognarmi,
se avrò considerato tutti i tuoi comandi.
Ti loderò con cuore sincero,
quando avrò appreso i tuoi giusti giudizi.
Voglio osservare i tuoi decreti:
non abbandonarmi mai. ®

EPISTOLA
Lettera di san Paolo apostolo ai Romani 13, 8-14a

Fratelli, non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge. Infatti: «Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai», e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: «Amerai il tuo prossimo come te stesso». La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità.
E questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo.


VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Luca 10, 25-37


In quel tempo. Un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova il Signore Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai».
Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così»



«Ascolta, Israele!». Lo šemaʿ Jiśrāʾēl non è un banale invito o un’incidentale esortazione ad ascoltare. È l’appello, la chiamata originaria, l’espressione della coscienza di essere stati chiamati ad essere Israele: coloro che ascoltano si riconoscono in Israele e ad Israele è rivolto l’invito di mettersi in atteggiamento di ascolto e di obbedienza. È un modo profondo e suggestivo per parlare della chiamata originaria: come i grandi profeti, come Mosè (Es 3), come Abramo (Gn 12), l’appello di JHWH – in Dt pronunciato per bocca di Mosè – diviene il momento generatore del patto. In Dt 7,7-8, quando ci si chiederà il motivo della scelta di Israele, non sarà data altra risposta, se non l’amore preveniente di JHWH:
JHWH si è legato a voi e vi ha scelto, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli –, ma perché JHWH vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, JHWH vi ha fatto uscire con mano potente e vi ha riscattato liberandovi dalla condizione servile, dalla mano del faraone, re di Egitto.
L’elezione non è un privilegio, ma l’effettiva risposta alla chiamata divina.
La sezione di Dt 6 è uno dei discorsi di Mosè, che permettono di definire davvero il libro del Deuteronomio una “legge predicata”. Vi è un’alternanza di generi letterari: tre ripetizioni del primo comandamento, in diverse formulazioni (vv. 4-5; 10-15 e 20-25) e due attualizzazioni, in diversi contesti vitali (vv. 6-9 e 16-19). Se la pagina è collocata nel contesto del libro, si possono vedere a confronto due linguaggi teologici diversi per esprimere la teologia del patto: il primo (Dt 5) appartiene alla tradizione che conduce alla codificazione delle “dieci parole”; il secondo (Dt 6) risale al formulario dell’alleanza, che esprime l’esigenza fondamentale del patto nei termini sintetici di “amore”.
La sequenza della prima formulazione è il tracciato fondamentale della teologia deuteronomica e giustamente è diventata la chiave di volta della teologia giudaica. Dopo l’appello introduttivo, si noti la concatenazione tra l’indicativo e l’imperativo. L’indicativo sta nella formulazione sintetica che fa toccare alla lingua ebraica il massimo della sua sinteticità e potenzialità espressiva: «JHWH nostro Dio, JHWH uno». È chiaro che JHWH è un nome proprio e, come tale, è già uno e unico; ma il senso dell’affermazione sta nel dire che quel Dio JHWH è l’unico Dio. Tale paradossale definizione dell’unicità di Dio suscita l’imperativo seguente: tu dunque amerai JHWH, Dio tuo… In ebraico, la connessione è detta con un semplice “e”: «e amerai…», che unisce sia un imperativo a un altro imperativo precedente, sia un indicativo all’imperativo seguente. È la sintassi che si ritrova con il verbo ʾāhab «amare» solo in Lv 19,18: «e amerai il tuo prossimo come te stesso».
La singolare concordanza è stata messa in evidenza da Gesù, nel dialogo con lo scriba di Gerusalemme (Mc 12,28-34) o il dottore della Legge (Mt 22,34-40; Lc 10,25-37, Vangelo). L’esigenza dell’amore totalizzante per JHWH («con tutto il cuore, con tutta la vita, con tutta la forza») abbraccia infatti anche la relazione con il prossimo e non ne può fare a meno. La dimensione decisionale (il cuore), la vita in quanto tale e la dimensione operativa (forza) devono entrare in relazione totalizzante con l’unico Dio JHWH. Davvero, come insegna l’Apostolo nell’Epistola, «chi ama l’altro ha adempiuto la Legge» (Rm 13,8).  Si noti che nella pagina deuteronomica si insiste nell’alternare il «tu» al «voi». Non si deve giudicare questo gusto retorico con i nostri parametri estetici, né trovare in ciò un indizio per ipotizzare la provenienza del materiale da diverse fonti precedenti. Tale alternanza, al contrario, fa percepire un aspetto importante che non vale solo per l’appartenenza a Israele, ma è caratteristica anche del nostro cammino di fede, che è sempre personale e insieme comunitario: non si può dare infatti una relazione comunitaria che non sia frutto di decisioni personali, ma nemmeno una relazione individuale che non sia l’esito di un’appartenenza sociale.
Nessuno può credere da solo, come nessuno può vivere da solo. Nessuno si è dato la fede da se stesso, così come nessuno si è data l’esistenza. La fede è sempre dono del Signore che bussa alla porta di ciascuna persona e di ogni generazione con la voce, con il volto, con la storia di altre persone e di altre generazioni. Siamo generati alla fede dallo Spirito in quel grembo che è la comunità cristiana.
Vi è anche un’altra dialettica molto feconda tra comandamento e comandamenti, tra leggi, decreti, sentenze e comandi. L’enfasi cade sul “primo” comandamento, il quale si articola nelle “dieci parole” e, tramite queste poi, nella molteplicità delle altre leggi. Il primo comandamento è un trascendentale della vita etica. Le leggi, i decreti e le varie sentenze sono le norme che di volta in volta cercano di concretizzare quel trascendentale, mai esaurito in se stesso. La tradizione giudaica ha una bella immagine per esprimere questo concetto: le diverse norme assomigliano alla “siepe” che protegge il comandamento. È evidente che le molteplici norme non sono il comandamento, ma senza di esse rischieremmo ben presto di trasgredire anche lo stesso primo comandamento, cadendo nell’idolatria.

Il vangelo

Agli estremi del passo (vv. 25-28 e 37), stanno due spezzoni di dialogo tra il dottore della Legge e Gesù. La prima è concentrica: si apre con la domanda del dottore (v. 25) e si chiude con la risposta di Gesù (v. 28). Al centro, la duplice domanda di Gesù (v. 26) seguita dalla risposta del dottore della Legge, con la citazione del duplice comandamento (v. 27). L’ultima parte (37), più breve, è costruita invece in modo parallelo. I due verbi «fare» nel v. 37 riprendono quelli del v. 25b e 28b.
Vi sono poi due domande: al v. 29b (la domanda è preceduta da una frase narrativa) e al v. 36. Entrambe cominciano con «Chi» e riguardano l’identità del «prossimo». La prima domanda è posta dal dottore della Legge, la seconda da Gesù.
Nel mezzo sta la parabola (vv. 30-35), narrata anch’essa in modo concentrico intorno al v. 33: Σαμαρίτης δέ τις ὁδεύων ἦλθεν κατʼ αὐτὸν καὶ ἰδὼν ἐσπλαγχνίσθη «un Samaritano invece, che era in viaggio, passandogli accanto, vide, ne ebbe compassione».
Il primo versante è formato da due brani. Il primo descrive le azioni dei briganti (v. 30); il secondo quelle del sacerdote e del levita (vv. 31-32). Ciascuno di questi due ultimi ἀντιπαρῆλθεν «passò oltre dall’altra parte» (vv. 31b e 32b).
Il secondo versante comprende pure due brani: il primo (v. 34) racconta ciò che fa il Samaritano, il secondo (v. 35) ciò che, il giorno seguente, chiede all’albergatore di fare, ovvero di «prendersi cura di lui» (vv. 34-35). In totale, le azioni compiute dal Samaritano nei riguardi del malcapitato sono dieci: un nuovo “decalogo”!
Sacerdote e levita si trovano così dalla parte dei briganti, mentre il Samaritano e l’albergatore sono dall’altra parte. Si notino anche le opposizioni tra «spogliare» (v. 30) e «dare» (v. 35) e tra «percuotere» (v. 30b) e «fasciare le ferite» (v. 34a).
Al centro sta il v. 33. Il Samaritano che sopraggiunge dopo il sacerdote e il levita, non è sullo stesso piano: i vv. 31 e 32 sono perfettamente paralleli; il v. 33 se ne differenzia per forma e senso: non è la stessa cosa arrivare «verso quel luogo» (v. 32; preceduto da «per quella medesima strada» nel v. 31a) e venire «verso di lui» nel v. 33a; ma è soprattutto la finedelle frasi ad opporsi, perché, a causa dello stesso «vedendolo», le prime due volte sta ἀντιπαρῆλθεν «passò oltre dall’altra parte», mentre la terza volta il Samaritano ἐσπλαγχνίσθη καὶ προσελθὼν «ne ebbe compassione e gli si fece vicino».
Alle domande del dottore della legge (vv. 25 e 29), Gesù risponde con un’altra domanda (vv. 26 e 36). Alla prima risposta del dottore della Legge che cita un comandamento (v. 27), Gesù risponde con un imperativo (v. 28) che rinvia al comandamento. Nel v. 37, la risposta di Gesù rinvia pure alla risposta del dottore della Legge. Da notare il capovolgimento operato da Gesù a proposito del “prossimo”: nel v. 29 il dottore della Legge chiede chi sia il suo prossimo, nel v. 36 Gesù domanda chi sia stato il prossimo dell’uomo ferito; così il prossimo diviene soggetto dell’azione mentre prima era oggetto.

Chi è il mio prossimo?
Secondo una corretta esegesi rabbinica, con il principio ermeneutico della «concordanza» (remez), il dottore della Legge accosta alla citazione di Dt 6,5 la citazione di Lv 19,18: «E amerai il prossimo tuo come te stesso». La cosa singolare è che soltanto in questi due passi della Tôrâ si trova la forma verbale weʾāhabtā «e amerai».

Ma l’interpretazione umana della legge è sempre in agguato a smorzare la forza del dettato della legge divina: prossimo è soltanto il membro che appartiene alla cerchia ristretta della famiglia, della propria comunità religiosa (così era interpretato a Qumrān), del popolo cui si appartiene (cf però Lv 19,34 che recita: «Il forestiero che dimora fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Io sono JHWH vostro Dio»)…
L’interpretazione di Gesù capovolge i ruoli presupposti dalla domanda del dottore della Legge: se tu sei prossimo, non ha più senso domandarsi chi sia il tuo prossimo, ma va’ e diventa prossimo di chiunque incontri!

Problema teologico o esistenziale?
Chi si alza per fare la domanda a Gesù è un uomo versato nella conoscenza della Legge. Gesù lo rinvia alla sua competenza di dottore della Legge. La risposta alla prima domanda posta a Gesù non si trova già nella Legge che egli conosce a memoria? Le parole che cita riassumono mirabilmente le due tavole dell’unica Legge. Aveva una conoscenza più che sufficiente per rispondere alla propria domanda.
Quanto alla sua seconda domanda, si deve ritenere che non fosse ben posta, poiché Gesù, alla fine della parabola, la capovolge. Il dottore della legge chiede infatti a Gesù di precisare l’oggetto dell’amore che gli viene ordinato, mentre Gesù gli chiede di identificare tra i tre personaggi, del sacerdote, del levita e del Samaritano, il soggetto dell’amore. La domanda del dottore della Legge ha di mira l’altro, quella di Gesù mette in discussione proprio lui. Gesù avrebbe potuto rimandarlo di nuovo alla Scrittura. La risposta alla sua domanda vi si trova chiaramente enunciata: l’oggetto dell’amore deve comprendere l’estraneo come il fratello, il pagano come il giudeo, entrambi da trattare come se stessi. Gesù gli vuol far capire che il problema non è questo. Il problema non è un problema teologico, ma esisten-ziale. Tu, dottore della legge, diventerai prossimo dell’altro?

Giudeo o pagano?
L’identità del prossimo percosso è nascosta e manifesta insieme. La storia non dice se si tratta di un giudeo o di un pagano. Colui che è lasciato mezzo morto e ha bisogno di essere salvato è semplicemente un uomo. Neppure i briganti sono identificati. Sono degli uomini. Il problema non è sapere chi è stato ferito e chi lo ha svaligiato e riempito di botte. L’uno e gli altri possono essere sia giudei che pagani. C’è un uomo mezzo morto e ha bisogno di un altro uomo che lo salvi. Il problema è sapere chi lo salverà. E stavolta l’identità di quelli che possono farlo è assai precisa.
Non vi sono pagani tra i tre candidati salvatori, ma tre soggetti della Legge. Il sacerdote e il levita si allineano dalla parte dei briganti, facendosi loro complici: come loro, se ne vanno lasciandolo mezzo morto; sono allo stesso modo imputabili di non-assistenza a una persona in pericolo. Il Samaritano, eretico e scismatico, disprezzato e rifiutato dai giudei, ama il ferito come se stesso: paga in prima persona, con la propria cavalcatura e col suo danaro. Mentre sacerdote e levita si sono identificati con i briganti, egli fa tutto ciò che si deve perché un altro faccia come lui, per suscitare un altro salvatore, ma la storia non lo identifica più di quanto faccia con l’uomo di cui si prenderà cura. Basta che abbia i mezzi per farlo.

La condizione per la pienezza di vita
C’è solo un mezzo per ottenere in eredità la vita ed è di donarla. Gesù esplicita così il senso dell’amore comandato dalla Legge verso il prossimo. L’uomo che cade nelle mani dei 14

briganti è mezzo morto, è tra la vita e la morte. Il sacerdote e il levita scelgono di lasciarlo continuare a morire, il Samaritano gli salva la vita.
Amare il prossimo è aiutarlo a vivere e offrirgli i mezzi per vivere. Amare il prossimo come se stesso è trattarlo «come carne della propria carne» (cf Gn 2,23), considerarlo come proprio figlio. Solo a questa condizione uno potrà a sua volta essere trattato da Dio come un figlio, divenire suo erede e avere la vita eterna.
Definendo il nostro comportamento, Gesù descrive in anticipo ciò che farà per noi. I discepoli riconosceranno in lui il Figlio di Dio quando ci avrà ricondotti alla vita dando la sua per noi, quando lo avranno visto spogliato, percosso, condotto a morte, e il terzo giorno rivestito di vita eterna.


PER LA NOSTRA VITA

1. Il vero problema non è di “cercare Dio”, perché vi sono maniere di cercarlo che sono provocazioni; e ogni ricerca in cui l’uomo si attribuisce il primo piano non è già una provocazione?
Il vero problema sta nel mettersi in disposizioni tali che si possa sperare di trovarLo, senza dover, per così dire, neanche cercarLo. Bisogna giungere a comprendere che queste disposizioni stesse non possono venire che da Lui. Infatti è Lui che ci cerca e che, alla Sua ora, si manifesterà a noi.
A volte noi crediamo di cercare Dio. Invece è sempre Dio che ci cerca, e spesso Egli si fa trovare da chi non Lo cercava. Nessuna perspicacia critica prevarrà sulla chiaroveggenza di un cuore puro. Due volte felici i cuori puri: perché vedranno Dio, e Dio si farà vedere attraverso di loro. H. DE LUBAC, Sulle vie di Dio, Nuova edizione aggiornata, Introduzione di E. GUERRIERO (Già e Non Ancora 460. Opera Omnia di Henri De Lubac 1), Jaca Book, Milano 1959, 20082, p. 176.
2. Forse le pagine del Vangelo più urtanti per noi sono quelle che mettono spalle al muro. “Chi è il mio prossimo”, prende tempo nel chiedere il dottore della legge. Ma la parabola svela che non esiste una definizione astratta, un “modello”, un’idea di prossimo.F. CECCHETTO, Testi inediti.

3. Quando infatti qualcuno viene da te e ti chiede aiuto, non devi soccorrerlo un poco e poi, da uomo pio, dirgli: “Abbi fiducia e affida a Dio il tuo affanno”, bensì devi agire come se non ci fosse nessun altro capace di aiutarlo, solo tu. M. BUBER, Storie e leggende chassidiche, a cura e con un saggio introduttivo di A. LAVAGETTO, Cronologia a cura di M. DE VILLA (I Meridiani. Classici dello Spirito), Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2008, p. 243.

4. Carissimi fedeli, «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e s’imbatté in ladroni, i quali, spogliatolo e feritolo, se ne andarono lasciandolo mezzo morto».
Così il Vangelo. Ognuno di noi si può vedere raffigurato in quel poveretto; anche noi sul nostro cammino abbiamo incontrato dei ladroni: il mondo, il demonio, le passioni che ci hanno depredato e ferito. Chi può dire di non portare nella propria anima qualche ferita, più o meno profonda? Ma anche noi sui nostri passi abbiamo incontrato un buon samarita-no, anzi, il buon Samaritano per eccellenza, Gesù, il quale, mosso a compassione per il nostro stato, ci ha prestato soccorso.

Con amore infinito si è curvato sulle nostre piaghe sanguinanti medicandole con l’olio ed il vino della sua grazia: l’olio ne indica la soavità e il vino il vigore. Poi ci ha preso fra le braccia, ci ha portato in un rifugio sicuro, ossia ci ha affidato alle cure materne della Chiesa, alla quale ha consegnato il prezzo del nostro riscatto, frutto della sua morte di croce. La parabola del buon samaritano adombra così la storia della nostra redenzione, storia sempre in atto e che si rinnova ogni volta che ci avviciniamo a Gesù, mostrandogli con umiltà e pentimento le ferite dell’anima nostra. […]
Ecco come Gesù ci tratta. Ecco come Gesù ha trattato l’umanità che, per il peccato, gli era straniera, anzi nemica e che non aveva nulla a che fare con lui, il Santo, il Figlio di Dio! Gesù che mediante la sua opera redentrice ci ha dato per primo l’esempio di una carità piena di misericordia e di compassione, aveva tutto il diritto di concludere la parabola del buon samaritano dicendo: “Va’ e fa’ tu pure lo stesso!” e avrebbe potuto aggiungere, come dirà la sera dell’ultima Cena ai suoi Apostoli: “Vi ho dato l’esempio affinché anche voi facciate come io ho fatto a voi”.
Gli scribi e i farisei col nome del prossimo intendevano solo gli amici o, al massimo, i figli d’Israele, ma mai i pagani e neppure i samaritani. Ed ecco che il Salvatore, oltrepassando di colpo questa interpretazione tanto gretta, come esempio concreto della carità comandata dalla legge propone proprio un atto di carità verso un nemico: il buon samaritano, non tenendo conto di nulla, presta soccorso al povero abbandonato dal sacerdote e dal levita, suoi connazionali.
Questa carità universale sarà il distintivo della nuova religione instaurata da Cristo. «La religione pura agli occhi di Dio – scriverà san Giacomo – è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle loro tribolazioni». Ossia non vi è vera religione senza carità verso il prossimo e soprattutto verso il prossimo sofferente. Gli scribi, i farisei e i loro stessi sacerdoti, che avevano ridotto la religione a un puro formalismo esterno mentre trascuravano con tanta disinvoltura i doveri della carità, trovavano nella parabola del buon samaritano la loro condanna.
Ma anche fra i cristiani non mancano talvolta persone devote che non tralasciano la minima pratica di pietà, ma non hanno alcuna titubanza ad abbandonare a se stessi coloro che soffrono. Costoro non hanno ancora compreso l’anima della religione, ma si sono fermati alla scorza. La religione ci dà il senso profondo dei nostri rapporti con Dio. Lui nostro Padre e noi suoi figli. Ma se siamo figli di un unico Padre, come non sentirci fratelli? Ecco in che cosa consiste la pietà vera. Avere il senso della nostra figliolanza divina, avere il senso della nostra fraternità con tutti gli uomini, nessuno escluso. E chi si sente veramente fratello non tirerà mai dritto di fronte ai bisogni ed alle sofferenze altrui. Così sia! P. TARCISIO GEIJER (monaco certosino), Testi inediti, Vedana 1965.

5. Il contrario dell’umanità è la brutalità, l’incapacità di riconoscere l’umanità del prossimo, l’incapacità di esser sensibili ai suoi bisogni, alla sua situazione. La brutalità dipende spesso da una mancanza di immaginazione e dalla tendenza a trattare l’altro in modo generico, a considerare l’altro come un uomo medio. L’uomo raggiunge la pienezza dell’essere nel legame sociale, nell’interesse per gli altri. Amplifica la sua esistenza «portando il fardello del suo prossimo».A.J. HESCHEL, Chi è l’uomo?, Traduzione di L. MORTARA - E. MORTARA DI VEROLI, Con uno scritto di E. ZOLLA (Conoscenza Religiosa 36), SE, Milano 2005, p. 61.


6. Ciò che noi siamo capaci di concedere agli altri è generalmente di meno e raramente di più di una semplice decima.
Non esiste conflitto tra Dio e l’uomo, né ostilità tra lo spirito e il corpo, né cuneo tra sacro e profano. L’uomo non vive separato da Dio. L’umano è la linea di confine del divino. La vita scorre in prossimità del sacro, ed è questa vicinanza che conferisce all’esistenza il significato supremo. […] Spetta a noi giungere a percepire l’impossibile nel possibile, a per-cepire la vita eterna nelle azioni di tutti i giorni. Dio non sta nascosto in un tempio. La Torah è venuta a dire all’uomo distratto: “Tu non sei solo, tu vivi costantemente in una prossimità sacra; ricorda: «Ama il prossimo tuo – Dio – come te stesso». Non ci viene chiesto di abbandonare la vita e di congedarci da questo mondo, ma di mantenervi accesa la scintilla e di permettere che la sua luce si rifletta sul nostro volto. Che la nostra cupidigia non si erga come una barriera tra noi e questa vicinanza. Dio ci aspetta su ogni via che conduce dall’intenzione all’azione. A. J. HESCHEL, L’uomo non è solo. Una filosofia della religione, Traduzione di L. MORTARA - E. MORTARA DI VEROLI, Revisione di C. GALLI, Introduzione di C. CAMPO (Uomini e Religioni. Saggi), Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2001, pp. 171 e 228.

7. Il primo momento [della parabola] è come un’introduzione scenica. In alto sta Gerusalemme, con le sue mura sicure, le case accoglienti, il tempio di Dio che offre bellezza e protezione. Mille metri più in basso, Gerico, la città delle rose, si stende sulle rive del Mar Morto a trecento metri sotto il livello del mare. Tra le due città una zona aspra e desertica, con una strada piena di imprevisti e di pericoli. Un uomo, che scende da Gerusalemme a Gerico, incontra dei briganti, che gli portano via tutto, lo bastonano e fuggono, lasciandolo mezzo morto.
Nel nostro cammino pastorale, insieme con i discepoli di Emmaus abbiamo incontrato il Signore, che ci ha spiegato la sua Parola; abbiamo spezzato con lui il Pane dell'Eucaristia; siamo corsi a Gerusalemme, la città della Cena, della Pasqua, della Pentecoste per prepararci alla missione, che ci farà testimoni del Risorto in tutto il mondo. La missione e la testimonianza ci portano lontano da Gerusalemme, incontro a ogni uomo che ha bisogno di aiuto. In altre parole dobbiamo comprendere il rapporto che c'è tra la dimensione contemplativa della vita, la Parola, l’Eucaristia, la missione e la carità, nella quale ultima tutte le altre realtà della Chiesa trovano la loro pienezza.
Il secondo momento della parabola ci presenta il penoso spettacolo della durezza del cuore. Un sacerdote e un levita, che percorrono quella strada, passano oltre, senza prestare soccorso. La loro durezza è l'immagine della nostra. I bisogni dei fratelli ci mettono in difficoltà. Rimaniamo chiusi in noi stessi e scarichiamo sugli altri le responsabilità. I rapporti sociali che ci legano ai nostri simili, senza la scintilla della carità, restano inerti. Dobbiamo esaminare umilmente le difficoltà che le nostre comunità incontrano nell'esercizio della carità.
Il terzo momento è il cuore di tutta la narrazione. Consta di una sola parola greca, che significa: fu mosso a compassione. Essa designa l’intensa commozione e pietà da cui fu afferrato un samaritano, che passava per quella stessa strada. Non pensiamo soltanto a un risveglio di buoni sentimenti. Poche pagine prima (cf Lc 7,13), la stessa parola è usata per descrivere la compassione di Gesù dinanzi al funerale del figlio della vedova di Naim. In altri passi della Bibbia questa parola allude all'immensa tenerezza che Dio prova per ogni 17

uomo. Dobbiamo pensare che con questa parola il racconto evangelico voglia descrivere un evento misterioso che è accaduto nel cuore del samaritano e lo ha, per così dire, attratto nello stesso movimento di misericordia con cui Dio ama gli uomini. Cercheremo anche noi di scoprire le leggi misteriose, secondo le quali l'amore di Dio, mediante lo Spirito di Gesù, infonde la carità nei nostri cuori.
Il quarto momento è una conclusione movimentata, tutta premura e azione: il samaritano si avvicina allo sfortunato, si fa prossimo, versa vino e olio sulle ferite, le fascia; carica lo sconosciuto, fatto diventare prossimo, sul proprio asino e lo porta alla locanda; sborsa due monete d'argento per le cure che saranno necessarie. La cosa più bella è che non lo abbandona al suo destino. Sa che può aver bisogno di tante altre cose; allora dice al padrone della locanda: «Abbi cura di lui e, anche se spenderai di più, pagherò io quando ritorno». Anche noi ci chiederemo quali gesti concreti ci domanda la carità che Dio ha acceso nel nostro cuore.

Come possiamo testimoniare il tuo amore?
Tu un giorno ci hai raccontato di un uomo,
che scendeva da Gerusalemme a Gerico
e fu assalito dai briganti.
Signore, quell’uomo ci chiama.
Aiutaci a non restare tra le mura del cenacolo.
Gerusalemme è la città della Cena,
della Pasqua, della Pentecoste.
Per questo ci spinge fuori
per diventare il prossimo di ogni uomo
sulla strada di Gerico. C.M. MARTINI, Lettera pastorale: Farsi prossimo. Si suggerisce la rilettura di tutta la Lettera pastorale Farsi .

8. Gerusalemme è la città santa, il luogo in cui Dio dimora all’interno del tempio. Ma il viaggio ci ha portato via dal tempio, ci ha allontanato dal luogo più santo della Terra.
Anche il sacerdote sta andando a Gerico. In effetti, a Gerico vivevano molte famiglie di sacerdoti, e quando costoro avevano finito il loro turno al tempio rientravano a casa per la stessa strada. Quando il sacerdote vede il corpo dell’uomo ferito, passa oltre. Perché? Non necessariamente perché sia senza cuore. L’uomo ferito viene descritto come «mezzo morto». E generalmente riconosciuto che il sacerdote non avrebbe potuto toccare il corpo di quella persona mezza morta, perché ciò lo avrebbe reso impuro. Il Dio della vita non ha nulla a che fare con la morte, e dunque ai sacerdoti del tempio era assolutamente vietato toccare i cadaveri. Egli non vede un uomo che ha bisogno di aiuto, ma una minaccia alla sua santità. E il levita, che serviva anche lui nel tempio, sarà passato di fianco al moribondo senza fermarsi per la stessa ragione.
Il samaritano era totalmente distante dalla santità del tempio. Era un eretico e uno scismatico. I samaritani avevano costruito un altro Tempio. Erano l’impurità incarnata. Ma i suoi gesti di compassione rivelano il nuovo luogo in cui si rivela la santità di Dio. È addirittura possibile che il riferimento al vino e all’olio siano un richiamo a due elementi usati nei sacrifici all’interno del tempio. Qui troviamo il vero luogo del sacrificio in cui dimora Dio. Nell’intero testo risuona continuamente la frase di Osea 6,6: «Misericordia io

voglio e non sacrificio». E il samaritano trasporta l’uomo in una locanda. In greco l’evangelista usa una parola suggestiva che significa «accogliente verso tutti» [πανδοχεῖον]. I cadaveri non sono una minaccia alla santità vera. In realtà, il Dio della vita può abbracciare i morti e ridare loro la vita. La croce è il vero tempio in cui si manifesta la gloria di Dio.
Uno dei funerali più commoventi che io abbia mai celebrato fu quello per un uomo di nome Benedict, che morì di AIDS intorno al 1985. Gli diedi l’unzione degli infermi un’ora prima che morisse e gli chiesi se avesse qualche desiderio da esprimere. Mi rispose che avrebbe desiderato che le sue esequie fossero celebrate nella Cattedrale di Westminster. Quella era un’epoca in cui si sapeva ancora poco dell’AIDS e c’erano molte paure e pregiudizi. Ma le autorità della Cattedrale accolsero la sua richiesta, e la sua bara fu posta proprio al centro della cattedrale, al cuore del cattolicesimo inglese. È stato un bel segno di dove si trova Dio. Benedict era stato stroncato da una malattia tremenda, che porta con sé rifiuto, repulsione e paura. Ma adesso era al centro di quel luogo santo, circondato dai suoi amici, molti dei quali affetti a loro volta dall’AIDS. Il Dio della vita si manifesta quando quelli ai margini diventano il centro.
«Chi è il mio prossimo?», chiese il dottore della Legge. È una domanda che ritorna ossessivamente nell’Europa di oggi. Che obblighi abbiamo verso gli altri? Ci sono molte e difficili domande a cui dobbiamo cercare faticosamente una risposta. Gesù non ci offre una risposta facile, e noi non possiamo assolutamente fare a meno degli uomini di legge e dei politici. Ciò che la parabola fa, è cambiare il modo di porre queste domande. Come posso diventare prossimo dell’uomo ferito? Come posso scoprire me stesso con lui e per lui? Come faccio a scoprire Dio in questa situazione? Perché, in definitiva, è proprio Dio che giace sul ciglio della strada, lacero e stremato, e mi sta aspettando. T. RADCLIFFE O.P., Non passare oltre, in http://www.vicariatusurbis.org/SettoreOvest/caritasovest/samaritano.htm [26 settembre 2012].

9. Ascolta! perché non bastano il cuore, l’anima, le forze,
perché non bastiamo a noi stessi;
percepiamo il suono bello dell’invito
di chi ci “crea” e ci vuole felici.
Ascolta! Forse Lui non sa come viviamo.
Giorno dopo giorno, non sa la rissa che crea il dolore,
lo stridore e l’apparenza
per darci volto, parola, pace.
Ascolta! È la parola che amiamo:
consegna e accoglienza.
L’invito è già una promessa,
che chiama a raccolta tutte le forze.
Ascolta! Oltre le obiezioni, i dubbi e il disincanto.
Per sempre, dappertutto:
nei giorni, in ogni passo, nella vita dei figli,
nel sangue, custoditi …
dove la dimenticanza non fa radici
e mani non aggrediscono.
In questa non-terra si annida
la sua Benedizione. F. CECCHETTO, in Nuovo Testamento; Salmi; Testi dell’Antico Testamento. Leggere la Bibbia in famiglia, a cura di L. NASON, Presentazione di D. TETTAMANZI, introduzioni di G. BORGONOVO ET ALII, Centro Ambrosiano, Milano 2007, p. 1058.

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