con questa domenica riprendiamo i commenti al Vangelo domenicale.
e diamo il più caloroso benvenuto alle nuove matricole: auguri per il vostro cammino in LIUC!
don Michele
Lettura del profeta Isaia 32, 15-20
In quei giorni. Isaia parlò, dicendo: / «In noi sarà infuso uno spirito dall’alto; / allora il deserto diventerà un giardino / e il giardino sarà considerato una selva. / Nel deserto prenderà dimora il diritto / e la giustizia regnerà nel giardino. / Praticare la giustizia darà pace, / onorare la giustizia darà tranquillità e sicurezza per sempre. / Il mio popolo abiterà in una dimora di pace, / in abitazioni tranquille, / in luoghi sicuri, / anche se la selva cadrà / e la città sarà sprofondata. / Beati voi! Seminerete in riva a tutti i ruscelli / e lascerete in libertà buoi e asini».
SALMO
Sal 50 (51)
® Manda il tuo Spirito, Signore, e rinnova la faccia della terra.
Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non scacciarmi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito. ®
Rendimi la gioia della tua salvezza,
sostienimi con uno spirito generoso.
Insegnerò ai ribelli le tue vie
e i peccatori a te ritorneranno. ®
Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode.
Nella tua bontà fa’ grazia a Sion,
ricostruisci le mura di Gerusalemme. ®
EPISTOLA
Lettera di san Paolo apostolo ai Romani 5, 5b-11
Fratelli, l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.
Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione.
VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Giovanni 3, 1-13
In quel tempo. Vi era tra i farisei un uomo di nome Nicodèmo, uno dei capi dei Giudei. Costui andò dal Signore Gesù, di notte, e gli disse: «Rabbì, sappiamo che sei venuto da Dio come maestro; nessuno infatti può compiere questi segni che tu compi, se Dio non è con lui». Gli rispose Gesù: «In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio».
Gli disse Nicodèmo: «Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?». Rispose Gesù: «In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito. Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito».
Gli replicò Nicodèmo: «Come può accadere questo?». Gli rispose Gesù: «Tu sei maestro d’Israele e non conosci queste cose? In verità, in verità io ti dico: noi parliamo di ciò che sappiamo e testimoniamo ciò che abbiamo veduto; ma voi non accogliete la nostra testimonianza. Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo».
* * * * *
La forza
rigeneratrice dello Spirito è al centro della proclamazione della Parola di
questa Terza Domenica dopo il Martirio del Precursore. Lo «spirito dall’alto» (rûaḥ
mim-mārôm), che il profeta promette a Giuda, dà nuova vita al popolo e alla
ʾereṣ «terra», a tal punto che persino nel deserto (bam-midbār)
troverà dimora «il diritto» (mišpāṭ) e sul Carmelo «la giustizia» (ṣedāqâ;
cf Lettura). Il Salmo responoriale – la seconda parte del “Miserere”
(Sal 50[51]) ovvero la vittoria del regno della grazia sul regno del peccato –
ci ricorda la verità dell’affermazione paolina secondo cui «dove abbondò il
peccato, sovrabbondò la grazia» (Rm 5,20): il perdono di Dio è davvero la
condizione del ricominciamento e della rigenerazione, anzi è una nuova
creazione. L’inizio della seconda parte della Lettera ai Romani (cf Epistola)
ci fa contemplare la stupefacente gratuità del dono dello Spirito e del perdono
che ci è stato accordato quando eravamo ancora peccatori e in una condizione di
«nemici di Dio». Infine, l’inizio del dialogo di Gesù con Nicodemo (cf Vangelo):
lui, «il maestro d’Israele» (ὁ διδάσκαλος τοῦ Ἰσραὴλ) va dal rabbì Gesù – di
notte! – per capire che cosa significhi lasciarsi rigenerare dallo Spirito per
vedere il Regno di Dio: ἀμὴν ἀμὴν λέγω σοι, ἐὰν μή τις γεννηθῇ ἄνωθεν, οὐ δύναται
ἰδεῖν τὴν βασιλείαν τοῦ θεοῦ «amen, amen, io ti dico: senza lasciarsi
rigenerare dall’alto, non si può vedere il regno di Dio» (Gv 3,3).
«La strada
dell’inferno è lastricata di buone intenzioni». Questo detto che si ritrova nei
paesi più diversi, non proviene dall’insolente saggezza mondana di un
impenitente, bensì rivela una profonda intelligenza cristiana. Chi con la fine
dell’anno non sa fare niente di meglio che compilare un registro con quello che
di cattivo ha fatto in passato e decidere, d’ora in poi – ma quanti ‘da ora in
poi’ sono già passati! – di iniziare il nuovo anno con propositi migliori, è
ancora nel paganesimo fino al collo. Costui pensa che i buoni propositi
facciano da soli il nuovo inizio, ovvero che egli possa iniziare di nuovo
quando vuole. E questa è una pessima illusione; è soltanto Dio che può iniziare
nuovamente con l’uomo, se gli piace, ma non l’uomo con Dio. A un nuovo inizio
l’uomo non può assolutamente arrivare, bensì può soltanto pregare per esso.
Dove l’uomo è chiuso in sé e vive per sé soltanto, lì vi è sempre e soltanto il
vecchio, il passato. Soltanto dov’è Dio, è il nuovo; e l’inizio, Dio, non lo si
può comandare, lo si può soltanto pregare. Ma l’uomo può pregare soltanto se
capisce che non può fare ciò che sta ai suoi limiti, che un altro deve iniziare
(DBW, XIII, 344s).
Ha ragione
D. Bonhoeffer: il ricominciamento non è un atto della nostra volontà, ma la
preparazione e la predisposizione perché lo Spirito di Dio entri in noi e crei
il vero ricomin-ciamento. Non ci è dato ricominciare, ma è
necessario per noi pregare perché questo accada nella nostra notte e
deflagri nella nostra vita.
Poiché le parole non sono fatte per rimanere inerti
nei nostri libri,
ma per prenderci e correre il mondo in noi,
lascia, o Signore, che di quella lezione di
felicità,
di quel fuoco di gioia che accendesti un giorno sul
monte,
alcune scintille ci tocchino, ci mordano, ci
investano, ci invadano.
Fa’ che da essi penetrati come “faville nelle
stoppie”
noi corriamo le strade di città accompagnando l’onda
delle folle
contagiosi di beatitudine, contagiosi di gioia.
Perché ne abbiamo veramente abbastanzadi tutti i
banditori di cattive notizie, di tristi notizie:
essi fan talmente rumore che la tua parola non
risuona più.
Fa’ esplodere nel loro frastuono il nostro silenzio
che palpita del tuo messaggio.
(Madeleine
Delbrêl)
VANGELO:
Gv 3,1-13
Il
racconto inizia in modo circostanziale, presentando il protagonista con tre
qualifiche: il gruppo ideologico cui faceva riferimento (farisei), il nome
(Nicodemo) e la classe sociale (ἄρχων, un capo dei Giudei). In evidenza, sta
l’ambientazione dell’incontro: «di notte» (v. 2); essa fa inclusione con la
fine del discorso di Gesù, quando s’introduce il giudizio operato da quella
luce che gli uomini hanno disprezzato, amando di più le tenebre (vv. 19-21, non
parte della lettura liturgica).
Il dialogo
si apre con Nicodemo che afferma di sapere («noi sappiamo»: v. 2) e che
riconosce in Gesù un maestro che viene da Dio (ὅτι ἀπὸ θεοῦ ἐλήλυθας διδάσκαλος·
οὐδεὶς γὰρ δύναται ταῦτα τὰ σημεῖα ποιεῖν ἃ σὺ ποιεῖς, ἐὰν μὴ ᾖ ὁ θεὸς μετʼ αὐτοῦ:
v. 2). La motivazione esprime un’idea condivisa da altri personaggi del Quarto
Vangelo (Gv 2,11. 18; 6,2. 30; 7,31; 9,16): i «segni» compiuti da Gesù sono una
prova della sua origine «da Dio». Nessuno li potrebbe fare, se Dio non fosse
con lui. Il dialogo, a dire il vero, termina con il v. 10, quando Gesù afferma
esattamente il contrario: Nicodemo è maestro di Israele e non conosce tali cose.
Da questo momento in poi, infatti, il personaggio Nicodemo non è più necessario
al confronto e scompare.3
Nel v. 4 e
nel v. 9, vi sono due domande quasi identiche di Nicodemo: πῶς δύναται «com’è
possibile?». Entrambe vogliono approfondire il senso delle parole di Gesù: per
poter «vedere il Regno di Dio» (v. 3) o per poter «entrare nel Regno di Dio»
(v. 5), occorre nascere ἄνωθεν (v. 3 e v. 7). Vi è una voluta ambiguità
semantica nell’uso dell’avverbio ἄνωθεν – «per la seconda volta» (δεύτερον del
v. 4), «dall’inizio» oppure «dall’alto»: essa genera, attraverso la figura
caratteristica dell’ironia giovannea, i successivi pronunciamenti di Gesù.
Dal punto
di vista formale, il dialogo tra Nicodemo e Gesù ripete per tre volte la
medesima struttura; nel secondo e nel terzo momento persino il contenuto della
domanda è il medesimo. Ciò crea un crescendo, che va progressivamente
precisandosi. Strategicamente, i vv. 11-12 divengono la “chiave di volta” del
confronto, venendo a creare due sezioni: la prima (i vv. 2-10) potrebbe essere
titolata τὰ ἐπίγεια, trattando della genealogia e della nascita ἄνωθεν; la
seconda (i vv. 13-21), invece, potrebbe essere titolata τὰ ἐπουράνια, in quanto
rivela il ruolo del Figlio dell’uomo, disceso dal cielo per portare la vita
piena ovvero portare a pienezza la «nuova creazione».
Anche quantitativamente, l’inclusione del v. 2 con
il v. 10 chiude un primo sviluppo. La compattezza concettuale dei vv. 13-21
isola i vv. 11-12, che restano al centro della pagina, esplicitando il
proposito di Gesù di condurre i lettori-ascoltatori dalle «cose terrene» alle
«cose celesti».
La
notte
L’ambientazione
dell’episodio narrativo «di notte» è la scelta simbolica decisiva. Il simbolo
notturno ha molte valenze: la notte può essere oscura e opaca, oppure limpida e
trasparente; può esprimere, malgrado tutto, una sua propria luce (aunque
es de noche, direbbe san Giovanni della Croce); può essere eufemizzata in notte
rivelatrice, ambientazione numinosa di un principio “chiarificatore” della
condizione umana e svelamento del mistero: quasi una ripresa della notte
salvifica dell’esodo, con la sua dialettica di vita e gioia per i giusti,
di morte e paura per gli empi. E si potrebbero ricordare molte notti simili nei
racconti biblici: le notti di Isacco (Gn 26,24) o di Giacobbe a Betel (Gn
28,10-22) e allo Iabbok (Gn 32,22-33), la notte di Balaam (Nm 22), le notti di
Zaccaria (1,8), di Daniele (2,19 e 7,2)… Anche nella fenomenologia religiosa il
tema della notte rivelatrice potrebbe essere facilmente rintracciato, in
ogni epoca storica: è la notte “positiva”, che perde la sua valenza di paura e
di incubo, per divenire, eufemisticamente, la notte in cui si svela il
mistero e l’agire segreto di Dio.
Nel
simbolo della notte oscura, si potrebbero distinguere due notti correlate:
infatti la notte terrena – dal punto di vista simbolico – non è senza
relazione con la notte cosmica. La fine della notte terrena è simbolo
della vittoria della luce sulla tenebra, il sol levante, e una
quotidiana ripresentazione della vittoria cosmogonica.
La notte
terrena è anche il grembo per la luce del nuovo giorno, come la notte cosmica è
stata grembo per la generazione della luce primigenia. La stretta connessione
tra le due notti e insieme la dialettica che rende la notte terrena un simbolo
allusivo della notte cosmica, rendono possibile all’uomo di rivivere, ogni
giorno, il dramma creazionistico delle origini e di attualizzare quanto
avvenne ab origine.
Anche ogni
rituale iniziatico riproduce il passaggio cosmogonico dal chaos al kosmos
e insinua la necessità di una via che passa attraverso la «morte».
L’ambientazione notturna diventa così – dal punto di vista simbolico –
essenziale per esprimere il senso di un cammino iniziatico. Nel simbolo, non
poteva essere espressa in modo più profondo la “necessità” della morte per la
vita e della sofferenza per la conoscenza, perché ogni accesso ad un nuovo
livello di comprensione, come ogni “nuova creazione”, ripropone lo stesso
itinerario cosmologico, che parte dalle tenebre informi delle origini. Non si
tratta di una risposta al “perché” dell’innalzamento della croce, ma di
un’immersione in quel mistero, i cui confini abbracciano l’intero universo e
comprendono la finitudine dell’uomo.
Proprio
l’evocazione della notte cosmica primigenia spiega la presenza simbolica di due
elementi caotici, acqua e vento, che sono evocati in Giovanni
come momento di “nuova origine” per una “nuova creazione”. Non vi è bisogno di
uscire dalla Bibbia per evocare una tale descrizione della notte cosmica (cf Gn
1,2).
L’ambientazione
notturna è una prolessi della rigenerazione di cui si parla sia nella prima
sezione di Gv 3, con il simbolismo del «nascere da acqua e da vento-spirito»,
sia nella seconda sezione, con il simbolismo dell’«andare verso la luce».
Andrebbe
qui evocata anche la ricchezza simbolica del «viaggio notturno del sole» nella
tradizione dell’Antico Egitto. In esso, le tenebre non sono soltanto «luogo di
annientamento» (h tmt), ma anche elemento di rigenerazione:
attraversandole, il sole – e con lui tutto il creato – si rinnova e si
ripresenta ringiovanito ogni mattino. Iconograficamente, l’ambivalenza
simbolica e la forza sintetica di questo pensiero le troviamo perfettamente
raffigurate in una vignetta tratta dai papiri mitologici: in essa l’Uroboros –
il serpente che si morde la coda, simbolo del non-essere che circonda il creato
e insieme del tempo in cui il creato è immerso – disegna il cerchio solare
entro cui è posto il dio sole bambino, portato dalle braccia del dio Šu, perché
possa di nuovo intraprendere il suo cammino quotidiano. La figura del serpente
è evocata nel v. 14 con l’allusione a Nm 21,4-9. È vero che dell’episodio del
deserto è sottolineato quasi esclusivamente lo schematismo verticalizzante;
tuttavia non è taciuta del tutto la valenza simbolica del «serpente» che somma
in sé le principali strutture sintetiche del simbolismo notturno: la
drammatizzazione dei contrari, il progressismo ciclico e, soprattutto, la coincidentia
oppositorum.
In
effetti, la coincidentia oppositorum è il punto di incandescenza del
simbolismo del viaggio notturno del sole: tenebre e luce non sono soltanto in
opposizione antitetica, come R‘w contro Apophis; il sole si immerge
nelle tenebre originarie per rinnovarsi e continuare il suo eterno viaggio
quotidiano. Tenebre e luce sono due momenti entrambi essenziali per ristabilire
e rinnovare ogni giorno l’ordine della creazione. Così per ritrovare il senso
pieno della vita umana e della temporalità è necessario essere rigenerati «da
acqua e spirito» e credere nel nome del Figlio dell’uomo, il quale è «disceso»
ed è stato «innalzato». 14
«Nascere ἄνωθεν»
La notte è
quindi l’ambientazione simbolica più eloquente per illustrare la proposta di
Gesù a Nicodemo di «nascere ἄνωθεν». La feconda ambiguità di questo avverbio è
espressione della sua polivalenza simbolica. L’avverbio ἄνωθεν può infatti
avere tre significati: a) di luogo: «dall’alto» o anche «in alto»; b)
di tempo: «dal principio»; anche in senso assiologico, tanto che per
Platone (Fedro, 101d) ἄνωθεν sono i principi più universali; c) di
replica: «di nuovo» (cf l’espressione πάλιν ἄνωθεν in Gal 4,9). Il simbolismo
di Gv 3 sviluppa tutt’e tre i valori semantici di ἄνωθεν e, attraverso
l’isomorfismo dei simboli, giunge a creare un parallelo semantico di grande
interesse teologico: «entrare nella signoria di Dio» equivale a «credere nel
nome dell’unigenito Figlio di Dio», «amare la luce che è venuta nel mondo» e
«fare la verità» per «camminare verso la luce».
Con
ironia, Nicodemo esplicita il senso impossibile dell’espressione nascere ἄνωθεν,
ovvero ritornare nel grembo materno (v. 4). Eppure, con il suo paradosso,
Nicodemo offre la valenza simbolica principale della rigenerazione proposta
dal progetto di Gesù. L’«uscita dal grembo», nel nostro linguaggio diremmo
«venire alla luce» è infatti un cammino che realizza onticamente la rinascita
cosmologica del sole all’alba di ogni nuovo giorno. In questo senso, è molto
importante l’interpretazione psicanalitica di Erich Neumann: la notte cosmica è
il mondo dell’inconscio, da cui emerge – come nella creazione – il mondo
cosciente. Per questo intreccio simbolico, le domande esistenziali sull’origine
del mondo e sull’origine dell’io sono sempre intrecciate, benché non identiche.
Il grembo
materno è un simbolo d’intimità e di «ricominciamento», pur sempre
ambivalente, come tutti i simboli fondamentali. Quando infatti Giobbe, ad
esempio, deve maledire, metterà in primo piano l’aspetto negativo del simbolo
coniando una tragica paronomasia: mib-beṭen laq-qeber «dall’utero
all’urna» (Gb 10,19). I vari riti d’iniziazione, invece, ne mettono in luce la
valenza positiva, come desiderio di regredire alla virtualità del mondo
originario e al cominciamento dell’esistere, che precede l’alba del primo
giorno e quindi significa la possibilità di un nuovo cammino e di una nuova
vita.
La
risposta di Gesù (vv. 5-7) dà ad ἄνωθεν il valore del ritorno al principio
assoluto, a indicare una «nuova creazione». Non più l’acqua e il vento di Gn
1,2, da cui si è avuta questa creazione con un albero genealogico «dalla
carne»; altra «acqua» e altro «vento», per dare origine a una creazione con un albero
genealogico «dallo spirito». Gli elementi simbolici coinvolti in questa
descrizione sono molteplici, ma convergenti sull’isomorfismo assiologico della
rigenerazione e della purificazione, del valore e del superamento. Prima di
iniziare questa analisi, ricordo due dati importanti, a mo’ di premessa. Il
primo dato riguarda l’ambiguità della lingua ebraica e greca, intraducibile in
italiano: l’ebraico rûah e il greco πνεῦμα significano «vento» e
«spirito»; dovendo nella traduzione optare per uno dei due vocaboli italiani,
non ci si deve dimenticare dell’altro valore che non viene esplicitato: il
«vento» è sempre «spirito», e lo «spirito» è «vento». Il secondo dato riguarda
la sincronia simbolica tra acqua e vento-spirito nel Quarto
Vangelo: i due elementi, esplicitamente congiunti in Gv 3,5 e 7,38s, sono tanto
isomorfi da diventare interscambiabili.
Il
vento-spirito
Il
vento-spirito, come ogni simbolo fondamentale, ha una valenza duplice e
dialettica: è mitezza e violenza insieme, purezza e delirio, brezza e tempesta,
ristoro e distruzione … Tale ambiguità è messa bene in evidenza nel duplice
ardore distruttivo e vivificante, nella rilettura dell’Ode al vento
occidentale di Percy Bysshe Shelley (1792-1822), il «poeta della sostanza
aerea», per mano del tocco magistrale di G. Bachelard:
«O tu,
vento selvaggio occidentale, alito
della vita
d’Autunno…
…
oh spirito
selvaggio,
che
dovunque t’agiti, e distruggi e proteggi: ascolta,
ascolta!
…
Ti prego,
levami come un'onda, come
una foglia
o una nuvola. Cado
sopra le
spine della vita e sanguino. Un grave
peso di
ore mi ha incatenato, curvato uno
a te
troppo simile: indomito, veloce ed orgoglioso.
Fa’ di me
la tua cetra, com’è della foresta;
che cosa
importa se anche le mie foglie
come le
sue cadono! Il tumulto
delle tue
forti armonie leverà a entrambi un canto profondo ed autunnale,
e
dolcemente triste. Che tu sia dunque il mio spirito, o Spirito fiero!
Spirito
impetuoso, che tu sia me stesso!».
In questa
lirica shelleyiana, emerge il legame profondo che sussiste tra le forze fisiche
e la vita umana e i più sensibili commentatori hanno sottolineato
l’onnipresenza di anima in movimento o di spirito in azione: «Shelley vede
trasparire ovunque l’anima in movimento»5. Il poeta sembra inseguire la vita
stessa del soffio cosmico. La folata è selvaggia e pura. Muore e rinasce. Nel
vento dell’ovest, respira un’anima oceanica, un’intuizione per cui è più
importante l’origine del vento che non il suo movimento. E anche nel linguaggio
comune i “quattro venti” esprimono l’orientamento fondamentale nel vasto
orizzonte, ma anche l’esposizione libera e aperta, quasi un assorbimento nel
paesaggio cosmico.
Vento e
schematismo ascensionale
A questo
proposito, bisogna ricordare la ricca analogia simbolica che si instaura tra il
vento e lo schematismo ascensionale. Essa è capace di riconnettere e far
apprezzare l’unità dei due movimenti della pagina giovannea, quello che
richiama la prima creazione (τὰ ἐπίγεια) e quello che anticipa la nuova
creazione (τὰ ἐπουράνια), la prima parte dedicata al «nascere da acqua e
vento-spirito» e la seconda alla discesa-innalzamento del Figlio dell’uomo.
Anche il serpente innalzato da Mosè nel deserto ed evocato da Gv 3,14, partecipa
del medesimo isomorfismo. Vi sono delle sintesi simboliche sorprendenti tra
soffio, altezza e luce: all’aria, all’altezza e alla luce sono associati
simboli di vita, di rinascita e di crescita.
Nella
simbologia degli scritti gnostici è stato notato che «salire o discendere fa lo
stesso», in quanto la discesa è anche un cammino verso l’assoluto.
Paradossalmente si discende per risalire nel tempo e per ritrovare la quiete
prenatale. In senso più proprio al simbolismo del Quarto evangelista, bisogna
invece dire che solo colui che discende dal cielo può aprire la strada verso la
luce, perché egli è la sola luce vera che illumina ogni uomo che viene al mondo
(cf Gv 1,9).
Ogni vita
spirituale è caratterizzata dal moto ascensionale: essa cerca di «crescere» e
di «elevarsi», è orientata verso l’alto, quasi come una reliquia ontica della
conquista della postura verticale per la specie umana. Anche il linguaggio
comune manifesta questa coscienza simbolica, quando parla di valori elevati o
ancora quando esprime apprezzamento per un personaggio che definisce di alto
profilo intellettuale o morale, o al contrario riconosce di non essere all’altezza
di una certa situazione… Il simbolismo ascensionale, proprio per la sua
originaria importanza, è molto frequente nella mitologia e nelle pratiche
religiose di tutta l’umanità. Nella tradizione vedica indiana si parla di durohana,
la «salita difficile»; nel culto di Mitra, vi è la scala iniziatica; nel Libro
dei morti dell’Antico Egitto una scala permette di raggiungere la dimora
divina; e Mircea Eliade, a riguardo dell’esperienza dello sciamano, attesta che
costui, giunto all’acme della sua estasi, esclama: «Ho raggiunto il cielo, sono
immortale».
San
Giovanni della Croce, in alcune strofe composte dopo un’estasi di profonda
contemplazione, esprime perfettamente il valore assiologico del simbolismo
verticale:
Quanto
più si sale in alto,
tanto
meno si capisce,
ché
una nube tenebrosa
va
la notte illuminando,
perciò
chi questo conosce
resta
sempre non sapendo,
ogni
scienza trascendendo. […]
Quanto
più alto salivo,
abbagliavasi
la vista,
e
la più alta conquista
tra
le tenebre avveniva;
ma
poiché lancio è di amore,
con
un cieco e oscuro salto
mi
trovai tanto in alto
che
raggiunsi il mio desir.
Quanto
più alto giungevo
in
questo slancio sublime,
tanto
più basso, arreso
e
umiliato mi trovavo.
Dissi:
non vi sarà chi l’arrivi,
e
mi umiliai così tanto
che
mi trovai tanto alto
che
raggiunsi il mio desir.
Si noti
come nei versi di san Giovanni della Croce si insinui un altro valore dello
schematismo verticale, che dobbiamo pure ricordare per illustrare con più
precisione Gv 3. Il simbolo dell’ascensione potrebbe infatti essere
unilateralmente inteso come un simbolo diairetico, con valenze di potenza e di
vittoria. Gv 3,13 ricorda, al contrario, che «nessuno è salito al cielo, se non
colui che dal cielo è disceso». Il simbolismo verticale, nella sua valenza di
discesa, esprime intimità e profondità, ovvero un complemento ombroso e
nascosto rispetto alla luminosità della salita. La discesa non è da confondere
con la caduta: essa è illustrata con i simboli dell’intimità più che con quelli
dell’abbassamento. Bachelard, con la sua riconosciuta sagacia, illustrando un
brano dell’Aurora di Michel Leiris, ha mostrato che ogni valore positivo
della discesa è legato all’intimità digestiva (e quindi al gesto posturale
della deglutizione).
«Ciò che
distingue affettivamente la discesa dalla folgoranza della caduta, come
d’altronde del volo, è la sua lentezza. La durata è reintegrata, addomesticata
dal simbolismo della discesa grazie ad una sorta di assimilazione del divenire
dal di dentro. La redenzione del divenire avviene, come nell’opera di Bergson,
dall’interno, attraverso la durata concreta. Di modo che ogni discesa è lenta,
“prende il suo tempo” fino a confinare talvolta con la laboriosa penetrazione.
A questa lentezza viscerale si unisce beninteso una qualità termica. Ma si
tratta qui di un calore dolce, di un calore lento, abbiamo voglia di dire,
lontano da ogni splendore troppo ardente. E se l’elemento pastoso è certo
quello della lentezza, se la discesa non ammette che la pasta, l’acqua spessa e
dormente, essa non trattiene dell’elemento igneo che la sua sostanza intima: il
calore»7.
Riprenderò
questa valenza simbolica più sotto, trattando del simbolo dell’acqua e del
grembo materno. Ma il simbolismo giovanneo, più che indulgere sul grembo
materno, a parte la provocatoria ironia del v. 4, conduce alla dimensione
cosmica e al simbolismo creazionale. Il punto di arrivo di Gn 1, partendo
«dall’acqua e dal vento-spirito» è stato lo ʾādām, creato nel sesto
giorno e orientato al «settimo giorno» di Dio; il cammino di rinascita proposto
ora conduce al capostipite di una nuova umanità, a quel Figlio dell’uomo che
porta alla vita piena.
Schema
ascensionale, vento-spirito e albero
Anche
l’albero è un simbolismo verticale ineccepibile: cresce, va verso la luce e la
sua dirittura indica la dimensione fondamentale della vita. Anche l’albero
della croce, alluso nei vv. 13-14, è un simbolo anzitutto a valenza
ascensionale, in quanto legno rizzato verticalmente. Storicamente, segna anche
un’inversione simbolica eloquente, passando da emblema della più bassa
ignominia a simbolo di più alta speranza: «O crux, ave, spes unica». Il
verticalismo dell’albero è tanto evidente che Bachelard classifica l’albero fra
le principali immagini ascensionali e dedica un intero capitolo a «L’albero
aereo», in quanto «solo, l’albero, in natura, per una ragione tipologica, è
verticale, come l’uomo» (P. Claudel).8
E così
altezza, luce, soffio nell’aria pura possono essere rielaborati in modo
dinamico dall’immaginazione simbolica. Salire per respirare aria più pura, respirare
luce (il «m’illumino d’immenso» di ungarettiana memoria) e non solo aria,
partecipare all’unico soffio del vento delle vette, sono tutte immagini
isomorfe, che si scambiano i propri valori e si sostengono a vicenda. Come
nell’intreccio simbolico di Gv 3, la rinascita «da acqua e da spirito»,
l’elevazione del Figlio dell’uomo e il camminare verso la luce, esprimono in
forme analoghe il mistero del ricominciamento.
Infine,
bisogna ricordare anche un’ultima valenza del simbolismo vegetale dell’albero,
richiamata dalla genealogia contrapposta di Gv 3,6, la genealogia «dalla carne»
e la genealogica «dal vento-spirito». Non è un caso che ogni discorso di
evoluzione o progresso sia rappresentato da un albero ramoso: sia esso
l’albero genealogico oppure l’albero dell’evoluzione delle specie. È vero che
il potente simbolo dell’albero non può mai staccarsi completamente dalla sua
valenza ciclica e stagionale; tuttavia, più di ogni altro simbolo, l’albero
esprime la valenza positiva di verticalizzazione e progresso, in cui i valori
messianici (cf ad es. Is 11,1) e resurrezionali (cf ad es. Gb 14,7-14) si
sommano.
Schema
ascensionale, vento-spirito e serpente
Qualcosa
di simile lo abbiamo anche nei riguardi del serpente, che «occupa un posto
simbolicamente positivo nel mito dell’eroe vincitore della morte». Nei vv.
13-14, tra l’altro, l’albero è solo alluso, mentre è esplicito il riferimento
al serpente (di Mosè). Ora, il simbolismo ofidio porta in sé i segreti del
ciclo vita-morte, della fecondità e della ciclicità, con un radicamento anche
nella valenza verticalizzante:
«Epifania
per eccellenza del tempo e del divenire agrolunare esso [il simbolismo del
serpente] è, nel Bestiario della luna, l’animale che si accosta maggiormente al
simbolismo ciclico del vegetale. In numerose tradizioni, il serpente è d’altra
parte congiunto all’albero. Forse bisogna vedere nell’insieme caduceo la
dialettica di due temporalità: l’una, l’animale, emblema di un eterno
ricominciamento e di una promessa assai ingannevole di perennità nella
tribolazione; l’altra – la vegetale verticalizzata nell’albero-bastone –
emblema di un definitivo trionfo del fiore e del frutto, di un ritorno al di là
delle prove temporali e dei drammi del destino, alla verticale trascendenza»9.
Vi è un
interessante isomorfismo tra il vento-spirito e il serpente, espresso da una
folgorante ellisse di Victor Hugo (in La légende des siècles): «Il vento
assomiglia a una vipera». In effetti, in numerose tradizioni popolari e
folkloristiche è possibile cogliere la contaminazione delle immagini del vento
con quelle del serpente. In Abissinia, afferma Marcel Griaule (in Jeux et
divertissements abyssins), non si può fischiare di notte, «perché in questo
modo si attirano i serpenti e i demoni»: per il fatto che i demoni sono
descritti come serpenti, l’atteggiamento che di deve tenere verso gli uni va
replicato per gli altri e la relazione con i serpenti diventa una relazione
cosmica. Dall’altra parte del mondo, per gli Yakouti, non bisogna «fischiare
sulle montagne per non disturbare i venti che dormono», come anche, «i Canachi
fischiano meno a seconda delle stagioni dell’anno in cui gli alisei debbano
essere richiamati o respinti».
Per questa
attività simbolica che «cosmologizza» le immagini, il vento grida prima degli
animali, la “voce” del vento urla prima dei cani, il tuono ringhia prima
dell’orso… «Il vento-spirito soffia dove vuole e tu senti la sua voce, ma non
sai da dove venga e dove vada: così chiunque è nato dal vento-spirito» (Gv
3,8). La «via del vento» è un simbolo potente che da τὰ ἐπίγεια deve condurre
verso la «via verso la luce», percorso da chi crede nel nome del Figlio
unigenito di Dio e «fa la verità». Ma per raggiungere la meta di τὰ ἐπουράνια
occorre «nascere ἄνωθεν».
L’acqua
Il simbolo
traduce sempre una situazione umana in termini cosmologici, e viceversa; così
si svela la solidarietà fra le strutture dell’esistenza umana e le strutture
cosmiche. In particolare, l’ambivalenza del simbolo dell’acqua esprime
bene l’alternativa del dramma esistenziale, vita o morte. Positivamente, è
l’acqua fecondante e rigeneratrice della pioggia o di un fiume che fluisce
dolcemente. Il simbolo della pioggia ha una valenza drammatica stagionale,
specialmente in un clima subtropicale, in cui si può distinguere con chiarezza
la stagione “secca” dalla stagione “umida”. Come il ciclo della luce e delle
tenebre ripresenta quotidianamente l’evento cosmico delle origini, così il
ciclo delle piogge ripresenta ogni anno l’atto creativo dell’“eterno ritorno”
(cf Gn 8,22).
Non è
difficile trovare testi che confermano l’isomorfismo simbolico di pioggia e
ri-creazione. Si legga il seguente testo talmudico (b. Taan 2a-b), in cui
pioggia, nascita e risurrezione sono strutture simboliche parallelamente
disposte a dire il dominio divino:
«Rabbi Johanan
disse: tre chiavi il Santo, Benedetto Egli sia!, ha tenuto nelle sue mani e non
le ha affidate alla mano di alcun inviato: la chiave della pioggia, la chiave
della nascita e la chiave della risurrezione dei morti. [...] In terra
d’Israele si parla anche della chiave del sostentamento [...]. Perché R. oh
anan non include anche questa? Perché a suo parere il sostentamento è la
pioggia».
Quanto
alla valenza negativa del simbolo acquatico, Bachelard, parlando dell’opera di
Edgar Poe, ha mostrato magistralmente l’aspetto inquietante dell’acqua ostile:
il mare tenebrarum come doppione della tenebra e «sostanza che
simbolizza la morte». Nella letteratura biblica abbiamo una ricca collezione di
testi in cui appare il simbolo dell’acqua ostile; primo fra tutti va ricordato
il mabbûl di Gn 6-9, con il suo carattere “doppio” di distruzione e di
rigenerazione della nuova umanità; le acque dell’esodo, il cui carattere
ordalico è esplicitato dal midrāš di Sap 19, e i majim rabbîm,
che non hanno mai perso completamente la loro originaria identificazione con
l’abisso caotico, domato dal Creatore. Cito solo alcuni testi, in cui il
simbolo è particolarmente vivo: Is 8,5-10, interessante per la trasformazione
narrativa del simbolo); Ct 8,7 e Sap 5,21-23.
Il
seguente testo di Ammonio di Alessandria, riportato da p. Alonso Schökel come
esergo del suo studio su Gv 3,510, è davvero ricco dal punto di vista
simbolico. In poche parole sono dette quelle valenze simboliche che esporrò con
un’analisi più fenomenologica:
«L’acqua
purifica il corpo, lo spirito santifica l’anima invisibile. L’“acqua” si usa al
posto della “madre”, lo “spirito” al posto di “Dio plasmatore”. L’acqua
sensibile è elevata a forza divina e santifica coloro che da essa sono
rigenerati. L’acqua si distingue dallo spirito solo concettualmente, benché sia
identica nell’atto operativo. L’acqua è simbolo di sepoltura e di risurrezione;
perciò è necessario riceverla. Si fanno infatti tre immersioni e tre emersioni,
affinché sappiamo che tutto si compie per opera del Padre e del Figlio e dello
Spirito santo».
Acqua
purificatrice
Comincio
dalla valenza purificatrice dell’acqua. Dalla limpidezza dell’acqua lustrale
dipende il suo valore di purificazione; e Bachelard ricorda la ripugnanza
spontanea per l’acqua sporca e il «valore inconscio legato all’acqua pura».
Anche a questo riguardo l’acqua è ambivalente.
L’acqua di
purificazione ha anzitutto un valore morale. Essa non agisce però
mediante la materialità della pulitura, ma in quanto è simbolo di
purezza. L’aspersione, e non l’immersione, sarebbe l’operazione di
purificazione più primitiva, l’immagine archetipica della purificazione. Per
questo, nel rito lustrale, bastano poche gocce di acqua per purificare il mondo
intero. Per chi deve «nascere ἄνωθεν» è una purificazione che riporta
all’inizio, per rinascere «da acqua e da vento-spirito» e comporta un cammino
di iniziazione: chiamato ad amare la luce e a rifiutare di fare cose malvagie,
egli deve camminare verso la luce «facendo la verità» (vv. 20-21).
Il secondo
attributo che raddoppia sensorialmente la limpidezza dell’acqua lustrale e
moltiplica la sua purezza, è la freschezza, in antitesi al torpore
quotidiano. Anche il fuoco ardente è purificante, proprio perché la
purificazione deve rompere col tepore assopito come con la penombra della
confusione mentale. L’acqua lustrale per eccellenza è infatti la neve, che
purifica sia per la bianchezza sia per il freddo. Bachelard sottolinea che
l’acqua di giovinezza «sveglia» l’organismo. L’acqua lustrale permette di
vivere vincendo il peccato, la limitazione della carne e della condizione
mortale (Gv 3,6).
Il
simbolismo religioso va ad arricchire l’analisi psicologica, che potrebbe
rischiare di rimanere ingenua e superficiale. Nella Bibbia troviamo molto
frequentemente l’«acqua viva». Nel contesto subtropicale, l’acqua non poteva
che essere un segno di benedizione: l’acqua della pioggia, ma ancora di più
l’acqua sorgiva dei monti e dei pozzi. Per necessità, si scavano cisterne per
raccogliere l’acqua piovana della stagione invernale. Ma l’acqua migliore è l’«acqua
viva», l’acqua di sorgente che scorre limpida e fresca. Perciò l’accusa più
sferzante è lanciata da Geremia, quando accusa:
«Ecco due malvagità ha commesso il mio popolo:
ha abbandonato me, sorgente di acqua viva,
per scavarsi cisterne, cisterne rotte,
incapaci a trattenere acqua» (Ger 2,13).
È ovvio
che le promesse di benedizione futura contengano anzitutto il dono di «acque
vive» abbondanti: così da Abramo sino al compimento della Gerusalemme nuova (Ap
21,6; 22,1. 17). Ma è anche vero che l’acqua viva assume un valore simbolico
più specifico, legato al dono della sapienza e della tôrâ (si veda
soprattutto il ruolo del saggio in Sir 24, dopo l’autopresentazione della
sapienza). E così, nella tradizione sapienziale, l’acqua è collegata alla vita
spirituale e allo stesso Spirito. L’evangelista Giovanni si aggancia a tale
tradizione e la sua “esegesi” ha avuto molto successo nella tradizione
cristiana, se è vero che lo Spirito santo è cantato nel Veni creator con
i titoli di Altissimi donum Dei, fons vivus e ignis caritas.
Merita di essere ricordata anche l’allegoria trinitaria di sant’Atanasio: «Dal
momento che il Padre è la fonte, il Figlio è chiamato fiume, si dice che noi
beviamo lo Spirito». E insieme il commento di Teodoro di Mopsuestia al passo in
discussione: «Come nella generazione naturale il grembo è il luogo dove è
plasmato l’embrione, ma ciò si compie per la divina virtù che lo forma sin dal
principio, così in questo passo l’acqua raffigura la matrice, lo spirito fa le
veci del Signore creatore».
È per
questo che l’acqua battesimale diviene simbolo di rigenerazione: ci si immerge
ritualmente nell’acqua passando attraverso la morte di Cristo per risorgere un
giorno con lui (cf Rm 6,4-11; Pastore d’Erma: IX Similitudine 16,4).
Acqua e
grembo materno
Mentre lo
schema ascensionale è un appello al valore e spinge al di là del mondano e del
carnale, l’asse della discesa è un asse intimo, fragile e delicato. Il ritorno
immaginario, secondo questa valenza simbolica, è sempre un «rientro» più o meno
viscerale, come già si è avuto modo di notare. Contrariamente al valore
simbolico diairetico di un fuoco che brucia e consuma, vi è anche una valenza
eufemizzata del calore oscuro e tenero dell’intimità e del grembo. La «calda
intimità» esprime una valenza simbolica che G. Bachelard così definisce: «La
luce ride e gioca alla superficie delle cose, ma solo il calore penetra...
L’interno sognato è caldo, mai bruciante... Attraverso il calore tutto è
profondo, il calore è il segno di una profondità, il senso di una profondità...
».11
E così
anche contrariamente al valore simbolico diairetico di un’acqua che inonda e
sommerge, vi è l’acqua dolce e tenera del grembo materno. J. Przyluski ha
cercato di dimostrare che le figure della “grande dea” semitica e ariana
convergono in una divinità molto più arcaica che è insieme la «Madre Terra e
Venere marina». Madre (mama-nana) e acqua hanno anche una sorprendente
assimilazione fonetica: il geroglifico per indicare l’acqua ha come valore
fonetico /n/ (Nun in egiziano è anche il nome del grande oceano originario); il
pittogramma che ha dato origine alla lettera /m/ nell’alfabeto
cananaico-fenicio, mêm, significa «acqua» ed aveva questa forma in
antico ebraico . In accadico, lo stesso vocabolo pû indica il litorale
marino, la sorgente di un fiume e la bocca dell’utero; e il sostantivo nagbu
«sorgente» ricorda da vicino l’ebraico neqēbâ «femmina», che suona
come femminile di neqeb «galleria, perforazione».
La
femminilità dell’acqua primordiale è un simbolo radicato nella struttura
simbolica profonda dell’umanità tanto da essere comune a molte culture, come la
mascolinità dell’acqua che scende dal cielo.
Infine,
vorrei ricordare un’interpretazione coranica di Rūmī ( alāl ad-Dīn ar-Rūmī,
nato nel 1207 e morto nel 1273): egli identifica l’acqua su cui si trova il
Trono divino (Corano XI,9) con il soffio del Dio misericordioso. Acqua e
spirito di nuovo si intrecciano nelle parole di questo maestro del sufismo.
Parlando della Teofania eterna, Rūmī la descrive come una grande scena
acquatica di parturizione dalla materia prima acquatica:
«il mare
si coprì di schiuma e, a ciascun flotto di schiuma, qualcosa prendeva forma,
qualcosa prendeva corpo».
Il
ricominciamento è un’immersione nella materia prima da cui tutto deriva.
Ma perché questo possa avvenire è necessario che il «vento-spirito» di Dio
possa librarsi ancora sulle acque e fecondare «dall’alto», attraverso la
“discesa” del Figlio dell’uomo e il suo innalza-mento sulla croce.
Solo così
sarà possibile «nascere ἄνωθεν».
PER LA
NOSTRA VITA
1. Nessuna
tenebra, per quanto fitta, fa disperare che una qualche luce, o qualcosa della
luce, possa penetrare in essa. […] Ma c’è forse qualcosa nella luce che non sia
essa stessa luce, qualcosa che non si risolva in luce? Per questo simbolizza la
riuscita, il compimento. […] Quando nell’istante nascente, lei sopraggiunge, si
apre, nel più oscuro dell’essere umano, qualcosa che prelude alla speranza.
2. Gesù,
dunque, si presenta come verità dell’uomo attraverso parole, gesti, segni, dai
quali traspare che egli conosce com’è fatto l’uomo, sa quale è il suo vero
bene, ha una visione luminosa del mistero che avvolge e spiega la sua vita; ma
vuole che questa verità, che è la sua parola, che è la sua venuta tra noi, che
è Lui stesso, incontri noi come cercatori della verità; come persone disposte a
pagare tutti i prezzi che la ricerca della verità comporta; come ragionatori
pacati e coraggiosi, che discutono il senso delle cose, valutano l’importanza e
la fragilità degli incontri interpersonali, si interrogano sugli aspetti
contrastanti della libertà, la quale, per un verso, ci si presenta come un valore
ultimo, assoluto, totalmente appagante, per un altro verso è bene sfuggente,
non ha contorni precisi, non sa darsi contenuti positivi, è in cerca di valori
veramente assoluti, per i quali impegnarsi e nei quali realizzarsi.
Tra la
scoperta della verità, che è Gesù, e la ricerca della verità, per cui ogni uomo
è fatto, può nascere una benefica cospirazione.
È vero
che, ultimamente, è proprio la verità recata da Gesù che rivela noi a noi
stessi, ci dice perché siamo fatti in questo modo, ci spiega perché siamo
cercatori della verità, ci incoraggia a non stancarci della ricerca, ci libera
dalle ombre e dagli intoppi che ostacolano o interrompono del tutto il nostro
cammino verso la verità.
Ma è anche
vero che una vigile e incessante chiarificazione dei nostri modi di pensare, di
giudicare, di fare progetti ci dispone ad accogliere con un frutto maggiore la
luce della verità che proviene dall’incontro con Gesù.
Ecco
perché alle soglie dell’incontro con Gesù non è inutile una battuta d’arresto
sulla nostra condizione spirituale di cercatori della verità, per cogliere il
senso e la portata di tale ricerca, insieme con i limiti e le oscurità che la
affliggono. Tanto più che questa attenzione alla nostra situazione umana
diventa indispensabile per comprendere il messaggio evangelico come portatore
di una interpellanza vitale per la nostra esistenza.
3. Lo
spirito è evento/avvento, incontro/scontro con qualcosa di irriducibile a noi,
ma che s’impone, che ridisegna i confini del mondo. Lo spirito ci raggiunge nella
forma dell’amore, del dolore, della pietà; ci viene incontro nell’esaltazione
della bellezza, nell’obbrobrio, nella disperazione e ci chiama, ci invita
all’opera. Lo spirito avanza nelle cose, ci scuote dall’indifferenza, desta
l’anima dal suo torpore, la fa avanzare nella notte, e pone tutte le domande,
sino al confine della nostra umanità. Là su quel confine si protende la
Parola-Evento che fa rinascere ogni persona. Non di nostra conquista la
rinascita, ma di ricerca e invocazione. Il dialogo notturno di Nicodemo
raccoglie tutte le nostre notti di interrogativi e le consegna permanentemente
al Signore della vita.
Sempre ci
manca qualcosa nella vita: è l’infinito di un desiderio visitato dallo Spirito
del Signore, mistero della notte che porta nel suo abisso la luminosità
dell’incontro autentico…
4. Non ci
mancano purtroppo occasioni di verificare, nel nostro secolo così minacciato
dall’illusione di false felicità, l’incapacità dell’uomo «naturale» a
comprendere «le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è
capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito».
Il mondo – quello che è inetto a ricevere lo Spirito di Verità, ch’esso non
vede né conosce – non scorge che un aspetto delle cose. Esso considera soltanto
l’afflizione e la povertà del discepolo, quando questi dimora sempre nel più
profondo di se stesso nella gioia, perché egli è in comunione col Padre e col
Figlio suo Gesù Cristo.
5. La vita
nuova non è uno stato, ma un camminare, compiere dei passi. Ma non è neppure un
camminare da sonnambuli, in modo incosciente, bensì un camminare consapevole e
responsabile, a cui dobbiamo essere esortati. Dobbiamo camminare “nella vita
nuova” (Rom 6,4), nello Spirito (Gal 5,25. 16), nell’amore (Ef 5,2), nella luce
(Ef 5,9; 1 Gv 1,7). […] Non è quindi solo un essere portati e guidati, bensì
anche un camminare. Questo ci dice che la santificazione, lo Spirito, la vita
nuova non è una qualitas dell’essere umano, bensì è Cristo stesso come
persona, come interlocutore.
6. Chi
arriva alla luce? Chi opera la verità (Gv 3,21)! Che cosa significa? La verità
deve accadere, non deve essere soltanto pensata o voluta, ma essere fatta. La
verità sorge dall’azione che si contrappone all’apparenza, alle tenebre in cui
accade il male. […]
Non
arriverai alla luce con il pensare, dice Gesù, ma con quello che fai; certo non
con un fare qualunque, ma con il fare della verità. La verità stessa ti
porterà alla luce mediante il tuo fare. Nelle parole di Gesù è da sottolineare
prima la parola “verità” e soltanto dopo la parola “fare”. In tutto questo
l’idea di una giustizia delle opere è lontana quanto quella dell’esattezza del
pensiero. Con ciò si vuole dire, però, che se vogliamo arrivare alla luce, […],
allora non dobbiamo perdere tempo, e che è venuto il momento di agire, di
obbedire, per quanto ci è possibile farlo di fronte alla Parola di Dio. Con ciò
è messo un freno alla fuga nel domandare infinito e si è immediatamente
costretti ad agire seriamente, a porre la nostra vita sotto la Parola. […]
La verità
nel tuo agire aspirerà da sé alla luce nella quale vuole essere rivelata.
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