mercoledì 13 ottobre 2010

Domenica 17 ottobre 2010 festa della dedicazione del Duomo Vivere in un camper invece che nella casa, quasi come Ulisse

Domenica 17 ottobre 2010 festa della dedicazione del Duomo

VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Luca 6, 43-48

In quel tempo. Il Signore Gesù disse ai suoi discepoli: «Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo. L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda. / Perché mi invocate: “Signore, Signore!” e non fate quello che dico? Chiunque viene a me e ascolta le mie parole e le mette in pratica, vi mostrerò a chi è simile: è simile a un uomo che, costruendo una casa, ha scavato molto profondo e ha posto le fondamenta sulla roccia. Venuta la piena, il fiume investì quella casa, ma non riuscì a smuoverla perché era costruita bene».

Il Vangelo non è una esercitazione letteraria e neppure una buona parola che si dice per esortare a qualche bel sentimento: esso è teso a costruire una casa, la casa della propria vita. Ebbene, chi ascolta il Vangelo e lo mette in pratica è un uomo prudente, perché costruisce la sua vita sulla pietra; chi invece ascolta soltanto, e non segue il Vangelo, è uno stolto, perché sarà travolto dalle avversità. Ovviamente è ancora peggio se neppure si ascolta la Parola di Dio.
Sulla sabbia basta un'onda leggera per travolgere tutto quello che si è costruito; di qui anche il detto popolare sui "castelli di sabbia". In verità spesso la vita ci riserva spesso scrosci violenti e venti impetuosi. Per questo l'avvertimento di Gesù è saggio e amichevole.

La sabbia non è lontana. Non bisogna fare lunghe file o chilometri di strada per arrivarci. Ce l'abbiamo nel cuore. La sabbia è l'orgoglio di sé, dei propri sentimenti, delle proprie convinzioni, è l'arroganza di chi pretende di avere sempre ragione anche davanti al Signore, è la freddezza di chi è indifferente ai bisogni degli altri. La stagione della sabbia può durare un giorno, un mese, un anno, o anche una vita intera. È il tempo in cui non si ascolta il Vangelo né tanto meno lo si mette in pratica. Quanti uomini, quante donne dovrebbero ammettere che la loro costruzione umana è crollata, e non lo ammettono, perché non vogliono rivelare che nel loro cuore c'è sabbia! Stiamo attenti, perché la sabbia è anche deserto; anzi la sabbia fa il deserto, crea solitudine, amarezza, assenza di vita felice. Il Signore ci ha fatto dono della pietra ove poter costruire la nostra vita. La pietra non siamo noi, è il Signore stesso, è il suo Vangelo, che rimane saldo e non crolla.

Vivere in un camper invece che nella casa, quasi come Ulisse

Cerchiamo di capire come si costruisce quella vera casa dell’uomo che è la coscienza.

Il passaggio dall'agire spontaneo e 'infantile' alla scelta libera si configura sempre e di necessità come una seconda nascita. Solo con la libertà che si determina si ha la vita dello spirito; il compimento della libertà si ha quando essa si affida non solo alla promessa del reale, ma, in ultima istanza alla promessa di Dio. Questo passaggio necessario è molto complesso, perché vi agiscono processi psicologici, processi culturali e le stesse scelte libere del soggetto.

Possiamo avere un primo chiarimento di questa complessità se ci chiediamo quale sia il ruolo svolto dalla cultura.

La cultura offre alla stessa coscienza personale una prima istruzione dei significati dell'agire. Ma queste indicazioni hanno un doppio profilo: da un lato sono assolutamente necessarie; d’altro lato esse sono insufficienti.

Sono necessarie perché il soggetto ha bisogno di testimonianze che gli facciano comprendere il senso dell’agire buono, nel quale è racchiusa la promessa di vita buona e di senso. Sono insufficienti, perché il soggetto libero, di fronte a queste testimonianze deciderà di se stesso, solo se le riterrà affidabili.

Quindi la vita dello spirito, che abbiamo chiamato seconda nascita dovuta all’esercizio della libertà, non è il risultato scontato di un processo educativo.

Questa seconda nascita non può mai essere considerata come un fatto compiuto; è invece atto che deve essere sempre da capo ripreso; è un permanente debito o un dovere di sempre del soggetto.

Si può dire che la verità più profonda del dovere morale è il riconoscimento di un debito permanente che l’uomo ha di decidere di sé, esercitando la libertà.

Esiste una scansione che conduce dal provvisorio al definitivo, al momento in cui riconosciuto il tempo pieno (che nel Vangelo coincide con la presenza di Gesù), la libertà si determina in modo incondizionato. Questa concezione della libertà comporta che il soggetto umano viva l’esperienza della ripresa di se stesso e non invece della continua ricerca di nuovi esperimenti.

La Bibbia ci istruisce abbondantemente sul tema della ripresa, ma prima svolgiamo alcune considerazioni in relazione alla sua completa assenza nella cultura contemporanea.

Dobbiamo richiamare alla nostra attenzione che cosa sia un atto libero: esso è l’atto mediante il quale si riconosce insieme l'imperativo proposto dalla coscienza espresso da un tempo particolare (kairós), un tempo che finalmente consente la disposizione di sé da parte del soggetto; in tal senso, da un tempo pieno.

L’atto libero è strutturalmente articolato nei due momenti: quello dell'agire mediante il quale il soggetto si cerca, e rispettivamente quello dell'agire mediante il quale il soggetto invece si dona, o comunque dispone di sé stesso.

Il cammino morale come ricerca di sé

Ora la cultura contemporanea si concentra sul primo momento, quello della ricerca e non approda quasi mai al secondo momento, quello in cui il soggetto decide di sé.

Dimenticare il secondo momento dell’atto libero, significa negare la libertà dell’uomo.

Figura emblematica di questa situazione culturale è quella di Ulisse, l’eroe che cerca sempre, senza mai approdare alla patria, perché non crede che ci sia patria. Per lui e per la cultura contemporanea non esiste una terra promessa verso cui dirigersi decisamente. Per questo l’eroe preferisce vagare e vivere le emozioni delle nuove esperienze come risposta alle sue aspirazioni. In questo senso egli non è libero.

Ma se la cultura contemporanea non riconosce nessuna terra promessa, diventa conseguentemente incapace di proporre anche le prime evidenze della vita buona sia alle nuove generazione sia agli stessi adulti, che debbono sempre daccapo vivere il proprio impegno morale.

La situazione può essere sinteticamente descritta così: la cultura pubblica non propone un ideale di vita buona e la coscienza del singolo resta in balia di se stessa, senza alcun punto di riferimento. Ciò comporta una regressione della coscienza dei singoli, che tendono ad agire soltanto sulla base delle emozioni (persistono modalità infantili nel comportamento degli adulti). Infatti nella misura in cui il rapporto tra cultura pubblica e coscienza del soggetto stenta a realizzarsi, cresce per il soggetto la difficoltà a passare dal comportamento emotivo a quello intenzionale e libero. Il soggetto minaccia di rimanere infantile: per un primo lato, prepotente come un bambino; per altro lato impotente come un bambino. L'impotenza di cui si dice è quella che si esprime nell'atteggiamento di chi può essere soltanto spettatore patetico della propria vita; secondo i casi, lo spettatore è soddisfatto, oppure invece offeso e risentito per la deludente qualità di ciò che gli tocca vedere. In ogni caso, egli rimane spettatore e non attore.

È evidente quanto questa situazione culturale, in cui manca il tempo pieno, il tempo per l’esercizio della libertà, sia una provocazione per la coscienza cristiana. Infatti nel contesto sociale descritto diventa problematica la stessa formazione psicologica della coscienza che è condizione perché possa poi prodursi in maniera adeguata la stessa decisione della fede.

Il cammino morale come ripresa di sé

Di segno diverso come dicevamo è la figura della vita umana raccomandata dalla tradizione biblica.

La Bibbia propone la figura della ripresa, non della ricerca permanente. Le prime vicende della vita dischiudono un senso, o più francamente una promessa, che l'uomo alla fine può e deve scegliere senza più incertezze. Soltanto quando egli giunga a tale scelta, giunge insieme alla sua vera nascita (Gv 3) . Tale figura della vita trova la sua realizzazione compiuta nel destino di Gesù, e dunque nel vangelo che proclama tale destino come rivelazione escatologica della verità del destino di ogni uomo. E tuttavia lo stesso riconoscimento della verità del vangelo di Gesù, proprio perché verità di un compimento, suppone la ripresa di una vicenda precedente: quella di Mosè e dei profeti anzi tutto, ma tramite quella e al di là di quella la vicenda universale dei figli di Adamo.

Nel libro dell’Esodo sono mostrati i due tempi della libertà: dapprima Israele è condotto come su “ali di aquila”, il viaggio è facile, conseguenza della liberazione operata da Dio. Israele è chiamato all’alleanza e in questo contesto di dono e promessa di Dio riceve la legge. Come dire che il senso della legge può essere compreso solo nel contesto dell’azione liberatrice di Dio costituisce Israele come popolo.

Ma verrà un tempo in cui si dovranno affrontare delle prove. Solo attraverso di esse il popolo potrà comprendere la verità della legge.

Uno schema analogo può essere riconosciuto come operante anche nel caso dell'esperienza dei profeti. Nella loro vicenda esistenziale si manifesta questa legge: l'identità personale in prima battuta è assegnata dall'iniziativa sorprendente di Dio, che anticipa ogni consapevolezza e tanto più ogni scelta dell'uomo stesso. All'iniziativa preveniente di Dio, che lo elegge e lo chiama, il profeta deve consentire liberamente. Lo schema trova illustrazione eloquente nelle 'confessioni' di Geremia; egli ha all'inizio consentito con entusiasmo facile alla vocazione; ma poi, dolorosamente istruito dal destino effettivo che quella vocazione gli ha riservato, sospetta che la sua prima risposta sia stata il risultato di proditoria seduzione da parte di Dio; vorrebbe ritrattare quella risposta, e non parlare più in suo nome; ma un fuoco ardente chiuso nelle sue ossa gli impedisce quasi fisicamente di tacere la parola di Dio (cfr. Ger 20,7-9).

La scansione in due tempi della risposta alla vocazione di Dio appare operante anche nella vicenda dei discepoli al seguito di Gesù. Essi sono stati scelti come apostoli da Gesù, ancor prima ch'essi potessero capire e aderire pienamente a tale iniziativa. Certo, alla chiamata del maestro essi hanno risposto liberamente fin dall'inizio. Ma le ripetute incomprensioni che si producono tra loro e il Maestro mettono in discussione la loro consapevolezza, e quindi anche la libertà della loro prima risposta. Una seconda risposta, questa sì libera, verrà solo dopo che essi saranno istruiti dalla loro stessa vicenda precedente. La forma della loro scelta allora sarà appunto quella del consenso al destino assegnato dall'iniziativa solitaria del Maestro. Sapete ciò che vi ho fatto?, chiede Gesù ai suoi dopo la lavanda dei piedi (Gv 13,12); soltanto a procedere da una tale consapevolezza, soltanto a misura in cui diverrete partecipi delle mie intenzioni, potrete conoscere anche quale sia il comandamento a cui conformare la vostra vita. Ciò che Gesù ha fatto di loro - e in certo senso anche con loro - realizza appunto la figura del tempo pieno, che consente di volere e di disporre in forma compiuta della vita. La seconda nascita è una ripresa della prima.

E solo la seconda nascita è stabile come la casa fondata sulla roccia.

Rito romano

Vangelo: Lc 18,1-8

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi: “C'era in una città un giudice, che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno. In quella città c'era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: Fammi giustizia contro il mio avversario. Per un certo tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: Anche se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno, poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga continuamente a importunarmi”.
E il Signore soggiunse: “Avete udito ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà a lungo aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”.

Ci avviamo verso la conclusione dell'anno liturgico. E' stato un tempo nel quale, di domenica in domenica, siamo stati portati alla contemplazione del mistero di Gesù. Le nostre settimane, i nostri giorni, sono stati come lievitati dal fermento della Parola di Dio. Anche in questa domenica, riceviamo in dono della Parola di Dio che si innerva nella vita dei nostri giorni. E' la breve parabola della vedova insistente: una situazione tipica, non solo negli usi giuridici dell'Antico Testamento. Anche oggi, non di rado, accade che un prepotente si avvalga di cavilli giuridici per strappare a poveri indifesi quel poco che hanno. Il giudice – riprendendo la parabola evangelica - dovrebbe, con imparzialità e tempestività, difendere quella povera donna. Ma il magistrato si comporta esattamente al rovescio: non teme né Dio, né gli uomini ("C'era in quella città un giudice che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno"). In un certo modo viene rappresentata l'arroganza del potere, che spesso troviamo nella storia degli uomini. Già il profeta Isaia l'aveva denunciata: "Guai a coloro che fanno decreti iniqui e scrivono in fretta sentenze oppressive, per negare la giustizia ai miseri e per frodare del diritto i poveri del mio popolo, per fare delle vedove la loro preda e per spogliare gli orfani, dice il Signore"(Is. 10, 1-2). A questo punto inizia la storia raccontata dalla parabola: cosa farà la povera vedova in questa situazione di palese ingiustizia? Oltretutto, nel mondo ebraico, donne come lei erano il simbolo della debolezza, oltreché le più esposte al sopruso. Dio stesso si fa loro difensore; viene infatti invocato con il titolo di "difensore delle vedove", ormai prive della tutela del marito (Sal. 68,6). Questa donna, comunque, non si rassegnò all'ingiustizia, come in genere invece solevano fare tutte. Era certamente una vittima, ma tutt'altro che rassegnata. Con insistenza, infatti, si recava dal giudice pretendendo la giusta soddisfazione. Non lo fece solo una volta, ma più volte; con tenacia non si stancava di pretendere il giusto, finche quel giudice non si decise a prendere in esame il suo caso. "Disse tra sé: anche se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno, poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga più ad importunarmi". Così termina la parabola. Importanti sono le brevi conclusioni poste da Gesù. Inizialmente sembrano alquanto sconcertanti, perché pone in parallelo il giudice della parabola con Dio stesso. Si tratta di un paradosso, usato altre volte nei Vangeli, per togliere dalla nostra mente ogni dubbio: "Avete udito ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà a lungo aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente". Sì, Dio non ci farà aspettare a lungo, farà giustizia prontamente (qualcuno traduce "all'improvviso", "quando meno te lo aspetti"), se con insistenza rivolgiamo a Lui la nostra preghiera. In effetti, i credenti hanno una forza incredibile nella preghiera, un'energia che riesce a cambiare il mondo. Siamo tutti, forse, come quella povera vedova, deboli, senza particolari poteri; eppure questa debolezza, nella preghiera insistente, diviene una forza potente; appunto, come per quella vedova che riuscì ad intaccare la durezza del giudice.

Purtroppo è facile per noi cadere nella sfiducia e nell'incredulità, lasciarsi travolgere dalle cose di questo mondo, dalle nostre ansie, dalle nostre sicurezze, e dimenticare la preghiera. La prima lettura della liturgia, tratta dal libro dell'Esodo (17, 8-13), è un esempio incredibile della "forza debole" della preghiera. La Scrittura ci presenta la figura di Mosè con le mani alzate verso il cielo, mentre Israele affronta in battaglia Amalek, nella piana di Refidim. Mosè impersona tutto il popolo in preghiera. Quando lui prega il popolo di Israele vince, non appena abbassa le mani, subito prevale il nemico. Aronne e Cur intervengono, uno da una parte e l'altro dall'altra, per sorreggergli le mani, fino al momento della vittoria finale. Nella preghiera costante, noi credenti, possiamo trovare il fondamento per costruire la nostra vita e per edificare la stessa città degli uomini, certi di quanto scrive il salmo 127: "Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori".

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