martedì 16 marzo 2010

Vangelo della V domenica di quaresima (21 Marzo 2010)

Domenica 21 marzo 2010 V di Quaresima o di Lazzaro

avviso:

Vi allego la relazione tenuta in LIUC venerdì 12 da padre B. Sorge sulla Caritas in veritate.


LETTURA
Lettura del libro del Deuteronomio 6, 4a; 26, 5-11

In quei giorni. Mosè disse: «Ascolta, Israele: tu pronuncerai queste parole davanti al Signore, tuo Dio: “Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi. Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele. Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai dato”. Le deporrai davanti al Signore, tuo Dio, e ti prostrerai davanti al Signore, tuo Dio. Gioirai, con il levita e con il forestiero che sarà in mezzo a te, di tutto il bene che il Signore, tuo Dio, avrà dato a te e alla tua famiglia».

SALMO
Sal 104 (105)

® Lodate il Signore, invocate il suo nome.
Rendete grazie al Signore e invocate il suo nome,
proclamate fra i popoli le sue opere.
A lui cantate, a lui inneggiate,
meditate tutte le sue meraviglie. ®

L’ha stabilita per Giacobbe come decreto,
per Israele come alleanza eterna,
quando disse: «Ti darò il paese di Canaan
come parte della vostra eredità». ®

Quando erano in piccolo numero,
pochi e forestieri in quel luogo,
non permise che alcuno li opprimesse
e castigò i re per causa loro:
«Non toccate i miei consacrati,
non fate alcun male ai miei profeti». ®

EPISTOLA
Lettera di san Paolo apostolo ai Romani 1, 18-23a

Fratelli, l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia, poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha manifestato a loro. Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute. Essi dunque non hanno alcun motivo di scusa perché, pur avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio, ma si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno scambiato la gloria del Dio incorruttibile con un’immagine e una figura di uomo corruttibile.

VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Giovanni 11, 1-53

In quel tempo. Un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dirgli: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato». All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?». Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui». Disse queste cose e poi soggiunse loro: «Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato; ma io vado a svegliarlo». Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se si è addormentato, si salverà». Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!». Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse agli altri discepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!». Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo». Dette queste parole, andò a chiamare Maria, sua sorella, e di nascosto le disse: «Il Maestro è qui e ti chiama». Udito questo, ella si alzò subito e andò da lui. Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. Allora i Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro. Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?». Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberàtelo e lasciàtelo andare». Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui. Ma alcuni di loro andarono dai farisei e riferirono loro quello che Gesù aveva fatto. Allora i capi dei sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dissero: «Che cosa facciamo? Quest’uomo compie molti segni. Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui, verranno i Romani e distruggeranno il nostro tempio e la nostra nazione». Ma uno di loro, Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno, disse loro: «Voi non capite nulla! Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!». Questo però non lo disse da se stesso, ma, essendo sommo sacerdote quell’anno, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo.





Il Vangelo ci conduce nel villaggio di Betania, quasi alle porte di Gerusalemme. Gesù aveva qui una famiglia amica, quella di Marta, Maria e Lazzaro. Spesso si recava da loro per riposarsi. Questa volta era venuto perché gli avevano detto che il suo amico Lazzaro era malato.

Gesù non voleva stargli lontano, anche se questo poteva comportare per lui la morte.
I discepoli non mancano di farglielo notare. Anzi tentarono di fermarlo, una volta saputo che Lazzaro era morto. Che senso aveva rischiare per nulla?
Ancora una volta i discepoli non avevano compreso la grandezza dell'amore del Signore, venuto non per salvare se stesso, ma gli altri! Essi volevano tenerlo lontano da Lazzaro, lontano da quell'uomo su cui ormai tutti avevano posto una pietra sopra.

Non possiamo non pensare ai tanti uomini e alle tante donne sui quali ancora oggi è posta sopra una pietra pesante. Talora sono popoli interi ad essere oppressi da una fredda e pesante lastra. Sono coloro su cui grava la guerra, la fame, la solitudine, la tristezza, la disgrazia, il pregiudizio. Il viaggio Il viaggio recente del Papa in Africa li ha messi per un po’ sotto l’attenzione del mondo, anche se sappiamo che presto non ci penseremo più, abbiamo già tanti problemi nostri!

Queste pietre tristi e pesanti non gravano per caso o per un amaro destino; sono poste dagli uomini; spesso c'è come una gara crudele a scavarsi la fossa vicendevolmente e a rincorrersi per chiuderla con una lastra pesante. I discepoli di Gesù, anche oggi, molto spesso vogliono tenersi lontano, stare a distanza dai tanti Lazzaro sepolti e oppressi.
Magari anch'essi come Marta rivolgono a Gesù una sorta di rimprovero: "Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!".

È come dire: "Se tu Signore fossi stato vicino, non sarebbero accadute quelle disgrazie", oppure: "Se tu fossi stato accanto a quel popolo, non sarebbero successi tali stermini", e così via.
Il Vangelo, in verità, ci dice che non è Gesù a stare lontano, ma gli uomini. E talora si impedisce persino a Gesù di avvicinarsi.

Chiediamoci piuttosto: dove siamo noi, mentre milioni di persone muoiono di fame? dove siamo noi mentre migliaia di persone sono sole e abbandonate negli ospedali? dove siamo noi mentre vicino e lontano c'è gente che muore senza nessuno, che soffre senza che alcuno se ne accorga? e si potrebbe continuare.
Ebbene, vicino a costoro troviamo Gesù. Solo lui sta lì accanto, e piange su questi suoi amici abbandonati, come pianse su Lazzaro.

Gesù sta da solo davanti a Lazzaro, a sperare contro tutto e tutti. Persino le sorelle cercano di dissuaderlo mentre egli vuol far aprire la tomba. "Signore, già manda cattivo odore, poiché è di quattro giorni", gli dice Marta. Sì! Già puzza. Come puzzano i poveri; come puzzano i campi profughi con centinaia di migliaia, talora milioni, di persone; come puzzano tutti coloro sui quali si abbatte la cattiveria degli uomini.

Ma Gesù non si ferma. Il suo affetto per Lazzaro è molto più forte della rassegnazione delle sorelle; è molto più saggio della stessa ragionevolezza, della stessa evidenza delle cose. L'amore del Signore non conosce confini, neppure quelli della morte; vuole l'impossibile.

Quella tomba, perciò, non è l'abitazione definitiva degli amici di Gesù. Per questo grida: "Lazzaro, vieni fuori!". L'amico sente la voce di Gesù, appunto, come sta scritto: "le pecore conoscono la sua voce", e ancora: "il buon pastore chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori" (Gv 10, 3). Lazzaro ascolta, ed esce. E Gesù invita gli altri a sciogliere le bende all'amico. Ma sciogliendo Lazzaro "morto", Gesù in verità scioglie ognuno di noi dal proprio egoismo, dalla propria freddezza, dalla propria indifferenza, dalla morte dei sentimenti.
Racconta un'antica tradizione orientale che Lazzaro, una volta risuscitato, non mangiasse altro che dolci. Questo per sottolineare che la vita donata dal Signore è dolce, bella; che i sentimenti che il Signore deposita nel cuore sono forti e teneri, robusti e amorevoli, e sconfiggono ogni amarezza e asprezza.


Rito romano

V Domenica di Quaresima (Anno C)

Prima Lettura
Is 43,16-21

Dal libro del profeta Isaia
Così dice il Signore,
che offrì una strada nel mare
e un sentiero in mezzo ad acque possenti,
che fece uscire carri e cavalli,
esercito ed eroi insieme;
essi giacciono morti: mai più si rialzeranno;
si spensero come un lucignolo, sono estinti:
“Non ricordate più le cose passate,
non pensate più alle cose antiche!
Ecco, faccio una cosa nuova:
proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?
Aprirò anche nel deserto una strada,
immetterò fiumi nella steppa.
Mi glorificheranno le bestie selvatiche,
sciacalli e struzzi,
perché avrò fornito acqua al deserto,
fiumi alla steppa,
per dissetare il mio popolo, il mio eletto.
Il popolo che io ho plasmato per me
celebrerà le mie lodi”.

Salmo responsoriale (Sal 125)

Grandi cose ha fatto il Signore per noi.

Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si aprì al sorriso,
la nostra lingua si sciolse in canti di gioia.

Allora si diceva tra i popoli:
“Il Signore ha fatto grandi cose per loro”.
Grandi cose ha fatto il Signore per noi,
ci ha colmati di gioia.

Riconduci, Signore, i nostri prigionieri,
come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime
mieterà con giubilo.

Nell'andare, se ne va e piange,
portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con giubilo,
portando i suoi covoni.

Seconda Lettura
Fil 3,8-14

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi
Fratelli, tutto io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede.
E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti.
Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch'io sono stato conquistato da Gesù Cristo.
Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.

Acclamazione al Vangelo
(Ez 33,11)

Gloria a te, o Cristo, Verbo di Dio!
Io non voglio la morte del peccatore,
ma che si converta e viva.
Gloria a te, o Cristo, Verbo di Dio!

Vangelo: Gv 8,1-11
Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma all'alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava.
Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”. Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo.
Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra.
E siccome insistevano nell'interrogarlo, alzò il capo e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi.
Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Alzatosi allora Gesù le disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. Ed essa rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù le disse: “Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più”.

commento di mons. V. Paglia

Con questa quinta domenica, la Quaresima volge alla fine e si avvia verso la grande e santa settimana della passione, morte e risurrezione di Gesù. Più volte, in questo tempo, siamo stati esortati alla conversione del nostro cuore, eppure ognuno di noi si scopre ancora tanto simile a se stesso. Forse abbiamo ascoltato poco la parola di Dio, e non si è radicata nel cuore e nella realtà della nostra vita; insomma, ci ha trasformati poco. Non diciamo questo per la mania di fare bilanci o per riproporre un inutile pessimismo. Credo, invece, che tutti siamo ben consapevoli della difficoltà che ha il tempo del Signore a inserirsi nello scorrere convulso del nostro tempo quotidiano; e degli ostacoli che i sentimenti e gli inviti di Dio trovano nella selva dei nostri sentimenti e dei tanti inviti che ogni giorno riceviamo. Questo tempo opportuno di Quaresima spesso lo abbiamo soffocato con gli impegni, con le preoccupazioni, e perché no, con le banalità che ci prendono e ci soggiogano. E così ognuno è rimasto quel che era. Questa domenica ci viene nuovamente incontro, e in certo modo ci prende e ci trascina davanti a Gesù ancora una volta. E di fronte a lui non è possibile sentirsi come quel fariseo che si lodava da solo, perché è il Signore della misericordia e non un esattore esigente.
È l'alba di un nuovo giorno e Gesù, scrive il vangelo di Giovanni (8,1-11), sta di nuovo nel tempio a insegnare. Una calca di gente lo circonda. Improvvisamente il cerchio degli ascoltatori viene aperto da un gruppo di scribi e farisei che spingono davanti a loro una donna sorpresa in adulterio. La trascinano, gettandola in mezzo al cerchio, proprio davanti a Gesù, e gli chiedono se si debba o no applicare la legge di Mosè. Questa legge, dicono, impone di «lapidare donne come questa» (gli scribi e i farisei si riferiscono alle disposizioni contenute nel Levitico, 20,10; e nel Deuteronomio, 22,22-24; che prevedono la morte per gli adulteri). Ma non sono mossi dallo zelo per la legge, tanto meno sono interessati al dramma di quella donna. Vogliono tendere un tranello al giovane profeta di Nazaret per screditarlo davanti alla gente che sempre più numerosa corre ad ascoltarlo.
Se condanna la donna, ragionano, va contro la tanto conclamata misericordia; se la perdona, si mette contro la legge. In ambedue i casi ne esce sconfitto. Gesù, chinatosi, si mette a «scrivere con il dito per terra». È un atteggiamento strano: Gesù sta in silenzio, come farà durante la passione davanti a personaggi come Pilato ed Erode. Il Signore della parola, l'uomo che aveva fatto della predicazione la sua vita e il suo servizio fino alla morte, ora tace. Si china e si mette a scrivere nella polvere.
Non sappiamo cosa Gesù scrive e cosa pensa in quel momento; possiamo invece immaginare i sentimenti indispettiti dei farisei e forse intuire cosa c'è nel cuore di quella donna la cui speranza di sopravvivenza è legata a un uomo da cui, peraltro, non esce né una parola, né un cenno. Dietro l'insistenza dei farisei Gesù alza il capo e pronuncia una frase che getta un poco di luce sui loro pensieri: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei» (v. 7). E si china di nuovo a scrivere per terra. La risposta disarma tutti. Colti nel segno da queste parole, «se ne vanno uno per uno cominciando dai più anziani fino agli ultimi» (v. 9), nota con arguzia l'evangelista. Rimane solo Gesù con la donna. Si trovano l'una davanti all'altro, la miseria e la misericordia.
A questo punto Gesù riprende a parlare; lo fa come di solito, con il suo tono, la sua passione, la sua tenerezza, la sua fermezza. Alza la testa e chiede alla donna: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella risponde: «Nessuno, Signore». La parola di Gesù diviene profonda, per nulla indifferente, anzi piena di misericordia. È una parola buona, di quelle che solo il Signore sa pronunciare: «Neanche io ti condanno; va'e d'ora in poi non peccare più» (v. 11). Gesù era l'unico che avrebbe potuto alzare la mano e lanciare le pietre per lapidarla; l'unico giusto. La prese per mano e l'alzò da terra; in verità la sollevò dalla sua condizione di miseria, e la rimise in piedi: non era venuto per condannare, e tanto meno per consegnare alla morte per lapidazione; è venuto per parlare e per rialzare alla vita. Dice a quella donna: «Va'», come dire: ritorna alla vita, riprendi il tuo cammino. E aggiunge: «Non peccare più», ossia: percorri la via sulla quale ti ho posto, la via della misericordia e del perdono. È la via sulla quale il Signore, di domenica in domenica, mette coloro che si avvicinano a lui.

CARITAS IN VERITATE
PROSPETTIVE ETICHE, SOCIO-CULTURALI E POLITICHE
BARTOLOMEO SORGE S.I.

La caduta del muro di Berlino, vent’anni fa, ha posto fine al confronto-scontro durato quasi tre secoli tra modelli di società ispirati a ideologie diverse: la «democrazia liberalcapitalistica», ispirata alla cultura liberale; il «socialismo reale», ispirato al marxismo; e la «nuova cristianità», ispirata alla cultura giudaico-cristiana (elaborata soprattutto da Jacques Maritain).
Nel 1989 è imploso il modello del «socialismo reale», mostrando che la filosofia marxista era stata smentita dalla storia. Nel 2008, insieme con la «bolla finanziaria» è esploso il «liberalcapitalismo», mostrando che la cultura liberale del libero mercato lasciato a se stesso, conduce alle secche del «pensiero debole», del nichilismo e del relativismo etico, e non è in grado di fondare la democrazia su un’etica razionalistica autoreferenziale. Nello stesso tempo, è entrato in crisi anche il modello di «nuova cristianità» (la cosiddetta «terza via» tra liberalismo e socialismo) sia per l’estendersi del fenomeno della secolarizzazione, sia in seguito alle acquisizioni dottrinali e pastorali del Concilio Vaticano II. Il vuoto prodotto dalla crisi delle ideologie è stato riempito da una nuova ideologia «libertaria» e «tecnocratica», che si è imposta come «pensiero unico».
Ebbene, Benedetto XVI scrive l’enciclica Caritas in veritate per far fronte alle sfide che provengono sia dal predominio della cultura libertaria e tecnocratica, sia dai processi di globalizzazione che richiedono un nuovo modello di sviluppo mondiale. Pertanto, il suo messaggio è duplice: 1) in primo luogo, contiene una critica di fondo all’«ideologia tecnocratica»; 2) in secondo luogo, indica alcuni principi etici, culturali e politici, su cui fondare lo sviluppo umano integrale, di cui ha bisogno il mondo globalizzato del XXI secolo.

1. Critica dell’«ideologia tecnocratica»
Alla caduta del Muro di Berlino, molti gridarono: «Ha vinto il capitalismo!». Il primo a dire che ciò non era vero fu Giovanni Paolo II nell’enciclica Centesimus annu, insistendo sul fatto che, anche dopo la crisi del socialismo reale, permangono nel mondo le ingiustizie e le discriminazioni, denunciate da Leone XIII e dai successivi pontefici: «La crisi del marxismo non elimina nel mondo le situazioni di ingiustizia e di oppressione, da cui il marxismo stesso, strumentalizzandole, traeva alimento» (n. 26).
Ora, con l’enciclica sociale Caritas in veritate, Benedetto XVI va oltre: senza nulla togliere all’importanza storica della Rerum novarum di Leone XIII, ritiene però più adeguata ai problemi sociali di oggi l’enciclica Populorum progressio di Paolo VI. La prende perciò come punto di riferimento, fino a definirla «la Rerum novarum dell’epoca contemporanea» (n. 8).
Infatti – spiega il Papa – dopo la smentita storica del «socialismo reale» e ora anche del «liberalcapitalismo», la «questione sociale» oggi non è più quella originaria della «lotta di classe» tra proletari e capitalisti, né quella del confronto tra modelli opposti di economia marxista e liberale, né la ricerca di un’equa distribuzione delle risorse tra il Nord e il Sud del mondo. Oggi, la questione sociale è divenuta «questione antropologica». La sfida sta soprattutto nel modo di concepire la vita umana, la quale – attraverso il ricorso alle biotecnologie di cui l’uomo dispone – può essere manipolata in mille modi: dalla fecondazione in vitro alla ricerca sugli embrioni, alla clonazione e all’ibridazione umana.
È avvenuto, cioè, che al posto delle ideologie politiche del XIX e XX secolo, ha preso vigore una cultura libertaria che, nello stesso tempo, alimenta la nuova «ideologia tecnocratica» e ne è alimentata. L’uomo oggi è come ubriacato dal potere di cui dispone. Grazie alle risorse della scienza e della tecnica, egli è «convinto – scrive Benedetto XVI – di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società […]. La convinzione di essere autosufficiente e di riuscire a eliminare il male presente nella storia solo con la propria azione ha indotto l’uomo a far coincidere la felicità e la salvezza con forme immanenti di benessere materiale e di azione sociale» (n. 34).
In sostanza, questa cultura libertaria e tecnologica dominante sottovaluta il fatto che la società umana è una comunità di esseri in relazione tra loro, e non un gregge di individui anonimi uno accanto all’altro, ciascuno dei quali pensa solo a se stesso. Di conseguenza, il giudizio etico rimane subordinato all’efficienza, all’innovazione tecnologica e al consenso sociale, senza alcun riferimento ai valori radicati nella stessa persona umana, nella sua coscienza morale e religiosa. Ritorna la tentazione di sempre: che bisogno c’è di Dio, se l’uomo basta a se stesso e si può liberare con le proprie mani? Perché insistere sull’uomo «immagine e somiglianza di Dio», quando la tecnica mi consente di clonarlo in laboratorio, a immagine e somiglianza mia? Ma non è così – risponde l’enciclica – «il vero sviluppo non consiste primariamente nel fare. Chiave dello sviluppo è un’intelligenza in grado di pensare la tecnica e di cogliere il senso pienamente umano del fare dell’uomo, nell’orizzonte di senso della persona presa nella globalità del suo essere» (n. 70). E Benedetto XVI conclude: «Senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia» (n. 78).
In altre parole, il vizio di fondo della cultura libertaria – trasformatasi ormai nel «pensiero unico» tecnocratico dominante – sta nel suo intrinseco materialismo utilitaristico: cioè, nel ritenere che abbia valore solo ciò che è «efficace»; che valga di più ciò che consente i risultati migliori e «rende» di più in termini di produttività e di sviluppo economico: la cosiddetta «politica del fare». A questa cultura, che corrode i principi su cui si fonda la civiltà umana, occorre opporre – dice l’enciclica – una concezione umana integrale dello sviluppo, un nuovo umanesimo, fondato su alcuni principi essenziali di natura etica, culturale e politica.

2. Per uno sviluppo umano integrale
Benedetto XVI espone quindi i principi fondamentali, condivisibili e universali, di un nuovo umanesimo integrale che consenta di superare l’ideologia tecnocratica dominante e di realizzare uno sviluppo veramente umano, di cui ha bisogno il mondo globalizzato del XXI secolo. Tali principi riguardano: a) il piano etico, b) il piano culturale e sociale, c) il piano politico.

a) Sul piano etico: «libertà responsabile»
La Caritas in veritate insiste anzitutto sui principi etici. L’enciclica muove da un presupposto: il concetto di progresso umano come «vocazione», già rievocato da Paolo VI al n. 42 della Populorum progressio: «Non v’è dunque umanesimo vero se non aperto verso l’Assoluto, nel riconoscimento d’una vocazione, che offre l’idea vera della vita umana». Benedetto XVI commenta: «Paolo VI ha voluto dirci, prima di tutto, che il progresso è, nella sua scaturigine e nella sua essenza, una vocazione: “Nel disegno di Dio, ogni uomo è chiamato a uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione”» (n. 16). Su questo presupposto il Papa costruisce la Caritas in veritate.
Lo fa movendo dalla verità incontrovertibile che la vita è ricevuta, è un «dono». Nessuno se la può dare da sé. Ogni persona è essenzialmente un «chiamato alla vita» (un progetto di Dio), una «vocazione» da accogliere con gratitudine e da realizzare liberamente e responsabilmente: «Ciascuno trova il suo bene aderendo al progetto che Dio ha su di lui, per realizzarlo in pienezza: in tale progetto infatti egli trova la sua verità ed è aderendo a tale verità che egli diventa libero (cfr Giovanni 8, 22)» (n. 1). La verità è questa: siamo tutti «chiamati alla vita» (Dio è padre di tutti), quindi siamo tutti fratelli (figli dell’unico Padre).
Questo rapporto inscindibile tra verità (unica paternità) e carità (fraternità universale) è il concetto chiave fondamentale – innovativo – sul quale poggia l’intero documento: ogni uomo (credente o non credente) è chiamato a fare la «stupefacente esperienza» di un duplice dono (della gratuità): la carità e la verità. L’uomo è fatto per l’amore e per la verità. Ciò rende la persona umana essenzialmente un essere-in-relazione. «La gratuità è presente nella sua vita in molteplici forme, spesso non riconosciute a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica dell’esistenza. L’essere umano è fatto per il dono, che ne esprime e attua la dimensione di trascendenza» (n. 34). Anche la verità è un dono più grande di noi, ci precede come il dono della carità, «non è prodotta da noi, ma sempre trovata o, meglio, ricevuta» (ivi).
Conclude il Papa: «Perché dono ricevuto da tutti, la carità nella verità è una forza che costituisce la comunità, unifica gli uomini secondo modalità in cui non ci sono barriere né confini» (ivi).
Questa categoria della «relazione» ci porta a scoprire che «la creatura umana, in quanto di natura spirituale, si realizza nelle relazioni interpersonali. Più le vive in modo autentico, più matura anche la propria identità personale. Non è isolandosi che l’uomo valorizza se stesso, ma ponendosi in relazione con gli altri e con Dio. […] Ciò vale anche per i popoli» (n. 53).
La chiave dell’enciclica sta tutta in questa premessa etica, valida per tutti indistintamente (credenti, diversamente credenti o non credenti): nessuno può fare, se prima non riceve. Ecco perché Dio non si può espellere dalla coscienza umana. L’uomo è fatto per la verità e per l’amore, e Dio – che è verità e amore – è l’unica risposta possibile non solo alle attese dell’intelligenza (verità), ma anche alle attese del cuore (amore).
Quindi, la «carità nella verità» non è soltanto l’essenza dell’annuncio cristiano, ma è anche la risposta alle attese naturali della ragione e della coscienza di ogni persona umana. Di conseguenza, se si vuole che le relazioni umane siano solide — non solo quelle personali «private» dei rapporti di amicizia, familiari o di gruppo, ma anche quelle «pubbliche» dei rapporti sociali, economici e politici —, esse si dovranno fondare su una «carità» che sia anche «vera».
Dal punto di vista pratico – dice l’enciclica – bisognerà, dunque, educare alla Libertà responsabile. Se lo sviluppo umano integrale è risposta dell’uomo alla sua vocazione trascendente, è necessario che il progresso sia sempre conforme alla dignità dell’uomo, cioè sia libera e responsabile. Dice Benedetto XVI: «La vocazione è un appello che richiede una risposta libera e responsabile. Lo sviluppo umano integrale suppone la libertà responsabile della persona e dei popoli: nessuna struttura può garantire tale sviluppo al di fuori e al di sopra della responsabilità umana» (n. 17). Quindi, non c’è sviluppo integrale, senza il riconoscimento della dignità della persona umana, della sua libertà e responsabilità: «Solo se libero, lo sviluppo può essere integralmente umano; solo in un regime di libertà responsabile esso può crescere in maniera adeguata» (ivi).
Se, dunque, il vero progresso consiste nella realizzazione libera e responsabile della vocazione che l’uomo ha ricevuto, ne consegue che lo «sviluppo umano integrale» non può non fare riferimento a Colui che chiama, cioè non può che essere trascendente. È questa la ragione per cui Dio e la religione non si possono escludere dall’orizzonte umano.

b) Sul piano socio-culturale: «fraternità»
Il mondo si va unificando. Sul fenomeno della globalizzazione Giovanni Paolo II aveva già richiamato l'attenzione: «Nel mondo diviso e sconvolto da ogni tipo di conflitti - egli scriveva già nel 1987 -, si fa strada la convinzione di una radicale interdipendenza e, per conseguenza, la necessità di una solidarietà che la assuma e traduca sul piano morale. Oggi, forse più che in passato gli uomini si rendono conto di essere legati da un comune destino da costruire insieme se si vuole evitare la catastrofe per tutti» (Sollicitudo rei socialis [1987], n. 26).
Ora, Benedetto XVI dedica l’enciclica Caritas in veritate appunto al mondo che si globalizza. Infatti, la globalizzazione non è solo un fenomeno economico e finanziario; è divenuto soprattutto un fenomeno sociale e culturale. Con la libera circolazione dei beni, dei servizi, dei capitali e del lavoro entrano in circolo pure le idee, si diffondono culture e mentalità diverse, si propagano stili differenti di vita; perciò, la globalizzazione produce cultura ed è essa stessa una cultura: un modo nuovo di comprendere il lavoro umano, di impostare le relazioni sociali.
Il pericolo dunque è che, nel vuoto di ideali e di principi etici seguito alla crisi delle culture e alla fine delle ideologie, la logica libertaria prevalga su ogni altra e s’imponga come cultura egemone: «A partire dal crollo del sistema collettivistico nell’Europa centrale e orientale, con le sue conseguenza per il Terzo Mondo – avvisava già Giovanni Paolo II - l’umanità è entrata in una nuova fase nella quale l’economia di mercato sembra aver conquistato virtualmente tutto il mondo. Ciò ha portato con sé non solo una crescente interdipendenza delle economie e dei sistemi sociali, ma anche la diffusione di nuove idee filosofiche ed etiche basate sulle nuove condizioni di lavoro e di vita introdotte in quasi tutte le parti del mondo. […] Una delle preoccupazioni della Chiesa circa la globalizzazione è che essa è divenuta rapidamente un fenomeno culturale. Il mercato come meccanismo di scambio è divenuto lo strumento di una nuova cultura. […] Il mercato impone il suo modo di pensare e di agire e imprime sul comportamento la sua scala di valori» (Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, 27 aprile 2001, in Aggiornamenti Sociali, 6 [2001] 525s.).
È evidente infatti che la nuova cultura libertaria e l’ideologia tecnocratica, lasciate a se stesse e prive di anima etica, favoriscono l’egoismo e la mancanza di solidarietà, la frammentazione sociale, allargano la forbice tra ricchi e poveri, creano nuove forme di colonialismo culturale.
Nello stesso tempo, però, non c’è dubbio che la globalizzazione offre pure prospettive nuove e straordinarie di crescita non solo economica, ma sociale e culturale: può servire a una maggior comprensione tra i popoli, alla pace, allo sviluppo, alla promozione dei diritti umani. Pertanto, «la globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno» (Ivi, 526). Non va dunque sopravvalutata, quasi fosse la panacea di tutti i mali, né va demonizzata, quasi fosse l’origine di tutti i mali. Va invece orientata responsabilmente al servizio dell’uomo, allo sviluppo umano di tutti. Solo una «globalizzazione solidale» eviterà che nascano nuove schiavitù, peggiori di quelle antiche, e che i poveri vengano spogliati di ciò che hanno di più prezioso, cioè della propria cultura e della stessa libertà.
Dal punto di vista pratico – dice l’enciclica – bisognerà impegnarsi per dare un’anima solidale alla globalizzazione, facendo crescere la Fraternità. Anche su questo punto, Benedetto XVI si rifà all’affermazione di Paolo VI, secondo cui lo sviluppo, per essere veramente umano, ha bisogno di fraternità. «Il mondo è malato — si legge al n. 66 della Populorum progressio —. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli».
Benedetto XVI fa sua questa prospettiva di Paolo VI. Le gravi situazioni di sottosviluppo, denunciate da Paolo VI — commenta papa Ratzinger — sono tuttora persistenti, se non addirittura aggravate, nel mondo globalizzato; si pensi, per esempio, all’attività finanziaria utilizzata male in modo prevalentemente speculativo, ai flussi migratori abbandonati drammaticamente a se stessi, allo sfruttamento sregolato delle risorse della Terra, alla corruzione e all’illegalità (cfr n. 21). È questa la prova – afferma – che senza «carità nella verità» non si dà fraternità, né sviluppo vero, umano e integrale; è la dimostrazione che le strutture economiche e le istituzioni (di cui nessuno nega l’importanza) da sole non bastano, se manca l’attenzione alle componenti umane e umanizzanti dello sviluppo.
Qui sta appunto il limite dell’ideologia tecnocratica, oggi dilagante. Infatti – continua Benedetto XVI –, gli uomini non potranno mai, da soli, realizzare la vera fraternità: «la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli. La ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità»; il motivo è che non si può prescindere dal fatto che essa – conclude il Papa – «ha origine da una vocazione trascendente di Dio Padre, che ci ha amati per primo, insegnandoci per mezzo del Figlio che cosa sia la carità fraterna» (n. 19).

c) Sul piano politico: «reciprocità»
Sul piano politico, l’affievolimento del senso della dignità della persona, dello spirito di solidarietà e della responsabilità dei cittadini, in seguito al diffondersi del «pensiero unico» e dell’ideologia tecnocratica, ha messo in crisi la «democrazia rappresentativa», che aveva consentito all’Italia di risorgere dalle macerie materiali e morali, dopo la seconda guerra mondiale e dopo la dittatura fascista. La ragione è che la cultura libertaria dominante corrode i pilastri su cui poggia la democrazia: la dignità della persona, la solidarietà, la sussidiarietà responsabile; la persona è ridotta a individuo, la solidarietà a mero formalismo legale, la partecipazione dei cittadini è sempre più ristretta da forme di «autoritarismo democratico».
Ora, i valori su cui si fonda la democrazia non li crea lo Stato; il quale invece li trova, li tutela e li coordina in vista del bene comune, come dice l’art. 2 della nostra Costituzione («La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo»). I valori, cioè, vengono prima della libera organizzazione della società, non dipendono da maggioranze politiche provvisorie e mutevoli, ma sono iscritti nella coscienza di ogni uomo e, in quanto tali, sono punto di riferimento normativo della stessa legge civile. Sono gli stessi valori etici fondamentali, recepiti non solo dalla nostra Costituzione, ma anche dalle Carte internazionali dei diritti umani, sancite dall’ONU, e anche dall’art. 17 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), che aggiorna quello istitutivo di Roma, varato a Lisbona nel 2007 e successivamente ratificato ed entrato in vigore nel 2010, insieme con il Trattato sull’Unione Europea (TUE), che aggiorna quello di Maastricht.
Ogni qual volta si mettono in discussione l’uno o l’altro di questi valori (anche se ciò avvenisse col consenso della «maggioranza»), si intacca l’ordinamento democratico nelle sue fondamenta. C’è il pericolo che la democrazia, privata della sua anima etica, si trasformi paradossalmente in strumento di oppressione e apra la strada a forme di totalitarismo mascherato, a un’assurda «democrazia totalitaria». Di democrazia si può anche morire. Una democrazia non fondata sui valori etici si può trasformare nella forma più «illiberale» di governo. È appunto la crisi della «democrazia rappresentativa».
In particolare la cultura libertaria alimenta il «populismo», una patologia mortale della democrazia, che si sviluppa ogni qual volta la politica perde l’anima etica e l’ispirazione ideale. Il «populismo», come dice il termine stesso, consiste nel privilegiare il rapporto diretto del leader con «il popolo» e con la piazza, anziché passare attraverso le istituzioni e gli strumenti di mediazione politica, propri della democrazia rappresentativa e delle sue regole, quasi che il «popolo sovrano» possa decidere quello che gli pare e piace. Non è così. «La sovranità – recita l’art. 1 Cost. – appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione», cioè di quel patto fondamentale che il popolo sovrano ha approvato in forma solenne e duratura in un momento decisivo e drammatico della propria storia.
La «maggioranza parlamentare» non si identifica con «il popolo» tutto intero. Il Governo uscito vincitore dalle urne esprime certamente la «maggioranza» del Paese, e proprio per questo è tenuto e legittimato a governarlo. Ma dovrà rispettare e tenere conto di tutte le legittime forme di rappresentanza democratica dei cittadini, quali l’opposizione e altre realtà minoritarie le quali, nella misura e nel modo che a esse compete, sono responsabili del bene comune non meno della maggioranza, secondo regole uguali per tutti.
Il «populismo» invece nega nei fatti questo principio fondamentale della democrazia rappresentativa: trasforma il Parlamento in mera cassa di risonanza delle decisioni dell’Esecutivo, attraverso l’uso indiscriminato del voto di fiducia; sottovaluta le varie forme di rappresentanza democratica della società (a cominciare dai sindacati), ritenendole portatrici «solo» di interessi particolari o corporativi; scorge nel bilanciamento dei poteri (che è lo strumento fondamentale per il retto funzionamento del sistema democratico) e nelle istituzioni di tutela democratica (quali il Presidente della Repubblica e la Corte Costituzionale) un ostacolo, anziché una garanzia.
Dal punto di vista pratico – dice l’enciclica – bisognerà applicare il principio della «reciprocità». In un primo senso, «reciprocità» significa che le scelte politiche e le riforme vanno affrontate sul piano politico in una prospettiva interdisciplinare, collegando i vari aspetti dello sviluppo in una visione d’insieme. «Le valutazioni morali e la ricerca scientifica – ribadisce la Caritas in veritate – devono crescere insieme […] e la carità deve animarle in un tutto armonico interdisciplinare, fatto di unità e di distinzione. La dottrina sociale della Chiesa, che ha “un’importante dimensione interdisciplinare”, può svolgere, in questa prospettiva, una funzione di straordinaria efficacia» (n. 31).
Tipico è il discorso sui diritti umani, che sono tutti collegati tra loro: i diritti individuali non si possono svincolare da una visione complessiva di diritti e doveri, altrimenti la rivendicazione dei diritti diviene l’occasione per mantenere i privilegi di pochi: «i diritti presuppongono doveri senza i quali si trasformano in arbitrio» (n. 43). Per fare un esempio: per quanto riguarda il lavoro, occorre saper conciliare gli interessi dei lavoratori con quelli del capitale; occorre trovare il giusto equilibrio tra il lavoro che c’è (chi lavora) e il lavoro che non c’è (chi non lavora), tra esigenze della produzione ed esigenze dell’ambiente, tra diritti dei lavoratori e rispetto dei diritti degli utenti dei servizi, tra esigenze delle persone anziane e quelle dei giovani.
Soprattutto – insiste Benedetto XVI – è necessario che in politica si tenga sempre presente la stretta connessione ( o «reciprocità») che esiste tra etica personale ed etica sociale. Quando l’etica personale si disgiunge dall’etica sociale, si producono fenomeni di degrado come quelli che oggi affliggono la politica, la finanza e l’economia: «Lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle loro coscienze l’appello del bene comune. Sono necessarie sia la preparazione professionale sia la coerenza morale» (n. 71)
Ciò posto, la «reciprocità» ha pure un secondo senso sul quale il Papa ritorna con insistenza: un progresso integralmente umano non può prescindere dal contributo della coscienza religiosa. Su questa «reciprocità» concorda oggi anche la cultura laica. Una delle grandi scommesse dell’illuminismo era stata che la democrazia liberale si sarebbe autoalimentata autonomamente e spontaneamente, senza bisogno di apporti esterni. Ebbene questa scommessa è fallita. La democrazia – riconosce N. Bobbio – ha dimostrato di non essere in grado di sapersi alimentare spontaneamente, di non essere autosufficiente (BOBBIO N., Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1984). Anche Jürgen Habermas – riprendendo il «teorema» di Ernst-Wolfgang Böckenförde, secondo il quale lo Stato non può generare da sé le condizioni per la propria esistenza, ma ha bisogno di presupposti esterni – arriva a sostenere che c’è bisogno della religione per ricivilizzare la modernità: la religione, tradotta politicamente in linguaggio laico, può aiutare la società europea a conservare le proprie risorse morali (Cfr RATZINGER J. – HABERMAS J., Ragione e fede in dialogo, a cura di Bosetti G., Marsilio, Venezia 2005.). E si comprende. Infatti, la democrazia è uno strumento, un metodo; non può essere autosufficiente, non ha in sé le radici con cui alimentarsi. Pertanto, il problema più urgente per uscire dalla crisi presente è aiutare la democrazia a ritrovare la sua fondazione etica, la quale sua volta – come già spiegava B. Croce, il patriarca della cultura liberale,– poggia necessariamente sul senso religioso (Cfr CROCE B., Cultura e vita morale, cap. XXII: Fede e programmi, Laterza, Bari 1955, 161.166).
Emblematica, in proposito, è la consonanza di Nicolas Sarkozy, il presidente della Francia laicista: «È legittimo per la democrazia e rispettoso della laicità – ha detto ricevendo il Papa a Parigi nel settembre 2008 – dialogare con le religioni. Queste, e in particolare la religione cristiana, con la quale condividiamo una lunga storia, sono patrimonio di riflessione e di pensiero, non solo su Dio, ma anche sull’uomo, sulla società e persino su quella preoccupazione, oggi centrale, che è la natura e la tutela dell’ambiente. Sarebbe una follia privarcene, sarebbe semplicemente un errore contro la natura e contro il pensiero. È per questo che faccio appello ancora una volta a una laicità positiva. Una laicità che rispetti, una laicità che riunisca, una laicità che dialoghi. E non una laicità che escluda e che denunci. In questa epoca in cui il dubbio e il ripiegamento su se stessi pongono le nostre democrazie davanti alla sfida di rispondere ai problemi del nostro tempo, la laicità positiva offre alle nostre coscienze la possibilità di scambiare opinioni, al di là delle credenze e dei riti, sul senso che noi vogliamo dare alla nostra esistenza. La ricerca di senso».
L’enciclica Caritas in veritate insiste molto sul rapporto di «reciprocità» tra religione e progresso dell’umanità. Come fare in pratica? La risposta sta nel dialogo fecondo e nella proficua collaborazione tra la ragione e la fede religiosa: «La ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede, e questo vale anche per la ragione politica, che non deve credersi onnipotente. A sua volta, la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico volto umano. La rottura di questo dialogo comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo dell’umanità» (n. 56).
Concludendo, «la Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire e non pretende “minimamente d’intromettersi nella politica degli Stati”. Ha però una missione di verità da compiere, in ogni tempo ed evenienza, per una società a misura dell’uomo, della sua dignità, della sua vocazione» (n. 9). Il contributo specifico della Chiesa allo sviluppo umano integrale consiste nel promuovere un umanesimo trascendente, che eviti all’umanità globalizzata
di cadere in «una visione empiristica e scettica della vita, incapace di elevarsi sulla prassi» (ivi).

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