venerdì 21 marzo 2014

la libertà è fatta per il bene e il bene è fatto per la libertà 23/3/14



Domenica 23 marzo 14

III domenica di Quaresima (Anno A)

La libertà non è un dato fisso. Essa è un organismo che segue la vita. Se essa è correttamente nutrita, rallegra la vita, se non lo è conduce verso l’autodistruzione.
Che cosa nutre la libertà?
È la verità dell’essere uomo e il bene così trovato che nutre la libertà. Ma sono le parole di Gesù che rivelano l’uomo all’uomo e gli rivelano la sua destinazione piena al bene.
E così le parole di Gesù che  ci fanno conoscere la verità, sono le parole che ci danno la libertà.
La libertà è fatta per il bene, il bene è fatto per la libertà.

Lettura
Es 34,1-10
In quei giorni. Il Signore disse a Mosè: «Taglia due tavole di pietra come le prime. Io scriverò su queste tavole le parole che erano sulle tavole di prima, che hai spezzato. Tieniti pronto per domani mattina: domani mattina salirai sul monte Sinai e rimarrai lassù per me in cima al monte. Nessuno salga con te e non si veda nessuno su tutto il monte; neppure greggi o armenti vengano a pascolare davanti a questo monte». Mosè tagliò due tavole di pietra come le prime; si alzò di buon mattino e salì sul monte Sinai, come il Signore gli aveva comandato, con le due tavole di pietra in mano.
Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. Il Signore passò davanti a lui, proclamando: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione». Mosè si curvò in fretta fino a terra e si prostrò. Disse: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi. Sì, è un popolo di dura cervice, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità».
Il Signore disse: «Ecco, io stabilisco un’alleanza: in presenza di tutto il tuo popolo io farò meraviglie, quali non furono mai compiute in nessuna terra e in nessuna nazione: tutto il popolo in mezzo al quale ti trovi vedrà l’opera del Signore, perché terribile è quanto io sto per fare con te».
Parola di Dio.
Salmo (Sal 105(106))
Salvaci, Signore, nostro Dio.
Abbiamo peccato con i nostri padri,
delitti e malvagità abbiamo commesso.
I nostri padri, in Egitto, non compresero le tue meraviglie,
non si ricordarono della grandezza del tuo amore. R.

Molte volte li aveva liberati,
eppure si ostinarono nei loro progetti.
Ma egli vide la loro angustia,
quando udì il loro grido. R.

Si ricordò della sua alleanza con loro
e si mosse a compassione, per il suo grande amore.
Li affidò alla misericordia
di quelli che li avevano deportati. R.
Epistola
Gal 3,6-14
Fratelli, come Abramo ebbe fede in Dio e gli fu accreditato come giustizia, riconoscete dunque che figli di Abramo sono quelli che vengono dalla fede. E la Scrittura, prevedendo che Dio avrebbe giustificato i pagani per la fede, preannunciò ad Abramo: In te saranno benedette tutte le nazioni. Di conseguenza, quelli che vengono dalla fede sono benedetti insieme ad Abramo, che credette. Quelli invece che si richiamano alle opere della Legge stanno sotto la maledizione, poiché sta scritto: Maledetto chiunque non rimane fedele a tutte le cose scritte nel libro della Legge per metterle in pratica. E che nessuno sia giustificato davanti a Dio per la Legge risulta dal fatto che il giusto per fede vivrà. Ma la Legge non si basa sulla fede; al contrario dice: Chi metterà in pratica queste cose, vivrà grazie ad esse. Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge, diventando lui stesso maledizione per noi, poiché sta scritto: Maledetto chi è appeso al legno, perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse ai pagani e noi, mediante la fede, ricevessimo la promessa dello Spirito.
Parola di Dio.
Acclamazione al Vangelo
(Cfr Gv8,46-47)
Gloria e lode a te, Cristo Signore!
Credete in me, dice il Signore;
chi è da Dio ascolta le parole di Dio.
Gloria e lode a te, Cristo Signore!
Vangelo: Gv 8,31-59
In quel tempo. Il Signore Gesù disse a quei Giudei che gli avevano creduto: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Gli risposero: «Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: “Diventerete liberi”?». Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora, lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio vi resta per sempre. Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. So che siete discendenti di Abramo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi. Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro». Gli risposero: «Il padre nostro è Abramo». Disse loro Gesù: «Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo. Ora invece voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità udita da Dio. Questo, Abramo non l’ha fatto. Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero allora: «Noi non siamo nati da prostituzione; abbiamo un solo padre: Dio!». Disse loro Gesù: «Se Dio fosse vostro padre, mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato. Per quale motivo non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alla mia parola. Voi avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli era omicida fin da principio e non stava saldo nella verità, perché in lui non c’è verità. Quando dice il falso, dice ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna. A me, invece, voi non credete, perché dico la verità. Chi di voi può dimostrare che ho peccato? Se dico la verità, perché non mi credete? Chi è da Dio ascolta le parole di Dio. Per questo voi non ascoltate: perché non siete da Dio».
Gli risposero i Giudei: «Non abbiamo forse ragione di dire che tu sei un Samaritano e un indemoniato?». Rispose Gesù: «Io non sono indemoniato: io onoro il Padre mio, ma voi non onorate me. Io non cerco la mia gloria; vi è chi la cerca, e giudica. In verità, in verità io vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno». Gli dissero allora i Giudei: «Ora sappiamo che sei indemoniato. Abramo è morto, come anche i profeti, e tu dici: “Se uno osserva la mia parola, non sperimenterà la morte in eterno”. Sei tu più grande del nostro padre Abramo, che è morto? Anche i profeti sono morti. Chi credi di essere?». Rispose Gesù: «Se io glorificassi me stesso, la mia gloria sarebbe nulla. Chi mi glorifica è il Padre mio, del quale voi dite: “È nostro Dio!”, e non lo conoscete. Io invece lo conosco. Se dicessi che non lo conosco, sarei come voi: un mentitore. Ma io lo conosco e osservo la sua parola. Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia». Allora i Giudei gli dissero: «Non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abramo?». 58Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono». Allora raccolsero delle pietre per gettarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio.
Esodo 34, 1-10
Mosè sale sul Sinai una seconda volta. La prima volta ha ricevuto da Dio le tavole dell'alleanza, le "dieci parole" che debbono definire completamente l'adesione, la fedeltà e la conferma della preferenza di Dio per questo popolo.
Ma il ritorno è stato disastroso. Mosè ha scoperto il tradimento del suo popolo, l'idolo: il vitello d'oro, fabbricato con l'oro di famiglia portato dall'Egitto, il totale abbandono del Dio del Sinai e della liberazione.
E' vero che il Signore stesso dice a Mosè mentre è sul monte: «Ho osservato questo popolo: ecco, è un popolo dalla dura cervice. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione». Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, rifiutando di tradire il suo popolo. E il Signore ha desistito. Così Mosè è ancora invitato da Dio (Es. 34,4-10) a ritornare sul monte. Dio ancora accetta di scrivere una seconda volta la legge, ma le nuove tavole di pietra debbono essere preparate da Mosè stesso: la legge nasce e si propone in collaborazione.
Qui avviene la rivelazione sorprendente di Dio. Dio non è astratto, non è un oggetto ma è una persona in relazione con Mosé e quindi con il popolo. Qui Dio si esprime con cinque aggettivi, cinque nomi che si possono sintetizzare così: "Compassionevole, clemente, paziente, misericordioso e fedele". Dio esprime la sua bontà e la sua tenerezza verso coloro che chiama. È un Dio che si svela come accogliente e misericordioso e desidera essere conosciuto, capito, accolto così, con fiducia, nella propria vita. Poiché è Compassionevole, si lascia coinvolgere nell'intimo dalla vicenda umana, poiché Clemente è disposto a chinarsi sull'uomo, poiché è Paziente sa attendere e non è facile all'ira, ama ogni persona in modo sovrabbondante e non viene mai meno.
L'ebreo osservante recita ogni giorno i versetti 6-7, definiti "i 13 attributi di misericordia". I rabbini garantiscono che questa preghiera avrebbe portato nel cuore dei fedeli il perdono per i peccati da parte di Dio. E se pur ci deve essere un rapporto tra misericordia e giustizia, il perdono sta come 1000 a 4.
Rincuorato, Mosè riprende la sua preghiera di intercessione: "Il Signore cammini in mezzo a noi, che perdoni la nostra colpa e ci faccia sua eredità ".
Mosè si sente mediatore fino in fondo e sceglie la solidarietà del suo popolo, a somiglianza di Gesù che ha preso sulle sue spalle il peccato del mondo.
Galati. 3, 6-14
Paolo rivendica la sua qualità di evangelizzatore perché, al pari degli apostoli, è stato lui stesso chiamato dal risorto ad annunciare il Vangelo. Purtroppo, dice Paolo, da parte di battezzati provenienti dal giudaismo e quindi molto legati alla fede mosaica, si insiste che un vero cristiano, per ottenere la salvezza, deve osservare ancora la legge mosaica. Paolo si preoccupa, invece, e deve sforzarsi molto per convincere i cristiani che sono sufficienti la grazia e la legge che vengono da Gesù: questa è la sua fede. Paolo predica il Vangelo di Gesù il quale solo può dare garanzia di salvezza perché si appoggia alla fede nel Figlio di Dio.
Ci si salva mediante la fede e non attraverso le opere.
Abramo ebbe fede e gli fu accreditato come giustizia (Gen 15,6). Perciò tutti i credenti, i pagani compresi, che abbiano accettato Gesù sono liberi dalla legge e accolgono nella fede la liberazione. Il linguaggio di Paolo è particolarmente ricco di citazioni e, come ogni buon rabbino, utilizza la Scrittura per dimostrare ciò che sta affermando. Infatti da una parte si rende conto dell'impossibilità di obbedire strettamente alla legge e dall'altra parte si ritrova come una condanna: "Chi non fa tutto quello che è prescritto nel libro della legge incorre nella maledizione" (Deut. 27,26). Chi ci salva è Gesù, mandato del Padre per strapparci dalla maledizione della morte. Solo Gesù, inviato dal Padre, può salvare e solo Gesù, il redentore dei maledetti. Si è fatto egli stesso maledetto poiché è stato confitto in croce (nella sensibilità ebraica i crocifissi sono maledetti). "Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge, diventando lui stesso maledizione per noi, poiché sta scritto: Maledetto chi è appeso al legno (Deut. 21,23)".
Gesù, morto e risorto, recupera ogni benedizione per tutti poiché in lui, maledetto, si è consumata la morte. La risurrezione è il nuovo mondo in cui Dio esprime le promesse, lo Spirito, la fede.
Giovanni 8, 31-59.
Il testo di Giovanni è molto complesso poiché risente delle grandi polemiche, delle perplessità e dei drammi che portano allo scoperto la responsabilità dei puri e dei colti, l'ambiguità della loro fede, l'ideologia dominante dei perfetti, il rifiuto di mettersi in discussione.
Si appoggia su un confronto terribilmente alto: tra Gesù ed Abramo (che qui è ricordato 8 volte). Il testo, così come viene presentato, offre alcune difficoltà interpretative. Tutta la polemica, ad esempio, non coinvolge «quei Giudei che gli avevano creduto» (8, 31). Ma la violenta requisitoria che segue, fino alla fine del capitolo, si rivolge alle autorità giudaiche, ostili a Gesù.
E' un dialogo terribile tra la rabbia degli interlocutori che si sentono sbugiardati e totalmente in balia della menzogna e Gesù che li affronta a viso aperto. Egli afferma persino che Abramo ha visto il suo tempo e se n'è rallegrato. Deve essere suonata come pazzia pura ma anche lucida e blasfema.
Il primo tema è la verità e quindi la libertà che passa attraverso la verità.
Conoscere la verità significa conoscere la volontà di Dio sull'uomo, così come ci è stata trasmessa da Cristo. Conoscere, per gli ebrei, è accoglierla in modo che dimori stabilmente in ciascuno di noi. E' il principio di vita morale: noi «camminiamo» (= viviamo) secondo le sue direttive, noi «facciamo la verità». La nostra identità è quella di essere a immagine di Dio e quella di vedere nel volto dell'altro la stessa nostra dignità: e insieme siamo chiamati a ricercare, operare, costruire, pur faticosamente e spesso confusamente, eppure sempre alla ricerca dei segni e della pienezza di Dio. Dalla verità, in controluce, si gioca la libertà e la schiavitù. E' un tasto drammatico poiché Dio stesso ha amato la libertà per il suo popolo. Parlare di schiavitù agli ebrei significa non essere più nel popolo salvato,
essere decaduti e traditi dalle proprie mani. Gesù il Figlio, in comunione con il Padre e perfettamente libero, è Lui che ora può rendere liberi uomini, fatti schiavi dal male e dal peccato. Ma essi debbono credere in Lui ed essere fedeli alla sua Parola.
Non solo coloro che gli si oppongono non assomigliano ad Abramo e non sono suoi figli, ma sono figli di prostituta. I profeti hanno rimproverato il popolo di Dio di infedeltà. (cf.Os 1,2) e i suoi interlocutori hanno capito benissimo. "Non siamo nati da prostituzione" poiché protestano la loro fedeltà al Dio dell'alleanza.
Tutto il brano risente di ingiurie. L'ultima ingiuria che scagliano contro Gesù è quella di essere samaritano cioè eretico e di essere indemoniato. Gesù afferma: "In verità, in verità io vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno». (8, 51). E questa affermazione fa giungere al parossismo. E tuttavia Gesù rivendica la sua conoscenza del Padre: "Ma io lo conosco e osservo la sua parola" (8, 55). Nella esasperazione c'è la domanda ovvia: "Ma tu chi credi di essere?" (8,53). La risposta che conclude questa polemica arroventata pone una risposta assolutamente assurda per loro: «In verità, in verità io vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono». (8, 58) Gesù afferma di non essere solo il Messia, ma di essere il vero Figlio di Dio che esiste ancor prima di Abramo, eterno come il Padre. "Io sono" nel Primo Testamento è il nome di Dio e significa che Egli è sempre vicino al suo popolo con una presenza misteriosa e salvatrice. Egli è entrato nella storia per salvare gli uomini. E questo si rivelerà soprattutto nel momento della massima umiliazione perché è la prova di aver amato fino alla morte. E' la prova che Dio ama ogni persona fino all'assurdo, nella morte del Figlio davanti a cui Dio non reagisce e non si vendica. A questa mancanza di accoglienza che disorienta corrisponde la volontà di voler la morte di Gesù.
Gesù ha scacciato dal tempio la gente perché profana la casa del Padre (2,15). Adesso il Padre non è più nel tempio che è occupato da assassini e bugiardi e perciò Gesù esce dal tempio.

Rito romano
Lectio - Anno A

Prima lettura: Esodo 17,3-7


    In quei giorni, il popolo soffriva la sete per mancanza di acqua; il popolo mormorò contro Mosè e disse: «Perché ci hai fatto salire dall’Egitto per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?».  Allora Mosè gridò al Signore, dicendo: «Che cosa farò io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno!».  Il Signore disse a Mosè: «Passa davanti al popolo e prendi con te alcuni anziani d’Israele. Prendi in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo, e va’! Ecco, io starò davanti a te là sulla roccia, sull’Oreb; tu batterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà». Mosè fece così, sotto gli occhi degli anziani d’Israele. E chiamò quel luogo Massa e Merìba, a causa della protesta degli Israeliti e perché misero alla prova il Signore, dicendo: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?».


2  Il brano presenta la comunità israelitica nel deserto in cammino verso la terra promessa. Una marcia ardua, estenuante, per scarsità di cibo e penuria di acqua. Certo Dio aveva dato segni strepitosi della sua presenza e assistenza sia in Egitto che nel deserto (cap. 16: la manna e le quaglie); si poteva sempre sperare in un suo soccorso, ma l'uomo è a volte
più sensibile che intelligente, più diffidente che credente e tali si mostrano gli israeliti alla constatazione di non avere acqua da bere.
     La protesta contro Mosè, e quindi contro il Signore, è spontanea e immediata; ma anche la risposta di Dio è pronta e chiara. L'acqua non è fatta sgorgare dal terreno come sempre avviene, ma dal cuore della pietra, dalla roccia, perciò è un'acqua, più che miracolosa, misteriosa. L'autore ha voluto raccogliere il favore occasionale e tutti gli altri benefici che Israele ha ricevuto dal suo Dio, che il salmista chiama ripetutamente «mia fortezza, mia liberazione, mia rupe in cui trovo riparo, mio scudo e baluardo, mia potente salvezza» (Sl 18,3; cf. Sl 94,1).
     L'acqua in questo contesto è la bevanda essenziale dell'uomo senza la quale non riesce a sopravvivere, ma è anche il simbolo della grazia divina, della protezione che egli accorda agli uomini, al suo popolo, senza la quale la continuità nel bene non si realizza.
     L'uomo deve poggiare bene i piedi sulla terra ferma per sentirsi sicuro, ma il credente sa di appoggiarsi su basi ancor più solide, la fede in Dio. Per lo spirito la fede è come l'acqua per il corpo. Senza l'una o l'altra tutta la vita si spegne.
     Il problema non è l'acqua, ma se Dio è ancora al centro della propria vita (v. 7).

Seconda lettura: Romani 5,1-2.5-8


      Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio.
La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per
mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.
    

2  Paolo rassicura i cristiani di Roma che la loro salvezza conseguita attraverso il vangelo (1,16) non può essere più messa in dubbio o in pericolo. È il tema o la tesi di tutto lo scritto. La dimostrazione procede negativamente (né i pagani, né i giudei sono sulla via giusta: 1,18-3,20) e positivamente (3,21-31: ci si salva tramite la fede nella redenzione operata da Cristo). Il tutto è illustrato biblicamente con il richiamo alla giustificazione di Abramo, conseguita solo attraverso la fede (4,1-25).
     Il discorso del capitolo V è ripreso da capo per approfondimenti e sviluppi. Sono presentati i benefici della salvezza (5,1-11) e dichiarati sconfitti per sempre i suoi tradizionali nemici: il «peccato», la «morte», la «legge» (5,12-7,25).
     Il brano 5,1-11 si può ritenere centrale nella tematica della lettera. Esso elenca i benefici della salvezza cristiana, presenta lo «stato» dell'uomo nuovo rigenerato dalla fede in Cristo, che è adesione mentale a particolari verità, ma soprattutto conformità operativa a quanto Gesù ha fatto (cf. At 1,1; Lc 24,19).
     Paolo però da grande teologo dà molto peso alle basi teoriche della salvezza cristiana. Egli suppone con la comune tradizione biblica che l'uomo è un peccatore fin dalla nascita, quindi in disgrazia con Dio, per cui come prima cosa deve dimostrare che l'inimicizia con l'Altissimo è stata cancellata e che l'uomo ora si trova «in pace con Dio» (5,1).
     Questa riconciliazione è avvenuta in virtù dell’«azione redentiva» di Cristo che Dio ha costituito «strumento di espiazione» dei peccati dell'umanità di tutti tempi fino al momento presente (3,23-26).
     La morte di croce è il sacrificio di una nuova alleanza, cioè di una nuova, amichevole intesa tra Dio e gli uomini. Salvarsi è inserirsi nel processo che porta dal peccato alla comunione con Dio; è credere al valore propiziatorio della morte di Cristo e riceverne così i «frutti». È riconoscere che Dio è di nuovo amico dell'uomo, grazie all'immolazione che Gesù ha fatto della sua vita, per ristabilire l'ordine turbato dal peccato. Accettando questa impostazione, il credente ritrova la sicurezza, perciò la felicità, la gioia di sentirsi salvo, cioè in pace con la propria coscienza e con Dio. Ancor più egli si sente come inondato dall'amore di Dio che ha compiuto opere così insolite, il sacrificio dei figlio, per ridare la felicità all'uomo.
     Paolo è un dottore, bisognoso quindi di sistemazioni dottrinali, di concezioni logiche; forse per questo ha cercato di dare alla salvezza cristiana una spiegazione teorica più che storica.
     È certamente vero che l'uomo può diventare, diventa peccatore, ma si libera dal suo stato di colpa non tanto guardando alla morte di croce subita da Gesù Cristo o appropriandosi i suoi «meriti», di cui i vangeli non parlano, ma convertendosi dalla propria condotta iniqua verso le vie della giustizia e della santità. Non conta tanto pensare bene, quanto fare il bene.
     La fede non è avere idee esatte su Cristo o su Dio o sulla missione compiuta da Gesù, ma prendere sulle proprie spalle la sua stessa croce e portarla coraggiosamente per le stesse ragioni per cui l'ha portata lui, sostenere i diritti degli uomini, poveri, ammalati, sofferenti, peccatori, oltre che quelli di Dio. Solo vivendo e lottando per questa causa per cui egli è morto, ossia si è lasciato uccidere, l'uomo può dirsi un vero cristiano e trovarsi inondato da serenità e pace, perché la carità di Dio abita veramente in lui, perché è pervaso dall’amore per i fanciulli.

Vangelo: Giovanni 4,5-42


        In quel tempo, Gesù giunse a una città della Samarìa chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani.  Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?».  Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». «Signore – gli dice la donna –, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». Le dice: «Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui». Gli risponde la donna: «Io non ho marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai  avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero».  Gli replica la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità». Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa». Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te».
In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: «Che cosa cerchi?», o: «Di che cosa parli con lei?». La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?». Uscirono dalla città e andavano da lui. Intanto i discepoli lo pregavano: «Rabbì, mangia». Ma egli rispose loro: «Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete». E i discepoli si domandavano l’un l’altro: «Qualcun gli ha forse portato da mangiare?». Gesù disse loro: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. Voi non dite forse: ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l’altro miete. Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica».
      Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo».


Il vangelo di Giovanni appare una comune narrazione, mentre in realtà è una trattazione teologico-apologetica.
     L'opera si apre con una duplice presentazione di Gesù: Logos incarnato (1,1-18) e Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo (1,29). Dopo queste premesse Gesù apre la sua missione in Galilea, a Cana (2,1-12), quindi riparte ufficialmente da Gerusalemme, dal tempio (2,14-24). Da qui inizia ad avvicinare la gente: i giudei (Nicodemo: 3,1-21), i samaritani (4,1-42), i pagani (il funzionario regio: 4, 46-54).
     La donna che Gesù incontra al pozzo di Sicar è un individuo, ma più ancora una comunità, anch'essa palestinese, quindi di origine ebraica, ma che aveva subito contaminazione razziali e religiose da quando gli assiri avevano distrutto il regno del nord (722 a.C.), deportando gli abitanti e trapiantando sul posto colonie di pagani. Per di più risentiva dello scisma proclamato da Geroboamo a nome delle tribù del nord dal regno del sud o di Giuda (1Re 12,25-32). Per queste ragioni, ricorda la donna a Gesù, i giudei e i samaritani non familiarizzavano. Di fatti essi si attenevano solo o soprattutto al Pentateuco e non frequentavano il tempio di Gerusalemme, ma celebravano le loro liturgie sul Garizim.
     Gesù ha un messaggio per tutti i figli d'Israele, quindi anche per i samaritani. Intanto egli era un galileo, quindi in partenza non trovava disagio a incontrarsi con esponenti samaritani. Il difficile era far pervenire ad essi le sue proposte: la necessità di recedere dalle loro convinzioni e tradizioni. In tutti i modi, anche i samaritani rientrano nella cerchia dei suoi destinatari, per questo «deve» passare attraverso il loro territorio.
     L'incontro con la donna, simbolo della popolazione samaritana, avviene presso il pozzo di Giacobbe. Entrambi sono di fronte alla sorgente con lo stesso scopo: dissetarsi. Gesù è un missionario che passa da un villaggio all'altro; nessuna meraviglia che si stanchi e abbia sete. Ma l'acqua del pozzo diventa il pretesto di un'ampia discussione storico-teologica, ebraico-cristiana.
     La donna si sente interpellata («dammi da bere») ma sente anche offrirsi un'acqua diversa, «viva», capace di estinguere ben altra sete. Come il corpo, anche la mente, il cuore, possono trovarsi riarsi, addirittura inariditi, quindi nella necessità di venire rianimati, rivificati.
     Il dialogo si protrae per varie battute. La donna mette in risalto la grandezza del patriarca Giacobbe; Gesù non la smentisce. È il punto in cui le loro radici si incontrano. Solo fa osservare che l'acqua materiale non basta a calmare tutte le esigenze, i bisogni dell'uomo. Egli conosce un'altra acqua, che egli è in grado di offrire a chi gliene fa richiesta, che veramente estingue ogni sete. Nel seguito del vangelo Giovanni presenta Gesù e invita gli uditori ad accostarsi a lui e bere l'acqua che egli offriva. «Chi ha sete venga a me e beva. Chi crede in me, come dice la Scrittura, fiumi di acqua viva scorreranno dal suo seno. Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui» (7,37-38). In parole più semplici, Gesù propone alla donna e a tutti gli ascoltatori il suo messaggio di pace e di amore.
            La samaritana forse comincia a sospettare qualche secondo senso delle parole di Gesù, ma invece di chiedere opportune dilucidazioni cerca di evadere intavolando altri discorsi. Gesù la blocca una prima (4,17-18), una seconda (4,19-20), una terza volta. Ella si è accorta di essere entrata in una controversia troppo ardua; più che pensare a risolverla, subito ritiene che sia, meglio aspettare il messia che deve venire a rendere ragione di tutto. Vuoi fuggire ma Gesù le si pone davanti e la ferma con le parole: «Sono io, che parlo con te» (v. 26).                              
     L'evangelista non parla del processo di conversione che si è verificato nell'interlocutrice di Gesù; la mostra non solo convertita ma già apostola di Cristo (vv. 28-29). L'«anfora» con cui ella era venuta ad attingere l'acqua, rimane lì abbandonata; segno che il dono di Giacobbe non era così indispensabile soprattutto per chi ha ormai conosciuto e sperimentato l'acqua viva offerta dal Cristo.
     La conversione dei samaritani è immediata e entusiasta. E se la donna è stata il tramite della loro adesione al messia, la loro fede però non si basa sul suo racconto, su quanto ella dice, ma su quello che essi stessi hanno visto.
     In questa grande pagina piena di luce profetica l'unica ombra che offusca il quadro è il ridimensionamento della parte e della funzione della donna nella conversione dei suoi connazionali. I suoi discorsi sul messia sono ritenuti chiacchiere più che annunzi. Il termine lalian che l'evangelista adopera è intenzionale; denota «loquacità» quasi pettegolezzo; tutt'altro che ministero apostolico!

Meditazione

      Dopo la sintetica visione della storia di salvezza attraverso la memoria di Adamo e di Abramo nelle prime letture delle prime due domeniche di Quaresima del ciclo «A», le tre domeniche successive, con le immagini rispettivamente dell'acqua, della luce e della vita, presentano una tematica sacramentale legata all'iniziazione cristiana.
     Il dono dell'acqua nel deserto che placa la sete del popolo durante il cammino esodico è segno della sollecitudine di Dio (I lettura); nel vangelo la simbolica dell'acqua evoca l'azione dello Spirito e della Parola, cioè il dono di Dio (Gv 4,10) che apre la donna ad accogliere il dono della fede; il dono dello Spirito è segno dell'amore divino versato nel cuore dell'uomo (II lettura).
     Il vangelo interpella il credente sulla sete, sul desiderio che lo abita. E suggerisce che la nostra sete profonda è sete di incontro e di relazione. L'incontro tra Gesù e la samaritana inizia dall'atto con cui Gesù osa il suo bisogno di fronte a lei: «Dammi da bere» (Gv 4,7). L'incontro necessita del coraggio di chi si fa mendicante presentandosi all'altro nella propria povertà. La donna cerca di attingere acqua e Gesù le chiede di dargli da bere. Interrogando la domanda che Gesù le rivolge, la donna stessa giungerà a domandare: «Signore, dammi di quest'acqua» (Gv 4,15). Questa povertà condivisa diviene la base dell'incontro in verità. E ciò che disseta appare proprio l'incontro: in effetti, secondo il racconto, la donna non attingerà dal pozzo e Gesù non berrà l'acqua.
     L'incontro prende l'avvio da una pessima base di partenza: l'inimicizia categoriale. Di fronte, inizialmente, non vi sono due volti, due nomi, due biografie, due sofferenze, ma due categorie: un giudeo e una samaritana ( «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?»: Gv 4,9).
     Il coraggio del dialogo, dell'interporre una parola tra sé e la donna, consente l'inizio del cammino che condurrà all'incontro e che guiderà la donna alla fede. Lo stupore della donna («Come mai?») è il primissimo segno di un cammino della donna verso Gesù, ma che sarà anche verso se stessa, sarà cammino interiore, sarà coraggio di affrontare la propria verità profonda. «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice...» (Gv 4,10). Nessuno è solo appartenenza etnica o professione religiosa. Dalla polarità aggressiva e ostile «noi»-«voi» (Gv 4,20), occorre passare al coinvolgente «io»-«tu». Gesù arriverà a dirsi e a darsi con le parole: «Sono io, che parlo con te» (Gv 4,26). Gesù vince quelle barriere identitarie che gli uomini erigono e che, quando si sedimentano, diventano, da un lato, una seconda pelle, una sorta di identità aggiunta e, dall'altro, la lente (deformante) con cui guardiamo gli altri oggettivandoli nelle nostre definizioni e imprigionandoli nelle nostre categorie, identità non è un dato fisso, ma avviene e diviene nell'incontro con l'altro.          Momento importante nell'itinerario dell'incontro è quello in cui Gesù invita la donna a passare dalla domanda che lui le ha posto alla domanda che lui stesso è (Gv 4,10). Il vero dialogo non impone, ma suscita e accresce l'interesse reciproco. E si nutre di domande sempre nuove piuttosto che di risposte nette e definitive. Il testo presenta una pedagogia verso la fede in cui la donna riconosce Gesù come profeta (v. 19) e messia (vv. 25-26.29) e quindi diventa apostola, annunciatrice di Gesù salvatore del mondo (vv. 28-30.39-42). La donna diviene credente ed evangelizzatrice. Ma il cammino del riconoscimento di Gesù quale Signore implica un contemporaneo cammino di conoscenza di sé in cui anche gli aspetti moralmente più problematici, quelli che normalmente una persona ha difficoltà a confessare a se stessa, sono riconosciuti. Solo così l'incontro avviene nella verità. Culmine di questo incontro nella verità è il momento in cui la donna riceve da Gesù il racconto di tutto ciò che lei ha fatto (v. 29). Il racconto che lei nascondeva per vergogna a se stessa, le è ora fatto da un altro che la accoglie e non la giudica, e così la conduce ad accettarsi e a conoscersi davanti a Gesù.


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