venerdì 7 ottobre 2011

domenica 9 ottobre 2011


Quello che tu puoi fare è solo una goccia nell'oceano, ma è ciò che da significato alla tua vita.


VI Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore


LETTURA
Lettura del libro di Giobbe 1, 13-21
Un giorno accadde che, mentre i suoi figli e le sue figlie stavano mangiando e bevendo vino in casa del fratello maggiore, un messaggero venne da Giobbe e gli disse: «I buoi stavano arando e le asine pascolando vicino ad essi. I Sabei hanno fatto irruzione, li hanno portati via e hanno passato a fil di spada i guardiani. Sono scampato soltanto io per raccontartelo». Mentre egli ancora parlava, entrò un altro e disse: «Un fuoco divino è caduto dal cielo: si è appiccato alle pecore e ai guardiani e li ha divorati. Sono scampato soltanto io per raccontartelo». Mentre egli ancora parlava, entrò un altro e disse: «I Caldei hanno formato tre bande: sono piombati sopra i cammelli e li hanno portati via e hanno passato a fil di spada i guardiani. Sono scampato soltanto io per raccontartelo». Mentre egli ancora parlava, entrò un altro e disse: «I tuoi figli e le tue figlie stavano mangiando e bevendo vino in casa del loro fratello maggiore, quand’ecco un vento impetuoso si è scatenato da oltre il deserto: ha investito i quattro lati della casa, che è rovinata sui giovani e sono morti. Sono scampato soltanto io per raccontartelo». Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello; si rase il capo, cadde a terra, si prostrò e disse: / «Nudo uscii dal grembo di mia madre, / e nudo vi ritornerò. / Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, / sia benedetto il nome del Signore!».


SALMO
Sal 16 (17)
®Volgiti a me, Signore: ascolta la mia preghiera.
Ascolta, Signore, la mia giusta causa, sii attento al mio grido. Porgi l’orecchio alla mia preghiera: sulle mie labbra non c’è inganno. ® Dal tuo volto venga per me il giudizio, i tuoi occhi vedano la giustizia. Saggia il mio cuore, scrutalo nella notte, provami al fuoco: non troverai malizia. ® Io t’invoco poiché tu mi rispondi, o Dio; tendi a me l’orecchio, ascolta le mie parole, mostrami i prodigi della tua misericordia, tu che salvi dai nemici chi si affida alla tua destra. ®


EPISTOLA
Seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo 2, 6-15
Carissimo, / il contadino, che lavora duramente, dev’essere il primo a raccogliere i frutti della terra. Cerca di capire quello che dico, e il Signore ti aiuterà a comprendere ogni cosa. / Ricòrdati di Gesù Cristo, / risorto dai morti, / discendente di Davide, / come io annuncio nel mio Vangelo, / per il quale soffro / fino a portare le catene come un malfattore. / Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna. Questa parola è degna di fede: / Se moriamo con lui, con lui anche vivremo; / se perseveriamo, con lui anche regneremo; / se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; / se siamo infedeli, lui rimane fedele, / perché non può rinnegare se stesso. / Richiama alla memoria queste cose, scongiurando davanti a Dio che si evitino le vane discussioni, le quali non giovano a nulla se non alla rovina di chi le ascolta. Sfòrzati di presentarti a Dio come una persona degna, un lavoratore che non deve vergognarsi e che dispensa rettamente la parola della verità.


VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Luca 17, 7-10
In quel tempo. Il Signore Gesù disse: «Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, strìngiti le vesti ai fianchi e sèrvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».

Commento al vangelo I vv. 7-10 sono di fatto un’unica parabola imperniata sulla sola metafora dell’«essere servi», e proprio per questo assume valore di assoluta importanza la corretta traduzione dell’attributo χρειοι δολοι nel contesto della frase finale: «Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo poveri servi. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».

Tradurre con «servi inutili» non rende ragione della parabola stessa e soprattutto del significato del ruolo dei «servi» (= noi) nell’opera di salvezza. Il vocabolo χρειος in età ellenistica ha due significati diversi, sebbene entrambi indicanti la piccolezza. Guar-dando all’etimologia, dal verbo χρομαι «utilizzare, servirsi», il primo significato deve essere quello di essere «inutili, inservibili». Ma una seconda sfumatura è possibile per questo aggettivo ed è ben attestata nei LXX. Essa indica piuttosto l’essere «povero, vile» non in senso morale, cioè per una qualche colpa commessa, ma a motivo dell’umile condizione in cui si trova il servo. Questa sfumatura di significato è presente nelle due ricorrenze del termine nella traduzione dei LXX e, precisamente, in 2Sam 6, 22 (κα ποκαλυφθήσομαι τι οτως κα σομαι χρεος ν φθαλμος σου κα μετ τν παιδισκν, ν επάς με δοξασθναι), nell’episodio del trasporto dell’arca a Gerusaemme, quando Davide, dopo aver danzato dinanzi all’arca ed essere stato criticato da Mikal dice: «Mi abbasserò ancor più di così e mi renderò vile (χρειος) ai tuoi occhi». Qui è evidente che l’altro significato, «inutile», è del tutto inadatto per una traduzione corretta; e in Lett. Ger 15: «Come un vaso rotto non ha più valore, così sono i loro idoli posti nei templi. I loro occhi sono pieni di polvere sollevata dal viavai dei visitatori».

I servi non sono inutili: hanno infatti lavorato! Ma non devono pretendere di essere altro che «poveri servi». La traduzione migliore è dunque: «siamo poveri servi» oppure «siamo semplicemente servi». L’espressione evangelica vuole dire che il «servire» non è qualcosa che si aggiunge alla condizione umana, come un possibile merito o come una realtà su cui si erge una costruzione superflua, ma è costitutivo per la propria vita. Una persona che non fosse in atteggiamento di «servizio» avrebbe fallito la sua prima identità, avrebbe perso la sua vita e se stesso. Colui che invece vive la sua esistenza come un servo, non fa altro che rispondere a quel disegno di servitore iscritto nella sua stessa vita.

PER LA NOSTRA VITA

1. Il Vangelo dice una cosa semplice,

che disorienta e inquieta la nostra suscettibilità.

La schiettezza del Vangelo non ha opportunismi o vie oblique.

Senza rivendicazioni, aspettative e pretese stiamo davanti a Dio.

Come il servo col suo padrone.

Pienamente consapevoli del nostro compito.

Il servo non è inutile per il suo padrone.

Sta nella giusta misura dei compiti affidatigli.

In lui è riposta una tacita fiducia,

come per colui che sa adempiere il servizio chiesto;

ma ha anche il confine del suo agire.

“Tutto quanto dobbiamo fare”.

Nulla di più, o di meno.

In ciò che mi è affidato rimango fedele.

La vita, i volti, le relazioni, la responsabilità.

Il senso della gratitudine e della misura.

Della sobrietà.

Semplicemente servi di un “amore” senza limite, donatoci,

e da vivere nella restituzione.

Il servo non diventa padrone, nel tempo.

Non coltiva pretese fuori luogo,

non siede al posto del padrone.

Dio non chiede eroi, personaggi che si sostituiscano a Lui…

Discepoli, invece, che alla sera della vita possano sussurrare:

“abbiamo fatto quanto dovevamo fare”.

2. Anche nei campi diminuiscono i contadini, in mare i marinai, nell’accampa-mento i soldati, nel foro l’onestà, nei processi la giustizia, nelle amicizie l’armonia, nel-le arti l’abilità, nei costumi il rigore morale.

3. Se Dio decide che io abbia tanto da fare, bene, allora lo farò, dopo essere passa-ta per tutte le esperienze per cui possono passare anche gli altri. E il valore della mia persona risulterà appunto da come saprò comportarmi nella nuova situazione. E se non potrò sopravvivere, allora si vedrà chi sono da come morirò. Non si tratta più di tenersi fuori da una determinata situazione, costi quel che costi, ma di come ci si com-porta e si continua a vivere in qualunque situazione. Le cose che devo ragionevolmente fare, le farò. […]

Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani – ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori deva-stati di altri uomini. […]

E quasi ad ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi.

4. Bisogna combatterle come pulci, le tante piccole preoccupazioni per il futuro che divorano le nostre migliori forze creative. Ci organizziamo l’indomani nei nostri pensieri, ma poi va tutto in modo diverso, molto diverso. A ciascun giorno basta la sua pena. Si devono fare le cose che vanno fatte e per il resto non ci si deve lasciar conta-giare dalle innumerevoli preoccupazioni meschine, che sono altrettante mozioni di sfi-ducia nei confronti di Dio. […]

In fondo, il nostro unico dovere morale è quello di dissodare in noi stessi vaste aree di tranquillità, fintanto che si sia in grado d’irraggiarla anche sugli altri. […]

Essere fedeli nel più largo del termine, fedeli a se stessi, a Dio, ai propri momenti migliori. E dovunque si è, esserci “al cento per cento”. Il mio “fare” consisterà nell’ “essere”!

5. Ho spezzato il mio corpo come se fosse pane e l’ho distribuito agli uomini. Per-ché no? Erano così affamati, e da tanto tempo. […]

Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite.

6. Se l’uomo è servo, ciò significa da un lato che Dio è il Signore […] che va rico-nosciuto e creduto come tale, che non può essere compreso e spiegato, e significato; dall’altro lato che l’uomo non ha alcuna propria volontà, non ha più una propria vita, così come tutto quel che egli ha appartiene a Dio: i suoi beni, la sua volontà, la sua gloria e il suo onore. Perciò egli deve a Dio tutta la sua vita, la sua fatica, il suo lavoro, la sua rinuncia in tutte le cose, e qualunque cosa faccia, la può fare soltanto per il Signore. […]

Con la nostra buona condotta vogliamo acquisire un diritto su Dio, vogliamo dire l’ultima parola anziché aspettare che Dio prenda la parola. Vogliamo mercanteggiare con lui la nostra beatitudine e anticipare la sua sentenza. Vogliamo penetrare nei suoi reconditi consigli, pur sapendo che “un servo non deve conoscere i segreti del suo pa-drone”. Nella lotta non ci affidiamo in partenza alla grazia e alla mancanza di grazia, ma ci atteggiamo a combattenti, cosa che invece non possiamo mai essere.

7. Le ricchezze del Vangelo non sono quotate sul mercato: sono fuori corso perché nessuno le domanda. Nel modo come sono conosciute nessuno ne vorrebbe, neanche regalare. […] Quali che siano in verità le ricchezze del Vangelo, esse non mancano: quali che siano, non si sa che esistono; lo sconosciuto, l’ignorato è necessariamente in-desiderato. Il mondo si presenta a noi come sufficiente. Esso basta agli uomini che lo costituiscono. Non c’è posto per quello che esso non è.

E così, non è questione di un Vangelo troppo distante o annunciato in una lingua straniera o tradito da cattivi testimoni. È questione di una sordità intellettuale a quel

che noi vogliamo dire; non soltanto al soprannaturale, ma a tutto ciò che nell’uomo non si appaga solo nel mondo.

8. Solo dinanzi a Dio restiamo nudi. Grande è la sfida che affrontiamo in ogni istante, sublime è l’occasione, ogni occasione. Siamo qui, con Dio vicino a noi, e un raggio della Sua potenza si irradia su di noi.

L’uomo probo si sente umiliato dalla consapevolezza che le proprie qualità più alte sono solo parzialmente preziose; il terreno su cui poggia la fermezza è melmoso. Oltre la sua volontà di aggrapparsi alla vita, qual è il suo interesse più duraturo?

Il disagio precede l’impegno religioso, è anzi la pietra di paragone dell’esistenza reli-giosa. […]

Ho paura di coloro che non provano mai alcun disagio di fronte alla propria me-schinità, ai propri pregiudizi, alla propria invidia, alla propria presunzione, di coloro che non provano mai alcun disagio dinanzi alla profanazione della vita. Un mondo colmo di grandiosità è stato tramutato in un baccanale. […]

Rabbrividisco al pensiero di una società dominata da uomini assolutamente certi della propria saggezza, uomini per i quali nel mondo ogni cosa è limpida come il cri-stallo, uomini la cui mente non conosce mistero né incertezza.

Quello di cui il mondo ha bisogno è il senso di disagio. L’uomo moderno ha potere e ricchezza per vincere la povertà e la malattia, ma non ha saggezza per vincere il dub-bio. Siamo colpevoli di fraintendere il significato dell’esistenza; siamo colpevoli di di-storcere i nostri fini e di ingannare le nostre anime. Siamo molto più di quanto con-tengano le nostre asserzioni, più complicati, più profondi di quanto contengano le no-stre teorie. Il nostro pensiero è arretrato nel tempo.

Qual è la verità dell’essere uomini? La mancanza di pretese, il riconoscimento dell’opacità, della miopia, dell’inadeguatezza. Ma la verità richiede anche di elevarsi, di lottare, perché il fine è al tempo stesso in noi e al di là di noi. La verità dell’essere uomini è la gratitudine; il suo segreto è l’amore.

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