III di Quaresima11.03.2012
DOMENICA DI ABRAMO
Coloro che hanno meno tempo posso leggere solo la sezione PER LA NOSTRA VITA che si trova in fondo, e poi riprendere con calma il resto del commento.
LETTURA
Lettura del libro dell’Esodo 32, 7-13b
In quei giorni. Il Signore disse a Mosè: «Va’, scendi, perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato! Si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: “Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto”». Il Signore disse inoltre a Mosè: «Ho osservato questo popolo: ecco, è un popolo dalla dura cervice. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione».
Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: «Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente? Perché dovranno dire gli Egiziani: “Con malizia li ha fatti uscire, per farli perire tra le montagne e farli sparire dalla terra”? Desisti dall’ardore della tua ira e abbandona il proposito di fare del male al tuo popolo. Ricòrdati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo”».
SALMO
Sal 105 (106)
® Salvaci, Signore, nostro Dio.
Abbiamo peccato con i nostri padri,
delitti e malvagità abbiamo commesso.
I nostri padri, in Egitto, non compresero le tue meraviglie,
non si ricordarono della grandezza del tuo amore. ®
Molte volte li aveva liberati,
eppure si ostinarono nei loro progetti.
Ma egli vide la loro angustia,
quando udì il loro grido.®
Si ricordò della sua alleanza con loro
e si mosse a compassione, per il suo grande amore.
Li affidò alla misericordia
di quelli che li avevano deportati.®
EPISTOLA
Prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicesi 2, 20 - 3, 8
Fratelli, siete voi la nostra gloria e la nostra gioia!
Per questo, non potendo più resistere, abbiamo deciso di restare soli ad Atene e abbiamo inviato Timòteo, nostro fratello e collaboratore di Dio nel vangelo di Cristo, per confermarvi ed esortarvi nella vostra fede, perché nessuno si lasci turbare in queste prove. Voi stessi, infatti, sapete che questa è la nostra sorte; infatti, quando eravamo tra voi, dicevamo già che avremmo subìto delle prove, come in realtà è accaduto e voi ben sapete. Per questo, non potendo più resistere, mandai a prendere notizie della vostra fede, temendo che il tentatore vi avesse messi alla prova e che la nostra fatica non fosse servita a nulla.
Ma, ora che Timòteo è tornato, ci ha portato buone notizie della vostra fede, della vostra carità e del ricordo sempre vivo che conservate di noi, desiderosi di vederci, come noi lo siamo di vedere voi. E perciò, fratelli, in mezzo a tutte le nostre necessità e tribolazioni, ci sentiamo consolati a vostro riguardo, a motivo della vostra fede. Ora, sì, ci sentiamo rivivere, se rimanete saldi nel Signore.
VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Giovanni 8, 31-59
In quel tempo. Il Signore Gesù disse a quei Giudei che gli avevano creduto: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Gli risposero: «Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: “Diventerete liberi”?». Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora, lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio vi resta per sempre. Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. So che siete discendenti di Abramo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi. Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro».
Gli risposero: «Il padre nostro è Abramo». Disse loro Gesù: «Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo. Ora invece voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità udita da Dio. Questo, Abramo non l’ha fatto. Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero allora: «Noi non siamo nati da prostituzione; abbiamo un solo padre: Dio!». Disse loro Gesù: «Se Dio fosse vostro padre, mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato. Per quale motivo non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alla mia parola. Voi avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli era omicida fin da principio e non stava saldo nella verità, perché in lui non c’è verità. Quando dice il falso, dice ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna. A me, invece, voi non credete, perché dico la verità. Chi di voi può dimostrare che ho peccato? Se dico la verità, perché non mi credete? Chi è da Dio ascolta le parole di Dio. Per questo voi non ascoltate: perché non siete da Dio».
Gli risposero i Giudei: «Non abbiamo forse ragione di dire che tu sei un Samaritano e un indemoniato?». Rispose Gesù: «Io non sono indemoniato: io onoro il Padre mio, ma voi non onorate me. Io non cerco la mia gloria; vi è chi la cerca, e giudica. In verità, in verità io vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno». Gli dissero allora i Giudei: «Ora sappiamo che sei indemoniato. Abramo è morto, come anche i profeti, e tu dici: “Se uno osserva la mia parola, non sperimenterà la morte in eterno”. Sei tu più grande del nostro padre Abramo, che è morto? Anche i profeti sono morti. Chi credi di essere?». Rispose Gesù: «Se io glorificassi me stesso, la mia gloria sarebbe nulla. Chi mi glorifica è il Padre mio, del quale voi dite: “È nostro Dio!”, e non lo conoscete. Io invece lo conosco. Se dicessi che non lo conosco, sarei come voi: un mentitore. Ma io lo conosco e osservo la sua parola. Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia». Allora i Giudei gli dissero: «Non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abramo?». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono». Allora raccolsero delle pietre per gettarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio.
COMMENTO
Non vi è alcuna ideologia razziale nel concetto di «elezione» presentato nella rivelazione
biblica, ma – come giustamente sottolinea anche la letteratura rabbinica – il concetto
di «popolo eletto» è in realtà il «popolo che risponde» alla chiamata di JHWH.
L’aveva già ricordato al popolo di Samaria, Amos, profeta al tempo di Geroboamo II
nell’VIII secolo, con un oracolo lapidario e adamantino:
Ascoltate questa parola, che JHWH ha detto riguardo a voi, figli d’Israele,
e riguardo a tutta la stirpe che ho fatto salire dall’Egitto:
«Soltanto voi ho conosciuto tra tutte le stirpi della terra;
perciò io vi chiederò conto di tutte le vostre colpe» (Am 3,1-2).
L’ammonimento del profeta era rivolto a un popolo e alle sue autorità, che avevano reso
JHWH niente di più che un “logo” dei propri progetti, a ricordare che ciascuno manifesta
la sua appartenenza al vero Dio attraverso la sua opzione fondamentale: o si pone
dalla parte del comandamento di JHWH, vivendo così a favore della giustizia e
dell’autentico culto nei riguardi di Dio, o si pone al di fuori di esso, sperimentando il
fallimento (cf Am 4,6-12). Nessun evento della storia di Israele con JHWH può diventare
un mito che esenta da tale opzione, nemmeno la confessione che sta alla base
dell’esserci stesso di Israele:
7«Ecco, come i figli di Kuš siete voi per me, o figli d’Israele! – oracolo di JHWH –
Israele ho fatto salire dalla terra d’Egitto,
come i Filistei da Kaftor e gli Aramei da Kir» (Am 9,7-8).
La scelta del vero Dio dichiara «idolatria» tutti i surrogati che lo dovessero sostituire,
perché solo il Dio autentico è dalla parte dell’umanizzazione della storia umana (cf Dn
7,1-14) e sostenitore della giustizia. Tutti i falsi dèi sono invece coloro che narcotizzano
l’aspirazione alla vera umanizzazione e quindi inevitabilmente sono votati a scomparire
alla pari di tutti i mortali (cf Sal 82). La confessione della vera fede – ovvero l’adesione
al Dio per il quale si spende la totalità della vita – non si rivela a parole o nell’arguzia
della retorica propagandistica del potere, ma nelle decisioni che traspaiono da una
quotidianità spesa in un amore che guarda al bene di tutti e del bene di tutti vive.
Vangelo
Per comprendere il brano giovanneo odierno, bisogna mettersi nella condizione dei
“Giudei” (ovvero delle autorità di Gerusalemme), i quali, pur avendo creduto a Gesù,
ridiscutono alla luce della nuova appartenenza al Crocifisso Risorto il proprio “vanto”
giudaico. La dialettica sta in una presa di posizione tutta interna al Giudaismo: la vera
dignità di figli, la vera libertà, la vera vita non derivano da alcun “vanto” umano né di
stirpe, né di merito personale, ma sono date dal Padre mediante il dono dello Spirito,
consegnato da Gesù sulla croce. Essere Giudei o Greci non produce una rilevante differenza,
ma un primato “storico-salvifico”, perché Gesù è ebreo e tramite lui tutti i popoli
possono partecipare alla promessa di Abramo. L’appartenenza a Gesù e alla nuova
condizione in cui si è posti da lui si misura sul modo di agire e non su altri elementi di
vanto personale o collettivo.
Nel dialogo serrato tra i Giudei che avevano già creduto a Gesù, Giovanni rilegge i
grandi temi storico-salvifici: l’elezione di Abramo e della sua stirpe, la liberazione esodica,
la filiazione divina (cf Es 4,22). Dal punto prospettico di Gesù Messia, tali condizioni
sono la premessa indispensabile per ricevere da Dio il dono dello Spirito che suscita
in noi la vera libertà.
Il passo si divide in due parti principali. La prima (vv. 31-47) prende avvio da una
parola di Gesù che invita a custodire il suo messaggio come garanzia di autentica libertà
e procede con uno schema dialettico di opposizione tra Gesù e i suoi interlocutori.
Questi ricordano il fatto di essere seme di Abramo, ma Gesù nega che la dignità di
appartenere alla stirpe di Abramo sia la garanzia della libertà (vv. 31-36). Gesù, criticando
il loro “vanto” di essere seme di Abramo, li accusa di non compiere le opere che il
padre aveva compiuto e insinua che i suoi interlocutori abbiano un’altra paternità (vv.
37-40). I giudei comprendono che Gesù si riferisce all’idolatria e si proclamano fedeli
all’unico Dio. Ma Gesù li accusa di essere, al contrario, figli dell’Avversario di Dio, il
diavolo (vv. 41-47).
La seconda parte (vv. 48-58), invece, è strutturata dalla triplice invettiva dei giudei
scandita dalla formula, che è quasi un ritornello: Ἀπεκρίθησαν οἱ Ἰουδαῖοι καὶ εἶπαν
αὐτῷ «Presero la parola quei Giudei e gli dissero» (v. 48); εἶπον [οὖν] αὐτῷ οἱ Ἰουδαῖοι
«Gli dissero dunque quei Giudei» (v. 52); εἶπον οὖν οἱ Ἰουδαῖοι πρὸς αὐτόν «Gli dissero
dunque quei Giudei» (v. 57). Il dialogo si chiude con un’annotazione importante che
sottolinea il tentativo di lapidare Gesù (v. 59).
Ecco in sintesi lo sviluppo della pagina:
A. Invito alla libertà e richiesta di Gesù (Gv 8,31-47)
a) vv. 31-36: Anche la stirpe di Abramo è schiava
b) vv. 37-40: I figli e la rivelazione della paternità
c) vv. 41-47: Idolatria e vero Dio
B. Invettive dei giudei e risposte di Gesù (Gv 8,48-58)
a) vv. 48-51: Gesù dona la vita piena
b) vv. 52-56: Abramo e il giorno del Messia
c) vv. 57-58: Il Messia precede Abramo
C. Notazione conclusiva: tentativo di lapidare Gesù (Gv 8,59)
vv. 31-32: Aderire al progetto di Gesù non è soltanto un’opzione esteriore, ma deve significare
l’accettazione di tutto il suo messaggio e non si tratta di accoglierlo con una
adesione intellettuale, ma con il comportamento e l’azione. Chi non agisce rompendo
con l’ingiustizia e optando per il bene di ogni uomo, non ha ancora conosciuto la verità
del messaggio di Gesù che rende veramente liberi.
Gesù vuole dietro a sé dei discepoli e non semplicemente degli ideologi. Chi decide
di dedicare la sua vita al messaggio di Gesù, riceve attraverso di Lui il dono dello Spirito,
che è l’amore del Padre: lo Spirito scopre la verità su Dio e sull’uomo, l’unica capace
di rendere veramente liberi. Facendo scoprire la paternità di Dio, rivela all’uomo
di essere figlio, non più sottomesso alla maniera degli schiavi. Anche il discepolo riceve
dunque una nuova dignità, quella di poter partecipare veramente alla libertà del Padre
e alla sua signoria sul mondo e sulla vita.
La libertà del Padre consiste nel dono di sé: attraverso lo Spirito, anche l’uomo diventa
capace di donare se stesso agli altri, liberandosi dalla paura di perdere la vita (cf
Gv 12,25), che è la vera causa dell’immobilismo schiavizzante.
Nel mondo giudaico contemporaneo a Gesù, frequente era l’affermazione che la libertà
vera giungeva all’uomo attraverso lo studio della Tôrâ, la quale è la verità di Dio.
Gesù non smentisce questa affermazione, ma mostra quale sia la condizione di possibilità
perché tale affermazione sia veramente posta in essere: la ricreazione operata dallo
Spirito che dona a ciascuno la dignità di figlio.
v. 33: Si legge – dietro questo dialogo – lo spinoso problema del rapporto tra la parte
di comunità cristiana proveniente dal Giudaismo e la parte proveniente dall’Ellenismo.
Se per noi il problema è superato, non è affatto superata la tentazione di accampare
davanti a Dio un qualche vanto o privilegio che voglia stare al di sopra del suo dono.
Nel dialogo ordito da Giovanni, emerge l’orgoglio di appartenere al popolo eletto. Ma
la discendenza fisica da Abramo non è sufficiente a garantire la vera libertà, nemmeno
se riferita alla dignità regale promessa ai figli di Sara (cf Gen 17,16).
v. 34: Il peccato fondamentale è di non rispondere con il dono di sé, ma accettare
l’ingiustizia, che non solo blocca la capacità di agire, ma anche porta alla morte (cf Gv
8,21). Questa però non è il disegno del Padre: Egli non vuole essere tiranno e non vuole
rendere l’uomo suo schiavo. Il dono dello Spirito permette all’uomo di cogliere la
paternità di Dio. Una volta accolto in sé lo Spirito, l’uomo scopre di essere figlio nel
Figlio Gesù e attraverso la fede di Gesù arriva a capire quale sia la profonda esigenza
della Tôrâ.
v. 35: L’allusione del presente versetto è alla duplice identità dei due figli di Abramo,
Ismaele – il figlio della schiava egiziana Agar, colui che non può stare per sempre nella
casa di Abramo – e Isacco – il figlio della libera «principessa» Sara, colui che invece ha
diritto all’eredità. Il versetto è dunque da interpretare su un duplice piano.
Il primo piano si riferisce ad Abramo e ai suoi due figli, Isacco e Ismaele. Il secondo
piano si riferisce a Dio, in analogia con i due figli di Abramo: Gesù è come Isacco, colui
che procede da Dio ed è il figlio della promessa; coloro che sono schiavi, perché
non sono nati da Dio e appartengono al mondo, sono come Ismaele. Il punto di contatto
tra i due piani di significato sta nell’identificazione di Isacco con Gesù: Isacco nasce
come figlio della promessa di Dio, il quale attraverso di lui avrebbe dato ad Abramo
una lunga discendenza (cf Gen 12,3; 17,4. 9; 22,17); Gesù è l’incarnazione della parola
creatrice di Dio che compie la promessa di Dio, il quale attraverso di lui raccoglie in
unità il genere umano disperso, donando a tutti la dignità di figli.
Si può dunque essere figlio di Abramo e non partecipare all’eredità della promessa,
come Ismaele. In altre parole, l’opposizione tra libero e schiavo potrebbe essere letta
come l’opposizione tra Spirito e carne9 (cf Gv 3,6; 6,63). Essere figlio ed erede della
promessa è la condizione della piena dignità cui si è chiamati nel figlio Gesù.
v. 36: Essendo Gesù il figlio per eccellenza,10 il figlio libero e l’erede, egli può dare lo
Spirito e la libertà. L’invito di Gesù è a lasciarsi prendere da questa esperienza vitale di
liberazione e vivere con Dio una relazione nuova di figli. Dio è il Padre che comunica
la sua vita definitiva mediante il Figlio unigenito.
vv. 37-40: L’accusa di Gesù nei riguardi di questi oppositori è di non avere per padre
né Abramo né il Dio di Abramo: la loro idea di Dio ha eliminato dall’orizzonte della
loro vita il Dio vivo e vero.
Il barricarsi ancora una volta sotto la paternità di Abramo è smascherato da Gesù in
base al loro comportamento: se non si comportano come il padre Abramo, non possono
essere considerati figli di Abramo. Il pensiero di Gesù riprende alcune invettive presenti
anche nella letteratura rabbinica: se le «opere di Abramo» erano la benevolenza, la
modestia e l’umiltà, l’opera dei suoi antenati era invece l’idolatria.11 Con questo abbiamo
introdotto anche il terzo passo della sezione.
vv. 41-47: Gesù accusa i suoi oppositori di non avere come padre il Dio di Abramo e
di essere quindi degli idolatri. Rispondendo di non essere nati da prostituzione e di
avere un solo padre, Dio, mostrano di aver ben compreso. Ma l’accusa di Gesù
procede ancora, creando un’opposizione tra la paternità di Dio e la paternità
alternativa del demonio. Dal momento che essi vogliono uccidere Gesù, loro padre
deve essere colui che fu omicida sin dall’inizio e padre della menzogna (v. 44).
La conclusione di Gesù è la radicalizzazione di tale opposizione. Se la verità da lui
proposta porta alla pienezza di vita e alla libertà, la menzogna dell’idolatria al contrario
porta alla soppressione della vita e alla schiavitù.
Le parole di Dio (v. 47), ovvero i suoi comandamenti, hanno un contenuto che
equivale al messaggio di Gesù (vv. 31, 37 e 43). Sono la verità dell’esperienza suscitata
dallo Spirito e riformulano lo stesso dinamismo, quello di un amore che porta al dono
di sé sino all’estremo (cf Gv 13,1).
vv. 48-51: Finiti gli argomenti, gli interlocutori di Gesù passano all’insulto: «Ecco, abbiamo
ben ragione a dire: “Sei un Samaritano, hai un demonio!”». La considerazione
dei Samaritani da parte dei Giudei, a partire da 2 Re 17, è ben nota: sono un nonpopolo
(cf Sir 50,25-26), gente bastarda e idolatra.
Il primo insulto non viene raccolto da Gesù: l’evangelista ha davanti agli occhi la
stupefacente accoglienza del vangelo dopo la Pasqua di Gesù. Invece, di fronte
all’accusa di essere indemoniato, ricorda l’«onore» dovuto al Padre, il vero Dio, mostrandone
il vero volto, che non è non vuole essere quello di tiranno, ma di un Dioamore.
La conclusione del paragrafo (v. 51) ricorda quale sia l’esito della rivelazione del
Dio-amore: il messaggio di Gesù, il suo vangelo è un messaggio di promozione piena
per l’uomo al punto di non vedere mai la morte. Ha di fronte a sé dei sostenitori di un
Dio di morte e di ingiustizia. Gesù propone loro un cammino preciso per sfuggire alla
morte: dedicarsi al bene di ogni uomo e di tutto l’uomo, unica via per vivere la libertà
piena dei figli di Dio. La vita che Gesù comunica non conosce fine e va oltra alla morte.
vv. 52-56: Gli interlocutori di Gesù ancora una volta fingono di non capire: tutti gli
uomini sono morti, persino Abramo e i profeti, e Gesù osa affermare che il suo messaggio
libera dalla morte. Volutamente fraintendono applicando quanto Gesù dice alla
morte fisica, che giudicano come esperienza ineluttabile per tutti.
Gli interlocutori gettano discredito sull’identità di Gesù e sulla sua «pretesa». La risposta
di Gesù (v. 54) non è un’autoesaltazione e non ha bisogno di cercare da sé la
sua gloria. Il Padre di Gesù non è altri che il Dio da loro venerato. Quindi Gesù vuole
sottolineare la contraddizione in cui essi vivono: da una parte, essi praticano una cerca
religione in pubblico, ma dall’altra la loro condotta li accusa per quello che essi in realtà
operano, ben lungi dalla legge di Dio. Quanti vivono per il proprio interesse non conoscono
il vero Dio e nemmeno potrebbero. Dal momento che impongono il loro modo
di agire in nome di Dio, arrivano a deformare pienamente il volto di Dio.
Gesù lo conosce: è il Padre, il Dio che vuole dare piena consistenza all’umanità
dell’uomo e alla sua vita. Lo stile di amore di Gesù rende impossibile rispondere a tono
ai suoi accusatori. Egli non può che rimanere fedele al messaggio del Dio liberatore,
quello che lasciandosi coinvolgere in un gesto di amore sino all’estremo ha voluto mettersi
dalla parte del povero e dell’oppresso. Gesù non può che continuare questo messaggio
e pure i suoi discepoli dovranno camminare dietro a lui così.
Gesù conclude non riconoscendosi figlio di Abramo: il suo modo di essere “figlio di
Abramo” è al di sopra di ogni particolarismo e di ogni privilegio di razza. Era una tradizione
diffusa nel Giudaismo del tempo di Gesù pensare che, quando Dio fece alleanza
con Abramo (Gn 15, in particolare i vv. 13-16), gli avesse rivelato il futuro, compresi
i giorni del Messia. Gesù, a dire il vero, parla del suo giorno, il giorno della creazione
dell’uomo, quello che si sta vivendo. Gesù è superiore ad Abramo essendo il compimento
di quella promessa che fu fatta al padre Abramo. Abramo attendeva con gioia il
giorno in cui la benedizione promessa sarebbe passata a tutti coloro che vivono nella
stessa fede del padre.
vv. 57-58: Ancora un fraintendimento da parte degli interlocutori di Gesù, i quali interpretano
la parola di Gesù in modo sarcastico. Gesù non ha ancora cinquant’anni, è
ancora in grado di lavorare e produrre e pensa di aver visto Abramo?
La conclusione del confronto è lasciata da Giovanni ovviamente a Gesù stesso, che
chiude il dialogo con una frase solenne e a grande effetto, di cui però non bisogna esagerare
la portata. È troppo, infatti, pensare all’uso dell’assoluto ἐγὼ εἰμί «io sono, io ci
sono» come allusione del Tetragramma sacro o della sua spiegazione (Es 3,13-15):
ʾehjeh ʾăšer ʾehjeh «Io sono Colui che ci sarà». Infatti, in relazione con la frase precedente
riferita alla nascita di Abramo e al suo esistere storico (πρὶν Ἀβραὰμ γενέσθαι «prima
che Abramo nascesse/fosse nato»), il senso dell’affermazione di Gesù è piuttosto da
leggere nel quadro di una tematica molto sviluppata nel Giudaismo del I secolo.
La tôrâ, Israele e il Messia erano realtà che i maestri giudaici consideravano create
prima della creazione del mondo, “preesistenti” nel nostro linguaggio teologico. Anche
Gesù-Messia c’era prima che Abramo apparisse lungo la storia: da sempre, il Messia –
come la tôrâ e Israele - sta davanti agli occhi di Dio!
v. 59: L’affermazione di Gesù è insostenibile per un Giudeo rigidamente monoteista.12
I figli di Israele, nel deserto, avevano cercato di lapidare Mosè perché non aveva loro
dato acqua da bere; ora gli interlocutori di Gesù cercano di lapidarlo, lui che ha offerto
l’acqua viva (Gv 7,37-39). L’esperienza di un Dio-amore, Padre della vita, dà all’uomo
la libertà di figlio, che lo rende capace di realizzare in se stesso il progetto del Creatore.
PER LA NOSTRA VITA:
1. All’amore gratuito e universalmente offerto dal Padre abbiamo di norma preferito
la potenza del privilegio garantito dall’elezione esclusiva: l’unicità della fede cristiana,
individuata attraverso la configurazione storica della chiesa, è stata scambiata per
esclusività. […]
Siamo così accecati e inclini alla perversione della fede che tutto possiamo sostituire
all’amore del Padre e spesso sembra che tutto possiamo seguire fuorché il suo invito.
Questo amore e anche quello maturato da chi si fida di lui risulteranno sempre sovversivi
in rapporto all’intricato sistema di logiche sostitutive che mettiamo in piedi per difenderci
da quella che sarebbe, in verità, la nostra salvezza. […]
Così è frequente che l’adesione al cristianesimo come ideologia, come sistema di
principi e di valori astratti, senza capire che la fede evangelica non si fonda sul pensiero,
sulla padronanza concettuale, sulla ortodossia. R. MANCINI, Il senso della fede: una lettura del cristianesimo (Giornale di Teologia 346), Editrice Queriniana, Brescia 2010, pp. 179-180.
2. La provvisorietà della legge è in vista del primato della Parola di Dio, a cui la
pedagogia della legge deve condurre. Il primato della parola di Dio nella vita della
chiesa conduce alla rivelazione dello Spirito, intesa come pienezza dell’amore. Il precetto
dell’agire neotestamentario e quello di amarci come Cristo ci ha amato; questo
sarà possibile perché lo Spirito Santo dimora presso di noi, ed è in noi. Nell’uomo che
si apre alla parola per la fede, il Padre, il Figlio e lo Spirito inabitano in lui.
Ogni legge, di qualsiasi tipo essa sia, deve condurre all’amore. Per la fedeltà a questa
unicità, bisogna che la legge tuteli l’iniziativa gratuita del Padre che chiama gli uomini
ad essere suoi figli. Nello stesso tempo la legge deve custodire l’uomo che è figlio
di Dio; difenderlo da ogni prepotenza e da ogni strumentalizzazione. […]
La legge deve educare a progredire nel cammino di fede, fino a rendere il cristiano
legge a se stesso per lo Spirito Santo che inabita in lui. La pienezza della libertà dei figli
di Dio è senz’altro un dono escatologico. Ma è un fatto che l’escatologia è già in atto
per chi è guidato dalla fede. Perciò anche la libertà dei figli di Dio è da desiderarsi
come bene messianico, ma da conseguire sin dal tempo presente nella tensione che è
propria della fede. B. CALATI, Esperienza di Dio, libertà spirituale. Introduzione alla Regola di san Benedetto (Spirito e Vita 20), Servitium Editrice, Gorle BG 2001, pp. 88-89.
3. Veniamo da una tradizione ecclesiale che ha fortemente messo in risalto il principio
mistico della perfezione, ma lo svolgimento prolungato della storia deve valorizzare
positivamente il tempo. La verità realizzata in Gesù si manifesta gradualmente
nella chiesa, nei discepoli e nel mondo attraverso una storia sensata: nasce così il principio
dell’imperfezione o della perfezione progressiva. Il tempo è spazio per acconsentire
una sorta di effettiva appropriazione del Vangelo da parte nostra, in una libertà che
implica ascolto adorante della Parola del Signore, per stabilire giuste relazioni umane.
La povertà di risorse umane, le inevitabili fragilità non impediscono l’avvento progressivo
del Vangelo perché il male è più debole della Pasqua. La Parola e la relazione
con Gesù non procedono senza fatiche e senza prove. Esiste in ogni esperienza comunionale
un aspetto anche drammatico, ma la Parola guarisce e modifica l’esistenza di
chi l’accoglie. G. LAFONT, Ritorno alla profezia, in R. FISICHELLA - G. POZZO - G. LAFONT, La teologia tra rivelazione e storia. Introduzione alla teologia sistematica, Nuova edizione (Corso di Teologia Sistematica), EDB, Bologna 1999, pp. 364ss.
4. Tutto il mondo deve diventare l’immenso campo di ricerca dei segmenti profetici
che la misericordia di Dio ha dovunque acceso; fin che siamo in hoc statu itineris, ci
troviamo inevitabilmente ancora in una dimensione che solo la profezia può sollevare e
portare alla religione del compimento. Poiché infatti il compimento che il cristiano sa
definitivo nella Croce-Risurrezione non è ancora tutto compiuto in noi: in noi è soltanto
atteso. Se si toglie alla fede la profezia, si snatura la fede in un complesso di dottrine e
di verità che vengono credute senza partecipazione, al più con cieco fanatismo oppure,
al contrario, con una serie di concetti tranquillizzanti. La perfezione di ciò che si crede
non deve nascondere la imperfezione del come si crede. Con la profezia la fede diventa
continua penetrazione nella vita al fine di rinnovare i nostri contenuti esistenziali, le
nostre prospettive, le nostre scelte e la nostra intelligenza.
La più grande tentazione di un uomo profondamente convinto di un valore è quella
di tradurre la sua idea in potere.
Il valore profetico risiede soprattutto nello spirito della verità che viene detta. Una
cosa vera, saputa con uno spirito malvagio, esclusivistico, con volontà di contrapposizione,
diventa immediatamente una falsità terribile, la peggiore di tutte le falsità. Del
resto ogni cosa detta deve in qualche modo avere almeno un minimo di contenuto di
verità. In caso contrario non sarebbe una cosa detta, ma un fonema inconsulto. La
menzogna deve essere smascherata non tanto nella formale “adæquatio intellectus et rei”,
ma nello spirito che dà il significato complessivo. Avvolgere la verità delle cose dette
nello spirito di falsità è un delitto terribile. Meglio sarebbe il silenzio fino all’indifferenza
e all’isolamento piuttosto che il sequestro delle verità all’interno di uno spirito
egoistico e rissoso, contrario alla verità stessa. M. MALAGUTI, Liberi per la verità, Cappelli, Bologna 1980, pp. 149. 151. 154-155.
5. Gesù, con le sue parole e le sue azioni, aveva dato la sensazione di scuotere le
basi stesse della religione mosaica e di sostituire il proprio personaggio e il proprio
messaggio messianici atipici al personaggio e alla tradizione emblematici della religione
stabilita. Per i responsabili era tempo di agire, non soltanto per motivi politici (il timore
di disordini non controllati), ma per ragioni religiose. […]
I racconti evangelici mirano a mostrare come, dietro il nulla delle prove allegate
contro di lui dai testimoni, si annunciasse una questione intollerabile sulla comprensione
pratica della religione e dei suoi obiettivi. Lasciar parlare il profeta equivaleva a
dover far fronte, presto o tardi, ad una incapacità di rispondergli: egli mobilitava sotto
un orizzonte indefinibile le potenze sovversive della profezia vetero-testamentaria contro
la religione allora dominante. […]
La sua eliminazione è frutto di un calcolo, non necessariamente perverso: la tradizione
sulle intenzioni di Dio ne sa di più che le intuizioni effervescenti di un profeta itinerante,
del quale nessuno sa da dove tragga la sua autorità personale. CH. DUQUOC, Cristianesimo, memoria per il futuro, Traduzione dal francese di P. CRESPI (Giornale di Teologia 290), Editrice Queriniana, Brescia 2002, pp. 29-30.
6. L’invocazione della paternità automatica di Abramo è denunciata nella predicazione
di Giovanni Battista e di Gesù nei vangeli sinottici. Giovanni Battista dichiara
che dalle pietre “Dio è capace di suscitare figli di Abramo” (Mt 3,9). Il ricco epulone
invoca “suo padre Abramo” (Lc 16,24). Gesù avverte che “molti verranno dall’oriente
e dall’occidente e sederanno a mensa con Abramo, mentre i figli del regno saranno
cacciati fuori nelle tenebre” (Mt 8,11-12).
Il tema della libertà e della schiavitù è messo in rapporto con Abramo in Gal 3-4 che
contrappone il figlio della schiava al figlio della donna libera (4,21-31). La vera libertà
secondo Giovanni è il privilegio del discepolo di Gesù, colui che “osserva la sua parola”.
A. MARCHADOUR, Vangelo di Giovanni; Commento pastorale, Traduzione di E. DE ROSA, Edizioni San Paolo,
Cinisello Balsamo MI 1994,
7. La Parola ha una profondità infinita, mentre noi tendiamo a ridurla, a catturarla,
secondo la nostra misura. È importante invece, che lasciamo a Dio-che-parla di esserne
l’interprete vero, autentico: così da superare ogni rischio di confondere la Parola
con il nostro stato d’animo, il nostro sentimento, il nostro modo di leggere la realtà.
Il senso della Parola è soltanto quello che Dio le dà. Allora, nei momenti del cammino
di fede, nei quali abbiamo l’impressione che non ci sia alcuna ragione che tenga,
c’è ancora, invece, la verità della Parola: «Stai di sentinella… Se ti pare di non vedere
nulla, guarda ancora…». È come se il Signore ci staccasse da tante cose, ma per dirci:
«Dov’è la ragione per cui credi? Dov’è l’appoggio che dai alla tua vita di credente?».
«Signore, basti Tu; basta la tua Parola».
Signore, l’unica cosa che posso fare è udire una Parola che mi sembra quasi soltanto
un suono… Quando tutte le possibilità di appigliarsi sembrano venir meno, c’è una cosa
ancora: la tua Parola. Ed io resto lì.
Signore non voglio catturare questa Parola. Non voglio darle il senso che le darei io.
Voglio che sia Tu a darle il senso. Signore, dammi la pazienza di stare nel senso della
tua Parola, di appoggiarmi ad essa, di dire: Mi fido, vado avanti. […]
Voglio che tu sia l’unica realtà, l’unico motivo del mio cammino verso di Te. G. MOIOLI, Temi cristiani maggiori, a cura di D. CASTENETTO (Contemplatio 5), Glossa, Milano 1992, pp. 86-87.
8. Il vero problema non è di “cercare Dio”, perché vi sono maniere di cercarlo che
sono provocazioni; e ogni ricerca in cui l’uomo si attribuisce il primo piano non è già
una provocazione? Il vero problema sta nel mettersi in disposizioni tali che si possa
sperare di trovarLo, senza dover, per così dire, neanche cercarLo. Bisogna giungere a
comprendere che queste disposizioni stesse non possono venire che da Lui. Infatti è
Lui che ci cerca e che, alla Sua ora, si manifesterà a noi.
A volte noi crediamo di cercare Dio. Invece è sempre Dio che ci cerca, e spesso Egli
si fa trovare da chi non Lo cercava.
Nessuna perspicacia critica prevarrà sulla chiaroveggenza di un cuore puro. Due
volte felici i cuori puri: perché vedranno Dio, e Dio si farà vedere attraverso di loro.
H. DE LUBAC, Sulle vie di Dio, Nuova edizione aggiornata, Introduzione di E. GUERRIERO (Già e Non
Ancora 460. Opera Omnia di Henri De Lubac), Jaca Book, Milano 1969, 20082, p. 176.
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