venerdì 16 marzo 2012

QUARTA DI QUARESIMA 18.03.2012


DOMENICA DEL CIECO

I commenti ai Vangeli di quaresima sono lunghi, chi avesse meno tempo vada subito alla sezione: PER LA NOSTRA QUARESIMA, sono le ultime pagine.

Il battesimo è chiamato «illuminazione» già nel periodo neotestamentario (cf Eb 6,4; 10,32). Lo stesso simbolismo è confermato nel II secolo da Giustino (Apol. I, 61,13: PG 6,421). Forse anche la stessa «spalmatura» di Gv 9,6 e 11, espressa con il verbo ἐπιχρίω allude all’«unzione crismale» del battesimo (cf 1 Gv 2,20 e 2 Cor 1,21-22 con l’unzione dello Spirito). Anche l’associazione simbolica tra il battesimo e la morte di Cristo (si veda Rm 6,3), potrebbe essere sentita in Gv 9, quando al v. 3 si dice che la guarigione del cieco sta per essere una rivelazione dell’opera di Dio e al v. 4 si insiste sul fatto che questa opera deve essere eseguita finché è giorno, perché la notte poi impedirà di agire. Ciò sarebbe da intendere non tanto in riferimento allo šabbāt, quanto al giorno della morte in croce che renderà impossibile agire.

Il simbolo della luce è stato connesso sin dalla prima generazione cristiana anche alla lotta tra i figli della luce e i figli delle tenebre. Il Rotolo della Guerra di Qumrān (1QM), che descrive tale battaglia come un atto militare da compiersi contro i nemici di Israele, fu riletto da Paolo, Giovanni e dai loro discepoli nella sua valenza spirituale. Dal più antico testo del Nuovo Testamento, la Prima Lettera ai Tessalonicesi, alla lettera agli Efesini, scritta al termine della corsa missionaria dell’Apostolo, da Paolo o da un suo discepolo, l’invito a vincere con l’armatura dello Spirito è costante: «Prendete dunque l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno cattivo e restare saldi dopo aver superato tutte le prove. State saldi, dunque: attorno ai fianchi, la verità; in-dosso, la corazza della giustizia; i piedi, calzati e pronti a propagare il vangelo della pace. Afferrate sempre lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutte le frecce infuocate del Maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio» (Ef 6,13-17).

L’esito dell’illuminazione è la contemplazione di Dio: non con l’intimità singolare del Figlio, rivolto ab æterno nel grembo del Padre (cf Gv 1,1 e 18); nemmeno con la familiarità unica che Mosè intratteneva con JHWH, il quale «parlava con Mosè faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico» (Es 33,11; cf Lettura); ma con la capacità di offrire la nostra vita quotidiana come sacrificio spirituale a Dio gradito per «progredire ancora di più e fare tutto il possibile per vivere in pace, occuparvi delle vostre cose e lavorare con le vostre mani» (1 Ts 4,10-11; cf Epistola).

La stupenda pagina del Vangelo (Gv 9) – perfetta nella sua costruzione narrativa – svetta su tutto e induce a sostare in modo particolare sul punto di arrivo dell’itinerario di colui che, nato cieco, è guarito dalla propria cecità incontrando Gesù e arriva a fare la sua prostrazione (προσκύνησις) dinanzi a quell’Uomo, il «Figlio dell’Uomo», il bar ʾĕnāš non solo di Dn 7, ma soprattutto del Libro di Enoc e dei Giubilei: in questa tradizione enochica il bar ʾĕnāš è il punto di arrivo di tutta la creazione secondo il progetto divino e della rivelazione stessa dell’eterno Dio.

LETTURA

Lettura del libro dell’Esodo 33, 7-11a

In quei giorni. Mosè prendeva la tenda e la piantava fuori dell’accampamento, a una certa distanza dall’accampamento, e l’aveva chiamata tenda del convegno; appunto a questa tenda del convegno, posta fuori dell’accampamento, si recava chiunque volesse consultare il Signore. Quando Mosè usciva per recarsi alla tenda, tutto il popolo si alzava in piedi, stando ciascuno all’ingresso della sua tenda: seguivano con lo sguardo Mosè, finché non fosse entrato nella tenda. Quando Mosè entrava nella tenda, scendeva la colonna di nube e restava all’ingresso della tenda, e parlava con Mosè. Tutto il popolo vedeva la colonna di nube, che stava all’ingresso della tenda, e tutti si alzavano e si prostravano ciascuno all’ingresso della propria tenda. Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico.

SALMO

Sal 35 (36)

® Signore, nella tua luce vediamo la luce.

Signore, il tuo amore è nel cielo,

la tua fedeltà fino alle nubi,

la tua giustizia è come le più alte montagne,

il tuo giudizio come l’abisso profondo:

uomini e bestie tu salvi, Signore.®

Quanto è prezioso il tuo amore, o Dio!

Si rifugiano gli uomini all’ombra delle tue ali,

si saziano dell’abbondanza della tua casa:

tu li disseti al torrente delle tue delizie. ®

È in te la sorgente della vita,

alla tua luce vediamo la luce.

Riversa il tuo amore su chi ti riconosce,

la tua giustizia sui retti di cuore.®

EPISTOLA

Prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicesi 4, 1b-12

Fratelli, vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù affinché, come avete imparato da noi il modo di comportarvi e di piacere a Dio – e così già vi comportate –, possiate progredire ancora di più. Voi conoscete quali regole di vita vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù. Questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dall’impurità, che ciascuno di voi sappia trattare il proprio corpo con santità e rispetto, senza lasciarsi dominare dalla passione, come i pagani che non conoscono Dio; che nessuno in questo campo offenda o inganni il proprio fratello, perché il Signore punisce tutte queste cose, come vi abbiamo già detto e ribadito. Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione. Perciò chi disprezza queste cose non disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona il suo santo Spirito.

Riguardo all’amore fraterno, non avete bisogno che ve ne scriva; voi stessi infatti avete imparato da Dio ad amarvi gli uni gli altri, e questo lo fate verso tutti i fratelli dell’intera Macedonia. Ma vi esortiamo, fratelli, a progredire ancora di più e a fare tutto il possibile per vivere in pace, occuparvi delle vostre cose e lavorare con le vostre mani, come vi abbiamo ordinato, e così condurre una vita decorosa di fronte agli estranei e non avere bisogno di nessuno.

VANGELO

Lettura del Vangelo secondo Giovanni 9, 1-38b

In quel tempo. Passando, il Signore Gesù vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo». Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe» – che significa Inviato. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.

Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». Egli rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so».

Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!».

Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!».

Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori.

Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!».

COMMENTO AL VANGELO: Gv 9,1-38b

La sezione di Gv 9,1 – 10,21 ha diverse analogie con Gv 5,1-49: l’invalido, come il cieco, sono la figura del popolo ridotto a una condizione di impotenza e di cecità. «Aprire gli occhi ai ciechi» è anche il modo in cui il Secondo Isaia (Is 42,6; 49,6; con l’anticipazione in Is 35,5. 10) parla della missione del Servo di JHWH.

D’altra parte, non mancano correlazioni con Gv 3, l’incontro con Nicodemo, proprio a riguardo del tema del «nascere, rinascere, nascere dall’alto». Quest’uomo-carne è davvero in una condizione di tenebra, che non gli ha ancora permesso di comprendere il senso della vita in relazione al progetto originario di luce-vita che Dio manifesta attraverso Gesù.

Come con il segno dell’invalido (Gv 5) e della condivisione dei pani (Gv 6), il racconto del cieco (Gv 9,1-12) è seguito da un discorso dialettico, con diversi interlocutori polemici. Lo scopo della rivelazione di Gesù è di mostrare un progetto di comunità in cui tutti ritrovano la loro originaria dignità, quella di essere figli nel Figlio Gesù, una comunità in cui tutti gli uomini e le donne di ogni stirpe possono costruire un solo gregge sotto l’unico pastore.

Dopo la narrazione del segno (vv. 1-12), sta un discorso polemico i cui estremi sono evidenziati dall’inclusione dei vv. 16 e 33. Da una parte, la sentenza senza appello dei farisei che dicono: «Un uomo così non è da Dio»; dall’altra, il riconoscimento da parte del cieco che afferma: «Se uno così non fosse da Dio». L’esperienza mette in crisi una teoria e le certezze teologiche vacillano.

Ecco il senso delle tre scene di inquisizione che seguono: a) la prima prende le mosse dalla costatazione che Gesù ha operato quel segno di sabato, per cui in base a un principio si vorrebbe cancellare l’accaduto (vv. 13-17); b) la seconda scena cerca di annullare l’evidenza del segno, interrogando i genitori del cieco (vv. 18-23); c) infine, nella terza scena, vi è l’estremo tentativo di far dimenticare l’accaduto, cercando di convincere il cieco a screditare Gesù (vv. 24-34); dal momento però che si mostra ostinatamente attaccato a lui, viene espulso dalla sinagoga.

Da ultimo, ormai emarginato dalla sua comunità, colui che era stato cieco incontra Gesù che lo invita a prendere posizione per poter sperimentare un nuovo modo di vivere la dedizione a Dio «in spirito e verità» (vv. 35-38): Gesù è il Figlio dell’uomo, che riporta la storia umana alla sua piena umanizzazione e dignità, evitando di precipitare in una sempre peggiore ferocia bestiale (cf la visione di Dn 7).

In sintesi, questa è la dinamica del racconto, perfetto in ogni sua parte:

a) vv. 1-12: il segno compiuto da Gesù

i) vv. 1-5: le opere di Dio e la cecità

ii) vv. 6-12: guarigione e scoperta della luce

b) vv. 13-34: inquisizione polemica

i) vv. 13-17: il sabato e la divisione tra i farisei

ii) vv. 18-23: tentativo di negare l’accaduto interrogando i genitori

iii) vv. 24-34: tentativo di separare il cieco da Gesù

c) vv. 35-38: l’incontro con Gesù

vv. 1-5: Gesù ha appena affermato: «Io sono la luce del mondo» (Gv 8,12), e lo ripete prima del segno operato sul cieco (v. 5). Nessuno più di una persona che non ha mai visto la luce potrebbe scoprire con meraviglia che cosa sia la luce. Niente più della sconfitta di una tale cecità potrebbe diventare simbolo della ricerca della vera umanizzazione di questa creazione, voluta da Dio per esprimersi in un dialogo d’amore con una umanità che, sin dall’inizio, ha preferito cercare altrove l’appagamento della sua felicità, invece che affidarsi alla relazione e al comandamento del vero Dio.

L’incontro di Gesù con il cieco è fortuito: «di passaggio» (vv. 1-2). La cecità di quell’uomo però diventa subito un motivo di discussione teologica. Giobbe, nonostante tutto, non è riuscito a scalfire il bisogno di quella ingiusta teodicea, che per confessare la giustizia di Dio deve trovare una qualche ragione di colpa nell’uomo, allora come oggi. Le discussioni rabbiniche registrano prese di posizione che affermano la possibilità del feto di peccare sin dal grembo materno, e altre che attribuiscono in ogni modo la colpa ai genitori.

Gesù non risponde al problema di chi sia la colpa, ma allude al valore simbolico della condizione di colui che è cieco (v. 3). Costui ha bisogno anzitutto di capire che cosa sia la luce per poterla desiderare, come il popolo oppresso ha bisogno di capire prima che cosa sia la chiamata alla libertà di essere figlio di Dio per volerla poi raggiungere.

Questa è l’opera alla quale si è chiamati «finché è giorno» (vv. 4-5). È il giorno del Figlio dell’uomo, il sesto, prima che cali la notte e si entri nel «settimo giorno» di Dio, quello del riposo escatologico. È il compito messianico che Isaia aveva dato al Servo di JHWH: «perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre» (Is 42,7); «Io ti renderò luce delle nazioni, perché tu sia la mia salvezza fino all’estremità della terra» (Is 49,6).

vv. 6-12: L’allusione alla creazione dell’umanità di Gn 2,7 o alla condizione umana (cf Gb 10,9; Is 64,7) è decisiva anche per la comprensione della luce, che è “scoperta” per la prima volta dal cieco, pur essendo essa la prima delle opere di Dio (Gn 1,3-5). Gesù fa del fango «con la sua saliva»: la saliva prende il posto dell’acqua come elemento simbolico dello Spirito. Dunque l’essere umano (fango) con la forza dello Spirito (saliva) rappresenta il modello originario secondo il progetto di Dio: è l’uomo nuovo che riceve l’unzione (vv. 6 e 11) da colui che è l’Unto, ha-māšîaḥ, ὁ Χριστός. Figli nel Figlio Gesù: ecco la realizzazione piena dell’umanizzazione che il dono dello Spirito conferisce a chi è ricreato in Cristo Gesù.

La guarigione non avviene subito. Vi è bisogno di collaborazione del cieco. Egli de-ve accettare la luce e fare la sua opzione fondamentale di stare dalla parte di Gesù: «11Venne fra i suoi, ma i suoi non lo hanno accolto. 12A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, 13i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (Gv 1,11-13).

Il nome della piscina (v. 7), cui è mandato il cieco a lavarsi, è esplicitamente interpretato da Giovanni come «Inviato». Il nome ebraico šillôaḥ è interpretato quindi come participio passivo maschile equivalente di šālûaḥ (ebraico) e šelîaḥ (aramaico). In effetti, il nome greco Σιλωάμ (LXX) è la trascrizione dell’ebraico šillôaḥ in Is 8,6. In questo modo, il riferimento a Gesù come «inviato» (cf Gv 3,17; 4,34; 5,24…) è reso ancora più evidente. Il fatto stesso che non si parli dell’acqua della piscina ha un’ulteriore valenza cristocentrica: quell’acqua è lo Spirito dell’«inviato». La ripetizione poi dei verbi «ungere, spalmare» (vv. 6 e 11) e l’appellativo stesso di quella piscina, κολυμβήθρα, rendono ancora più esplicito il riferimento al battesimo. Ciò significa che il Quarto Vangelo legge il segno di Gesù traguardando in esso il rito battesimale della comunità cristiana.

«Egli andò, si lavò e tornò vedente». Dopo aver adempiuto quanto gli era stato chiesto da Gesù, quest’uomo ha cominciato a capire qualcosa di nuovo e veramente importante circa il senso dell’essere uomini secondo il progetto di Dio. Il dono dello Spirito ha rigenerato in lui quanto Dio avrebbe voluto gli fosse donato sin dall’inizio della sua vita.

Nei versetti seguenti (vv. 8-12) vi è la prima reazione davanti al cambiamento radicale prodotto nella vita del cieco che, a cominciare dai vicini, viene interrogato da tutti perché racconti quanto è avvenuto. Di certo vi è che quell’uomo, seguendo le istruzioni di Gesù, è arrivato a vedere: colui che prima giaceva anonimo a mendicare – non è infatti riportato il suo nome – ora è visto libero e indipendente proprio grazie all’opera di Gesù. Partendo dal cieco guarito, si vorrebbe quindi arrivare a capire qualcosa di più circa quell’uomo che si chiama Gesù (allusione all’etimologia del nome, «JHWH salva»?).

La missione di Gesù, che dovrà poi essere continuata dai suoi discepoli (vv. 39-41), è di mostrare, con gesti concreti più che a parole, che cosa significhi nel progetto di Dio la piena umanizzazione: una qualità di vita e una dignità insperata per chi non aveva la possibilità di vedere.

È un dono gratuito che deve essere accolto liberamente e che inevitabilmente produce giudizio. La triplice inquisizione dei vv. 13-34 lo pone in chiara evidenza: come Gesù è dovuto fuggire dal tempio per non essere lapidato (cf Gv 8,59), così anche il cieco che riceve la luce/vita, non trova più posto in un’istituzione che non è in grado di apprezzare la dignità di un uomo libero e veramente indipendente (cf v. 34).

vv. 13-17: La prima scena di inquisizione prende avvio dalla costatazione che Gesù ha operato quel segno durante uno šabbāt: in base all’interpretazione di un comandamento si vorrebbe cancellare l’accaduto. Gli interlocutori del cieco sono ora i Farisei, il gruppo senza dubbio più religioso e osservante di quanti stavano a Gerusalemme. L’analisi dell’accaduto, come di nuovo è testimoniato dall’interessato guarito, crea una opposta interpretazione tra i Farisei, che è messa bene in luce dalle due frasi citate dal narratore nel v. 16. Da una parte, potremmo dire, i legalisti: «Un uomo così non è da Dio, perché non rispetta il sabato! Dall’altra, stavano invece i dubbiosi che si lasciano toccare dall’accaduto: «Come potrebbe un peccatore fare segni così?».

La divisione (σχίσμα) tra loro è tanto forte che si decide di riconvocare il testimone scomodo e porre a lui la domanda diretta (v. 17): «Per averti aperto gli occhi, tu che dici di lui?». La risposta è essenziale e precisa: «Un profeta!». Se per i Farisei, questo titolo sembra essere eccessivo, per il punto di arrivo cui mira il narratore è solo un titolo approssimativo e incapace di rendere ragione dell’identità di Gesù.

Il problema della violazione dello šabbāt, almeno secondo la hălākâ farisaica che aveva già elencato in quel tempo le 39 azioni non permesse di šabbāt, fa parte della prima tradizione che ci ricongiunge anche ai Sinottici (cf Mc 3,1-6 e Lc 13,10-17). Tuttavia, mentre in Gv 5 il tema della violazione dello šabbāt è centrale, nel racconto del cieco esso è solo un tema marginale, come appare dalle due scene di inquisizione seguenti (vv. 18-23 e 24-34), il cui centro è dato dalla discussione sul potere taumaturgico di Gesù e dalla domanda circa la sua identità.

Dietro queste scene di inquisizione si notano dei movimenti “a caleidoscopio” tra la vita di Gesù e l’esperienza delle comunità giudeo-cristiane delle prime generazioni verso la fine del I secolo. La stessa sovrapposizione si ha nel presentare le autorità di Gerusalemme come «i Giudei»: al tempo di Gesù questo significa semplicemente un titolo geografico che si oppone ai «Galilei» oppure agli «Ebrei alessandrini» o altre designazioni simili, mentre alla fine del I secolo, «i Giudei» sono ormai i discendenti di quel rabbinismo farisaico che si stava impiantando come “unica forma” di Giudaismo, dopo la caduta di Gerusalemme e delle altre correnti giudaiche quali i Sadducei, gli Es-seni e gli Zeloti.

vv. 18-23: La seconda scena d’inquisizione sposta l’attenzione sui genitori di colui che era cieco, cercando di distruggere tramite la loro presa di posizione una prova decisiva sulla falsità del cambiamento di quest’uomo che era cieco. Soprattutto nei vv. 22-23, che motivano la presa di posizione dei genitori, vi è un’importante notazione che permette di addurre una prova per la datazione del Quarto Vangelo: infatti le prime mosse giudaiche che espellono dalla sinagoga coloro che avessero riconosciuto il messianismo di Gesù di Nazaret sono da datare verso il 90 d.C. Quanto detto a proposito dei genitori del cieco reinterpreta gli scontri “verbali” che si sono avuti sia durante il ministero di Gesù (cf Lc 4,28-29), sia durante l’apostolato itinerante dei primi discepoli (cf Mt 10,17 e molti racconti degli Atti).

La situazione tratteggiata da questa seconda scena d’inquisizione non riproduce quindi la società della Gerusalemme del tempo di Gesù, ma piuttosto la situazione della diaspora alla fine del I secolo, quando sono soprattutto i giudeo-cristiani a trovarsi ostracizzati dalle comunità giudaiche. Si ricordi questa testimonianza di Giustino (morto tra il 162 e il 168) a riguardo della situazione in Samaria:

Le parole «Quella che era chiusa in ostacoli» significano che voi e tutti gli infedeli fate tutto il possibile per bandire non solo dai loro beni ma anche dal mondo intero ogni cristiano, impedendo a tutti i cristiani di vivere» (Dialogo con Trifone, 110,5).

La durezza delle affermazioni di Giustino non deve sorprendere, visto che già nella Regola della Comunità di Qumrān vi era un passaggio altrettanto duro per un argomento simile: kwl ʾšr lwʾ nḥšbw bbrjtw lhbdjl ʾwtm wʾt kwl ʾšr lhm «Tutti coloro che non sono annoverati nella sua alleanza saranno banditi, loro e tutto quanto a loro appartiene» (1QS v,18).

vv. 24-34: Infine, nella terza scena d’inquisizione, vi è l’estremo tentativo di far dimenticare l’accaduto, cercando di convincere direttamente il cieco a screditare Gesù. La storia è narrata in modo magistrale e dà davvero l’impressione che il narratore abbia vissuto tante volte – personalmente o no, poco importa – la polemica contro i Farisei/Giudei.

Le obiezioni ricordate sono vivide toccano i punti essenziali della polemica antigiu-daica: Gesù non può essere un esempio di religiosità e non esprime l’autentica volontà di Dio e della sua tôrâ perché non si presenta come un discepolo di Mosè, anzi le sue origini sono molto dubbie (v. 29; cf Gv 3,2. 11. 31-34; 6,38. 41; 7,27; 8,19).

Le risposte dei discepoli, poste sulla bocca dello stesso cieco, sono altrettanto precise: attraverso di lui Dio ha fatto udire sorti, ha ridato la vita ai ciechi e dunque costui non può essere un peccatore (vv. 30-31). I discepoli usano l’argomento caro ai giuristi: contra factum non valet argumentum «non c’è argomento che tenga di fronte alla prova dei fatti».

L’acceso scambio di opinioni arriva a un impasse e il cieco che sta dalla parte «del fatto» viene ingiustamente accusato di essere peccatore (perché nato cieco!) e quindi è bandito dalla sinagoga. Come si nota, l’argomento dello šabbāt non interviene in alcun modo a giustificare la presa di posizione finale dei Farisei/Giudei. L’accusa sembra essere piuttosto orientata a mettere in dubbio quale sia la fonte da cui Gesù trae la sua forza taumaturgica: non da Dio, ma da “altrove” (diavolo).

vv. 35-38: Quando Gesù incontra colui che aveva riacquistato la vista, un volta espulso dalla sinagoga, prende lui stesso l’iniziativa per portare a compimento l’opera di illuminazione che era stata iniziata con il segno della guarigione.

Il «Figlio dell’uomo» è da interpretarsi nella dinamica simbolica della pagina di Dn 7,1-14, sebbene il contenuto del titolo sia da comprendersi alla luce della tradizione enochica (1Enoc e Giubilei). Lo scenario è cosmico: all’inizio l’acqua e alla fine il vento. L’oceano è tradizionalmente l’elemento ostile della lotta mitica primordiale, che però può essere dominato da Dio e trasformato in forza positiva (cf Gn 1 ed Es 14). Da questo oceano, agitato dai quattro venti, sorgono bestie potenti, immani, disposte a dominare la storia.

È ancora l’oceano ostile a partorire ancora quattro bestie ostili. Il contrasto con l’acqua celeste delle nubi (Dn 7,13) che accompagnano (TM ʿim-ʿănānê šemajjāʾ) o trasportano (LXX ἐπὶ τῶν νεφελῶν τοῦ οὐρανοῦ) la figura umana è chiaro: come l’oceano è il grembo infernale delle bestie, così le nubi sono il grembo fecondo per l’uomo. C’è poi anche il contrasto del fuoco (Dn 7,10-11), un elemento tradizionalmente teofanico.

Le bestie vanno comprese nel loro rapporto con la figura umana che tiene loro dietro. Il simbolo teriomorfo è ormai già parte tradizionale nel profetismo e lo saranno ancora di più nella tradizione apocalittica: Ez 32 descrive l’Egitto come un coccodrillo; Ez 17,3 ha l’immagine di «una grande aquila dalle grandi ali e dalle lunghe penne»; Ger 51,34 presenta Babilonia come un drago vorace; si ricordi anche l’uso teriomorfo per parlare delle tribù in Gen 49 (e Dt 33). Di fronte dunque alla sequenza di fiere che si succedono nella storia senza migliorare l’umanità, anzi peggiorando in ferocia, si erge, in contrasto, l’uomo che fa parte di un’altra categoria, perché è immagine di Dio ed è chiamato a dominare sulle fiere (Sal 8).

Il testo ebraico di Sal 8,5 raddoppia il sostantivo «uomo» per il parallelismo: ʾĕnôš «mortale» e ben-ʾādām «figlio d’Adamo, adamita». È un parallelismo comune alla letteratura biblica. In Dn 7,14 si ha la figura di uno come «figlio d’uomo», anche se espressa in aramaico, bār ʾĕnāš. Dopo le figure di bestie feroci, c’è dunque finalmente la visione di una figura umana, un bār ʾĕnāš. Il compito affidatogli, ovvero ciò che l’«Uomo» deve operare nella storia, è l’umanizzazione di essa: se questo non avverrà nella sequenza dei regni storici, Dio stesso lo farà avvenire al momento previsto. Questa interpretazione complessiva della pagina di Daniele, semplice è profondamente «messianica», va al di là di ogni applicazione concreta, persino di quella che aveva in mente l’autore (cf Dn 7,15ss).

Alla luce di questa pagina di Daniele, in parallelo alla manifestazione di Gesù davanti alla donna di Samaria, Gesù provoca il suo riconoscimento. Come la donna di Samaria viene condotta a vedere in Gesù il Messia: «Sono io, che ti sto parlando» (Gv 4,26), così anche quest’uomo che aveva riacquistato la vista viene condotto da Gesù a scoprire l’altro titolo messianico di «Figlio dell’uomo»: «Tu l’hai veduto: è proprio colui che ti parla» (v. 37). Non solo gli indica la mèta, ma gli si presenta anche come la forza e la mediazione per poterla raggiungere, comunicandogli il dono del suo Spirito, che è l’acqua dell’«Inviato».

Il racconto si conclude al v. 38, che va mantenuto nella sua interezza, nonostante la presenza di qualche dubbio di critica testuale. Togliere la «prostrazione» finale non è corretto dal punto di vista critico.

Il verbo προσκύνειν «prostrarsi» è il gesto tipico dell’adorazione nel tempio (oppure davanti al re). Una prostrazione nuova «in spirito e verità» è anche il punto di arrivo della manifestazione di Gesù alla donna di Samaria (cf 4,20-21). Gesù, il Figlio dell’uomo, è la storia in cui si incarna la presenza del Padre. È il nuovo santuario, non più circondato da un recinto sacro, ma dentro una vicenda umana. Colui che è stato cacciato dalla sinagoga si incontra con colui che è stato cacciato dal tempio: nel nuovo santuario, che è l’umanità di Gesù, colui che ora è vedente può mettersi in comunione con lui per realizzare le opere di colui che è stato inviato dal Padre, finché è giorno.

PER LA NOSTRA QUARESIMA

1. Il Vangelo narra il vangelo.

Ogni evento in lui era vita,

la luce per gli uomini era quella vita.

E la luce brilla nelle tenebre. […]

Veniva nel mondo la luce vera

che rischiara ogni uomo.

Era nel mondo e mediante lui fu il mondo,

eppure il mondo non lo riconobbe.

Venne tra i suoi, ma i suoi, lui, non l’accolsero.

A quanti però l’accolsero ha dato potere di diventare figli di Dio:

a quelli che credono nel nome di lui,

i quali, non da sangue, né da desiderio carnale,

né da volontà umana, ma da Dio sono stati generati (Gv 1,4-5. 9-13).

Il segno per colui che è nato nella cecità, illumina la parola del Prologo del Quarto Vangelo. Già si dava a conoscere lo scontro tra luce e tenebra, tra accoglienza e rifiuto. Nessun accomodamento. Da sempre si affrontano: per percepire la tenebra fuori e in-teriormente occorre la luce. Per contrasto, non c’è continuità.

Luce che rivela, senza accecare.

La luminosità, la luce non si intrattiene con la tenebra.

La luce fa esplodere la tenebra: riceve accoglienza o rifiuto.

Vedere con gli occhi della fede o rimanere nel buio nell’incredulità.

Gesù guarisce gli occhi dell’uomo condotto, trascinato da lui,

che niente chiede e niente attende.

Vede e deve dar ragione della luce.

Un balbettio all’inizio, che dice qualcosa dell’immensità dell’amore ricevuto nel ge-sto di Gesù. Ritorna alla vita e si incammina con le parole a dire l’evidenza dei suoi oc-chi aperti.

Cerca di dare nome a colui che, passando, si è fermato a guarirlo: un uomo chiama-to Gesù, un profeta.

Colui che è nato nella cecità solo una cosa sa: «prima ero cieco e ora ci vedo».

«Noi sappiamo…»: i Farisei invece sono sempre sicuri del fatto loro.

Sono sicuri che Gesù non viene da Dio, perché… non osserva il sabato e dicono: «Noi sappiamo che quell’uomo è un peccatore».

«Io non so…»: nel processo che i capi del popolo intentano all’uomo nato cieco questi dà prova di una sorprendente saggezza. Non sa e non se ne vergogna.

Ripete: «Non so». Questa affermazione non è reticenza dovuta alla paura, come quella dei genitori, ma è un’ammissione spontanea e sincera.

Pedagogo perdente dei discepoli di Mosè: «Questo il bello, che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi!». E viene gettato fuori.

Gesù ritorna per condurre alla confessione di fede colui che ora vede: «Io credo, Signore!». E gli si prostrò innanzi. Il passo alla luminosità della fede è sempre un incontro vivo con Gesù, la risposta al suo invito. Un incontro “originario”, di nuova nascita.

La luce vera, per chi è nella tenebra.

L’acqua per chi ha sete della vita.

Il pastore che insegna e guida il camminare.

La porta per entrare nella sua dimora. F. CECCHETTO, Testi inediti.

2. Nessuna tenebra, per quanto fitta, fa disperare che una qualche luce, o qualcosa della luce, possa penetrare in essa. […] Ma c’è forse qualcosa nella luce che non sia essa stessa luce, qualcosa che non si risolva in luce? Per questo simbolizza la riuscita, il compimento. […]

Quando nell’istante nascente, lei sopraggiunge, si apre, nel più oscuro dell’essere umano, qualcosa che prelude alla speranza. M. ZAMBRANO, Dell’aurora, Traduzione ed edizione italiana a cura di E. LAURENZI (Le Vie 9), Marietti 1820, Genova 2000, p. 58.

3. Quanto noi vediamo compiuto nel cieco nato, è avvenuto parimenti in noi, chiamati dalla benevolenza del Signore al suo regno. Il legame della narrazione evangelica del cieco nato con il battesimo è stato sempre avvertito dalla coscienza cristiana. [...]

L’incontro con la Luce, che è vita, è bellezza, è armonia, è colore, è gusto, è suono: a tutto questo si apre quel cieco. […] Con il battesimo, sacramento della fede, siamo introdotti nel regno del Padre: diveniamo una nuova creatura. Il Nuovo Testamento ci parla dei “sensi nuovi” dell’uomo che si apre alla fede.

Questa novità di vita in assoluto non avviene se non per il dono che è nuovo, la grazia che ci fa figli di Dio; per il donatore stesso che entra in comunione con l’uomo, che è il Padre che si dona in Gesù “stringendoci” per mezzo del suo Santo Spirito. Tale è la realtà che è contenuta nel segno del cieco nato e tale è la realtà che ci dischiude il battesimo.

Questa novità suppone una conoscenza di Cristo e un’esperienza di fede. La maturità del nostro cammino ci fa sperimentare sempre più la provvisorietà e l’estrema relatività di ogni cosa. […]

Nella nostra situazione concreta può emergere il bisogno del cammino o della crescita nella fede. Ed è quanto è insinuato nella narrazione del cieco nato. Dalla fiducia in “quell’uomo” che si chiama Gesù, al riconoscere Gesù come profeta, fino all’ado-razione della sua signoria, è un continuo cammino di fiducia in fiducia, di fede in fede, fino alla visione di Cristo e del Padre nella gloria: «Uno con lui». B. CALATI, Conoscere il cuore di Dio. Omelie per l’anno liturgico, Introduzione di P. STEFANI (Quaderni di Camaldoli 11), EDB, Bologna 2001, pp. 47-48.

4. Ciechi e sordi, dobbiamo cominciare dal sentirlo che si narra a noi, e attraverso un ascolto paziente, pervenire a credere, a vedere la luce del giorno, a sperare: attende-re tutto da te significa vivere di grazia. Infatti, «tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture teniamo viva la nostra speranza» (Romani 15,4).

Sono convinto che la Bibbia è un libro di speranza e che leggerlo ha come risultato la speranza. […]

Tu, sei la nostra speranza. Cioè: eccoci insieme, noi che speriamo un giorno di conoscerti, di vederti in faccia. E noi allora saremo illuminati dal tuo sguardo: con-viventi. […]

Un evento: nascere di nuovo; l’unico potere che mai si potrà conquistare è donato a chi ti accoglie (cf Gv 1,12). «Nascere, è nascere alla speranza». È entrare nel tuo avvenire, e offrirsi affinché avvenga in questo mondo. Proprio quando dicevo: «Le tenebre mi coprano», la notte è divenuta luce intorno a me (Sal 138). L’umanità è chiamata a divenire volto: «Vedranno il tuo volto». «Non vi sarà più notte… perché il Signore effonderà su di loro la sua luce» (Ap 22).

Sì, un futuro di luce ci attende, e già si dona a vivere: figli della luce lo siamo già (cf Col 1,23). La speranza è la porta che si apre alla novità e mi ingiunge un comandamento nuovo, il comandamento del nuovo di cui tu vuoi farci complici, innamorati.

5. È il nostro vivere quotidianamente nel mistero, ancorché spesso ignorato, tra-scurato come tale che ci fa sempre, inevitabilmente protesi verso quel pensare di tipo inattuale che è la fede. La fede ci appartiene come la più profonda e potente energia del nostro vivere, poiché ha una forza di trasformazione immensa. […]

Accende l’intelligenza, slega la liberta, osa un ingresso partecipativo al di là delle dimensioni qualitative dell’umano. […]

Da molte parti si teme che la fede sia una forma di alienazione: quando si crede in qualche verità che non può essere controllata e verificata, compresa nella sua pienezza è normale che venga questo timore. […] Tutto ciò che produce un aumento dell’inten-sità luminosa di questa unità interiore è fede o ha direttamente rapporto con la fede. Dove invece ci sono opinioni accolte passivamente, l’anima cade nell’idolatria. Si può deturpare l’accoglienza della verità in un formalismo religioso idolatrico che è colpevole più di qualsiasi egoismo mondano. […]“Più forti dell’odio”. Gli scritti dei monaci trappisti uccisi in Algeria, a cura della COMUNITÀ DI BOSE, Piemme, Casale Monferrato 1997, pp. 137-142.

Ciò che la fede sa, inattualmente è Dio, la Verità unica. Se pur diversamente accolto agli uomini, Dio è uno: “Ascolta Israele. Uno è il Signore Dio”. La fede non vuol comporre parti opposte delle verità, ma trascendere sempre ciò che è parziale nella prospettiva dell’unità-unicità del Signore Dio.

6. Il gesto di Gesù verso il cieco nato, che sembra modellare un occhio nuovo capace di vedere la luce, può essere interpretato come una raffigurazione simbolica della conversione, vista come un incontro con la luce per poi camminare pienamente nella luce. La conversione può essere purificata da ogni riduzione moralistica solo in questo modo: cambiando il nostro modo di guardare la realtà, la vita e le cose. L’occhio nuovo del guardare è dato da Cristo: un occhio che insegna a guardare diversamente secondo la parola del Maestro, per poi vivere diversamente. Questo tipo di conversione Giovanni lo chiama “camminare nella luce”, e lo riassume molto bene nella sua Prima Lettera (1 Gv 1,5-7). […]

Coloro che pretendono di credere pur non cambiando la loro vita, si sbagliano e vengono chiamati “mentitori”. “Dio è luce”; chi si pone in rapporto con Dio non può vivere nel peccato, come chi vive esposto alla luce non può rimanere nell’ombra: fede e vita di peccato sono inconciliabili, come la luce e le tenebre.

Una vita che non si converte, che non cammina nella luce, è come uno che vuol ri-durre la luce alla dimensione della propria tenebra, costringendo la luce della fede den-tro il muro della propria cecità. Con questa operazione, forse possiamo consolare un poco la nostra cecità e renderla un poco meno insopportabile; ma noi rimaniamo ciechi e questo vanifica l’opera di Cristo, perché egli non è venuto per consolare i ciechi ma per guarirli. E. MENICHELLI, I simboli biblici nel Vangelo di Giovanni, Ancora, Milano 1995, pp. 100-101.

Si disserra la gabbia del prigione

s’avventa in libertà

a capofitto,

non si guarda attorno,

fissa

solo lo spazio che gli s’apre

in fronte, e che lo ingoia,

e come

lampada lo abbaglia.

Attento, non è sgombra

la via della liberazione, non lo è ancora.

Ancora c’è il paese

di malanimo e idiozia

da traversare passo passo.

Lo credevi – ed era buon diritto –

ormai alle tue spalle.

Senonché

non è mai tutto passato

il passato

e anche il male rifiorisce.

M. LUZI, Sotto specie umana (Poesia), Garzanti Libri, Milano 1999, p. 198

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