venerdì 2 dicembre 2011

4 dicembre 2001 IV DOMENICA DI AVVENTO l'ingresso del Messia

frase da meditare:

l'umiltà è la porta della verità e della pace


Lettura del profeta Isaia 16, 1-5

In quei giorni. Isaia disse: / «Mandate l’agnello / al signore della regione, / da Sela del deserto / al monte della figlia di Sion. / Come un uccello fuggitivo, / come una nidiata dispersa / saranno le figlie di Moab / ai guadi dell’Arnon. / Dacci un consiglio, / prendi una decisione! / Rendi come la notte la tua ombra / in pieno mezzogiorno; / nascondi i dispersi, / non tradire i fuggiaschi. / Siano tuoi ospiti / i dispersi di Moab; / sii loro rifugio di fronte al devastatore.

Quando sarà estinto il tiranno / e finita la devastazione, / scomparso il distruttore della regione, / allora sarà stabilito un trono sulla mansuetudine, / vi siederà con tutta fedeltà, nella tenda di Davide, / un giudice sollecito del diritto / e pronto alla giustizia».

Sal 149

® Cantino al loro re i figli di Sion.

Cantate al Signore un canto nuovo;

la sua lode nell’assemblea dei fedeli.

Gioisca Israele nel suo creatore,

esultino nel loro re i figli di Sion. ®

Lodino il suo nome con danze,

con tamburelli e cetre gli cantino inni.

Il Signore ama il suo popolo,

incorona i poveri di vittoria. ®

Esultino i fedeli nella gloria,

facciano festa sui loro giacigli.

Le lodi di Dio sulla loro bocca,

questo è un onore per tutti i suoi fedeli. ®

Prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicesi 3, 11 - 4, 2

Fratelli, voglia Dio stesso, Padre nostro, e il Signore nostro Gesù guidare il nostro cammino verso di voi! Il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi, per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi.

Per il resto, fratelli, vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù affinché, come avete imparato da noi il modo di comportarvi e di piacere a Dio – e così già vi comportate –, possiate progredire ancora di più. Voi conoscete quali regole di vita vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù.

Vangelo

Lettura del Vangelo secondo Marco 11, 1-11

In quel tempo. Quando furono vicini a Gerusalemme, verso Bètfage e Betània, presso il monte degli Ulivi, il Signore Gesù mandò due dei suoi discepoli e disse loro: «Andate nel villaggio di fronte a voi e subito, entrando in esso, troverete un puledro legato, sul quale nessuno è ancora salito. Slegatelo e portatelo qui. E se qualcuno vi dirà: “Perché fate questo?”, rispondete: “Il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito”».

Andarono e trovarono un puledro legato vicino a una porta, fuori sulla strada, e lo slegarono. Alcuni dei presenti dissero loro: «Perché slegate questo puledro?». Ed essi risposero loro come aveva detto Gesù. E li lasciarono fare. Portarono il puledro da Gesù, vi gettarono sopra i loro mantelli ed egli vi salì sopra. Molti stendevano i propri mantelli sulla strada, altri invece delle fronde, tagliate nei campi. Quelli che precedevano e quelli che seguivano, gridavano: «Osanna! / Benedetto colui che viene nel nome del Signore! / Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide! / Osanna nel più alto dei cieli!».

Ed entrò a Gerusalemme, nel tempio. E dopo aver guardato ogni cosa attorno, essendo ormai l’ora tarda, uscì con i Dodici verso Betània.

Commento al Vangelo

Inizia una nuova sezione – la terza – con Mc 11,1: Gesù sta entrando trionfalmente nella “sua” città di Gerusalemme. Questa nuova sezione contiene due eventi significativi: l’entrata in Gerusalemme (Mc 11,1-11) e le azioni compiute all’interno del recinto del Tempio (Mc 11,15-19). A parte questi, l’interesse dell’evangelista è tutto centrato sul quanto Gesù annuncia e insegna nel recinto del Tempio, alcune volte indirizzato ai soli discepoli (cf Mc 11,20-25 e 13,3-37) mentre normalmente rivolto a tutto il popolo.

Il racconto della Passione inizia con Mc 14,1. Quindi, l’unità letteraria di Mc 11-13 si trova inquadrata geograficamente dal Monte degli Ulivi.

vv. 1-11: Marco redige il testo come se identificasse Gerusalemme con Betfage e Betania, per far vedere come la capitale domina i villaggi; in questo modo, Betfage e Betania, diventano esempi del mondo del «villaggio» (cf Mc 8,23.26), cioè del popolo ideologicamente manipolato dai circoli dirigenti (Mc 10,33). La mèta ultima del cammino di Gesù, oltre Gerusalemme (luogo della sua morte), è il Monte degli Ulivi figura del suo stato glorioso (cf Mc 13,3; 14,25). Come sappiamo, «il monte» rappresenta la sfera divina a contatto con la storia (Mc 3,13), in questo caso in relazione con Israele («degli Ulivi»). Gesù invia due discepoli.

I due inviati dovranno trovare nella tradizione d’Israele l’idea del messianismo pacifico. Devono andare al «villaggio», luogo da dove Gesù tirò fuori il cieco, proibendogli di ritornarci (Mc 8,23-26); ora che i discepoli hanno deciso di seguire Gesù (Mc 10,52), possono entrarvi senza pericolo; di fronte, contrapposto, ostile a Gesù e ai suoi; l’asinello allude al testo di Zc 9,9, che descrive il re/Messia non violento: «Guarda il tuo re che viene, giusto, vittorioso, umile, cavalcando un asino»; ma questo passo dell’AT viene ignorato nella teologia ufficiale (legato), cioè, il popolo giudaico possiede la Scrittura, ma la mutila o la imbavaglia; gli inviati di Gesù che portano ormai l’immagine del vero Messia, possono riscattarla; non è mai esistito prima in Israele un capo che compisse questa profezia (che nessuno ha ancora montato); è una denuncia della storia passata, sempre caratterizzata dalla violenza e dal dominio. Gesù avverte gli inviati che alcuni possono stupirsi che ora si utilizzi quel testo; la risposta che devono dare: Il Signore ne ha bisogno, implica che Gesù («il Signore») ha bisogno di quei testi per invalidare nei discepoli l’idea messianica dell’istituzione e della gente.

I discepoli eseguono l’incarico ricevuto da Gesù. Non è difficile farlo, perché l’asinello è legato, ma alla vista di tutti; non è difficile trovarlo.

I discepoli hanno capito e associano la profezia a Gesù (portarono l’asinello); il mantello è figura della persona (cf Mc 10,50, del cieco) e, mettendo i loro mantelli sull’asinello, dicono che accettano il Messia pacifico e vogliono unirsi a lui. Altri, invece, stendevano i mantelli lungo il cammino, gesto ispirato a 2 Re 9,13, dove gli ufficiali con quel gesto riconoscono la regalità di Jeu; i mantelli, stesi per essere calpestati, simboleggiano la sottomissione: vogliono un Messia dominatore. Altri spargono rami al suolo come omaggio a quel Messia.

Quelli che precedevano e quelli che seguivano gridavano: «Salvaci! Benedetto colui che viene in nome del Signore! Benedetta la signoria che viene, quella del nostro padre Davide! Salvaci dall'alto!».

Al momento di iniziare la salita verso Gerusalemme, Gesù precedeva gli altri (Mc 10,32). Qui altri si mettono alla testa (quelli che precedevano); tolgono l’iniziativa a Gesù e pretendono di segnargli il cammino; quelli che seguivano devono seguire quell’itinerario imposto. L’acclamazione, infatti, risponde all’idea messianica del popolo; si chiede a Dio la salvezza (hošāʿnna «salvaci) per mezzo di un Messia che sarà un nuovo Davide, il re guerriero; il grido, Benedetto colui che viene, ecc., preso dal Sal 118,25-26 era usato per un generale vittorioso; la signoria che viene, quella del nostro padre Davide accentua l’idea messianica che il popolo ha; la signoria che chiedono non è «la signoria di Dio» (Mc 1,15); nostro padre Davide si oppone a «vostro Padre del cielo» (Mc 11,12).

Gerusalemme, che includeva e dominava «il villaggio» (Mc 11,1), include e domina anche il tempio; non solo il popolo è manipolato dai dirigenti, ma anche Dio. Contro l’aspettativa di quelli che lo acclamavano come Messia davidico, sperando da lui un at-

to immediato di forza contro i dirigenti del tempio e un proclama messianico, Gesù non passa all’azione, ma solo ispeziona il tempio; esso sarà lo scenario della sua attività nei giorni che seguiranno, ma vuole che quell’attività non sia vincolata all’entusiasmo popolare e alla speranza di restaurazione che hanno circondato il suo arrivo.

L’irruzione del Signore Gesù nella sua città e sempre un riordino delle attività se-condo il disegno del Padre.

PER LA NOSTRA VITA

1. Il mistero della debolezza di Dio è quello della sua autentica onnipotenza: mistero messo in luce con la vita, la passione e la croce di Gesù, mistero nascosto nell’essenza profonda della chiesa, nell’esistenza crocifissa dei santi.

Nel corso degli attacchi che dovette subire, Gesù fu sicuramente tentato nella sua piena umanità, assunta nel contesto di un popolo e di un’epoca ossessionati da un messianismo combattivo, di prendere di persona il potere per le vie della violenza. […] In Galilea, era circondato da un potente movimento popolare che voleva «venire a prenderlo per farlo re» (Gv 6,15). Fu allora che decise di concentrarsi sul «piccolo gregge» dei suoi discepoli, e di andare a portare la lotta al cuore stesso del potere: a Gerusalemme, sede del potere religioso ebraico, che si serviva di Dio per asservire l’uomo, e sede del potere politico romano, che asserviva l’uomo per farsi Dio. Allora ci furono la croce, la risurrezione, la pentecoste, l’effondersi della grazia come forza semplicemente buona, vivificante, al di là delle ambivalenze del mondo decaduto in cui non c’è mai vita senza morte, amore senza odio, forza senza violenza. […]

Il potere di Cristo, potere della fede e dell’umiltà, si esprime come servizio.( O. CLÉMENT, Il potere crocifisso. Vivere la fede in un mondo pluralista (Sympathetika), Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose - Magnano BI 1999, pp. 37-39).

2. È il Figlio, perché vive così di fronte a Dio, il Padre. Gesù esprime questo riferimento continuo, ininterrotto, proprio all’inizio della passione. […] Il Padre non è solo il suo interlocutore, ma la sua origine più vera. Per questo Gesù vive e muore e la sua ubbidienza non è disciplina o sottomissione a una volontà strapotente. È un atteggiamento di affidamento totale al Padre: proprio perché è il Figlio, Gesù può ubbidire, e proprio perché ubbidisce in questo affidamento totale può dire di essere il Figlio.

Anche il mondo pagano aveva un concetto di figlio di Dio, secondo categorie di po-tenza, di genialità o di eroismo. Anche i Giudei avevano un’idea di “Figlio di Dio”, del Messia, come un particolare “Figlio di Dio”, e pensavano al Messia in termini di potenza miracolistica («fai vedere che scendi dal cielo… e dalla croce!»). Ma Gesù non esprime in questi modi la sua identità: la figura assolutamente nuova del Figlio di Dio che Gesù vuole realizzare è quella del Figlio ubbidiente.

Allora si capisce perché si può davvero seguire il Signore anche nella sua passione e dire: «Veramente costui era il Figlio di Dio!». Non meravigliamoci, ma sforziamoci di comprendere come è Dio, imparando tutto da Gesù Cristo, che è il Figlio perché realizza un singolarissimo rapporto di ubbidienza con il Dio dei padri, che è il suo Padre. (G. MOIOLI, La parola della croce, Prefazione di F.G. BRAMBILLA, Presentazione di L. CERUTTI (Contemplatio 9), Glossa, Milano 1994, 2009, pp. 94-95).

3. Oggi la potenza dell’uomo sembra oggettivarsi al di fuori di lui, anzi contro di lui: in conoscenze scientifiche e creazioni tecniche che tendono a svilupparsi per mezzo del loro dinamismo interno, al punto che l’uomo non è più padrone della propria potenza, che anzi sembra dominarlo. […] Il potere della fede susciterà un nuovo tipo di uomo capace di dominare queste forze, capace di padroneggiare la propria potenza. È necessaria qui la forza nuda dello spirito animato dallo Spirito; bisogna, nella scia della fede e della contemplazione, creare un autentico stile di umile e forte sovranità. Una nuova santità, di rottura ascetica e di trasfigurazione cosmica, permetterà con l’esempio e anche con una misteriosa trasfusione un cambiamento progressivo delle mentalità e la possibilità di una cultura che serva da mediazione tra l’evangelo e la società.(O. CLÉMENT, Il potere crocifisso, p. 55).

4. In ogni cultura superiore, gli uomini saggi hanno conosciuto il pericolo del potere e hanno parlato del suo superamento. La loro ultima parola si chiama moderazione e giustizia. Il potere trascina alla superbia e al disprezzo del diritto; all’uomo violento si contrappone l’uomo ragionevole, che onora gli dei e custodisce la giustizia. Ma tutto questo non è ancora redenzione. […]

Il carattere decisivo del messaggio della Redenzione […] si esprime in una parola che nel corso dell’epoca moderna ha perduto il suo significato: l’umiltà.

L’umiltà è scesa a significare debolezza, carenza vitale, viltà nell’affermare i diritti della vita, mancanza di nobili sentimenti. […] L’umiltà, nel senso cristiano, è una virtù di forza, non di debolezza. Nel senso primitivo umile è il forte, colui che ha sentimenti elevati e coraggiosi. Colui che per primo ha realizzato una condotta di umiltà e l’ha resa possibile agli uomini, è Dio stesso, con l’incarnazione del Logos. Nella lettera ai Filippesi Paolo dice che Cristo, «pur essendo di natura divina, non considerò un furto (che si possiede ingiustamente e che si tiene stretto timorosamente, per debolezza), ma rinunciò a se stesso assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (2,5-8).

Tutta l’umiltà creata discende da questo atto con cui il Figlio di Dio è divenuto uomo. Quell’atto che Egli non ha compiuto perché spinto da necessità, ma in pure li-bertà, perché Egli, il Sovrano, così aveva voluto. Il nome di questo sovrano “perché” è l’amore; e a questo proposito si deve osservare che la misura di un tale amore non deve essere derivata dall’uomo, ma da ciò che Dio dice di sé. […]

Come abbia potuto avvenire che Egli, l’Assoluto e Sovrano, sia entrato in una unità esistenziale con una natura umana; che Egli non solo regga la storia, ma si inserisca in essa; che abbia accolto in sé tutto ciò che da tale inserimento discende, cioè il “desti-no” nel senso autentico, tutto ciò è imperscrutabile.(R. GUARDINI, La fine dell’epoca moderna. Il potere, Traduzione di M. PARONETTO VALIER, Editrice Morcelliana, Brescia 1960, 112007, pp. 137-138).

5. Mentre «molti» lo acclamano (Mc 11,8), Gesù si limita a guardarsi intorno (cf v. 11) e a uscire verso Betania, «essendo l’ora già tarda». Qui si può supporre una punta di ironia da parte dell’evangelista: all’attesa messianica espressa dalle folle Marco contrappone la constatazione del calar della sera; alla motivazione che spinge le folle,

per la quale Gesù dovrebbe prendere possesso del santuario, l’evangelista sembra opporre una ragione di second’ordine per giustificare la sua uscita di scena: è tempo di andare a coricarsi! Come se nulla di essenziale potesse ormai accadere, per la salvezza e la speranza della folla, a Gerusalemme e al tempio. Questo sembra trovare conferma se si prende atto della destinazione di Gesù e dei dodici: Betania. Il seguito del racconto lo mostrerà: non è a Gerusalemme, ma a Betania che il Messia sarà unto con un’unzione perlomeno paradossale (cf 14,3-9).

L’acclamazione della folla nasce da un equivoco sulla persona di Gesù: si aspettano che sia lui il liberatore politico che li libererà dall’occupante romano. Ignorano che co-lui che acclamano è in cammino verso la sua passione, verso la croce. (E. CUVILLIER, Evangelo secondo Marco, Traduzione di LAURA MARINO (Spiritualità Biblica), Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose - Magnano BI 2011, pp. 328-329).


6. Collocare il potere nel giusto ambito significa dunque contemporaneamente delimitarlo e ispirarlo. […] C’è un ruolo indispensabile del cristiano come “sentinella” – in conseguenza del quale il potere della fede può manifestarsi come “contro-potere” –, ma anche come “ispiratore”, e il potere della fede può manifestarsi allora come profezia. […] Solo la coscienza cristiana può far emergere, tener viva continuamente una tensione vivificante tra le pesanti realtà della questione sociale e la visione evangelica del potere come servizio. Il vasaio deve avere le mani coperte d’argilla, deve conoscere le regole e i gesti che gli permettono di plasmare bene, ma non farà nulla che valga senza un’ispirazione superiore. ( O. CLÉMENT, Il potere crocifisso, p. 51).

7. Se la mitezza è un modo di essere che si fa azione e stile di vita, essa abbraccia tanto l’integrità della persona quanto la correlazione delle diverse sfere dell’esperienza umana. Da una parte, infatti, non è concepibile una mitezza che sia espressa da un individuo scisso, contraddittorio, in dissidio con sé. E d’altra parte neppure è plausibile un essere miti solo nel paesaggio dei propri sentimenti, oppure esclusivamente nelle relazioni con gli altri, senza conversione interiore. Le due cose vanno necessariamente insieme. Per questo la mitezza è uno dei tratti distintivi del compimento del cammino umano, del singolo come delle soggettività collettive. Un compimento che non è la morte, né un facile trionfo. Piuttosto l’essere miti riguarda la maturazione del modo di stare al mondo e, nel contempo, richiama implicitamente il trovarsi in situazioni tutt’altro che pacificate, situazioni di tensione che inclinerebbero naturalmente verso l’aggressività, lo scontro, la violenza, la punizione, la vendetta. L’idea stessa della mi-tezza dice il suo resistere al limite per aprire uno spazio inedito, il suo segnare una svolta. La mitezza dischiude l’evento luminoso della relazione intersoggettiva, anzi quel suo autentico avvento, che Buber ha chiamato l’“esperienza della parte opposta” (Erfahrung der Gegenseite). Si tratta dell’incontro con la resistente, spiazzante alterità dell’altro. Qui si giunge al confine in cui ciascuno è sollecitato a uscire da sé, il che dimostra come la fonte antropologica concreta, quotidiana e permanente per le nostre possibilità di conversione e di guarigione esistenziale sia data nella struttura relazionale della vita di ognuno. (R. MANCINI, La laicità come metodo. Ragioni e modi per vivere insieme (Tessiture di Laicità 1), Cittadella Editrice, Assisi 2009, pp. 75-76).

Nessun commento:

Posta un commento