FESTA DELLA SANTISSIMA TRINITÀ 3 giugno 2012
Dio
è per noi: questo è il senso della festa odierna. Il dogma trinitario, ha detto
il teologo Rémi Brague, non è altro che «lo sforzo ostinato di andare sino in
fondo all’af-fermazione giovannea per cui “Dio è amore” (1 Gv 4,8)».
Al
Sinai (seneh «roveto»), JHWH comunica a Mosè il suo Nome: «il Presente
che c’è», un Dio compassionevole e misericordioso, capace di liberazione e di
perdono. È il Dio condiscendente, che scende per liberare Israele dalla sua
oppressione (Lettura).
L’Epistola
presenta il disegno d’amore di Dio che pensa a tutti – uomini e donne –
co-me a suoi figli nel Figlio Gesù, coeredi con Lui della stessa dignità e
dello stesso dono di uno spirito di libertà. Il figlio unico è tutta la vita di
un padre, è ciò che egli più ama di tutto quanto ama: il Dio che dona il Figlio
è mosso da un amore folle. Vi è un ec-cesso nell’amare di Dio e questo eccesso
è il Figlio Gesù Cristo.
Infine,
il Vangelo presenta quanto lo Spirito è chiamato a operare come memoria
del-la vita di Gesù. Lo Spirito della verità ci guiderà alla Verità tutta
intera, perché, da una parte, farà riferimenti a quanto il Figlio avrà detto e,
dall’altra, annunzierà le cose futu-re, non parlerà da se stesso, ma dirà tutto
ciò che avrà udito e annuncerà le cose future.
L’errore
sarebbe però di intendere i tre «personaggi» della storia della salvezza quali
comparse successive, come se si trattasse di tre modi di apparire di Dio nella
storia, al modo teologico di Gioacchino da Fiore (ca 1130-1202). C’è invece una modalità di essere dell’unico
Dio, una forma del suo amore, che permette di comprendere in modo corretto la
progressiva storia della rivelazione: è la fedeltà. Fedeltà di JHWH a
Israele con cui si è legato con il vincolo di una berît «alleanza»
irrevocabile (cf Rm 11,29); fedel-tà al suo Nome, per cui la misura della
misericordia sovrasta di gran lunga la misura del giudizio (Es 34,6-7); fedeltà
persino a colui che è infedele e non corrisponde all’amore gratuito della
chiamata.
Solo
così l’amore di Dio è davvero per il mondo, per l’umanità tutta, per ogni
per-sona umana.
E solo così il suo amore, unilaterale e
incondizionato, non condanna ma salva. Dio ama così. La forma del verbo «amare»
rinvia a un evento storico preciso: la morte in croce di Gesù (cf Rm 5,8), in
cui si manifesta la forma “scandalosa” del suo amore, la forma “eccessiva” che,
nella sua unilateralità e smisuratezza, sconvolge i pa-rametri umani di
reciprocità, corrispondenza e contraccambio. Il dono sovrabbondan
te insito nell’evento della croce è il perdono di Dio, l’amore che Dio già
predispone per colui che pecca e che peccherà.
Così Dio ama. Il Dio che ama è anche il Dio che
soffre. Donare il Figlio è mettere a rischio la propria paternità pur di non
rinunciare a cercare comunione con gli uomini. Il Dio trinitario è il Dio che
non sta senza l’uomo. E l’uomo, seguendo le orme della fede di Gesù e lasciandosi
guidare dallo Spirito, abita ἡ ἀγάπη «l’amore», conosce la comunione di Dio che
è Amore, quell’Amore che è il cuore della vita trinitaria.
LETTURA
Lettura del
libro dell’Esodo 33, 18-23; 34, 5-7a
In quei
giorni. Mosè disse al Signore: «Mostrami la tua gloria!». Rispose: «Farò
passare davanti a te tutta la mia bontà e proclamerò il mio nome, Signore,
davanti a te. A chi vorrò far grazia farò grazia e di chi vorrò aver
misericordia avrò misericordia». Soggiunse: «Ma tu non potrai vedere il mio
volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo». Aggiunse il Signore:
«Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia
gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano, finché
non sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto
non si può vedere».
Allora il
Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del
Signore. Il Signore passò davanti a lui, proclamando: «Il Signore, il Signore,
Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, che
conserva il suo amore per mille
generazioni».
SALMO
Sal 62 (63)
® Ti
ho cercato, Signore, per contemplare la tua gloria.
O Dio, tu
sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco,
ha sete di
te l’anima mia,
desidera te
la mia carne
in terra
arida, assetata, senz’acqua.
Così nel
santuario ti ho contemplato,
guardando la
tua potenza e la tua gloria. ®
Poiché
il tuo amore vale più della vita,
le mie
labbra canteranno la tua lode.
Così ti
benedirò per tutta la vita:
nel tuo nome
alzerò le mie mani. ®
Come saziato
dai cibi migliori,
con labbra
gioiose ti loderà la mia bocca.
Quando nel
mio letto di te mi ricordo
e penso a te
nelle veglie notturne,
a te che sei
stato il mio aiuto,
esulto di
gioia all’ombra delle tue ali. ®
EPISTOLA
Lettera di
san Paolo apostolo ai Romani 8, 1-9b
Fratelli,
non c’è nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Perché la legge
dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù, ti ha liberato dalla legge del
peccato e della morte. Infatti ciò che era impossibile alla Legge, resa
impotente a causa della carne, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio
Figlio in una carne simile a quella del peccato e a motivo del peccato, egli ha
condannato il peccato nella carne, perché la giustizia della Legge fosse
compiuta in noi, che camminiamo non secondo la carne ma secondo lo Spirito.
Quelli
infatti che vivono secondo la carne, tendono verso ciò che è carnale; quelli
invece che vivono secondo lo Spirito, tendono verso ciò che è spirituale. Ora,
la carne tende alla morte, mentre lo Spirito tende alla vita e alla pace. Ciò a
cui tende la carne è contrario a Dio, perché non si sottomette alla legge di
Dio, e neanche lo potrebbe. Quelli che si lasciano dominare dalla carne non
possono piacere a Dio.
Voi però non
siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo
Spirito di Dio abita in
voi.
VANGELO
Lettura del
Vangelo secondo Giovanni 15, 24-27
In quel
tempo. Il Signore Gesù disse ai suoi discepoli: «Se non avessi compiuto in
mezzo a loro opere che nessun altro ha mai compiuto, non avrebbero alcun
peccato; ora invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio. Ma questo,
perché si compisse la parola che sta scritta nella loro Legge: “Mi hanno odiato
senza ragione”.
Quando verrà
il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal
Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché
siete con me fin dal
principio».
VANGELO:
Gv 15,24-27
La
sezione di Gv 13-17 è una “contemplazione teologica” della Pasqua di Gesù alla
luce della Pasqua ebraica. Di notte, Israele celebra la Pasqua come memoria del
pas-saggio di liberazione dalla casa degli schiavi alla terra della ʿăbōdâ ad
JHWH, in un cammino nel deserto guidato dallo Spirito. Di notte, Gesù vive la
sua Pasqua come passaggio di liberazione dalla tenebra della morte
all’irradiazione della gloria del Padre, in un cammino condotto dallo Spirito.
Il discepolo dovrà custodire la memoria della Pasqua del maestro e vivere la
sua esistenza sorretto dallo stesso Spirito che ha guidato Gesù ad amare εἰς τέλος
«sino all’estremo» (Gv 13,1).
L’ampia
sezione è divisa in tre sequenze, ciascuna con una propria caratterizzazione:
a) capp. 13-14: l’ultimo δεῖπνον
«pasto» (13,2. 4) consumato da Gesù con i suoi discepoli, prima di uscire fuori
(14,31; in realtà l’attraversamento del Cedron per entrare nel «giardino» del
Getsemani avviene solo in 18,1). Questa prima sequenza è la fondazione della
comunità dei discepoli che deve costituirsi sul comandamento dell’amore;
b)
capp.
15-16: il “testamento” di Gesù, con un’ambientazione “spirituale” più che
topografica. Sembra che Gesù parli al di fuori di ogni luogo, nel non-luogo
(= utopia) dello Spirito. Le parole del Maestro sono una consegna alla
comunità dei discepoli che dovrà passare in mezzo a un mondo di odio e di
morte. Il sostegno
dello Spirito permetterà loro di non smarrire la certezza di essere amati dal
Padre e di poter vincere quel mondo;
c) cap. 17: la “preghiera” di Gesù, con la sua intercessione per
i discepoli del primo gruppo (vv. 6-19) e i discepoli delle generazioni future
(vv. 20-23), perché tutti possano portare a compimento quel disegno di
comunione già voluto dal Padre «prima della creazione del mondo».
La seconda sezione, quella pertiene alla pericope liturgica
odierna, si articola in tre sottosezioni, che R.E. Brown propone di organizzare
nel seguente modo:
A) Gv 15,1-17: la vite e i tralci
vv. 1-6: il māšāl
vv. 7-17: parenesi sull’amore
B) Gv 15,18 – 16,4a: l’odio del mondo per Gesù e i suoi
discepoli
a. vv. 18-21: il mondo
odia e perseguita i discepoli
b. vv. 22-25: il
peccato del mondo
c. vv. 26-27: la
testimonianza del Paraclito
d. vv. 16,1-4a: la persecuzione dei discepoli
A’) Gv 16,4b-33: ripresa della prima sottosezione
e. vv. 4b-15: la
dipartita di Gesù e la venuta del Paraclito
f. vv. 16-33: il ritorno di Gesù porterà ai discepoli gioia e
chiarezza
La seconda sezione sviluppa quindi la “figura” della comunità
dei discepoli quale «vite» innestata – tramite Gesù «figlio di Giuseppe, di
Nazaret» (Gv 1,45) e «Figlio uni-genito che viene dal Padre» (Gv 1,14) –
nell’unica «vigna» che è Israele (secondo l’immagine fissata da Is 5,1-7 e Sal
80). I discepoli devono «rimanere» uniti come tralci alla vite per poter
ricevere la linfa vitale dello Spirito (Gv 15,1-6).
Da qui nascono le conseguenti considerazioni della sezione,
al cui centro sta il ruolo svolto da τὸ πνεῦμα τῆς ἀληθείας «lo Spirito della
Verità, il vero Spirito» nei riguardi dell’opposizione del “mondo” ai
discepoli. La chiusura di Gv 16,33 sta a dire che tale opposizione del mondo ai
discepoli non deve essere interpretata come segno di sconfit-ta, perché la vera
vittoria sta nella risurrezione di Cristo.
Il passo scelto dalla liturgia odierna comprende la parte
centrale della sezione (para-grafo B): i vv. 24-25, con la sottolineatura del
«peccato del mondo»; e i vv. 26-27, con la presentazione dello Spirito come
«aiuto, avvocato, consolatore» (ὁ παράκλητος) dei discepoli di fronte
all’opposizione del “mondo”.
22Se io non fossi venuto e non avessi parlato loro, non
avrebbero alcun pecca-to; ma ora non hanno scusa per il loro peccato. 23Chi
odia me, odia anche il Pa-dre mio. 24Se non avessi
compiuto in mezzo a loro opere che nessun altro ha mai compiuto, non avrebbero
alcun peccato; ora invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio. 25Ma
questo, perché si compisse la paro-la che sta scritta nella loro Legge: Mi
hanno odiato senza ragione.
26 Quando verrà il Paraclito, che io vi manderò dal Padre, lo
Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; 27 e
an-che voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio.
I due paragrafi della
pericope liturgica annunziano l’odio senza ragione (v. 25: δωρεάν)
che il “mondo” nutre nei riguardi di Gesù e, di contro, l’attività dello
«Spirito della verità» che rende testimonianza a Gesù con i discepoli (Gv
15,26-27). Gesù ha già parlato ai discepoli della missione della sua comunità
(15,1-11) che vive nell’amore vi-cendevole (15,12-17) e della persecuzione che
il mondo ingiusto le opporrà (15,18-21). Ora Gesù anticipa quanto gli sta
accadendo e richiama il compito della testimonianza: non nasconde la difficoltà
dell’opposizione, ma insieme conforta i suoi discepoli con la promessa di aiuto
dello Spirito (cf Gv 16,4b-15).
vv. 24-25: Sarebbe necessario leggere anche
i vv. 22-23, in quanto mettono in luce che il giudizio di cui parla Gesù è un autogiudizio
(Gv 5,22-24; 12,47-50) e insieme la pro-lessi del giudizio ultimo davanti a
Dio: «Chi odia me, odia anche il Padre mio» (v. 23).
Nel suo ministero, Gesù non solo ha annunziato la parola di
Dio, ma ha anzitutto realizzato le opere di Dio, che accreditavano le sue
parole (cf Gv 4,34; 5,19. 30. 36; 6,38; 10,37s). I suoi interlocutori, anziché
accettarle, hanno preso in odio non solo Ge-sù, ma il Padre stesso. Attraverso
la Legge stessa, che era santa, erano riusciti a far di-menticare la
rivelazione dei profeti (cf Gv 5,36s), trasformando la Legge da medium a
fine della rivelazione stessa (Gv 5,39.46). Il potere dei sacerdoti ha
trasformato in senso “mondano” ciò che invece era salvezza per tutti gli uomini
e così l’ingiustizia conduce a odiare anche il Padre, che vive e si manifesta
in Gesù.
Si noti che nei vv. 23 e 24 il Padre è sempre citato da Gesù
come «mio Padre», in quanto il riferimento a Dio riguarda il suo agire in Gesù,
il Figlio unico: odiando il Fi-glio, si giunge a odiare anche chi l’ha
generato.
La citazione introdotta dal Quarto Vangelo è un collage di
Sal 35,19 e 69,5. Quando infatti si parla di Legge (cf Gv 10,34),
s’intende riferirsi a tutte le Sacre Scritture di Israele.
Sta di fatto che nessun’altra citazione è introdotta con la
formula del v. 25 (ἀλλ᾽ ἵνα πληρωθῇ ὁ λόγος ὁ ἐν τῷ νόμῳ αὐτῶν γεγραμμένος «ma
perché si compisse la parola scritta nella loro Legge»), che mette in relazione
la Parola (ὁ λόγος), la Scrittura (ὁ … γεγραμμένος) e la Legge (ὁ νόμος). Così
Giovanni anticipa il motivo della condanna a morte da parte dei sacerdoti (Gv
19,7) e il momento stesso della morte in croce (Gv 19,28). È ormai chiaro che
gli avversari di Gesù, avendo rovesciato il significato della Sacra Scrittura
(la loro Legge), appartengono allo stesso “mondo” di tutti coloro che si
oppongono al disegno di Dio. Professandosi fedeli alla loro Legge, la
compiono con il loro odio. Alla parola (λόγος: Gv 14,23s) di Gesù, che è quella
del Padre, una parola che dice amore gratuito (cf 1,14), si contrappone il logos
di questa Legge, una parola che esprime odio. Questo odio che sta
scritto solo nella Legge interpretata così dai sa-cerdoti si oppone
all’amore gratuito che sta scritto definitivamente in quel nome posto al
di sopra della croce, indelebile (Gv 19,19).
Insomma, l’alternativa dell’amore espresso dalla croce di
Gesù non può in nessun modo essere accostato al “mondo” e ai sistemi ingiusti
che esso genera. I discepoli hanno rotto con questo “mondo” e per questo
sperimentano lo stesso odio che era sta-to riversato su Gesù. L’ostilità contro
i discepoli è la medesima che il “mondo” ha contro il Padre. Il “mondo”,
infatti, vorrebbe un Dio garante del sistema, non il Padre di Gesu che libera
dall’oppressione (Gv 5), denuncia le ingiustizie (Gv 7) e conduce il popolo
alla vera libertà esodica (Gv 6).
vv. 26-27:
Se nella prima parte del discorso Gesù prometteva ai discepoli la perma-nenza
in loro dello Spirito della verità (Gv 14,17), che farà loro penetrare il suo
mes-saggio (14,26). Ora annuncia il ruolo che lo Spirito avrà nella missione:
rendere testi-monianza a favore di Gesù stesso, condannato dal mondo.
Lo Spirito, la rûaḥ «vento, alito», è «l’alito di
Dio», l’espressione della sua vita che «esce» (procede) dall’intimo del
suo essere. Il senso di “vento” ne indica al tempo stesso la forza (cf Gn 1,
2): è lo Spirito creatore, che procede da Dio stesso come Padre. Que-sto processo
è continuo e rappresenta un flusso incessante di vita che procede da Dio.
Questo Spirito, che è forza e vita, e perciò «Spirito della verità» (cf Gv 1,4:
«e la vita era la luce dell’uomo»), renderà testimonianza a Gesù, colui che è e
dà la vita.
Renderà questa testimonianza all’interno della comunità,
assicurandola della verità del suo messaggio e del suo operato. Si tratta della
testimonianza profetica che sostiene i discepoli, confermando l’esperienza dei
suoi membri e sostenendo l’atteggiamento di rottura con il mondo in senso
negativo, quello che si oppone a Dio e si presenta come idolatria.
In questo passo Gesù non parla di «suo Padre» (cf invece Gv
15,23-24), ma «del Pa-dre» tout court, perché la relazione con «il
Padre» sarà di ogni persona che risponderà al-la sua chiamata. Lo Spirito, la
forza di vita, è la salvezza che Gesù porta, offerta all’umanità intera (Gv
3,17; 12,47).
La testimonianza dello Spirito di fronte al mondo è
continuata dalla testimonianza dei discepoli. Lo «Spirito della verità» sarà in
loro (Gv 14,17), e così la loro voce sarà quella dello Spirito (Gv 3,8). Il
confronto fra Gesù e il mondo non terminerà con la morte di lui; al contrario,
si estenderà tramite i suoi discepoli.
Il Padre realizza il suo disegno: dare vita all’umanità (Gv
6,40) inviando Gesù, cui comunica pienamente il suo Spirito (Gv 1,32-34; 3,16s;
4,34; 5,30; 6,39.40). Gesù lo comunica ai suoi perché essi continuino la sua
opera. Lo Spirito, nella sua testimo-nianza a favore di Gesù, la interpreta (cf
Gv 14,25-26); il gruppo che riceve questa te-stimonianza rinnova in ogni epoca
l’opera di Gesù, e in questo consiste la sua testimo-nianza.
I discepoli possono rendere testimonianza a Gesù perché sono
con lui fin dal prin-cipio. Bisogna domandarsi cosa significhi questa
espressione. Nel vangelo appaiono con Gesù fin dal principio soltanto Andrea e
un altro discepolo di Giovanni; poi, a se-guire, Pietro, Filippo e Natanaele
(Gv 1,35-51). L’espressione fin dal principio non può quindi avere un
semplice significato cronologico. Ogni discepolo, in qualunque epoca, è
chiamato a render testimonianza a Gesù. Queste parole sono dunque valide e
appli-cabili a ogni discepolo. Ciò che l’evangelista afferma è che per rendere
questa testimo-nianza è necessario accettare come norma tutta la vita di Gesù, fin
dal principio, senza separare il Gesù risuscitato dal Gesù terreno.
Mettersi in rapporto unicamente con Gesù glorioso è la tentazione spiritualista
e gnostica già della prima ora (cf 1 Gv 4,2-3; 5,6). L’insistenza di Giovanni è
di accettare la singolarità di Gesù Uomo-Dio.
Bisogna mettere in parallelo due testimonianze che appaiono
nel vangelo: quella di Giovanni Battista, che precede la missione di Gesù, e
quella dei discepoli, che la segue.
La testimonianza del Battista si concentrava sulla visione
dello Spirito che scendeva e rimaneva su Gesù (Gv 1,32s) e sull’annuncio del
dono dello Spirito (1,33); l’obiettivo della sua missione era che il Messia si
manifestasse a Israele (1,31).
La testimonianza dei
discepoli su Gesù riguarda invece la sua missione realizzata della quale essi
sono frutto e continuazione. Essi hanno ricevuto lo Spirito, che li so-stiene
nella loro missione, rendendo testimonianza insieme con loro. Giovanni
annun-ciava un fatto venturo; i discepoli, la loro esperienza con Gesù.
In questo modo, Giovanni accentua la centralità di Gesù nella
storia. Con il Battista termina l’epoca dell’attesa. Dopo Gesù, che ha
inaugurato la pienezza dei tempi, spet-ta ai discepoli annunciare la loro
esperienza di lui. Ma non si può rendere tale testimo-nianza se non si è con
lui, cioè se non si sperimenta la sua presenza, e questo fin dal
principio, accettando la sua intera realtà umano-divina.
PER LA NOSTRA VITA
1. Il mistero e la grandezza della premura del Dio infinito
per l’uomo finito sono la prospettiva fondamentale della tradizione biblica.
Questo mistero è accresciuto dall’aspetto dell’immediatezza. Dio è premuroso direttamente.
Non si interessa tramite agenti intermedi. Egli si prende cura personalmente.
[…]
Non sono disposto ad accettare l’idea tradizionale della
preghiera come dialogo. Chi siamo noi per entrare in dialogo con Dio? La
metafora migliore consisterebbe nel de-scrivere la preghiera come un atto di
immersione… un’immersione nelle acque! Ci si sente circondati, abbracciati
dalle acque, sprofondati nelle acque della misericordia. […]
Quanto più intensa è la prossimità a Dio, tanto più ovvia
diventa l’assurdità dell’“io”. L’“io” è polvere e cenere, dice Abramo. Dopo
prosegue in dialogo con Dio a discutere con lui sulla salvezza della città di
Sodoma e Gomorra. Solo Dio dice “Io”. Così iniziano i dieci comandamenti: “Io
sono JHWH”. La preghiera è il momento in cui l’umiltà diventa realtà.
L’umiltà non è una virtù. L’umiltà è verità. Tutto il resto è illu-sione. A.J. HESCHEL, Il canto della libertà. La
vita interiore e la liberazione dell’uomo, Traduzione di E. GATTI
(Spiritualità Ebraica), Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose - Magnano BI 1999,
pp. 95-98.
2. La parola dell’uomo proceda dal suo silenzio davanti a Dio
e dalla pienezza del-la sua vita in Dio. Questa pienezza della vita è l’amore.
Si deve capire la parola parten-do dall’amore, altrimenti non la si capisce
nella sua natura profonda. Quelli che rifletto-no sulla parola devono
esser filologi, devono amare la parola. Ma si deve anche illumi-nare
l’amore con il significato essenziale della parola – altrimenti alla fine lo si
intende, o lo si fraintende, soltanto come amor proprio, autofilia, cupidigia,
avidità e, quando va bene, come l’eros della filosofia di Platone. Il vero
amore invece è di più, è qualcosa di assolutamente diverso dall’amore
platonico. Esso è – come la parola – la realizzazio-ne del rapporto al tu, del
rapporto all’uomo e a Dio. F. EBNER, Parola e amore. Dal diario 1916/17.
Aforismi 1931, a cura di E. DUCCI - P. ROSSANO (Testi di Spiritualità),
Rusconi Editore, Milano 1983, p. 137.
3. Tutte le volte che pronunziamo l’enunciato della nostra
fede trinitaria – un Dio in tre persone, Padre, Figlio e Spirito Santo –,
rischiamo di farlo diventare una formula algebrica, che ci tiene lontano dal
mistero, e colloca la fede in una separazione netta tra sacro e profano.
Eppure, la rivelazione trinitaria è proprio il superamento dell’idea
del “sacro”, il chiuso
dove vivrebbe Dio, e il “profano”, il tutt’altro da Dio, la nostra vita. [...]
Tutta la rivelazione biblica si presenta come lo spasimo del cuore di Dio per
l’uomo. Gregorio Magno voleva che si leggessero le sacre Scritture proprio per
impara-re a conoscere il “cuore di Dio”: Disce cor Dei in verbis Dei… La
Parola di Dio ascoltata è una scuola di conoscenza del cuore di Dio. B. CALATI, Conoscere
il cuore di Dio. Omelie per l’anno liturgico, Introduzione di P. STEFANI
(Quaderni di Camaldoli 11), EDB, Bologna 2001, pp. 79-80.
4. Il mistero della vita intima di Dio è traboccante di
conoscenza e di amore. La sua ricchezza di perfezione si espande in conoscenza
di sé e in amore che, senza intac-care l’unità assoluta del suo essere, danno
origine in lui a delle realtà viventi e persona-li. Gesù ha rivelato questa
ricchezza della vita intima di Dio adoperando parole e im-magini tratte dalla
vita degli uomini: disse che il Padre ha mandato per amore il pro-prio Figlio
unigenito nel mondo per condurre gli uomini a sé, e che il Padre e il Figlio
inviano lo Spirito Santo per renderli santi e figli di Dio. Perciò il
cristianesimo crede nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo, un unico Dio,
vivente in tre persone che possiedono l’identica natura divina. La ragione
umana sperimenta la sua impotenza davanti a questo mistero, ma l’esistenza
cristiana è tutta dominata da esso, perché è nel contatto con ciascuna di
queste persone divine che si opera la salvezza.
Volendo trovare
un’immagine, la teologia cristiana ha pensato nella vita divina un dinamismo
simile a quello che esiste nell’uomo tra lo spirito che pensa e il pensiero che
è prodotto o generato. Naturalmente Figlio in Dio è da intendersi non in senso
biologico, ma come un’espressione, tratta dal mondo creato, per esprimere una
realtà che lo trascende. Per questo dunque la seconda Persona viene detta
Figlio del Padre e Verbo cioè pensiero-parola. Quanto alla terza Persona, essa
viene pensata come l’Amore che unisce le altre due persone e per questo lo
Spirito Santo viene spesso chiamato Amore. Un antico poeta cristiano canta: Un’immagine
del Padre la puoi trovare nel sole, del Figlio nel suo splendore, dello Spirito
santo nel suo calore. E tuttavia è una sola cosa. Ma chi può spiegare
l’incomprensibile? P.TARCISIO
GEIJER, Testo inedito (Certosa di Vedana, giugno 1969).
5. La comunità ha bisogno ogni volta, nel suo cammino nel mondo,
di guida e di conoscenza. Di fronte a nuovi problemi, nuove necessità, essa ha
lo Spirito Santo co-me maestro che a lei “tutto insegna” (Gv 14,26). In
nessun passo importante essa ri-marrà senza guida e conoscenza, e di questa
conoscenza può essere sicura, perché vie-ne dallo Spirito Santo e non dalla
ragione umana. Così, la chiesa accoglierà nel corso della storia nuove
conoscenze, senza cessare di imparare e di ascoltare lo Spirito Santo.
Lo Spirito Santo non è lettera morta, ma il Dio vivente (2
Cor 3,6). Così alla comu-nità è lecito affidarsi in ogni decisione allo
Spirito Santo e credere fermamente che esso sarà presente e opererà in lei e
non ci farà brancolare nel buio se soltanto ascolteremo seriamente il suo
ammaestramento.
Ogni ammaestramento dello Spirito Santo rimane però legato
alla parola di Gesù. Il nuovo si fonda così sull’antico. All’ammaestramento
subentra così il ricorso. Se vi fos-se solo il ricordo nella chiesa, allora
essa sarebbe vittima di un morto passato, se vi fos-se soltanto l’insegnamento
senza il ricordo, sarebbe consegnata all’entusiasmo.
Così lo Spirito Santo,
come il vero consolatore della comunità, fa entrambe le cose, guida
quest’ultima in avanti e la tiene ferma a Gesù (Mt 13,52). D. BONHOEFFER, Voglio
vivere questi giorni con voi, a cura di M. WEBER, Traduzione dal tedesco di
A. AGUTI - G. FERRARI (Books), Editrice Queriniana, Brescia 2007, pp. 187.
6. Il presente è l’ora della piena responsabilità di Dio
verso di noi, ogni presente. […] Chi fugge dal presente, fugge il tempo di Dio;
chi fugge dal tempo, fugge Dio. Servite il tempo! Il signore del tempo è Dio,
la svolta dei tempi è Cristo, il giusto spiri-to dei tempi è lo Spirito Santo.
Così, in ogni istante si nascondono tre cose: che io ri-conosco Dio come il
Signore della mia vita, che mi piego davanti al Cristo come al punto di svolta
della mia vita dal giudizio alla grazia, che tento di creare spazio e forza in
mezzo allo spirito del mondo per lo Spirito Santo. D. BONHOEFFER, Voglio
vivere questi giorni con voi, p. 184.
Sei tanto lontano
da non poterti raggiungere
o senza avvedermene
ti ho oltrepassato...
uscito dalla parabola
tu o io dall’inseguimento?
o l’uno e l’altro al sommo
della sua inesistenza,
l’uno e l’altro al punto
più alto
di unità
e di non differenza,
equiparati
in tutto
da reciproco annullamento,
in tutto, in
tutto, compiutissimamente?
M. LUZI, L’opera poetica, a cura
e con un saggio introduttivo di S. VERDINO (I Meridiani), Arnoldo Mondadori
Editore, Milano 1998, 42001, p. 696
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