venerdì 1 giugno 2012

FESTA DELLA SANTISSIMA TRINITÀ 3 giugno 2012



 FESTA DELLA SANTISSIMA TRINITÀ  3 giugno 2012


Dio è per noi: questo è il senso della festa odierna. Il dogma trinitario, ha detto il teologo Rémi Brague, non è altro che «lo sforzo ostinato di andare sino in fondo all’af-fermazione giovannea per cui “Dio è amore” (1 Gv 4,8)».

Al Sinai (seneh «roveto»), JHWH comunica a Mosè il suo Nome: «il Presente che c’è», un Dio compassionevole e misericordioso, capace di liberazione e di perdono. È il Dio condiscendente, che scende per liberare Israele dalla sua oppressione (Lettura).

L’Epistola presenta il disegno d’amore di Dio che pensa a tutti – uomini e donne – co-me a suoi figli nel Figlio Gesù, coeredi con Lui della stessa dignità e dello stesso dono di uno spirito di libertà. Il figlio unico è tutta la vita di un padre, è ciò che egli più ama di tutto quanto ama: il Dio che dona il Figlio è mosso da un amore folle. Vi è un ec-cesso nell’amare di Dio e questo eccesso è il Figlio Gesù Cristo.

Infine, il Vangelo presenta quanto lo Spirito è chiamato a operare come memoria del-la vita di Gesù. Lo Spirito della verità ci guiderà alla Verità tutta intera, perché, da una parte, farà riferimenti a quanto il Figlio avrà detto e, dall’altra, annunzierà le cose futu-re, non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e annuncerà le cose future.

L’errore sarebbe però di intendere i tre «personaggi» della storia della salvezza quali comparse successive, come se si trattasse di tre modi di apparire di Dio nella storia, al modo teologico di Gioacchino da Fiore (ca 1130-1202).  C’è invece una modalità di essere dell’unico Dio, una forma del suo amore, che permette di comprendere in modo corretto la progressiva storia della rivelazione: è la fedeltà. Fedeltà di JHWH a Israele con cui si è legato con il vincolo di una berît «alleanza» irrevocabile (cf Rm 11,29); fedel-tà al suo Nome, per cui la misura della misericordia sovrasta di gran lunga la misura del giudizio (Es 34,6-7); fedeltà persino a colui che è infedele e non corrisponde all’amore gratuito della chiamata.
Solo così l’amore di Dio è davvero per il mondo, per l’umanità tutta, per ogni per-sona umana.

E solo così il suo amore, unilaterale e incondizionato, non condanna ma salva. Dio ama così. La forma del verbo «amare» rinvia a un evento storico preciso: la morte in croce di Gesù (cf Rm 5,8), in cui si manifesta la forma “scandalosa” del suo amore, la forma “eccessiva” che, nella sua unilateralità e smisuratezza, sconvolge i pa-rametri umani di reciprocità, corrispondenza e contraccambio. Il dono sovrabbondan te insito nell’evento della croce è il perdono di Dio, l’amore che Dio già predispone per colui che pecca e che peccherà.
Così Dio ama. Il Dio che ama è anche il Dio che soffre. Donare il Figlio è mettere a rischio la propria paternità pur di non rinunciare a cercare comunione con gli uomini. Il Dio trinitario è il Dio che non sta senza l’uomo. E l’uomo, seguendo le orme della fede di Gesù e lasciandosi guidare dallo Spirito, abita ἡ ἀγάπη «l’amore», conosce la comunione di Dio che è Amore, quell’Amore che è il cuore della vita trinitaria.


LETTURA
Lettura del libro dell’Esodo 33, 18-23; 34, 5-7a

In quei giorni. Mosè disse al Signore: «Mostrami la tua gloria!». Rispose: «Farò passare davanti a te tutta la mia bontà e proclamerò il mio nome, Signore, davanti a te. A chi vorrò far grazia farò grazia e di chi vorrò aver misericordia avrò misericordia». Soggiunse: «Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo». Aggiunse il Signore: «Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano, finché non sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere».
Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. Il Signore passò davanti a lui, proclamando: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni».           

SALMO
Sal 62 (63)

®  Ti ho cercato, Signore, per contemplare la tua gloria.

O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco,
ha sete di te l’anima mia,
desidera te la mia carne
in terra arida, assetata, senz’acqua.
Così nel santuario ti ho contemplato,
guardando la tua potenza e la tua gloria. ®
 Poiché il tuo amore vale più della vita,
le mie labbra canteranno la tua lode.
Così ti benedirò per tutta la vita:
nel tuo nome alzerò le mie mani. ®


Come saziato dai cibi migliori,
con labbra gioiose ti loderà la mia bocca.
Quando nel mio letto di te mi ricordo
e penso a te nelle veglie notturne,
a te che sei stato il mio aiuto,
esulto di gioia all’ombra delle tue ali. ®

EPISTOLA
Lettera di san Paolo apostolo ai Romani 8, 1-9b

Fratelli, non c’è nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Perché la legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù, ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte. Infatti ciò che era impossibile alla Legge, resa impotente a causa della carne, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e a motivo del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, perché la giustizia della Legge fosse compiuta in noi, che camminiamo non secondo la carne ma secondo lo Spirito.
Quelli infatti che vivono secondo la carne, tendono verso ciò che è carnale; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, tendono verso ciò che è spirituale. Ora, la carne tende alla morte, mentre lo Spirito tende alla vita e alla pace. Ciò a cui tende la carne è contrario a Dio, perché non si sottomette alla legge di Dio, e neanche lo potrebbe. Quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio.
Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi.           
 VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Giovanni 15, 24-27

In quel tempo. Il Signore Gesù disse ai suoi discepoli: «Se non avessi compiuto in mezzo a loro opere che nessun altro ha mai compiuto, non avrebbero alcun peccato; ora invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio. Ma questo, perché si compisse la parola che sta scritta nella loro Legge: “Mi hanno odiato senza ragione”.
Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio».           

 


VANGELO: Gv 15,24-27

La sezione di Gv 13-17 è una “contemplazione teologica” della Pasqua di Gesù alla luce della Pasqua ebraica. Di notte, Israele celebra la Pasqua come memoria del pas-saggio di liberazione dalla casa degli schiavi alla terra della ʿăbōdâ ad JHWH, in un cammino nel deserto guidato dallo Spirito. Di notte, Gesù vive la sua Pasqua come passaggio di liberazione dalla tenebra della morte all’irradiazione della gloria del Padre, in un cammino condotto dallo Spirito. Il discepolo dovrà custodire la memoria della Pasqua del maestro e vivere la sua esistenza sorretto dallo stesso Spirito che ha guidato Gesù ad amare εἰς τέλος «sino all’estremo» (Gv 13,1).
L’ampia sezione è divisa in tre sequenze, ciascuna con una propria caratterizzazione:
a) capp. 13-14: l’ultimo δεῖπνον «pasto» (13,2. 4) consumato da Gesù con i suoi discepoli, prima di uscire fuori (14,31; in realtà l’attraversamento del Cedron per entrare nel «giardino» del Getsemani avviene solo in 18,1). Questa prima sequenza è la fondazione della comunità dei discepoli che deve costituirsi sul comandamento dell’amore;
b) capp. 15-16: il “testamento” di Gesù, con un’ambientazione “spirituale” più che topografica. Sembra che Gesù parli al di fuori di ogni luogo, nel non-luogo (= utopia) dello Spirito. Le parole del Maestro sono una consegna alla comunità dei discepoli che dovrà passare in mezzo a un mondo di odio e di

morte. Il sostegno dello Spirito permetterà loro di non smarrire la certezza di essere amati dal Padre e di poter vincere quel mondo;
c) cap. 17: la “preghiera” di Gesù, con la sua intercessione per i discepoli del primo gruppo (vv. 6-19) e i discepoli delle generazioni future (vv. 20-23), perché tutti possano portare a compimento quel disegno di comunione già voluto dal Padre «prima della creazione del mondo».

La seconda sezione, quella pertiene alla pericope liturgica odierna, si articola in tre sottosezioni, che R.E. Brown propone di organizzare nel seguente modo:
A) Gv 15,1-17: la vite e i tralci

vv. 1-6: il māšāl
vv. 7-17: parenesi sull’amore
B) Gv 15,18 – 16,4a: l’odio del mondo per Gesù e i suoi discepoli
a. vv. 18-21: il mondo odia e perseguita i discepoli
b. vv. 22-25: il peccato del mondo
c. vv. 26-27: la testimonianza del Paraclito
d. vv. 16,1-4a: la persecuzione dei discepoli

A’) Gv 16,4b-33: ripresa della prima sottosezione
e. vv. 4b-15: la dipartita di Gesù e la venuta del Paraclito
f. vv. 16-33: il ritorno di Gesù porterà ai discepoli gioia e chiarezza

La seconda sezione sviluppa quindi la “figura” della comunità dei discepoli quale «vite» innestata – tramite Gesù «figlio di Giuseppe, di Nazaret» (Gv 1,45) e «Figlio uni-genito che viene dal Padre» (Gv 1,14) – nell’unica «vigna» che è Israele (secondo l’immagine fissata da Is 5,1-7 e Sal 80). I discepoli devono «rimanere» uniti come tralci alla vite per poter ricevere la linfa vitale dello Spirito (Gv 15,1-6).
Da qui nascono le conseguenti considerazioni della sezione, al cui centro sta il ruolo svolto da τὸ πνεῦμα τῆς ἀληθείας «lo Spirito della Verità, il vero Spirito» nei riguardi dell’opposizione del “mondo” ai discepoli. La chiusura di Gv 16,33 sta a dire che tale opposizione del mondo ai discepoli non deve essere interpretata come segno di sconfit-ta, perché la vera vittoria sta nella risurrezione di Cristo.
Il passo scelto dalla liturgia odierna comprende la parte centrale della sezione (para-grafo B): i vv. 24-25, con la sottolineatura del «peccato del mondo»; e i vv. 26-27, con la presentazione dello Spirito come «aiuto, avvocato, consolatore» (ὁ παράκλητος) dei discepoli di fronte all’opposizione del “mondo”.
22Se io non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero alcun pecca-to; ma ora non hanno scusa per il loro peccato. 23Chi odia me, odia anche il Pa-dre mio. 24Se non avessi compiuto in mezzo a loro opere che nessun altro ha mai compiuto, non avrebbero alcun peccato; ora invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio. 25Ma questo, perché si compisse la paro-la che sta scritta nella loro Legge: Mi hanno odiato senza ragione.
26 Quando verrà il Paraclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; 27 e an-che voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio.

I due paragrafi della pericope liturgica annunziano l’odio senza ragione (v. 25: δωρεάν) che il “mondo” nutre nei riguardi di Gesù e, di contro, l’attività dello «Spirito della verità» che rende testimonianza a Gesù con i discepoli (Gv 15,26-27). Gesù ha già parlato ai discepoli della missione della sua comunità (15,1-11) che vive nell’amore vi-cendevole (15,12-17) e della persecuzione che il mondo ingiusto le opporrà (15,18-21). Ora Gesù anticipa quanto gli sta accadendo e richiama il compito della testimonianza: non nasconde la difficoltà dell’opposizione, ma insieme conforta i suoi discepoli con la promessa di aiuto dello Spirito (cf Gv 16,4b-15).
vv. 24-25: Sarebbe necessario leggere anche i vv. 22-23, in quanto mettono in luce che il giudizio di cui parla Gesù è un autogiudizio (Gv 5,22-24; 12,47-50) e insieme la pro-lessi del giudizio ultimo davanti a Dio: «Chi odia me, odia anche il Padre mio» (v. 23).
Nel suo ministero, Gesù non solo ha annunziato la parola di Dio, ma ha anzitutto realizzato le opere di Dio, che accreditavano le sue parole (cf Gv 4,34; 5,19. 30. 36; 6,38; 10,37s). I suoi interlocutori, anziché accettarle, hanno preso in odio non solo Ge-sù, ma il Padre stesso. Attraverso la Legge stessa, che era santa, erano riusciti a far di-menticare la rivelazione dei profeti (cf Gv 5,36s), trasformando la Legge da medium a fine della rivelazione stessa (Gv 5,39.46). Il potere dei sacerdoti ha trasformato in senso “mondano” ciò che invece era salvezza per tutti gli uomini e così l’ingiustizia conduce a odiare anche il Padre, che vive e si manifesta in Gesù.
Si noti che nei vv. 23 e 24 il Padre è sempre citato da Gesù come «mio Padre», in quanto il riferimento a Dio riguarda il suo agire in Gesù, il Figlio unico: odiando il Fi-glio, si giunge a odiare anche chi l’ha generato.
La citazione introdotta dal Quarto Vangelo è un collage di Sal 35,19 e 69,5. Quando infatti si parla di Legge (cf Gv 10,34), s’intende riferirsi a tutte le Sacre Scritture di Israele.
Sta di fatto che nessun’altra citazione è introdotta con la formula del v. 25 (ἀλλ᾽ ἵνα πληρωθῇ ὁ λόγος ὁ ἐν τῷ νόμῳ αὐτῶν γεγραμμένος «ma perché si compisse la parola scritta nella loro Legge»), che mette in relazione la Parola (ὁ λόγος), la Scrittura (ὁ … γεγραμμένος) e la Legge (ὁ νόμος). Così Giovanni anticipa il motivo della condanna a morte da parte dei sacerdoti (Gv 19,7) e il momento stesso della morte in croce (Gv 19,28). È ormai chiaro che gli avversari di Gesù, avendo rovesciato il significato della Sacra Scrittura (la loro Legge), appartengono allo stesso “mondo” di tutti coloro che si oppongono al disegno di Dio. Professandosi fedeli alla loro Legge, la compiono con il loro odio. Alla parola (λόγος: Gv 14,23s) di Gesù, che è quella del Padre, una parola che dice amore gratuito (cf 1,14), si contrappone il logos di questa Legge, una parola che esprime odio. Questo odio che sta scritto solo nella Legge interpretata così dai sa-cerdoti si oppone all’amore gratuito che sta scritto definitivamente in quel nome posto al di sopra della croce, indelebile (Gv 19,19).
Insomma, l’alternativa dell’amore espresso dalla croce di Gesù non può in nessun modo essere accostato al “mondo” e ai sistemi ingiusti che esso genera. I discepoli hanno rotto con questo “mondo” e per questo sperimentano lo stesso odio che era sta-to riversato su Gesù. L’ostilità contro i discepoli è la medesima che il “mondo” ha contro il Padre. Il “mondo”, infatti, vorrebbe un Dio garante del sistema, non il Padre di Gesu che libera dall’oppressione (Gv 5), denuncia le ingiustizie (Gv 7) e conduce il popolo alla vera libertà esodica (Gv 6).

vv. 26-27: Se nella prima parte del discorso Gesù prometteva ai discepoli la perma-nenza in loro dello Spirito della verità (Gv 14,17), che farà loro penetrare il suo mes-saggio (14,26). Ora annuncia il ruolo che lo Spirito avrà nella missione: rendere testi-monianza a favore di Gesù stesso, condannato dal mondo.
Lo Spirito, la rûaḥ «vento, alito», è «l’alito di Dio», l’espressione della sua vita che «esce» (procede) dall’intimo del suo essere. Il senso di “vento” ne indica al tempo stesso la forza (cf Gn 1, 2): è lo Spirito creatore, che procede da Dio stesso come Padre. Que-sto processo è continuo e rappresenta un flusso incessante di vita che procede da Dio. Questo Spirito, che è forza e vita, e perciò «Spirito della verità» (cf Gv 1,4: «e la vita era la luce dell’uomo»), renderà testimonianza a Gesù, colui che è e dà la vita.
Renderà questa testimonianza all’interno della comunità, assicurandola della verità del suo messaggio e del suo operato. Si tratta della testimonianza profetica che sostiene i discepoli, confermando l’esperienza dei suoi membri e sostenendo l’atteggiamento di rottura con il mondo in senso negativo, quello che si oppone a Dio e si presenta come idolatria.
In questo passo Gesù non parla di «suo Padre» (cf invece Gv 15,23-24), ma «del Pa-dre» tout court, perché la relazione con «il Padre» sarà di ogni persona che risponderà al-la sua chiamata. Lo Spirito, la forza di vita, è la salvezza che Gesù porta, offerta all’umanità intera (Gv 3,17; 12,47).
La testimonianza dello Spirito di fronte al mondo è continuata dalla testimonianza dei discepoli. Lo «Spirito della verità» sarà in loro (Gv 14,17), e così la loro voce sarà quella dello Spirito (Gv 3,8). Il confronto fra Gesù e il mondo non terminerà con la morte di lui; al contrario, si estenderà tramite i suoi discepoli.
Il Padre realizza il suo disegno: dare vita all’umanità (Gv 6,40) inviando Gesù, cui comunica pienamente il suo Spirito (Gv 1,32-34; 3,16s; 4,34; 5,30; 6,39.40). Gesù lo comunica ai suoi perché essi continuino la sua opera. Lo Spirito, nella sua testimo-nianza a favore di Gesù, la interpreta (cf Gv 14,25-26); il gruppo che riceve questa te-stimonianza rinnova in ogni epoca l’opera di Gesù, e in questo consiste la sua testimo-nianza.
I discepoli possono rendere testimonianza a Gesù perché sono con lui fin dal prin-cipio. Bisogna domandarsi cosa significhi questa espressione. Nel vangelo appaiono con Gesù fin dal principio soltanto Andrea e un altro discepolo di Giovanni; poi, a se-guire, Pietro, Filippo e Natanaele (Gv 1,35-51). L’espressione fin dal principio non può quindi avere un semplice significato cronologico. Ogni discepolo, in qualunque epoca, è chiamato a render testimonianza a Gesù. Queste parole sono dunque valide e appli-cabili a ogni discepolo. Ciò che l’evangelista afferma è che per rendere questa testimo-nianza è necessario accettare come norma tutta la vita di Gesù, fin dal principio, senza separare il Gesù risuscitato dal Gesù terreno. Mettersi in rapporto unicamente con Gesù glorioso è la tentazione spiritualista e gnostica già della prima ora (cf 1 Gv 4,2-3; 5,6). L’insistenza di Giovanni è di accettare la singolarità di Gesù Uomo-Dio.
Bisogna mettere in parallelo due testimonianze che appaiono nel vangelo: quella di Giovanni Battista, che precede la missione di Gesù, e quella dei discepoli, che la segue.
La testimonianza del Battista si concentrava sulla visione dello Spirito che scendeva e rimaneva su Gesù (Gv 1,32s) e sull’annuncio del dono dello Spirito (1,33); l’obiettivo della sua missione era che il Messia si manifestasse a Israele (1,31).

La testimonianza dei discepoli su Gesù riguarda invece la sua missione realizzata della quale essi sono frutto e continuazione. Essi hanno ricevuto lo Spirito, che li so-stiene nella loro missione, rendendo testimonianza insieme con loro. Giovanni annun-ciava un fatto venturo; i discepoli, la loro esperienza con Gesù.
In questo modo, Giovanni accentua la centralità di Gesù nella storia. Con il Battista termina l’epoca dell’attesa. Dopo Gesù, che ha inaugurato la pienezza dei tempi, spet-ta ai discepoli annunciare la loro esperienza di lui. Ma non si può rendere tale testimo-nianza se non si è con lui, cioè se non si sperimenta la sua presenza, e questo fin dal principio, accettando la sua intera realtà umano-divina.

PER LA NOSTRA VITA

1. Il mistero e la grandezza della premura del Dio infinito per l’uomo finito sono la prospettiva fondamentale della tradizione biblica. Questo mistero è accresciuto dall’aspetto dell’immediatezza. Dio è premuroso direttamente. Non si interessa tramite agenti intermedi. Egli si prende cura personalmente. […]
Non sono disposto ad accettare l’idea tradizionale della preghiera come dialogo. Chi siamo noi per entrare in dialogo con Dio? La metafora migliore consisterebbe nel de-scrivere la preghiera come un atto di immersione… un’immersione nelle acque! Ci si sente circondati, abbracciati dalle acque, sprofondati nelle acque della misericordia. […]
Quanto più intensa è la prossimità a Dio, tanto più ovvia diventa l’assurdità dell’“io”. L’“io” è polvere e cenere, dice Abramo. Dopo prosegue in dialogo con Dio a discutere con lui sulla salvezza della città di Sodoma e Gomorra. Solo Dio dice “Io”. Così iniziano i dieci comandamenti: “Io sono JHWH”. La preghiera è il momento in cui l’umiltà diventa realtà. L’umiltà non è una virtù. L’umiltà è verità. Tutto il resto è illu-sione.  A.J. HESCHEL, Il canto della libertà. La vita interiore e la liberazione dell’uomo, Traduzione di E. GATTI (Spiritualità Ebraica), Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose - Magnano BI 1999, pp. 95-98.

2. La parola dell’uomo proceda dal suo silenzio davanti a Dio e dalla pienezza del-la sua vita in Dio. Questa pienezza della vita è l’amore. Si deve capire la parola parten-do dall’amore, altrimenti non la si capisce nella sua natura profonda. Quelli che rifletto-no sulla parola devono esser filologi, devono amare la parola. Ma si deve anche illumi-nare l’amore con il significato essenziale della parola – altrimenti alla fine lo si intende, o lo si fraintende, soltanto come amor proprio, autofilia, cupidigia, avidità e, quando va bene, come l’eros della filosofia di Platone. Il vero amore invece è di più, è qualcosa di assolutamente diverso dall’amore platonico. Esso è – come la parola – la realizzazio-ne del rapporto al tu, del rapporto all’uomo e a Dio. F. EBNER, Parola e amore. Dal diario 1916/17. Aforismi 1931, a cura di E. DUCCI - P. ROSSANO (Testi di Spiritualità), Rusconi Editore, Milano 1983, p. 137.

3. Tutte le volte che pronunziamo l’enunciato della nostra fede trinitaria – un Dio in tre persone, Padre, Figlio e Spirito Santo –, rischiamo di farlo diventare una formula algebrica, che ci tiene lontano dal mistero, e colloca la fede in una separazione netta tra sacro e profano. Eppure, la rivelazione trinitaria è proprio il superamento dell’idea

del “sacro”, il chiuso dove vivrebbe Dio, e il “profano”, il tutt’altro da Dio, la nostra vita. [...] Tutta la rivelazione biblica si presenta come lo spasimo del cuore di Dio per l’uomo. Gregorio Magno voleva che si leggessero le sacre Scritture proprio per impara-re a conoscere il “cuore di Dio”: Disce cor Dei in verbis Dei… La Parola di Dio ascoltata è una scuola di conoscenza del cuore di Dio. B. CALATI, Conoscere il cuore di Dio. Omelie per l’anno liturgico, Introduzione di P. STEFANI (Quaderni di Camaldoli 11), EDB, Bologna 2001, pp. 79-80.

4. Il mistero della vita intima di Dio è traboccante di conoscenza e di amore. La sua ricchezza di perfezione si espande in conoscenza di sé e in amore che, senza intac-care l’unità assoluta del suo essere, danno origine in lui a delle realtà viventi e persona-li. Gesù ha rivelato questa ricchezza della vita intima di Dio adoperando parole e im-magini tratte dalla vita degli uomini: disse che il Padre ha mandato per amore il pro-prio Figlio unigenito nel mondo per condurre gli uomini a sé, e che il Padre e il Figlio inviano lo Spirito Santo per renderli santi e figli di Dio. Perciò il cristianesimo crede nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo, un unico Dio, vivente in tre persone che possiedono l’identica natura divina. La ragione umana sperimenta la sua impotenza davanti a questo mistero, ma l’esistenza cristiana è tutta dominata da esso, perché è nel contatto con ciascuna di queste persone divine che si opera la salvezza.
Volendo trovare un’immagine, la teologia cristiana ha pensato nella vita divina un dinamismo simile a quello che esiste nell’uomo tra lo spirito che pensa e il pensiero che è prodotto o generato. Naturalmente Figlio in Dio è da intendersi non in senso biologico, ma come un’espressione, tratta dal mondo creato, per esprimere una realtà che lo trascende. Per questo dunque la seconda Persona viene detta Figlio del Padre e Verbo cioè pensiero-parola. Quanto alla terza Persona, essa viene pensata come l’Amore che unisce le altre due persone e per questo lo Spirito Santo viene spesso chiamato Amore. Un antico poeta cristiano canta: Un’immagine del Padre la puoi trovare nel sole, del Figlio nel suo splendore, dello Spirito santo nel suo calore. E tuttavia è una sola cosa. Ma chi può spiegare l’incomprensibile? P.TARCISIO GEIJER, Testo inedito (Certosa di Vedana, giugno 1969).

5. La comunità ha bisogno ogni volta, nel suo cammino nel mondo, di guida e di conoscenza. Di fronte a nuovi problemi, nuove necessità, essa ha lo Spirito Santo co-me maestro che a lei “tutto insegna” (Gv 14,26). In nessun passo importante essa ri-marrà senza guida e conoscenza, e di questa conoscenza può essere sicura, perché vie-ne dallo Spirito Santo e non dalla ragione umana. Così, la chiesa accoglierà nel corso della storia nuove conoscenze, senza cessare di imparare e di ascoltare lo Spirito Santo.
Lo Spirito Santo non è lettera morta, ma il Dio vivente (2 Cor 3,6). Così alla comu-nità è lecito affidarsi in ogni decisione allo Spirito Santo e credere fermamente che esso sarà presente e opererà in lei e non ci farà brancolare nel buio se soltanto ascolteremo seriamente il suo ammaestramento.
Ogni ammaestramento dello Spirito Santo rimane però legato alla parola di Gesù. Il nuovo si fonda così sull’antico. All’ammaestramento subentra così il ricorso. Se vi fos-se solo il ricordo nella chiesa, allora essa sarebbe vittima di un morto passato, se vi fos-se soltanto l’insegnamento senza il ricordo, sarebbe consegnata all’entusiasmo.

Così lo Spirito Santo, come il vero consolatore della comunità, fa entrambe le cose, guida quest’ultima in avanti e la tiene ferma a Gesù (Mt 13,52). D. BONHOEFFER, Voglio vivere questi giorni con voi, a cura di M. WEBER, Traduzione dal tedesco di A. AGUTI - G. FERRARI (Books), Editrice Queriniana, Brescia 2007, pp. 187.
6. Il presente è l’ora della piena responsabilità di Dio verso di noi, ogni presente. […] Chi fugge dal presente, fugge il tempo di Dio; chi fugge dal tempo, fugge Dio. Servite il tempo! Il signore del tempo è Dio, la svolta dei tempi è Cristo, il giusto spiri-to dei tempi è lo Spirito Santo. Così, in ogni istante si nascondono tre cose: che io ri-conosco Dio come il Signore della mia vita, che mi piego davanti al Cristo come al punto di svolta della mia vita dal giudizio alla grazia, che tento di creare spazio e forza in mezzo allo spirito del mondo per lo Spirito Santo. D. BONHOEFFER, Voglio vivere questi giorni con voi, p. 184.

Sei tanto lontano
da non poterti raggiungere
o senza avvedermene
ti ho oltrepassato...
uscito dalla parabola
tu o io dall’inseguimento?
o l’uno e l’altro al sommo
della sua inesistenza,
l’uno e l’altro al punto
più alto
di unità
e di non differenza,
equiparati
in tutto
da reciproco annullamento,
in tutto, in tutto, compiutissimamente?
M. LUZI, L’opera poetica, a cura e con un saggio introduttivo di S. VERDINO (I Meridiani), Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1998, 42001, p. 696

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