sabato 9 giugno 2012

II DOMENICA DOPO PENTECOSTE 10 giugno 2012 e Corpus Domini


In questa sezione trovate il commento ambrosiano alla seconda domenica dopo pentecoste e il commento romano alla festa del Corpus Domini, che verrà celebrata i tutta Italia e pure in molte parrocchie ambrosiane.

a. II DOMENICA DOPO PENTECOSTE 10 giugno 2012


LETTURA
Lettura del libro del Siracide 16, 24-30

Ascoltami, figlio, e impara la scienza, / e nel tuo cuore tieni conto delle mie parole. / Manifesterò con ponderazione la dottrina, / con cura annuncerò la scienza. / Quando il Signore da principio creò le sue opere, / dopo averle fatte ne distinse le parti. / Ordinò per sempre le sue opere / e il loro dominio per le generazioni future. / Non soffrono né fame né stanchezza / e non interrompono il loro lavoro. / Nessuna di loro urta la sua vicina, / mai disubbidiranno alla sua parola. / Dopo ciò il Signore guardò alla terra / e la riempì dei suoi beni. / Ne coprì la superficie con ogni specie di viventi / e questi ad essa faranno ritorno.

SALMO
Sal 148

®  Lodate il Signore dai cieli, lodatelo nell’alto dei cieli.

Lodatelo, voi tutti, suoi angeli,
lodatelo, voi tutte, sue schiere.
Lodatelo, sole e luna,
lodatelo, voi tutte, fulgide stelle. ®

Lodatelo, cieli dei cieli,
voi, acque al di sopra dei cieli.
Lodino il nome del Signore,
perché al suo comando sono stati creati. ®

Lodate il Signore dalla terra,
mostri marini e voi tutti, abissi,
fuoco e grandine, neve e nebbia,
vento di bufera che esegue la sua parola. ®

Monti e voi tutte, colline,
alberi da frutto e voi tutti, cedri,
voi, bestie e animali domestici,
rettili e uccelli alati. ®


EPISTOLA
Lettera di san Paolo apostolo ai Romani 1, 16-21

Fratelli, io non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco. In esso infatti si rivela la giustizia di Dio, da fede a fede, come sta scritto: «Il giusto per fede vivrà».
Infatti l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia, poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha manifestato a loro. Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute. Essi dunque non hanno alcun motivo di scusa perché, pur avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio, ma si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata.


VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Luca 12, 22-31

In quel tempo. Il Signore Gesù disse ai suoi discepoli: «Io vi dico: non preoccupatevi per la vita, di quello che mangerete; né per il corpo, di quello che indosserete. La vita infatti vale più del cibo e il corpo più del vestito. Guardate i corvi: non séminano e non mietono, non hanno dispensa né granaio, eppure Dio li nutre. Quanto più degli uccelli valete voi! Chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? Se non potete fare neppure così poco, perché vi preoccupate per il resto? Guardate come crescono i gigli: non faticano e non filano. Eppure io vi dico: neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Se dunque Dio veste così bene l’erba nel campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, quanto più farà per voi, gente di poca fede. E voi, non state a domandarvi che cosa mangerete e berrete, e non state in ansia: di tutte queste cose vanno in cerca i pagani di questo mondo; ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. Cercate piuttosto il suo regno, e queste cose vi saranno date in aggiunta»
Commento al vangelo

Alcuni temi

1) Il Dio Creatore è «provvidenza». Tale provvidenza non è un invito al quietismo o all’indolenza. Al contrario, è un appello a non farsi vincere da un affanno smodato che porta la persona umana a perdere la giusta dimensione del proprio «potere». Nella Bibbia ebraica vi è un verbo singolarmente importante: jibbāṣer. In Gb 42,2 e in Gn 11,6 esprime il confronto tra il «potere» dell’uomo e quello divino. Giobbe così risponde, al termine del suo viaggio in cui JHWH creatore lo ha condotto a scoprire che vi sono meraviglie stupende, come il viaggio notturno del sole, che Giobbe manco conosce e in cui non ha nessuna possibilità d’intervento:
Tu sapevi (jādaʿtā: con il ketib) che tutto tu puoi
e che nessun progetto è al di fuori del tuo potere (welōʾ-jibbāṣēr mimmekā mezimmâ: Gb 42,2).
Giobbe riconosce Dio come Dio e, di conseguenza, riconosce che la sua grandezza sta nel comprendersi come «creatura». JHWH è invece il creatore, colui che è in grado di portare a compimento il suo progetto con un «potere» che non è la crudeltà onnipotente né la bizzaria che può fare il tutto e il contrario di tutto. E se qualcosa

dovesse apparirci al di fuori di questo orizzonte provvidente (vedi le catastrofi naturali, le malattie, le morti assurde …), l’imputato non è Dio, ma è l’uomo che, invece di essere «dominatore» attento e corresponsabile di questa creazione, preferisce sciupare le risorse in investimenti senza senso: investimenti militari, invece che investimenti di ricerca medica; mezzi di distruzione di massa, invece che mezzi di salvaguardia del creato; incuria e sovvertimento dell’ecosistema, invece che paziente premura perché non abbiamo mai a pensarci alla pari di dei in terra…
È questo anche il senso del fallimento della costruzione della città e della torre di Babele in Gn 11,1-9: non l’invidia di Dio per quegli uomini, ma il loro illusorio progetto di mettersi al posto di Dio. È molto importante tradurre correttamente Gn 11,6:
«Questo è l’inizio della loro opera,
e ora quanto avranno in progetto di fare
non sarà loro impossibile»
Così traduce la CEI, edizioni 1971 e 2008.
Così bisognerebbe tradurre:
«Questo è l’inizio della loro impresa (wezeh haḥillām laʿăśôt):
e ora pensano di avere potere infinito (=divino) (weʿattâ lōʾ-jibbāṣēr mēhem)
in quanto hanno progettato di fare (kōl ʾăšer jāzemû laʿăśôt)».
L’intervento mitico di JHWH nel nostro passo va letto in questa luce: l’uomo si è fatto un progetto titanico che vuole contrapporsi a Dio. Egli vuole diventare il «signore» della storia a prescindere da Dio. È il tentativo prometeico di trovare in sé il fantasma della divinità e di costruirsi una storia illusoriamente autonoma da Dio. Proprio questo atteggiamento conduce il progetto al fallimento. Il «castigo» conseguente va interpreta-to anche qui come linguaggio mitico per esprimere l’illusione infranta di un progetto umano di autodivinizzazione. L'uomo – come le altre creature, come gli uccelli del cielo e i fiori del campo – non può nulla per se stesso. Cibo e vestiti, tutto gli viene donato da Dio. Il corpo, alla pari del soffio che lo anima, vengono da Dio. E la morte sempre presente, quella dell’erba dei campi come la propria, è il simbolo più eloquente che l’inizio assoluto e la fine as-soluta di questo universo non siamo noi.  

2) Se l’uomo sa che Dio gli ha dato il soffio vitale, come potrebbe dubitare della sua sollecitudine per i suoi bisogni vitali? Dio non ha creato l’uomo per farlo morire di fame e di sete, di freddo o di caldo. Il Signore è il suo pastore, non gli mancherà né da mangiare né da bere. I discepoli sono chiamati da Gesù a testimoniare questa fiducia nell’amore del Padre, nella sollecitudine del loro pastore. La loro più grande preoccu-  

pazione non deve essere quella del cibo e del vestito, il loro desiderio non deve fermar-si ai doni, ma attraverso di essi raggiungere il Donatore. Fermamente radicati nella lo-ro fede nella bontà del Padre, non si preoccuperanno più dei beni di questo mondo, convinti che non ne saranno mai privi; la loro unica preoccupazione sarà di condivider-li con gli altri, insieme con la loro fede. È quel pensiero che significa la gioia di comu-nicare lo stile della Signoria di Dio sull’universo creato.

3) La testimonianza più efficace per i discepoli di Gesù è di abbandonare i loro beni: così dimostrano che non ripongono in essi la loro fiducia e che attendono la loro sussistenza solo da Dio. Ancora di più, volendo essere figli del Padre di ogni dono, lo imiteranno condividendo anch’essi ciò che è stato dato loro: i loro beni in opere di mi-sericordia, la loro fede in opera di testimonianza. Il loro tesoro è il loro dono, il dono che viene fatto loro ogni giorno del pane quotidiano, il dono che essi stessi fanno di ciò che hanno e di ciò che sono.

PER LA NOSTRA VITA

1. A volte siamo così distratti e sconvolti da ciò che capita, che poi fatichiamo a ri-trovare noi stessi. Eppure si deve. Non si può affondare, per una sorta di senso di col-pa, in ciò che ci circonda. È in te che le cose devono venir in chiaro, non sei tu che de-vi perderti nelle cose. (p. 57)
… Mio Dio prendimi per mano… non farò troppa resistenza. Non mi sottrarrò a nessuna delle cose che mi verranno addosso in questa vita, cercherò di accettare tutto e nel modo migliore. Ma concedimi di tanto in tanto un breve momento di pace. Non penserò più, nella mia ingenuità, che un simile momento debba durare in eterno, sa-prò anche accettare l’irrequietezza e la lotta. Il calore e la sicurezza mi piacciono, ma non mi ribellerò se mi toccherà stare al freddo, purché tu mi tenga per mano. Andrò dappertutto allora, e cercherò di non aver paura. E dovunque mi troverò, io cercherò d’irraggiare un po’ di quell’amore, di quel vero amore per gli uomini che mi porto den-tro. Ma non devo neppure vantarmi di questo “amore”. Non so se lo possiedo… A volte credo di desiderare l’isolamento di un chiostro. Ma dovrò realizzarmi tra gli uo-mini, e in questo mondo. E lo farò, malgrado la stanchezza e il senso di ribellione che ogni tanto mi prendono…
… Studierò e cercherò di capire, ma credo che dovrò pur lasciarmi confondere da quel che mi capita e che apparentemente mi svia: mi lascerò sempre confondere, per arrivare forse a una sempre maggiore sicurezza... È come se ogni giorno io sia scara-ventata in un gran crogiuolo e ogni giorno io riesca a uscirne. (pp. 74-75)
Le minacce e il terrore crescono di giorno in giorno. M’innalzo intorno la preghiera come un muro oscuro che offra riparo, mi ritiro nella preghiera come nella cella di un convento, ne esco fuori più “raccolta”, concentrata e forte. Questo ritirarmi nella chiu-sa cella della preghiera diventa per me una realtà sempre più grande e anche un fatto sempre più oggettivo. La concentrazione interna costruisce alti muri fra cui ritrovo me stessa e la mia unità, lontana da tutte le distrazioni. E potrei immaginarmi un tempo in cui starò inginocchiata per giorni e giorni – sin quando non sentirò di avere intorno questi muri, che m’impedirono di sfasciarmi, perdermi e rovinarmi. (p. 111)  

Non sono mai le circostanze esteriori, è sempre il sentimento interiore – depressione, insicurezza, o altro – che dà a queste circostanze un’apparenza triste o minacciosa.
E non farti prendere da un’atmosfera, da un momento, per di più d’indolenza, ma tieni presente le grandi linee e le grandi direzioni. Una persona deve essere semplice anche nella sua tristezza, altrimenti la sua è soltanto isteria. (p. 121)
Bisogna combatterle come pulci, le tante piccole preoccupazioni per il futuro che divorano le nostre migliori forze creative. Ci organizziamo l’indomani nei nostri pen-sieri ma poi va tutto in modo diverso, molto diverso. A ciascun giorno basta la sua pe-na…
… In fondo, il nostro unico dovere morale è quello di dissodare in noi stessi vaste aree di tranquillità, di sempre maggior tranquillità, fintanto che si sia in grado di irrag-giarla anche sugli altri. E più pace c’è nelle persone, più pace ci sarà in questo mondo agitato…
…Se solo si potesse far capire alla gente che si può ‘lavorare’ alla propria pace inte-riore, e continuare a essere produttivi e fiduciosi dentro di noi malgrado le paure e le voci che circolano…Da ieri sera ho potuto di nuovo sperimentare su me stessa quanto la gente soffra, è un bene doverselo ricordare e dover reagire ogni volta. E poi, conti-nuare indisturbati a percorrere i vasti e sgombri paesaggi del proprio cuore... (pp. 221s).  E. HILLESUM, Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 72002 [passim].

2. Avanzare con la necessità, con la nostra sapienza e le nostre ragionevolezze; so-gnare che la via del discepolato non conosca prova, significa rinunciare a fidarsi di Dio, confinandolo alla nostra misura.
Il nostro deserto si è fatto impalpabile, le nostre grida sono state consolate da parole seducenti, ingannevoli. Tutto ci scivola addosso: il dolore e l’amore, l’amarezza e le piccole gioie, le domande.
Dio? È la nostra stessa assenza alle cose autentiche, il nostro rifiuto della storia a farne l’Assente, la delusione di sentirci abbandonati nella prova.
Il suo agire nella nostra vita non dà torpore, inedia. Egli sta nella mischia con la no-stra umanità, al fianco nostro; e nostra misura è la nuda fede a questa presenza. Pure se l’individualismo ha fiaccato la fiducia in Lui, l’azione divina non è astrazione o estraniazione dalla storia: si confonde con il lamento e la confessione di fede e con ogni fatica di cammino.
La fedeltà al disegno di Dio insegna a non inseguire segni straordinari. Il rischio per il discepolo, nella geografia della Parola, è di non riconoscerlo nel suo agire nell’ordi-narietà. Riconoscerlo e confessarlo dentro la “terra umana” è solo della fede.
L’affidamento alla sua paternità può divenire fragile quando tocca il confine delle smentite.
La pagina evangelica ci dona il Padre come colui che nutre tutti. Di tutti ha cura. A maggior ragione delle nostre vite. Ma ferisce i nostri giorni, così provati per molti fra-telli. Ferisce e interpreta…  

L’affidamento alla sua provvidenza ci chiede di essere “puramente umani”, sapendo che la nostra vita è sì nelle necessità ma anche le oltrepassa. Inchiodandoci alla solida-rietà, perché il necessario per la vita, il pane e il nutrimento che Dio offre a ogni crea-tura, non sia in poche mani, non sia per pochi. La provvidenza non è la magia per sot-trarsi alla cura dell’“umano”.
Ci chiede Gesù una vita liberata dall’ansia, dall’inquietudine, dalla paura. Molto lo-goramento e sguardo angusto proviene dalla nebbia delle preoccupazioni. Legittime, affermiamo.
Fermarsi, indugiare, fidarsi…
Innalzare lo sguardo alla ricerca del Regno, ed essere laboriosi e donanti con i fratel-li non sono in contrasto. Anzi, uno ha bisogno dell’altro. Per poter confessare: «Il Pa-dre sa di che cosa abbiamo bisogno». F. CECCHETTO, Testi inediti.

3. Dobbiamo cercare Dio, perché gli uomini oggi tendono a non cercarlo più. Tutto si attende, ma non Dio. Anzi si nota quasi il proposito di escluderlo, di cancella-re il suo nome da ogni manifestazione della vita, dal pensiero, dalla scienza, dalla so-cietà: tutto deve essere laicizzato non solo per assegnare al sapere e all’azione dell’uo-mo il campo loro proprio, ma per rivendicare all’uomo un’autonomia assoluta. Tutto si cerca, ma non Dio. Dio è morto, si ama dire: non ce ne occupiamo più! Ma Dio non è morto, è semplicemente perduto, come perduto è l’Eden. Ma perché non cercare Dio? Non è forse Dio ‘un problema’, se piace chiamarlo così, che ci interessa da vici-no?... Ancora, se fosse Egli a ‘nascondersi’, perché noi lo andiamo a cercare? PAOLO VI, Omelia del 26 giugno 1970.

4. Nel nostro tempo si è in cerca delle cose divine, si procede a tentoni e ci si in-terroga impauriti su di esse. Sul nostro tempo è scesa quella grande solitudine che è presente soltanto dove domina l’abbandono di Dio. In mezzo alle nostre grandi città, nell’enorme, furibondo andirivieni d’infinite masse di uomini ha fatto irruzione la grande tribolazione della solitudine e della mancanza di radici. Cresce però la nostalgia del ritorno di un tempo in cui Dio abita tra gli uomini, dove Dio si lascia trovare. Una sete di contatto divino è scesa sugli uomini, una sete bruciante che vuole essere acquie-tata.
[…] In mezzo a questo furibondo andirivieni e a queste offerte mercantili di nuovi mezzi e nuove vie, sta l’unica parola di Gesù Cristo: ecco io sono con voi. Non avete affatto bisogno così tanto di cercare, di domandare, di evocare spiriti misteriosi, io sono qui. D. BONHOEFFER, Voglio vivere questi giorni con voi, a cura di M. WEBER, Traduzione dal tedesco di A. AGUTI - G. FERRARI (Books), Editrice Queriniana, Brescia 2007, p. 186.


b. Festa del Corpus Domini o Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Anno B)
 
Prima Lettura
Es 24,3-8
Dal libro dell’Èsodo

In quei giorni, Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose a una sola voce dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!».
Mosè scrisse tutte le parole del Signore. Si alzò di buon mattino ed eresse un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d’Israele. Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore.
Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare. Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto».
Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!».
Salmo responsoriale (Sal 115)
Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore.
Che cosa renderò al Signore,
per tutti i benefici che mi ha fatto?
Alzerò il calice della salvezza
e invocherò il nome del Signore.

Agli occhi del Signore è preziosa
la morte dei suoi fedeli.
Io sono tuo servo, figlio della tua schiava:
tu hai spezzato le mie catene.

A te offrirò un sacrificio di ringraziamento
e invocherò il nome del Signore.
Adempirò i miei voti al Signore
davanti a tutto il suo popolo.
Seconda Lettura
Eb 9,11-15
Dalla lettera agli Ebrei

Fratelli, Cristo è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione. Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna.
Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente?
Per questo egli è mediatore di un’alleanza nuova, perché, essendo intervenuta la sua morte in riscatto delle trasgressioni commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che era stata promessa.
Acclamazione al Vangelo
(Gv 6,51)
Alleluia, alleluia.
Io sono il pane vivo, disceso dal cielo, dice il Signore,
se uno mangia di questo pane vivrà in eterno.
Alleluia.
Vangelo: Mc 14,12-16.22-26
Dal Vangelo secondo Marco

Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?».
Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi».
I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.
Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.
Commento
 La festa del Corpus Domini, seppure istituita dalla Chiesa nel tredicesimo secolo, affonda le radici nell'Ultima Cena di Gesù con i discepoli. Il Vangelo proclamato nella santa Liturgia, infatti, ripropone quelle parole forti e concrete che dovettero sconvolgere non poco i discepoli quando Gesù, prendendo il pane e il vino, disse: "Questo è il mio corpo... Questo è il mio sangue". Nel linguaggio semitico significano, semplicemente e paradossalmente: "Questo sono io stesso". Davvero è un "mistero della fede", come cantiamo nella Santa Liturgia; ed assieme un "mistero di amore". È senza dubbio un mistero grande e benefico quello di una presenza "reale" in un mondo in cui tutto sembra essere "virtuale" e dove è difficile che gli uomini si sentano "realmente" gli uni vicini agli altri. Non si parla forse dell'odierna società come di una società fatta di uomini e di donne soli?
Il mistero di una presenza "reale" è consolante e opportuno per tutti. L'Eucarestia, più che di una realtà misteriosa nel campo intellettivo, ci parla di un'incredibile e inimmaginabile amore. Se apriamo gli occhi del cuore comprenderemo e gusteremo questo mistero di Dio che ha inventato l'impossibile pur di restarci accanto con il suo stesso corpo. Quel pane e quel vino, secondo le parole di Gesù, sono veramente il "corpus Domini". È il cuore della Chiesa. Da tale mistero la Chiesa nasce, di tale mistero vive, e da tale mistero è plasmata. Così dicevano i Padri: "L'Eucarestia fa la Chiesa". A questa bella espressione fa eco quella di san Tommaso: l'Eucarestia è il sacramento "quo ecclesia fabricatur", ossia il "cantiere" dove si fabbrica la Chiesa, dove si costruisce il "popolo di Dio". Sì, è l'Eucarestia che fa la Chiesa; non siamo noi a farla, non sono i nostri sforzi, non sono le nostre organizzazioni per quanto intelligenti. La Chiesa non si fa da sola, non si edifica da se stessa. L'Eucarestia fa la Chiesa perché ripresenta la morte e la resurrezione di Gesù. Il grande vescovo, san Giovanni Crisostomo, diceva ai suoi fedeli: "Noi offriamo sempre il medesimo Agnello, e non uno oggi e domani un altro, ma sempre lo stesso. Per questa ragione il sacrificio è sempre uno solo". La dimensione sacrificale dell'Eucarestia emerge in modo del tutto particolare in questa festa. Nel pane e nel vino consacrati Gesù non è presente in qualsiasi modo, ma nel modo sacrificale. È realmente presente come corpo (pane) "spezzato" e sangue (vino) "versato"; ossia, nella realtà di chi dona interamente il suo corpo e il suo sangue per la salvezza di tutti. La festa del Corpus Domini, presentando l'Ostia consacrata, mostra ai credenti Gesù che si dona totalmente, che non conosce risparmio alcuno per aiutare tutti. Quel pane e quel vino, "versato per voi e per tutti", raccolgono, in una misteriosa sintesi, l'amore di Gesù per i discepoli e per le folle di malati e bisognosi che accorrevano a lui.
Nella tradizione di questo giorno, felicemente viva in molti luoghi, l'Eucarestia traversa le strade e le piazze delle città e dei paesi, addobbate con i drappi e con i fiori. È giusto far festa al passaggio del Signore, ed è più che opportuno farlo pubblicamente, nelle strade delle nostre città e dei nostri paesi. Tutti, credenti e non credenti, abbiamo bisogno che finalmente passi in mezzo a noi un uomo come Gesù. Sì, il Signore deve continuare a camminare per le nostre strade, come faceva negli anni della sua vita terrena: Egli è l'unico capace di parlare ai cuori tristi e soli; l'unico in grado di accompagnare i passi degli uomini e delle donne nel difficile cammino della vita; l'unico che sa commuoversi sulle folle di questo mondo tanto spesso abbandonate al loro destino; l'unico capace di consolare e confortare; l'unico che si fa carico delle speranze e delle angosce dei poveri. Quel pane "spezzato" non ha bisogno di moltiplicare le parole. Parla da sé. Gesù, fattosi cibo per tutti, ci mostra sin dove giunge l'amore di Dio per noi.
Quell'Ostia, inoltre, mentre manifesta il limite estremo dell'amore di Dio, contesta il nostro modo gretto e avaro di vivere, le attenzioni e le cure meticolose per il nostro corpo, il nostro istinto teso al risparmio della fatica e delle energie, la nostra abitudine a trattenere tutto per noi. Insomma, mentre ognuno di noi cerca di risparmiarsi nei confronti degli altri per accentrare tutto verso se stesso, Gesù eucaristico manifesta esattamente l'opposto: "non sono venuto per essere servito, ma per servire", dice con i fatti e non solo con le parole. Ben venga, perciò, la processione del Corpus Domini, e traversi le strade delle nostre città e dei nostri paesi. E addobbiamole a festa. Certo, non per un esteriore tributo, ma perché l'Eucarestia traversi le vie del cuore di ciascuno, ci tocchi tutti e ci renda più simili al Signore Gesù.
C'è un'ulteriore riflessione da fare di fronte ad un'altra processione che continua a traversare ogni giorno le strade delle nostre città. Si tratta della processione dei poveri, degli immigrati, dei nomadi, degli sbandati che continuano a percorrere le nostre strade. Anche costoro sono il "corpo di Cristo"; e la loro lunga teoria è la processione delle membra ferite di quel corpo santo. Dai Vangeli sappiamo che in loro c'è Gesù, e non meno realmente che nell'Eucarestia. Questa processione, purtroppo, è spesso ostacolata, osteggiata. Siamo ben lontani da quella evangelica sensibilità che, nei primi secoli della Chiesa, faceva rispondere a chi chiedeva dove fosse la casa del vescovo: "segui la fila dei poveri e la troverai". È in certo modo inscindibile la presenza di Gesù nell'Eucarestia e la presenza di Gesù nei poveri. È un insegnamento unanime e costante nei Santi Padri. Giovanni Crisostomo diceva: "Se volete onorare il corpo di Cristo, non disdegnatelo quando è ignudo. Non onorate il Cristo eucaristico con paramenti di seta, mentre fuori del tempio trascurate quest'altro Cristo che è afflitto dal freddo e dalla nudità". Il santo vescovo di Costantinopoli, esiliato per la strenua difesa che faceva dei poveri, non teme di "identificare" poveri ed Eucarestia nel Corpo del Signore. Sa bene che il Cristo non è diviso. C'è anzi un legame strettissimo tra Gesù e i poveri, tra la carità e la salvezza.
Il cardinale Yves Congar, scriveva: "I poveri sono cosa della Chiesa. Non sono soltanto sua clientela o beneficiari delle sue sostanze: la Chiesa non vive appieno il suo mistero se ne sono assenti i poveri... La cura dei poveri, degli sradicati, dei deboli, degli umili, degli oppressi, è un obbligo che ha le sue radici nel cuore stesso del cristianesimo inteso come comunione. Non può esistere comunità cristiana senza diaconia, cioè servizio di carità che, a sua volta, non può esistere senza celebrazione dell'Eucarestia. Le tre realtà sono legate tra di loro: comunità, Eucarestia, diaconia dei poveri e degli umili. L'esperienza dimostra che esse vivono o languono insieme".

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